Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Abbagnano:
“I don’t give a hoot what the ditionary says, unless it’s Abbagnano’s!” (Grice)
-- filosofia romana – la scuola di Salerno – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Salerno).
Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Salerno, Campania. Grice: “There are TWO
Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his
‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY
Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in
Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the
Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian
philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no
entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of
philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Laureatosi
in filosofia a Napoli con ALIOTTA (si veda), insegna al Liceo Umberto I ed
all'Istituto Benincasa del capoluogo campano, per poi trasferirsi a Torino dove
è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Condirettore, a fianco di BOBBIO (si veda), della “Rivista di filosofia.” Ispiratore
del gruppo di filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e GEYMONAT
(si veda), che prende il nome di neo-illuminismo italiano, organizzando una
serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia laica, aperta ai
principali orientamenti della filosofia. Collabora con “La Stampa”. Si
trasferisce a Milano dove collabora con “Il giornale” di MONTANELLI (si veda), e
dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del partito liberale e
assume per I anno la carica di assessore comunale alla cultura. Divenne
socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Uno dei promotori del centro di
studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a
diffondere in Italia la conoscenza delle correnti esistenzialistiche, in
particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti
irrazionali del pensiero," A. esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza,
attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Sono elementi che A. ritrova soprattutto
nella filosofia di Gentile. Fondamentale nella sua filosofia è il saggio "La struttura dell'esistenza”
(Torino), nella quale propone un’alternativa all'esistenzialismo di Heidegger e
Jaspers. A. define la propria visione filosofica come esistenzialismo
positivo. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica,
individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo,
considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di
garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile
nichilismo. Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e Jaspers,
A. evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi
l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre a porre la ragione come
unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda A.
insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità,
in contrasto con quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo
romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei
confronti queste due scuole filosofiche. Nello saggio "Possibilità e
libertà," A. chiara il senso della sua filosofia, non incline né alla
visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto
vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione
certa. Prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo",
nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di
empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Questo
movimento, che ha sin dal principio una configurazione culturalmente e
politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una
visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che
al cattolicismo. A. Ha del resto
ripetutamente criticato all'idealismo e all’idealismo di GENTILE (si veda) la
tendenza a sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una
disciplina indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per
l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla
filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare. A. insiste nei suoi
saggi sui concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità
di scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni
dell'uomo. Anche il positivismo è oggetto di critica tramite la
contrapposizione con Kant e Kierkegaard. Nel suo esistenzialismo positivo,
A. insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità
dell'esistenza, destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del
possibile. Egli vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del
nostro esistere e del nostro sapere. Questo lucido senso del limite e della
problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero
ultimo delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra
esperienza del reale. Ed è proprio questo senso del limite e del mistero,
insieme alla rinuncia ad ogni illusoria infinitizzazione o divinizzazione
dell'umano, a fondare secondo A. la possibilità di un incontro genuino fra
credenti e non credenti. E ciò all'insegna di una umiltà del pensiero che
rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del
reciproco rispetto. Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele,
Ockham, Meyerson, ecc.), A. è anche l'autore di una celebre Storia della
filosofia su cui si sono formate intere generazioni d’italiani. Egli realizza
anche un "Dizionario di filosofia," considerato tra i migliori. La
Storia della filosofia -- sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore
Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Pomba -- è stata
aggiornata da FORNERO (si veda), in collaborazione con ANTISERI e RESTAINO. Fornero,
insieme a un'équipe di noti studiosi, curato anche l'aggiornamento del
"Dizionario di filosofia." Saggi: Le sorgenti irrazionali del
pensiero” (Genova, Perrella); “Il problema dell'arte” (Genovam Perrella); “Il
nuovo idealismo, Genova, Perrella. La filosofia di Meyerson e la logica
dell'identità (Napoli, Castello); Ockham, Gubbio, Oderisi. Ockham, Lanciano; La
nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova.
Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica,
Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione
all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, Storia della filosofia; Filosofia antica;
Filosofia patristica; Filosofia scolastica, Torino, POMBA, Filosofia moderna,
Torino, POMBA, Filosofia del romanticismo; Filosofia contemporanea, Torino, POMBA,
Filosofia del Rinascimento, POMBA, La filosofia contemporanea; Fornero,
Lentini, Restaino, Antiseri, F. Restaino. POMBA, Torino, Filosofia
religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e
libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, POMBA, aggiornato da Fornero;
Per o contro l'uomo, Milano, Fra il tutto e il nulla, Milano, con
Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, Torino: Paravia, Questa pazza
filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La
saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti
esistenzialisti, Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Staglieno,
Milano, Protagonisti e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della
libertà. Scritti scelti, Maiorca, Boni, Bologna, Esistenza e metafisica,
Maiorca, Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, Maiorca, introduzione di Rossi
e Viano, POMBA, Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da Fornero,
Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire».
La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale per il manuale scolastico e per il manuale universitario.
Attraverso successive edizioni e aggiornamenti, per opera di Fornero, tale
storia continua a essere la più diffusa nelle scuole d’Italia. Bobbio, Discorso
su A., in: A., Scritti scelti (Taylor, Torino); Bobbio, La filosofia
dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Pareyson, Il
pensiero di A. e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor,
Torino, Aliotta, L'esistenzialismo positivo di A., in Id., Critica dell'esistenzialismo,
Perrella, Roma; Giannini, L'esistenzialismo positivo di A., Morcelliana,
Brescia, Chiodi, L'esistenzialismo (Loescher, Torino); Lombardi,
L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana, Arethusa, Asti, Santucci,
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Mulino, Bobbio, Discorso su A.,
in A., Scritti scelti (Crescenzo e Laveglia) (Taylor, Torino); Semerari, L’illuminismo,
in Id., Esperienze, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana, Atti del Convegno
di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, Semerari, Genesi e formazione
dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida,
Napoli. Pasini, Rolando, L’illuminismo italiano. Cronache di filosofia,
Saggiatore, Milano, Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. A. and
His Predecessors, Temple University, Philadelphia. Cacciatore, Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del
Convegno in memoria di A. (Salerno), Comune di Salerno; Delpino, Riceputi, L'uomo
e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento
di Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure; Merlo,
Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Maiorca, Seam, Roma, Miglio, A.. Un itinerario
filosofico, Atti del Convegno per A. (Torino,), Mulino, Bologna); Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Maiorca, A.. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Marvulli,
'Tributo ad A.', in abbagnanofilosofo.,. Panelli Marvulli, A. Una vita per la
filosofia, con un saggio di Fornero, POMBA, Torino, Paolini Merlo, A. a Napoli.
Gl’anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida,
Napoli; Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia fra Torino e l'Italia,
Mulino, Bologna, Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano, Mulino, Bologna, Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne,
Roma, Merlo, L'esistenza come struttura: A. e l'esistenzialismo, Scientifica,
Napoli, Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di A., in Id.,
Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con A., Edb, Bologna. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, A., Sito dedicato, su
abbagnano filosofo. Filosofia Filosofo Storici della filosofia italiani Accademici
italiani Professore Salerno Milano Esistenzialisti Studenti dell'Università
degli Studi di Napoli Federico II Professori dell'Università degli Studi
Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia
delle Scienze di Torino. Refs.: Grice,
“Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the
dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. DIZIONARIO DI FILOSOFIA Unione Tipografico-Editrice
Torinese corso Raffaello Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco
Torino Il dizionario contiene numerose voci. aegola fondamentale cui si è
obbedito nella composizione delle voci: quella di individuare le costanti di
significato che possono essere dimostrate o documentate con citazioni testuali
anche in dottrine apparentemente diverse. Ma le costanti di significato possono
essere individuate solo se i significati diversi, compresi sotto uno stesso
termine, sono chiaramente riconosciuti e distinti ; e questa è l'esigenza della
chiarezza, che va ritenuta fondamentale in un’opera come questa; e che è in
realtà condizione essenziale affinchè la filosofia possa esercitare una
qualsiasi funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini. In
un periodo in cui i concetti sono spesso confusi e mistificati al punto da
diventare inservibili, l'esigenza di una riistretto di amici: BosBIo, GARIN, C.
A. Viano, Rossi, CHIODI. Altri amici mi hanno aiutato a trovare o confrontare
testi di più difficile accesso : così hanno fatto GrazieLLa VescovinI FEDERICI,
GIorDANO, RurrINO. TavyLor mi ha aiutato validamente nella correzione delle
bozze. A tutte queste persone io rivolgo il mio cordiale ringraziamento. Ma il
lavoro di questo Dizionario non sarebbe stato iniziato nè portato a termine
senza l’aiuto lungimirante della grande e benemerita Casa Editrice che ora lo
pubblica. Ad essa esprimo pertanto la mia gratitudine. . Torino, Il Dizionario
contiene soltanto termini, non nomi propri. Esso contiene bensì voci come
Platonismo, Aristotelismo, Criticismo, Idealismo, ecc. che si riferiscono alla
dottrina di un filosofo o di una scuola o ad aspetti o indirizzi comuni a varie
dottrine; ma tali voci si limitano a esporre i capisaldi delle dottrine o degli
indirizzi in questione, con la massima brevità, dato che le opinioni dei
filosofi cui esse si riferiscono sono ampiamente citate in tutte le voci
principali. Sono stati inclusi articoli
dedicati non solo alle singole discipline filosofiche (Metafisica, Ontologia,
Gnoseologia, Metodologia, Etica, Estetica, ecc.), ma anche a discipline
scientifiche di carattere teoretico o a fondamento teoretico (Matematica,
Geometria, Economia, Fisica, Psicologia, ecc.), nei cui confronti le voin modo
da includere il maggior numero possibile di significati riscontrabili. Il
Dizionario ha pertanto, come ogni altro Dizionario linguistico, una base
essenzialmente storica: esso mostra quali sono stati e sono gli usi di un
termine nella lingua filosofica del mondo Occidentale, anche, all'occorrenza,
in rapporto con l’uso che il termine ha nella lingua comune. Le ambiguità di
significato sono state accuratamente registrate. Dove la cosa poteva esser
fatta senza eccessivo arbitrio, è indicato il modo di evitare tali ambiguità.
Per evitare le incertezze e gli equivoci che potevano nascere dalle citazioni
di passi composti originariamente in lingue diverse, si è provveduto a mettere
al principio di ogni articolo l'indicazione del vocabsources . Analytica
posteriore, ed. Ross, Oxford, Analytica priora, ed. Ross, Oxford, 1949.
Categoriae, ed. Minuo-Paluello, Oxford, . De caelo, Allan, Oxford, De
generatione animalium, ed. Bekker. De partibus animalium, ed. Bekker. De sophisticis
elenchis, ed. Bekker. Ethica Eudemia, ed. Susemihl, 1884. Ethica nicomachea,
ed. Bywather, Oxford, Physicorum libri VIII, ed. Ross, Oxford, Metaphysica, ed. Ross, Oxford, 1924. De
arte poetica, ed. Bywather, Oxford, 1953. Politica, ed. W. L. Newman, Oxford, 1887-1902.
Rethorica, ed. Bekker. Topicorum libri VIII, ed. Bekker. La logique ou l'art de
penser, 1662, in Euvres Philosophiques, 1893. Novum organum, 1620. De augmentis
scientiarum, 1623. Evolution créatrice, Deux sources de la morale et de la
religion, ; trad. italiana M. Vinciguerra, Milano, 1947. Boezio Phil. cons. .
Campanella Phil. rat. .... Pass. de l'éme . Princ. phil. Cicerone Acad. . . .
Cusano N. De docta ignor. Diels Philosophiae consolationis libri V, 524. Philosophia
rationalis, Parigi, 1638. Discours de la méthode, 1637. Méditations touchant la
première philosophie, Passions de l'dme. Principia philosophiae, . Academicorum
reliquiae cum Lucullo, ed. Plasberg, . De Divinatione, ed. Plasberg-Ax, 1965.
De finibus bonorum et malorum, ed. Schiche, 1915. De legibus, ed. Mueller De natura deorum, ed. Plasberg, 1933. De
officis, ed. Atzert, 1932. De republica, ed. Castiglioni, 1947. Topica, ed.
Klotz, 1883. Tusculanae disputationes, ed. Pohlens, Lipsia, 1918. De docta
ignorantia, . Die Fragmente der Vorsokratiker, 5à ed., . La lettera A si
riferisce alle testimonianze, la lettera B ai frammenti; il numero è sempre
quello dato da Diets nel suo ordinamento. x Diogene Laertio (sec. n) Dioa. L.
Vitae et placita philosophorum, ed. Cobet, 1878. Duns Scoto Rep. Par. Reportata
Parisiensia, in Opera, a cura di L. Wadding, vol. XI. Opus Oxoniense, nelle
Opere, a cura di L. Wadding, vol. V-X. Le parti di quest'opera pubblicate sotto
il titolo di Ordinatio nei primi quattro volumi dell'Opera Omnia, edite a cura
della Commissione Vaticana nel 1950, sono state citate nel testo seguito in
quest’ultima edizione. Op. Ox. Fichte J. G. Wissenschaftslehre . . Grundlage der
gesammten Wissenschaftslehre, 1794, in Werke, a cura del figlio I. H. Fichte, .
Anche le altre opere di Fichte sono citate (salvo diverso avviso) da questa
edizione o da quella delle Nachgelassene Werke, a cura dello stesso figlio
(citate nel testo come Werke, IX, X, XI). Ficino Theol. Plat. .. . Theologia
Platonica, in Opera, 1561. In Conv. Plat. de Am. Comm. In Convivium Platonis de
Amore Commentarium, ibidem. Filone All leg... .... Allegoria Legis, ed. Colson-Whitaker, . Gellio
Aulo Noct. Att... ... Noctes Attices, ed. Hertz-Hosius, 1903. Hegel Enci ele
Encyklopddie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 2* ed.,
ell’Accademia Prussiana. In
tal caso, per ciò che riguarda la Critica della Ragion Pura, si indica con A la
319, con B la 2 edizione. Gesammelte Werke, trad. ted. a cura di E.
Hirsch, e segg. xI Leibniz Disc. de Mét.
Discours de
Métaphysique, 1686, ed. Lestienee, . Monadologie, . Nouveaux essais sur
l’entendement humain, . Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de
l'homme et l'origine du mal, 1710. Le
precedenti due opere e molti altri scritti di Leibniz sono citati da Opera
Philosophica, ed. J. E. Erdmann, Berlino, 1740. Sono anche citate le due
raccolte: Mathematische Schriften, ed. C. J. Gerhardt, 7 voll, Berlino, Philosophische
Schriften, ed. C. J. Gerbardt, 7 voll, Berlino, 1875. An Essay Concerning Human
Understanding, 1690, ed. a cura di A. Campbell Fraser, 1894; trad. it.
Pellizzi, Lucrezio (sec. 1 a. C.) De rer. nat. .. .. De rerum natura, ed.
Bailey, 1947. Ockham In Sent. . Quaestiones in IV libros sententiarum, Lugduni,
. Origene (sec. n) De
prin. ..... De principiis. In Johann In Johannen. Pascal Pensées . ..... I numeri si riferiscono
all'ordinamento dell’ed. Brunschvicg. P.G.. MicNE, Patrologia Greca, il primo
numero indica il volume. Piibi vien di DI Micne, Patrologia Latina, il primo
numero indica il volume. Peirce Coll.
Pap... ... Collected Papers, voll. I-VI, edited by C. Hartshorne e P. Weiss,
Burks, . Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI, sec.
x111) Summ. log... .. Summulae logicales, ed. I. M. Bochenski, 1947. Platone
‘Alc:; In ao è 0 CE E IT S. Th. Scheler
Formalismus .... Sympathie Alcibiades, I, II. Apologia Socratis. Charmides.
Symposium. Cratylus. Crito. Critias. Definitiones. Epistulae. Euthydemus.
Euthyphro. Phaedo. Philebus.
Gorgias. Ion. Parmenides. Politicus. Protagoras. Respublica, ed. Chambry. Sophista.
Theaethetus. Timaeus. I testi sono citati nell’ed. di
Burnet, Oxford, 1899-1906. Enneades, ed. Bréhier, . De civitate Dei.
Confessionum libri XIII. Summa Theologiae, a cura di P. Caramello, Torino,
1950. Summa contra Gentiles, Torino, 1938. Quaestiones disputatae de veritate,
Torino, 1931. Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, . Wesen und
Formen der Sympathie ; trad. franc. Lefebvre, . Simmtliche Werke, a cura del
figlio K. F. A. Schelling: I serie (opere edite), .; II serie (opere
inedite), e seguenti. Schopenhauer Die Welt .....
Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819; 23 ed., 1844; trad. it. Savj-Lopez e De Lorenzo, 1914-30. Scoto Eriugena
(sec. rx) De divis. nat. De divisione naturae, nella P. L., . Seneca Episodi
aes Epistulae morales ad Lucilium, ed. Beltrami, 1931; trad. it. Boella, 1951.
Sesto Empirico Adv. math. Adversus mathematicos, ed. J. Mau, Lipsia, . Ip. Pim.
Pirroneion hypotyposeon libri tres, ed. Mutschmann, 1912. Spinoza Etc e i Ga
Ethica more geometrico demonstrata, 1677, in Opera a cura di C. Gerhardt, . Stobeo Ecl... Wittgenstein
Tractatus Eclocae physicae et ethicas, ed. Wachsmuth-Hense,. System of Logic
Ratiocinative and Inductivr, 1843. De rerum natura iuxta propria principia,
I-II, 1565; II-IX, 1586; ed. V. Spampanato. Tractatus logico-philosophicus, . Cosmologia generalis, 1731. Philosophia rationalis
sive logica, 1728. Philosophia prima sive ontologia, . Altre abbreviazioni non
sono sopra registrate o perchè sono quelle solitamente usate dagli studiosi o
perchè di immediato intendimento come App. per Appendice; Fil. per Filosofia o
Phil. per Philosophie o Philosophy; Intr. per Introduzione o Introduction; Met.
per Metafisica o Métaphysique o Metaphysics o Metaphysik; Op. per Opere; Schol.
per scholium; ecc. Tai. A. Per primo Lizio, in particolare negl’analitici, usa
le tre prime lettere maiuscole dell’alfabeto, A, B, a Γ, per indicare i TRE
termini di un sillogismo. Tuttavia, poichè nella sua sintassi il predicato è
posto prima del soggetto -- A brapyet té B, A inerisce o appartiene, a B --, di
solito negl’analitici il soggetto no è A, ma B o Γ. Nella Logica dell’età
moderna, con l’uso di scrivere ‘A est B,’ A è diventato normalmente il simbolo
del soggetto – ma Grice preferisce ‘S est P.’ A cominciare dai trattatisti
scolastici -- pare, dalle Introductiones di Shyreswood --, la lettera A viene
usata nella logica formale del Lizio come simbolo della proposizione universale
affermativa, secondo i noti versi pervenuti a noi in varie redazioni. Nelle
Summulae d’Ispano, edit. Bochenski, essi suonano. A affirmat, negat E, sed
universaliter ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae. Nella logica
modale tradizionale, la lettera A designa la proposizione modale che consiste
nella affermazione del modo e nell’affermazione della proposizione. Per es.: È
possibile che p, dove p è una proposizione affermativa qualsiasi. ARNAULD, Log.
Nella formula ‘A è A’ r o ‘A = A’ 1, che si comincia ad usare con Leibniz come
tipo delle verità identiche ed è assunta poi da Wolff e da Kant come
espressione del cosiddetto principio d’identità, “A” significa una cosa, un oggetto,
o un concetto qualsiasi. Dice Fichte. Ciascuno accorda la proposizione ‘A è A’ come
pure ‘A = A’ perchè questo è il significato della copula logica, ed infatti
senza minimamente pensarci sopra la si riconosce per pienamente certa e
indubitabile. Wissenschaftslehre. La formula è rimasta per lungo tempo a
esprimere il principio di identità e nello stesso tempo a costituire un tipo di
verità assolutamente indubitabile. Dice Boutroux. Il principio di identità può
esprimersi così: ‘A è A.’ Io non dico l’essere, ma, semplicemente: A -- cioè
ogni cosa, assolutamente qualsiasi, suscettibile di esser concepita, ecc. De
l’idée de loi naturelle. Nel simbolismo di Lukasiewicz la lettera ‘A’ è usata
come il simbolo della disgiunzione per la quale s’adopera più comunemente il
simbolo V, dal latino ‘vel.’ CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic. G. P.-N. A. ABALIETÀ. V. AserTÀ. ABDERITISMO è chiamata da Kant la
concezione che considera la storia nè in progresso nè in regresso ma sempre
nello stesso stato. Da questo punto di vista la storia umana non avrebbe più
significato di quella di una qualsiasi specie animale, solo sarebbe più
faticosa. Se il genere umano sia în costante progresso verso il meglio. L’ABDUZIONE
– araywyrh, reductio – è un procedimento di prova indiretta, semi-dimostrativa,
teorizzato dal lizio in 7op.,.; An. Pr.,
in cui la premessa maggiore è evidente, la minore invece è solo probabile o
comunque più facilmente accettata dall’interlocutore che non la conclusione che
si vuole dimostrare. Sebbene si tratti in sostanza di un procedimento
dialettico piuttosto che apodittico, è già stato ammesso da Platone – Menone --
per la matematica, e verrà pure canonizzato tra i metodi di dimostrazione
matematica da Proclo -- In Eucl. AB ESSE AD POSSE Peirce ha introdotto il
termine abduction o retroduction per indicare il primo momento del processo
induttivo, quello della scelta di un’ipotesi che possa servire a spiegare
determinati fatti empirici -- Coll. Pap.. AB ESSE AD POSSE è una delle
consequentiae formales temente confuso. Essa significa una disposizione
costante, o relativamente costante, ad essere o ad agire in un certo modo. Per
es., l’abito di dire la verità è la disposizione deliberata, che è in questo
caso un impegno morale, di dire la verità. Ed è altra cosa dall’abitudine di
dire la verità, che implicherebbe un meccanismo adatto a far ripetere
frequentemente l’azione in questione. Così, l’abito di alzarsi presto la
mattina è una specie di impegno che può costare sforzo ed esser penoso;
l’abitudine di alzarsi presto la mattina non costa più sforzo perchè è un
meccanismo consuetudinario. La parola è stata introdotta nella lingua filosofica
dal lizio il quale -- Mer. -- la definì come una disposizione ad essere bene o
mal disposto verso qualche cosa, sia verso di sé che verso altro; e, per es.,
la salute è un abito perchè è una disposizione siffatta. In questo senso, egli
ritenne che la virtù è un abito, in quanto non è nè una emozione, come la
cupidigia, l’ira, la paura, ecc., nè una potenza, come sono la tendenza
all'ira, al dolore, alla pietà, ecc. La virtù è piuttosto la disposizione ad
affrontare bene o male emozioni e potenze; per es., a indulgere agli impulsi
dell’ira o a moderarli -- Et. Nic.. Lo stesso significato viene ripreso d’AQUINO
(vedasi), che lo riespone nel modo seguente -- Contra Gent.: L’abito si
differisce dalla potenza in ciò che da esso non siamo resi capaci di far
qualcosa ma piuttosto abili o inabili a poter agire bene o male. Il concetto è
rimasto pressocchè immutato sino ai nostri giorni. Dewey così lo espone: Quella
specie di attività umana che è influenzata dall’attività precedente e in questo
senso è acquisita; che contiene dentro di sè un certo ordine o una certa
sistemazione dei minori elementi di azione; che è progettante, dinamico in
qualità, pronto per la manifestazione aperta; e che è operativa in qualche
forma subordinata e nascosta anche quando non è attività ovviamente dominante.
Abito, anche nel suo uso ordinario, è il termine che denota più da vicino
questi fatti di ogni altra parola -- Human Nature and Conduct. Dewey ritene che
i termini ‘atteggiamento’ e ‘disposizione’ andassero ugualmente bene per questo
concetto; ed in realtà questi due ultimi termini sono usati assai più
frequentemente che abito e con significati assai simili. L’ABITUDINE -- €806; lat. Consuerudo; inglese Habit, Custom;
franc. Habitude; ted. Gewohnheit – e, in generale, la ripetizione costante di
un evento o di un comportamento, dovuto ad un meccanismo di qualsiasi genere,
fisico, psicologico, biologico, sociale, ecc. Si assume, il più delle volte,
che tale meccanismo si formi mediante la ripetizione degl’atti o dei
comportamenti e quindi, nel caso di eventi umani, mediante l’esercizio. Diciamo
le cose abitualmente vanno così» per indicare una qualsiasi uniformità di
eventi, anche non umani, purchè non sia un’uniformità rigorosa e assoluta ma
soltanto approssimativa e relativa e tuttavia suscettibile di autorizzare una
previsione probabile. In questo senso, il lizio dice --Rer.: Si fa per
abitudine ciò che si fa perchè si è spesso fatto, e aggiunse che l’abitudine è
in qualche modo simile alla natura, giacchè ‘ spesso ’ e ‘sempre’ sono vicini.
La natura è di ciò che è sempre, l’abitudine di ciò che è spesso. Con ciò
Aristotele vide nell’abitudine una specie di meccanismo, analogo ai meccanismi
naturali, che garantisce, in qualche misura, la ripetizione uniforme di fatti,
atti o comportamenti, eliminando o riducendo, nei confronti di questi ultimi,
sforzo e fatica e così rendendoli piacevoli. In questo significato il termine è
stato ed è costantemente adoperato in un coaturalmente -- (Pensées. È questo il
punto di vista che Hume, un secolo dopo, pone a base della sua filosofia. Hume
definì l’abitudine come la disposizione, prodotta dalla ripetizione di un atto,
a rinnovare l’atto stesso senza che intervenga il ragionamento -- Ing. Conc.
Underst. E si avvalse dell’abitudine così intesa in primo luogo per spiegare la
funzione dell’idee astratte, che egli considera come idee particolari assunte
come segni d’altre idee particolari simili. L’abitudine di considerare unite
tra loro idee designate da un unico nome, fa sì che il nome stesso risvegli in
noi, non una sola di quelle idee nè tutte, ma l’abitudine che abbiamo di
considerarle assieme e quindi l’una o l’altra di esse a seconda delle occasioni
-- Treatise. All’abitudine poi Hume ricorre per spiegare la connessione
causale: per aver visto più volte congiunti due fatti od oggetti, per es., la
fiamma e il calore, il peso e la solidità, siamo portati dall’abitudine ad
aspettarci l'uno quando l’altro si mostra. L'insieme della nostra vita
quotidiana è fondato sull’abitudine. Senza l’abitudine, dice Hume – Inquiry -- saremmo
interamente ignoranti di ogni questione di fatto, fuori di quelle che ci sono
immediatamente presenti alla memoria o ai sensi. Non sapremmo adattare i mezzi
ai fini e impiegare i nostri poteri naturali a produrre un qualsiasi effetto.
Ogni azione sarebbe finita e così pure la parte principale della speculazione.
In modo analogo ma in campo diverso, Bergson (riprendendo forse un’idea di
Renouvier, Nouvelle monadologie, pag. 298) si è servito della nozione di
abitudine per spiegare le obbligazioni morali; le quali non sarebbero esigenze
di ragione, ma abitudini sociali che garantiscono la vita e la solidità del
corpo sociale (Deux sources de la morale et de la religion. L’interpretazione
dell’abitudine come di una azione originariamente spontanea o libera che viene
poi fissata dall’esercizio, sì da poter essere ripetuta senza l’intervento del
ragionamento e della coscienza e quindi in modo meccanico, ha reso possibile
l’uso metafisico di questa nozione: uso che ricorre abbastanza frequentemente
nella filosofia moderna e contemporanea, specialmente nell’idealismo e nello
spiritualismo. Il primo a trarre partito da questo uso per la costruzione di
una metafisica dell’esperienza interiore è stato Maine de Biran nel suo scritto
Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803). Mentre le abitudini
passive, che concernono le sensazioni, producono la diminuzione della
coscienza, le abitudini artive che concernono invece le operazioni, producono
la loro maggior facilità e perfezione e costituiscono perciò uno strumento di
liberazione dello spirito dai meccanismi che tendono a formarsi mediante la
ripetizione dei suoi sforzi. Questa nozione di abitudine, che pur essendo
espressa nei termini della cosiddetta « esperienza interiore» o «senso intimo»,
ha già una portata metafisica, perchè Maine de Biran ritiene che i dati di
quest’esperienza rivelino la realtà stessa, trova riscontro nella dottrina di
Hegel che le ha dedicato alcuni paragrafi della sua sezione sullo Spirito
soggettivo, nella parte dedicata all’Anima senziente (Enc., $ 409-10). Hegel
dice che mediante l’abitudine l’anima «ha il contenuto in suo possesso e lo
ritiene in sè in modo che in tali determinazioni essa non sta come sensitiva,
non sta in relazione ad esse distinguendosene, nè è immersa in esse, ma le
possiede senza sensazione e senza coscienza e vi si muove dentro. L’anima è
perciò libera da esse in quanto non se ne interessa e non se ne occupa; ed
esistendo in queste forme come in suo possesso essa è insieme aperta ad ogni
ulteriore attività ed occupazione (tanto della sensazione quanto della
coscienza spirituale in genere) ». Per questa funzione dell’abitudine, di offrire
all’anima il possesso di un certo contenuto, in modo che essa possa avvalersi
di tale contenuto « senza sensazione e senza coscienza » sicchè sensazione e
coscienza ridiventano libere, cioè disponibili per altre operazioni, Hegel ha
sottolineato l’importanza dell’abitudine per la vita spirituale. « L’abitudine,
egli ha detto, è la cosa più essenziale all’esistenza di ogni spiritualità nel
soggetto individuale affinchè il soggetto esista come soggetto concreto, come
idealità dell’anima; affinchè il contenuto religioso, morale, ecc., appartenga
a lui come a questo se stesso, a lui come a questa anima; nè sia in lui solo in
sè (come disposizione) nè come sensazione e come rappresentazione passeggera,
nè come interiorità astratta separata dal fare e dalla realtà, ma nel suo
essere ». Il che vuo! dire che l'abitudine incorpora un certo contenuto
nell’essere stesso dell’anima individuale, come un possesso effettivo, che si
traduce in azione reale. Sulle orme di Maine de Biran, Ravaisson ha proposto
una vera e propria metafisica dell’abitudine, che espose in una memoria famosa
(Sull’abitudine, 1838). Nell’abitudine Ravaisson vide una idea sostanziale cioè
un’idea che si è trasformata in sostanza, in realtà, e che agisce come tale.
L’abitudine non è un puro meccanismo ma una « legge di grazia » in quanto segna
il predominio della causa finale sulla causa efficiente. Essa consente perciò
di intendere la natura stessa come spirito e come attività spirituale, giacchè
dimostra che lo spirito può farsi natura e la natura spirito. Essa consente di
ordinare tutti gli esseri in una serie di cui la natura e lo spirito
rappresentano i limiti estremi. « Il limite inferiore è la necessità, il
destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore è
la libertà dell’intelletto. L’abitudine discende dall’uno all’altro, riavvicina
questi contrari, e riavvicinandoli ne svela l’essenza intima e la necessaria
connessione». Da Bergson in poi frequentemente questi concetti sono stati
ripresi nello spiritualismo contemporaneo, per spiegare in qualche modo il «
meccanismo della materia » e ricondurlo alla spontaneità spirituale. L’ABNEGAZIONE
-- drdpwnow; lat. Abnegatio; ingl. Self-denial; franc. Abnégation; ted.
Verleugnung -- e il rinnegamento di sè e la disposizione di mettersi a servizio
degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi. Così la nozione è
descritta nel Vangelo (Matt., XVI, 24; Luc., IX, 23): «Se uno vuole seguirmi
rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce». Questo rinnegamento
di se stesso, però, non è la perdita di se stesso ma piuttosto il ritrovamento
del vero « se stesso +, come è spiegato nel versetto successivo a quello
citato: « giacchè chiunque vorrà conservare la sua vita la perderà; ma chiunque
perderà la sua vita per me la salverà ». Perciò la nozione di abnegazione non
è, nei Vangeli, una nozione di morale ascetica ma piuttosto esprime l’atto del
rinnovamento cristiano, per il quale, dalla negazione dell’uomo vecchio, nasce
l’uomo nuovo o spirituale. AB UNIVERSALI AD PARTICULAREM. È una delle
consequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica scolastica: ab universali
ad particularem, sive indefinitam sive singularem valet (tenet) consequentia;
cioè: da «ogni A è B» valgono le conseguenze qualche A è B», « A è Ba, <S
(se Sè un A)è B». G.P. ACATALESSIA (gr. axatoAnpla; ingl. Acaralepsy; franc.
Acatalepsie; ted. Akatalepsie). È la negazione operata da Pirrone e dagli altri
Scettici antichi della rappresentazione comprensiva (pavtuola xataAnmtuh) cioè
della conoscenza che consente di comprendere e afferrare l’oggetto, la quale
era, secondo gli Stoici, la conoscenza vera. L’acatalessia è l’atteggiamento di
chi dichiara di non comprendere e per conseguenza sospende il suo assenso, cioè
non afferma nè nega (Sesto EMP., /p. Pirr., I, 25). ACCADEMIA (gr. ’Axadiuea; lat.
Academia; ingl. Academy; franc. Académie; ted. Akademie). Propriamente la scuola fondata da Platone
nel ginnasio che prendeva nome dall’eroe Academo e che dopo la morte di Platone
fu diretta da Speusippo, da Senocrate, da Polemone e da Cratete. In questa fase
l'Accademia continuò la speculazione platonica legandola sempre più
strettamente al pitagorismo e appartennero ad essa matematici e astronomi, fra
i quali il più famoso fu Eudosso di Cnido. Alla morte di Cratete l'Accademia
mutò indirizzo con Arcesilao di Pitane (315 o 314-241 o 240 a. C.) avviandosi
verso un probabilismo che prendeva lo spunto da quanto Platone aveva affermato
intorno alla conoscenza delle cose naturali: le quali, non avendo alcuna
stabilità e saldezza, non possono dar origine ad una conoscenza stabile e salda
ma solo ad una conoscenza probabile. Da Arcesilao e dai suoi successori (di cui
non sappiamo quasi nulla) questo punto di vista fu esteso all’intera conoscenza
umana nel periodo che si chiamò della « media Accademia ». La « nuova Accademia
» comincia con Carneade di Cirene; quest’indirizzo scetticheggiante e
probabilistico fu mantenuto sino a Filone di Larissa che, nel 1 secolo a. C.,
iniziò la IV Accademia d’indirizzo eclettico, alla quale soprattutto si ispirò
Cicerone. Ma l'Accademia platonica durò ancora a lungo e rinnovò ancora il suo
indirizzo nel senso religioso-mistico che è proprio del neo-Platonismo (v.).
Solo nel 529 l’imperatore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia e
confiscò l’ingente patrimonio dell’Accademia. Damascio, che ne era il capo, si
rifugiò con altri suoi compagni, tra cui Simplicio, autore di un vasto
commentario ad Aristotele, in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. La
tradizione indipendente del pensiero platonico ebbe così termine. ACCADEMIA
FIORENTINA. Fu fondata per iniziativa di Marsilio Ficino e di Cosimo de’ Medici
e raccolse un circolo di persone che vedevano la possibilità di rinnovare
l’uomo e la sua vita religiosa mediante un ritorno alle dottrine genuine del
platonismo antico. In queste dottrine i seguaci del platonismo e specialmente
Marsilio Ficino (14331499) e Cristofaro Landino (vissuto tra il 1424 e il 1498)
vedevano la sintesi di tutto il pensiero religioso dell’antichità e quindi
anche del cristianesimo e perciò la più alta e vera religione possibile. Con
questo ritorno all’antico si connette un altro aspetto dell’Accademia
fiorentina, l’anticurialismo; contro le pretese di supremazia politica del
papato l’Accademia sosteneva un ritorno all’idea imperiale di Roma e quindi
faceva oggetto frequente di commenti e di discussioni il De monarchia di Dante
(v. RINASCIMENTO). ACCADIMENTO (gr. cvuBeBnxéc; lat. Accidens; ingl.
Occurrence; franc. Événement; tedesco Vorfalressa dalla definizione; perciò è
un accidente. Ma è un accidente che appartiene al triangolo non per un caso,
cioè per una causa indeterminabile, ma a causa del triangolo stesso cioè per
quello che il triangolo è; ed è perciò un accidente eterno (Mer., V, 30, 1025a
31 sgg.). Aristotele illustra la differenza nel modo seguente (An. Post., 4, 73
b 12 sgg.): « Se mentre qualcuno cammina, lampeggia, questo è un accidente,
giacchè il lampeggiare non è causato dal camminare... Se invece un animale
muore sgozzato a causa della ferita, diremo che esso è morto perchè è stato
sgozzato, e non già che gli sia accaduto accidentalmente di morire sgozzato ».
In altri termini l’accidente per sè è connesso causalmente (e non casualmente)
con le determinatte che la parola « modo» che egli adopera sia sinonimo di
accidente; sinonimia che sembra suggerita dalla definizione che egli dà del
modo (£r., I, def. 5) come ciò che è in altro ed è concepito per mezzo di
quest'altro. Comunque il mutamento di significato è chiaramente riscontrabile
in Kant e Hegel. Kant dice (Crit. R. Pura, Analitica dei princìpi, Prima
Analogia): «Le determinazioni di una sostanza le quali non sono che modi
speciali di esistere di essa, si chiamano accidenti. Essi sono sempre reali,
perchè riguardano l’esistenza della sostanza. Ora se a questo reale che è nella
sostanza (per es., al movimento come accidente della materia) si attribuisce
una speciale esistenza, questa esistenza si chiama inerenza per distinguerla
dalla esistenza della sostanza che si chiama sussistenza +. Questo passo
riprende la terminologia scolastica in un significato del tutto differente
perchè gli accidenti sono considerati come « modi speciali di esistere » della
sostanza stessa. Analoga nozione si trova in Hegel il quale dice (Enc., $ 151):
«La sostanza è la totalità degli accidenti nei quali essa si rivela come la
loro assoluta negatività, cioè come potenza assoluta, ed insieme come la
ricchezza di ogni contenuto ». Il che significa che gli accidenti, nella loro
totalità sono la rivelazione o manifestazione stessa della sostanza. Fichte
aveva d’altronde espresso un concetto analogo asserendo, sulle orme di Kant,
che « Nessuna sostanza è pensabile se non è riferita a un A.... Nessun A. è th;
francese Accidie; tedesco Acedie). La noia o nausea nel mondo medievale: il
torpore o l’inerzia in cui cadevano i monaci dediti alla vita contemplativa.
Secondo S. Tommaso, essa consiste nel « rattristarsi del bene divino » ed è una
specie di torpore spirituale che impedisce di iniziare il bene (S. 7h., II II,
q. 35, a. 1). L’accidia ha in comune con la noia lo stato che la condiziona,
stato, non di bisogno, ma di soddisfazione (v. NOIA). ACCORDO (ingl. Agreement;
franc. Convenance; ted. Ùbereinstimmung). Questa nozione è servita nell’età
moderna a definire la natura del giudizio o della proposizione in generale.
Dice la Logica di Porto Reale: « Dopo aver concepite le cose mediante le nostre
idee, noi paragoniamo queste idee fra di loro; e trowpé<e = mucchio,
consiste nel domandare quanti grani di frumento occorrono per formare un
mucchio; basta forse un solo grano? Ne bastano due?, ecc. Siccome è impossibile
determinare a qual punto comincia un mucchio, si adduce quest’argomento contro
la pluralità delle cose (Cic., Acad., II, 28, 92 sgg.; 16, 49; Diog. L., VII, 82).
Lo stesso argomento è stato talora espresso in altra forma sotto il nome di
argomento del calvo (cfr. Diog. L., II, 108) e consiste nel chiedere se un uomo
diventa calvo quando gli si strappa un capello. E quando se ne strappano due? E
così via. ACHILLE (gr. ‘Ayoaesc; lat. Achilles; inglese Achilles; franc.
Achille; ted. Achilleus). Con questo nome si indicava il secondo dei quattro
argomenti di Zenone d’Elea contro il movimento. Esso così viene espresso da
Aristotele: «Il più lento nella corsa non sarà mai raggiunto dal più veloce:
giacchè colui che insegue dovrà cominciare per raggiungere il punto da cui è
partito il fuggitivo, di modo che il più lento sarà sempre in vantaggio +
(Fis., VI, 9, 239 b 14). Il presupposto di questo, come degli altri argomenti, è
l’infinita divisibilità dello spazio. V. DICOTOMIA, FRECCIA, STADIO. A
CONTRARIO. Forma di argomentazione dialettica per analogia: dal contrario si
conclude il contrario. (Se ad A conviene un predicato B, a non-A è probabile
convenga un predicato non-B). G. P. ACOSMISMO (ingl. Acosmism; franc.
Acosmisme; ted. Akosmismus). Termine adoperato da Hegel (Enc., $ 50) per
caratterizzare la posizione di Spinoza, in opposizione con l’accusa di €
ateismo » frequentemente rivolta a questo filosofo. Spinoza, secondo Hegel, non
mescola Dio con la natura e con il mondo finito considerando come Dio il mondo,
ma piuttosto nega la realtà del mondo finito affermando che Dio, e Dio solo, è
reale. In questo senso la sua filosofia non è a-teismo ma a-cosmismo; e Hegel
ironicamente nota che l’accusa contro Spinoza deriva dalla tendenza a credere
che si può più facilmente negare Dio anzichè il mondo. ACRIBIA (gr. dxplBewa).
Esattezza o precisione. Nel senso moderno, scrupolo nel seguire le regole
metodiche di una qualsiasi ricerca scientifica. Nel significato platonico
«l’esatto in sè» (&utò taxpiBéc) è il giusto mezzo (tò pérptov) cioè il
conveniente o l’opportuno in quanto oggetto di una delle due branche
fondamentali dell’arte della misura cioè di quella che propriamente interessa
l’etica e la politica. L’altra branca della stessa arte è quella propriamente
matematica che concerne il numero, la lunghezza, l’altezza, ecc. (Pol., 284
d-e). ACROAMATICO (gr. dxponpatixéc; inglese Acroamatic; franc. Acroamatique;
ted. Akroamatisch). Così sono stati chiamati, perchè destinati agli
ascoltatori, gli scritti di Aristotele che costituivano lezioni da lui tenute
al Liceo per distinguerle da quelle destinate al pubblico, di cui non ci
restano che frammenti. Tutte le opere aristoteliche da noi possedute sono
acroamatiche, perchè gli scritti che egli compose per un pubblico più vasto, e
che erano quasi tutti in forma di dialogo, caddero in disuso quando gli scritti
di lezioni, portati a Roma da Silla, furono riordinati e pubblicati da
Andronico da Rodi verso la metà del I secolo avanti Cristo (v. ESSOTERICO).
ADDIZIONE LOGICA (ingl. Logica! Addition; franc. Addition logique; ted.
Logische Addition). Nell’ Algebra della Logica (v.) si chiama così l’operazione
«a + 5», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle dell’addizione
aritmetica (importantissima l’eccezione «a + a = a»). Interpretata come
operazione tra classi «a + 5+ viene a formare la classe contenente tutti e soli
gli elementi, comuni e non comuni, della classe a e della classe d.
Interpretata come operazione tra proposizioni, «a + b» ne indica l’affermazione
disgiuntiva («a o br). G.P. ADEGUATO rità suprema in quanto il suo intendere è
la misura di tutto ciò che è e di ogni altro intendere. La nozione di
adeguazione (o accordo, o conformità, o corrispondenza) viene presupposta e
adoperata da molte filosofie e precisamente da tutte quelle le quali
considerano la conoscenza come un rapporto di identità o somiglianza (v.
CONOSCENZA). Locke afferma che «la nostra conoscenza è reale solo se vi è una
conformità tra le idee e la realtà delle cose» (Saggio, IV, 4, $ 3). Kant
stesso dichiara di presupporre « la definizione nominale della verità come
accordo della conoscenza col suo 0ggetto» e si propone l’ulteriore problema di
un criterio « generale e sicuro per determinare la verità di ciascuna
conoscenza» (Crit. R. Pura, Logica trasc., Intr., III) riterio rimane quello
della corrispondenza. Dall’indirizzo linguistico della filosofia analitica
contemporanea la nozione della corrispondenza viene mantenuta come rapporto di
somiglianza tra linguaggio e realtà. Wittgenstein, per es., dice: «La
proposizione è l’imagine (2i/d) della realtà... La proposizione, se è vera,
mostra come stanno le cose» (Tractatus, 4.021, 4.022). La coincidenza di dottrine
così diverse su questa nozione di verità è dovuta all’interpretazione della
conoscenza come rapporto di assimilazione (v. CONOSCENZA; VERITÀ). AD HOMINEM.
Così fu chiamata nella logica del ’600 l’argomentazione dialettica che consiste
nel contrapporre all’avversario le conseguenze che risultano dalle tesi meno
probabili concesse o approvate da lui (Jcapelli del capo o le stelle siano in
numero pari. Il secondo indica ciò per cui si sente impulso o repulsione ma non
più per questo che per quello, come nel caso di due monete identiche di cui
bisogna scegliere una. In terzo senso, si dice indifferente «ciò che non
conferisce nè alla felicità nè all’infelicità, come la salute e la ricchezza o
in altri termini, ciò di cui è possibile fare uso buono o cattivo » (/p. Pirr.,
III, 177). Kant usò il termine per indicare le azioni credute moralmente
indifferenti cioè nè buone nè cattive (Religion, I, Osservazione e nota
relativa) (v. LATITUDINARISMO; RIGORISMO). ADIAFORISTICA, Controversia (inglese
Adiaphoristic Controversy; franc. Controverse Adiaphoristique; ted.
Adiaphoristen Streit). La controversia sorta tra i Luterani intorno al valore
di quelle pratiche religiose (come la Messa, l’Estrema Unzione, la Cresima,
ecc.) che Lutero aveva dichiarato «indifferenti » per la salvezza e che
Melantone aveva accettato per spirito di compromesso 0 di pace. La controversia
fu conclusa con la « formula di concordia» del 1577-80 che riconfermava il
carattere indifferente o neutro dei riti e delle cerimonie. A DICTO SECUNDUM
QUID AD DICTUM SIMPLICITER. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza)
della Logica aristotelica scolastica: a dicto secundum quid ad dictum
simpliciter non valet consequentia; cioè se A è Bin relazione a qualche cosa,
non consegue che A sia B in senso assoluto (ARIST., E/. Sof., 168 b 11; Pietro
Isp., Summ. Log. G.P. AD IGNORANTIAM. Così Locke chiamò l'argomento che
consiste nell’esigere che l’avverAFFEZIONE 9 sario accolga la prova addotta o
ne porti una migliore (Saggio, IV, 17, 20). AD JUDICIUM. Così Locke chiamò
l’argomentazione che consiste «nell’usare le prove tratte da uno qualunque dei
fondamenti della conoscenza o della probabilità ». È la sola argomentazione
valida (Saggio, IV, 17, 22). ADOMBRAMENTO (ted. Abschattung). Termine adoperato
da Husserl per indicare il modo parziale e approssimato in cui la cosa esterna
è data alla coscienza percettiva. Per es.: « Il medesimo colore appare in serie
continuative di adombramenti di colore. Lo stesso vale per ogni qualità
sensibile e per ogni figura spaziale. L’unica e medesima figura, in quanto data
in carne ed ossa come medesima, appare continuamente ‘in modo diverso *, in
sempre diversi adombramenti di figura. È questa una necessaria situazione di
cose, che ha validità universale » (/deen, I, $ 41). ADOZIONISMO (ingl.
Adoptionism; francese Adoptionisme; ted. Adoptionismus). La dottrina secondo la
quale Cristo, nella sua natura umana, è considerato come Figlio di Dio solo per
adozione. Questa dottrina è comparsa varie volte nella storia della Chiesa. Fu
insegnata da Teodoro vescovo di Mopsuestia intorno al 400; fu ripresa nel sec.
vii da alcuni vescovi spagnoli, combattuta da Alcuino e condannata nel Concilio
di Francoforte del 794. La dottrina implicava l’indipendenza della natura umana
da Dio e quindi il dualismo di natura umana e natura divina: dualismo
inammissibile dal punto di vista della dogmatica cristiana. AD VERECUNDIAM.
Così Locke chiamò l’argomentazione che consiste « nel citare le opinioni di
uomini il cui ingegno, dottrina, eminenza, potere o qualche altra causa ha
ottenuto un nome e stabilito la reputazione nella stima comune con Capri specie
di autorità » (Saggio, IV, 17, 19). l'appello all’autorità. AFASIA (gr. dpacla;
ingl. Aphasia; francese Aphasie; ted. Aphasie). In senso filosofico, è
l’atteggiamento degli Scettici in quanto si astengono dal pronunciarsi, cioè
dall’affermare o negare alcunchè intorno a tutto ciò che «è oscuro» cioè che
non muove la sensibilità in modo da produrre una modificazione che spinge
necessariamente ad assentire. L'A. è così l'astensione dal giudizio connessa
con la sospensione dell’assenso (v.) (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 20, 192
sgg.). AFFERMAZIONE (gr. xatépaoc; lat. Affirmatio; ingl. Affirmation; franc.
Affirmation; tedesco Bejahung). Termine col quale si può designare tanto l’atto
dell’affermare, quanto il contenuto affermato, ossia la proposizione
affermativa, Aristotele la considerò pertanto come una delle due forme
dell’asserzione e precisamente quella che « unisce qualcosa con qualcosa» (De
/nterpret., 17a 25). Secondo la medesima teoria aristotelica, essa unisce due
concetti in un concetto composito. Sostanzialmente la tradizione logica
successiva ha conservato questa dottrina e quindi questo significato del
termine; soltanto i seguaci della teoria del giudizio coione, la protezione,
l’attaccamento, la gratitudine, la tenerezza, ecc., che, nel loro complesso
possono essere caratterizzati come la situazione in cui una persona «si prende
cura di + o « nutre sollecitudine per» un’altra persona o in cui quest’altra
risponde positivamente alla cura o alla sollecitudine di cui è fatta oggetto.
Ciò che comunemente si chiama « bisogno di A.» è il bisogno di essere compreso,
assistito, aiutato nelle proprie difficoltà, seguito con occhio benevolo e
fiducioso. In questo senso l’A. non è che una delle forme dell’amore (v.).
AFFEZIONE (gr. nd00c; lat. Passio; ingl. Affection; franc. Affection; ted.
Affektion). Questo termine, che viene talora usato promiscuamente con affetto
(v.) e passione (v.), si può distinguere da essi, in base all’uso prevalente
nella tradizione filosofica, per la sua maggiore estensione e generalità: in
quanto designa ogni stato, condizione o qualità che consiste nel subire
un'azione o nell’es10 AFFEZIONE sere influenzato o modificato da essa. In
questo senso un affetto (che è una specie di emozione [v.)) o una passione è
bensì un’A., in quanto implica un'azione subita, ma ha anche altri caratteri
che ne fanno una particolare specie di affezione. Diciamo comunemente che un
metallo è affetto dall’acido, o che il tale ha un’A. polmonare; mentre
riserviamo le parole « affetto» e «passione» per situazioni umane, le quali
presentano tuttavia un certo grado di passività in quanto stimolate od
occasionate da agenti esterni. In questo senso generalissimo, Aristotele intese
la parola r&8os, che egli considerò come una delle dieci categorie ed
esemplificò con « venir tagliato, venir bruciato » (Car., 2a 3); e chiamò
affettive (ra&ituxa) le qualità sensibili perchè ciascuna di esse produce
un’A. dei sensi (/bid., 9 b 6). Dichiarando inoltre, al principio del De Anima,
lo scopo della sua ricerca, Aristotele la intese diretta a conoscere, oltre che
la natura e la sostanza dell’anima, tutto ciò che ad essa accade, cioè sia le
A. che sembrano sue proprie, sia quelle che essa ha in comune con l’anima degli
animali (De An., I, 1, 402a 9). Nel qual testo la parola A. (r&0n) designa
tutto ciò che all’anima accade, cioè qualsiasi modificazione essa subisca. Il
carattere passivo delle A. dell’anima, carattere che sembrava minacciare
l’autonomia razionale di essa, condusse gli Stoici a dichiarare irrazionali,
quindi cattive, tutte le emozioni (Diog. L., VII, 110): di qui la connotazione
moralmente negativa che assunse l’espressione « A. dell’anima » e che si rivela
chiaramente in espressioni come perturbatio animi o concitatio animi che
vengono usate da Cicerone (Tusc., IV, 6, 11-14) e da Seneca (Ep., 116), e sono
espressamente ritenute da S. Agostino (De Civ. Dei, IX, 4) sinonime con quelle
di affectio e affectus (emozione). Ma S. Agostino e, dietro di lui, gli
Scolastici, mantennero il punto di vista aristotelico della neutralità delle A.
dell’anima dal punto di vista morale, nel senso che esse possono essere buone o
cattive a seconda che sono moderate o meno dalla ragione; punto di vista che S.
Tommaso difese richiamandosi appunto ad Aristotele e a S. Agostino (S. 7A., II,
I, q. 24, a. 2). La nozione di modificazione subita, cioè di qualità o
condizione prodotta da un’azione esterna, si mantiene costante nella tradizione
filosofica e viene espressa il più delle volte con la parola passio la quale
solo nella seconda metà del xviit secolo assume il suo significato moderno (v.
PASSIONE). Così Alberto Magno intende con A. «l’effetto e la conseguenza
dell’azione » (S. 7h., I, q. 7, a. 1). S. Tommaso, che dà identica definizione
(/bid., I, q. 97, a. 2) distingue tre significati del termine: «Il primo, che è
il più proprio si ha quando qualcosa viene allontanata da ciò che ad essa
conviene secoe il paziente siano spesso assai diversi, l’azione e l’affezione
non cessano d'essere sempre una stessa cosa che ha questi due nomi per via dei
due soggetti diversi ai quali la si può riferire ». In senso analogo la parola
viene adoperata da Spinoza per definire quelli che egli chiama affectus e che
noi chiameremmo emozioni o sentimenti. Le emozioni, in quanto passiones cioè
A., costituiscono l’impotenza dell’anima e l’anima le vince trasformandole in
idee chiare e distinte. «L’emozione, dice Spinoza (Ef., V, 3) che è un’A.,
cessa di essere un'A. appena ci formiamo di essa un'idea chiara e distinta ».
In tal caso, infatti, quest'idea si distingue solo razionalmente dall'emozione
e si riferisce alla sola mente; così essa cessa di essere un’A. (/bid., A.; i
concetti, invece, su funzioni » (Crit. R. Pura, Analitica dei concetti, I, sez.
I). Queste notazioni kantiane sono in polemica con la tesi della scuola
leibnizianowolffiana che faceva consistere la sensibilità nelle
rappresentazioni indistinte e l’intellettualità in quelle distinte: il che, notava
Kant (Antr., $ 7, nota), significa far consistere la sensibilità in una
mancanza (mancanza di distinzioni), mentre essa è qualcosa di positivo e di
indispensabile alla conoscenza intellettuale. In conclusione il termine A.,
inteso come ricezione passiva o modificazione subita, non ha necessariamente
una connotazione emotiva; e per quanto sia stato adoperato frequentemente a
proposito di emozioni ed affetti (per il carattere chiaramente passivo di
Aphorism; franc. Aphorisme; ted. Aphorismus). Proposizione che esprime in
maniera succinta una verità, una regola o una massima concernente la vita
pratica. Dapprima la parola fu usata quasi esclusivamente per indicare le
formule che esprimono, in modo abbreviativo e mnemonico, i precetti dell’arte
medica: per es., gli A. di Ippocrate. Bacone espresse sotto forma di A. le sue
osservazioni (contenute nei I libro del Novum Organum) « sulla interpretazione
della natura e sul regno dell’uomo »: probabilmente per sottolineare il
carattere pratico e attivo di queste osservazioni in quanto sono dirette a
preparare il dominio dell’uomo sulla natura. E Schopenhauer chiamò A. sulla
saggezza della vita (nei Parerga und Paralipomena) i suoi precetti per rendere
più felice, o meno infelice, l’esistenza umana, conservando così alla parola il
suo significato di massima o regola per dirigere l’attività pratica dell’uomo.
A FORTIORI. Espressione che non indica un modo specifico di argomentare ma
significa semplicemente «a più forte ragione». Qualche logico designa con
questa espressione le inferenze transitive del tipo «x implica y, y implica z,
dunque x implica z » (cfr. STRAWSON, Introduction to Logical Theory, 1952, pag.
207). AFRICA (ingl. Africa; franc. Afrique; tedesco Afrik). I filosofi hanno
talora cercato di giustificare « speculativamente », cioè nei termini della
loro filosofia, anche la partizione dei continenti considerandola non già come
casuale o convenzionale ma come essenziale e razionale. Così apparve a Hegel la
partizione del vecchio mondo in tre parti, A., Asia ed Europa che starebbero
tra loro come tesi, antitesi e sintesi. L'A. rappresenterebbe in questa triade
il momento in cui lo spirito non riesce a giungere alla coscienza e l’uomo
rimane abbrutito nella passività e nella schiavitù (Philosophie der Geschichte,
ed. Lasson, pag. 203 sgg.). Analogamente Gioberti vide nella razza africana «la
più degenere delle tre schiatte umane » perchè «il nero è privazione della
luce» (Prorologia, II, pag. 221). AGAPISMO (ingl. Agapism). Termine adoperato
da Peirce per designare la « legge dell'amore evolutivo » in virtù della quale
l’evoluzione cosmica tenderebbe ad un incremento dell’amore fraterno fra gli
uomini (Coll. Pap., 6. 60; ARNAULD, Log., II, 1). Nella linguistica moderna
l’A. è quella classe di parole definibile per la sua funzione di caratterizzare
la sostanza ed è diviso in descrittivo o limitativo, a seconda che segue o
precede il nome (cfr. BLOOMFIELD, Language, 1933, pag. 202 sgg.). AGGREGATO
(ingl. Aggregate; franc. Agrégat; ted. Aggregat). In generale una collezione,
un agglomerato, un raggruppamento, una somma o una quantità di cose che
conservano tuttavia la loro individualità. Il termine ha un uso esteso nella
matematica e nella logica matematica contemporanea (v. INSIEME) e in generale
nelle scienze naturali che lo adoperano per indicare, in generale, masse o
raggruppamenti di elementi che conservano, stando insieme, le proprietà che
hanno separatamea del sapere col procedimento che fu poi seguito anche da
Spencer per determinare i confini dell’Inconoscibile (v.). AGNOSIA (gr.
aywwota; ingl. Agnosy; francese Agnosie; ted. Agnosie). L’atteggiamento di chi
professa di non conoscere nulla, come fu quello di Socrate che affermava di
sapere solo di non sapere (PLATONE, Apol., 21 a) e che lo scettico Arcesilao rinforzava
dicendo di non sapere neppure questo (Cic., Acad., I, 45). AGNOSTICISMO (ingl.
Agnosticism; francese Agnosticisme; ted. Agnosticismus). Il termine fu coniato
dal naturalista inglese Tommaso Huxley nel 1869 (Collected Essays, V, pag. 237
sgg.) per indicare l'atteggiamento di chi si rifiuta di ammettere soluzioni di
quei problemi che non possono essere trattati con i metodi della scienza
positiva e segnatamente dei problemi metafisici e religiosi. Huxley stesso
dichiarò di aver coniato il termine «come antitesi dello ‘gnostico * della
storia della Chiesa che pretendeva di saperla lunga sulle cose che io ignoravo
». Il termine fu ripreso da Darwin che si dichiarò agnostico in una lettera del
1879. D'’allora in poi il termine fu usato a designare l’atteggiamento degli
scienziati di indirizzo positivistico di fronte all’Assoluto, all’Infinito, a
Dio ed ai problemi relativi, atteggiamento contrassegnato dal rifiuto di
professare pubblicamente una qualsiasi opinione intorno a tali problemi. Così
fu detta agnostica la posizione di Spencer che nella prima parte dei Primi
principi intese dimostrare l’inaccessibilità della realtà ultima cioè della
forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali. Il fisiologo
tedesco Du-Bois Raymond in uno scritto del 1880 enunciava Sette enigmi del
mondo (l’origine della materia e della vita; l'origine del movimento; il
sorgere della vita; l’ordinamento finalistico della natura; il sorgere della
sensibilità e della coscienza; il pensiero razionale e l’origine del linguaggio;
la libertà del volere) di fronte ai quali egli riteneva che l’uomo fosse
destinato a pronunciare un igrorabimus in quanto la scienza non potrà mai
risolverli. Nello stesso periodo la parola fu estesa a designare anche la
dottrina di Kant in quanto essa ritiene che il noumeno o cosa in sè è al di là
dei limiti della conoscenza umana (v. NouMENno). Ma questa estensione della
parola non può dirsi del tutto legittima, data la concezione kantiana del
noumeno come concettolimite. Fa parte integrante della nozione di A. la
riduzione dell’oggetto della religione a semplice « mistero », rispetto al
quale i simboli che si adoperano per interpretarlo rimangono del tutto
inadeguati. AGOSTINISMO (ingl. Augustinianism; francese Augustinism; ted.
Augustinismus). S’intende con questo termine, più che l’intera dottrina
originale di S. Agostino, quell’insieme di elementi dottrinali agostiniani che
caratterizzarono uno degli indirizzi della Scolastica (v.) che fu seguito
prevalentemente dai dottori francescani, in polemica con l’indirizzo
aristotelico-tomista dei dottori domenicani. La fisionomia generale dell'A.
medievale può essere espressa con i seguenti punti (cfr. MANDONNET, Siger de
Brabant: a) mancanza di una distinzione precisa tra il dominio della filosofia
e quello della teologia cioè tra l’ordine delle verità razionali e quello delle
verità rivelate; b) teoria dell’illuminazione divina, secondo la quale
l'intelligenza umana non può funzionare se non per l’azione illuminatrice e
immediata di Dio e non può trovare la certezza della sua conoscenza se non
nelle regole eterne e immutabili della scienza divina; c) preminenza della
nozione di bene su quella del vero e perciò della volontà sull’intelligenza sia
ALGEBRA DELLA LOGICA 13 in Dio che nell'uomo; d) riconoscimento alla materia di
una realtà positiva, in contrasto con Aristotele che vede in essa una pura
potenzialità; dal che deriva, per es., che il corpo umano possiede già una sua
realtà o attualità, cioè una forma indipendentemente dall’anima e che l’anima è
quindi una forma ulteriore che si aggiunge al composto vivente e animale; di
qui la cosiddetta pluralità delle forme sostanziali nel composto. Questi tratti
accomunano i grandi maestri della scolastica francescana come Alessandro di
Hales (1770 circa), Roberto Grossatesta, S. Bonaventura, Ruggiero Bacone, Duns
Scoto e molti altri minori. Alcuni di quei tratti si possono anche riconoscere
in dottrine filosofiche moderne e contemporanee, alle quali pervengono
attraverso la tradizione medievale o direttamente dall’opera di S. Agostino.
ALBERO DI PORFIRIO (lat. Arbor Porphyriana; ingl. Tree of Porphyry; franc.
Arbre de Porphyre; ted. Baum des Porphyrius). Celebre schema o modello di
definizione per dicotomie successive, discendente dal genere generalissimo alle
specie infime (sostanza: corporea, incorporea; sostanza corporea [corpo]:
animato, inanimato; corpo animato: sensibile, insensibile; corpo animato
sensibile [animale]: ragionevole, irragionevole; animale ragionevole: mortale,
immortale; animale ragionevole mortale [uomo]: Socrate, Platone, ecc.). Sebbene
tale «albero» non si trovi propriamente nei manoscritti di Porfirio, fu
costruito sulla base del testo porfiriano (/sag., 4, 20) e si trova in tutti i
trattati medievali di logica (cfr., per es., Pietro IspANO, Summ. Logic., 2.
10), donde è passato nei testi moderni di logica tradizionale. G. P. ALCUNI. V.
QUALCHE. ALESSANDRISMO (ingl. Alexandrianism; franc. Alexandrisme; ted.
Alexandrismus). S’intende con questo termine la cultura alessandrina cioè la
cultura del periodo seguito alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il quale
aveva unificato il mondo antico nel segno della cultura greca e ne aveva posto
la capitale in Egitto nella nuova città di Alessandria. La dinastia dei Tolomei
mirò a fare di questa città un grande centro intellettuale in cui confluissero
insieme la cultura greca e quella orientale, mediate e unificate dalla lingua
che era diventata di patrimonio comune dei dotti, il greco. Scienziati e dotti
di tutti i paesi erano ospitati nel Museo ed avevano a loro disposizione un
materiale scientifico e bibliografico eccezionale per quei tempi. Al Museo fu
poi aggiunta la biblioteca, il cui primo nucleo si dice sia stato formato dalle
opere possedute da Aristotele e che divenne poi ricchissima, fino a comprendere
700.000 volumi. La cultura alessandrina è contrassegnata dal divorzio tra
scienza e filosofia. Mentre le ricerche scientifiche, la determinazione dei
metodi della scienza e la sistemazione dei risultati di essa fanno grandi passi
in questo periodo, la filosofia rinuncia al còmpito che costituì la sua
grandezza nel periodo classico: quello di cercare liberamente le vie e i modi
di un’esistenza propriamente umana. Essa si irrigidisce nella pretesa di
garantire all'uomo, a tutti i costi, la pace e la serenità dello spirito; e in
tal modo diventa privilegio di pochi dotti che riescono ad isolarsi dal resto
della vita e dai problemi che la dominano e si disinteressa quindi anche della
ricerca scientifica. La scienza dell’età alessandrina offre grandi figure di
matematici (Euclide, Archimede, Apollonio); di astronomi (Iparco e Tolomeo); di
geografi (Eratostene); di medici (Galeno). La filosofia si presenta divisa in
due grandi scuole: Epicureismo (v.) e Stoicismo (v.) e in due indirizzi
filosofici sostenuti da scuole diverse, lo Scerticismo (v.) e l’Eclettismo
(v.). A questo periodo della filosofia si può far risalire quella nozione di
essa, che talora ancora predomina nel senso comune, come un'attività
consolatoria o tranquillizzante che impedisce all'uomo di mescolarsi alle cose
della vita comune e cerca di garantirne l’imperturbabilità di spirito.
ALESSANDRINISMO (ingl. Alexandrinism; franc. Alexandrinisme; ted.
Alexandrinismus). Così fu chiamata, nel Rinascimento, la dottrina di Alessandro
di Afrodisia sull’intelletto attivo (v.). ALETIOLOGIA (ted. Alethiologie). Così
Lambert chiamò la seconda delle quattro parti del suo Nuovo organo (1764) e
precisamente quella che studia gli elementi semplici della conoscenza. Essa è
una specie di anatomia dei concetti che ha lo scopo di raggiungere i concetti
più semplici e indefinibili. ALGEBRA DELLA LOGICA (ingl. Logica! Algebra;
franc. Algèbre de la logique; ted. Algebra der Logik). Già Leibniz aveva
intuita la possibilità di un calcolo letterale affine a quello dell’A.
ordinaria, in cui, definite mediante assiomi (molto simili a quelli algebrici)
certe operazioni logiche (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione,
negazione) e certe relazioni (implicazione, identità) fondamentali, indicate
con simboli tolti alla matematica, si poteva da questi assiomi derivare
mediante calcolo tutte le regole della sillogistica tradizionale. Ma (forse per
il prevalere di preoccupazioni contenutisticheintensive di origine filosofica
sulla pura idea del calcolo) non era giunto a risultati soddisfacenti. E non
più fortunati furono i tentativi di suoi continuatori come Lambert. Solo i
logici inglesi del1’800 riuscirono a fondare una vera e propria A. della
logica. IH primo fu George Boole (Mathematical Analysis of Logic, 1847; Laws of
Thought, 14 ALGORITMO 1854) sulle cui orme lavorarono Stanley Jevons (Pure
Logic, 1864), J. Venn (Simbolic Logic, 1881) e il tedesco E. Schròder (Algebra
der Logik, 18901895). L’A. della Logica è generalmente intesa come un calcolo
letterale bivalente, caratterizzato: 1° dal fatto che le equazioni vi possono
assumere solo i valori 0 o 1; 2° dagli assiomi «a +a4= a» e «a*»a = a» (con
tutte le conseguenze derivanti da ciò); 3° dall’assenza di operazioni
indirette, come la sottrazione (non potendosi la negazione «— a» equiparare
alla sottrazione, nonostante l’assioma, già enunciato da Leibniz, «a— a= 03).
Questo mero calcolo letterale in sè non significa nulla, è un mero giuoco
simbolico (appunto, un'«A. zione a; finalmente 0 si interpreta «falso », 1 si
interpreta «vero». In tal modo si fonda un’interpretazione del calcolo
logico-algebrico che viene ad assorbire in sè, trasformandola in disciplina
formale e deduttiva, la sillogistica tradizionale. La Logica matematica,
fondata da Frege e Russell, e in seguito la Logica simbolica contemporanea,
assorbendo in sè gli elementi più vitali dell’A. della Logica, l’hanno resa
oramai desueta. Gg. P. ALGORITMO (ingl. Algorism; franc. Algorithme; ted.
Algorithmus). Un qualsiasi procedimento di calcolo. Il termine derivato dal
nome dell’autore arabo di un trattato che introdusse in Europa nel sec. ix la
numerazione decimale, designava da principio i procedimenti del calcolo
aritmetico ed è stato poi generalizzato a indicare ogni procedimento di
calcolo. ALIENAZIONE (ingl. Alienation; franc. Aliénation; ted. Entfremdung).
Il termine, che nel linguaggio comune significa perdita di un possesso, di un
affetto o dei poteri mentali, è stato adoperato dai filosofi in alcuni
significati specifici. 1. Nel Medioevo fu talora usato per indicare un grado
dell’ascesa mistica verso Dio. Così Riccardo di San Vittore considera l’A. come
il terzo grado dell’elevazione della mente a Dio (dopo la dilatazione e la
sollevazione) e ritiene che essa consiste nell’abbandono della memoria di tutte
le cose finite e nella trasfigurazione della mente in uno stato che non ha più
nulla di umano (De gratia contemplationis, V, 2). In questo senso l’A. non è
che l’estas’autotogliersi di quest’ultimo ha un significato positivo, cioè se
stessa; infatti, in quella A. essa pone sè come oggetto o, in forza
dell’inscindibile unità dell’esser-per-sè, pone l’oggetto come se stessa,
mentre d’altra parte in quest’atto è contenuto l’altro momento ond’essa ha
tolto e ripreso in sè medesima quest’A. e oggettività, essendo dunque, nel suo
esser altro come tale, presso di sè. Questo è il movimento della coscienza, la
quale in tal movimento è la totalità dei propri momenti» (Phéinomen. des
Geistes, VIII, 1). Questo concetto puramente speculativo viene ripreso da Marx
nei suoi scritti giovanili per descrivere la situazione dell’operaio nel regime
capitalistico. Secondo Marx, Hegel ha avuto il torto di confondere
l’obiettivazionatto ma infelice... E solo fuori del lavoro si sente presso di
sè, si sente fuori di sè nel lavoro ». Nella società capitalistica il lavoro
non è volontario ma costretto perchè non è soddisfacimento di un bisogno, ma
solo un mezzo ALLEGORIA 15 per soddisfare altri bisogni. «Il lavoro esterno, il
lavoro in cui l’uomo si aliena è un lavoro di sacrificio di se stessi, di
mortificazione » (Manoscritti economico-filos., 1844, I, 22). Questo uso del
termine è diventato corrente nella cultura contemporanea, non soltanto nella
descrizione del lavoro operaio in certe fasi della società capitalistica, ma anche
a proposito del rapporto tra l’uomo e le cose nell’età della tecnica: giacchè
sembra che il predominio della tecnica « alieni l’uomo da se stesso » nensional
Man, 1964, pag. 12). Nel linguaggio filosofico-politico oggi corrente il
termine ha i significati più disparati che dipendono dalla varietà dei
caratteri su cui si insiste per la definizione dell’uomo. Se l’uomo è ragione
autocontemplativa (come riteneva Hegel), ogni suo rapporto con un oggetto
qualsiasi è alienazione. Se l’uomo è un essere naturale e sociale (come
riteneva Marx) è A. il suo ritirarsi nella contemplazione. Se l’uomo è istinto
e volontà di vita, è A. ogni repressione e diminuzione di tale istinto e
volontà; se l’uomo è razionalità operante o fattiva è A. il suo affidarsi
all’istinto. Se l’uomo è ragione (comunque intesa), è A. il suo rifugiarsi
nella fantasia; ma se è essenzialmente immaginazione e fantasia, è A. ogni sua
disciplina razionale. Infine, se l’individuo umano è una totalità
autosufficiente e completa, è A. ogni regola o norma che venga imposta, in
qualsiasi modo, alla sua espressione. L’equivocità del concetto di A. dipende
dalla problematicità della nozione di uomo. ALLEGORIA (gr. &anropla; lat.
Allegoria; ingl. Allegory; franc. Allégorie; ted. Allegorie). Nel suo primo significato
specifico, la parola indica un modo di interpretare le sacre scritture e di
scoprire, al di là delle cose, dei fatti e delle persone, di cui esse trattano,
verità permanenti di natura religiosa o morale. La prima importante
applicazione del metodo allegorico è il commentario alla Genesi di Filone di
Alessandria (sec. 1). Filone non esita a contrapporre il senso allegorico al
senso letterale e a dichiarare «sciocco» (etnînc) quest’ultimo. Ecco un
esempio: «‘ E Dio finì nel settimo giorno le opere che egli creò’ (Gen., 2, 2).
È assolutamente sciocco credere che il mondo è nato in sei giorni o in generale
nel tempo. Perchè? Perchè ogni tempo è un insieme di giorni e di notti che sono
necessariamente prodotti dal movimento del sole che va al di sopra e al di
sotto della terra; ma il sole è una parte del cielo sicchè si riconosce che il
tempo è più recente del mondo » (A//. /eg., I, 2). A sua volta Origene che è il
primo autore di un grande sistema di filosofia cristiana, distingueva nei testi
biblici tre significati: il somatico, lo psichico e lo spirituale, che stanno
tra loro come le tre parti dell’uomo: il coranifesto, non meno è vero quello
che spiritualmente s’intende cioè che nella uscita dell'anima del peccato, essa
si è fatta santa e libera in sua potestate» (Conv., II, 1). Ma tra questi
sensi, come Dante stesso dice, quello fondamentale, per il teologo come per il
poeta, è l’allegorico. E difatti l’A. divenne nel Medioevo il modo d'intendere
la funzione dell’arte e specialmente della poesia. Giovanni di Salisbury diceva
di Virgilio che egli « sotto l’imagine delle favole esprime la verità
dell’intera filosofia » e Dante (Vita Nuova, 25) definiva così il compito
ALLOGLOSSIE del poeta: « Vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste
di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le
sue parole di cotal veste, in gure del simbolo (v.) che può essere vivo ed
evocatore perchè l’imagine simbolica è autonoma e ha un interesse in se stessa
cioè un interesse che non mutua dal suo riferimento convenzionale a un concetto
o ad una dottrina. Tuttavia, se si tiene conto della potenza e della vitalità
di certe opere d’arte di chiara struttura allegorica (per es., della Divina
Commedia e di molte pitture medievali e rinascimentali) si deve dire che l'A.
non necessariamente rende impossibile l’autonomia e la leggerezza dell’imagine
estetica e che, in certi casi, anche la corrispondenza puntuale tra l’imagine e
il concetto può non riuscire mortificante per la prima e non togliere ad essa
la vitalità dell’arte o della poesia. T. S. Eliot ha fatto, proprio a proposito
di Dse per designare Dio come principio e fine del mondo (Ap., I, 8; 21, 6; 22,
13; ecc.). ALTERAZIONE (gr. dMolwow; ingl. Alteration; franc. Altérat on; ted.
Alteration). Secondo Aristotele, una delle forme del mutamento e precisamente
quella secondo la categoria della qualità: intendendosi per qualità non quella
essenziale ad una sostanza ed espressa nella differenza specifica ma quella che
una sostanza o realtà riceve o subisce (Fis., V, 2, 226a 23 sgg.). In altri
termini, l’A. è per Aristotele l'acquisto o la perdita di qualità accidentali;
come, per es., l’essere ora in buona, ora in cattiva salute (Mer., VIII, 1,
1042a 36). Questo significato di « mutamento qualitativo » è rimasto nell’uso
filosofico della parola in questione; per quanto non sempMa più generalmente si
può dire che, secondo Hegel, l’A. accompagna l’intero sviluppo dialetico
dell’Idea perchè essa è inerente al momento negativo che è intrinseco a questo
sviluppo. Difatti appena fuori dell’essere indeterminato che ha come sua
negazione il puro niente le determinazioni negative dell’Idea divengono a loro
volta qualche cosa di determinato cioè un « essere altro » da quello stesso che
negano. «La negazione — non più come il niente astratto ma come un essere
determinato e un alcunchè — è soltanto forma per questo alcunchè, è un essere
altro » (Enc., $ 91). ALTERNATIVA, PROPOSIZIONE
(inglese Alternative proposition; franc. Proposition alternative; ted.
Alternative Proposition). Con questo ALTRO, PROBLEMA DELL’ 17 nome si suole
indicare, propriamente, la proposizione molecolare disgiuntiva « poq+ («almeno
p è vero, quindi se non è vero p è vero q+). Ma spesso in uso non rigoroso, le
componenti della molecolare disgiuntiva si dicono « alternative» l’una rispetto
all’altra. Pare che la parola a/ternatio, introdotta dagli scrittori latini ad
indicare la proposizione disgiuntiva, derivi dal linguaggio giuridico. G. P.
ALTERNAZIONE. V. ALTERNATIVA. ALTRO (gr. Gftnpov; ingl. Orher; franc. Autre;
ted. Andere). Uno dei cinque generi sommi dell’essere, enunciati da Platone nel
Soffsta e che sono: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e l’altro. Il
motivo per ammettere l’altro come un genere a sè è il seguente: la quiete e il
movimento, entrambi, sono, perciò, sotto l’aspetto dell’essere, sono identici;
ma essi sono anche diversi l’uno dall’altro e questa diversità è esattamente
come è la loro identità (dovuta al fatto che entrambi sono). L’altro (il
diverso) è perciò un genere egualmente originario e irriducibile degli altri
quattro (Sof., 254 seguenti). Il riconoscimento dell’altro come di un genere
sommo è molto importante perchè consente a Platone di risolvere l’antinomia,
propria della sofistica e della eristica (v.), che è impossibile dire il falso
perchè il falso è ciò che non è e dire ciò che non è significa dir nulla cioè
non dire. Da questo punto di vista l’errore dovrebbe essere dichiarato
inesistente; e non ci sarebbe neppure differenza possibile tra il filosofo, che
si preoccupa di stabilire la distinzione tra verità ed errore, e il sofista che
non se ne preoccupa affatto. Ammesso invece l’A. come genere sommo, il
non-essere potrà essere interpretato, non già come il nulla, ma come l’A.
dall’essere e precisamente dall’essere di cui si parla; per es., dire che
qualcosa è non grande o non bella significa semplicemente dire che è qualcosa
di A., di diverso, dal grande e dal bello; ma non perciò che è l’opposto
dell’essere e cioè il nulla (Ibid., 257 b sgg.). Quest’affermazione della
realtà del non-essere, in quanto A. o diverso, è presentata, dal Forestiere
eleate che è il maggiore protagonista del Sofista, come una specie di «
parricidio + verso Parmenide, che aveva affermato che il solo essere è e il non
essere non è (/bid., 242 d). Queste notazioni platoniche, soprattutto la
categoria di «A.», sono poi state adoperate frequentemente per chiarire la
nozione di niente (v.). ALTRO, PROBLEMA DELL’ (ingl. Problem of Others; franc.
Problème de l’autre; ted. Problem von fremden Ichen). Con quest’espressione
s’indica, nella filosofia moderna e contemporanea, il problema concernente
l’esistenza di altri io (spiriti o persone) indipendenti da quello di colui che
si pone il problema stesso. Questo problema nasce da due punti di vista diversi
e tuttavia connessi insieme da alcuni presupposti comuni. Il primo è quello
dell’idealismo romantico (v.) secondo il quale la realtà essendo un Principio
infinito ed universale (per es., l’Io assoluto di Fichte), si tratta di vedere come
essa si rompe o si moltiplica nella diversità degli io singoli. Il secondo è il
punto di vista genericamente idealistico e spiritualistico, secondo il quale
ciò che a ciascuno di noi è originariamente dato è soltanto il suo proprio io e
le sue esperienze psichiche di cui alcune (una parte solamente) si
riferirebbero ad altri individui. AI primo problema Fichte rispose nella
Dorfrina Morale (1798) affermando il carattere originario dell’idea del dovere
e facendo derivare da essa il riconoscimento degli altri io. L'idea del dovere
è l’autodeterminazione originaria dell’io; ma essa non potrebbe esser
realizzata se non ci fossero altri io, altri soggetti nei confronti dei quali
soltanto l’idea del dovere può trovare la sua determinazione e quindi la sua
possibilità di realizzazione. La realtà degli altri io è quindi, per Fichte, un
postulato morale: l’esistenza degli altri io deve essere ammessa e
riconosciuta, se l'io deve poter concretamente realizzare la sua moralità
(Sittenlehre, $ 18). Questa concezione è stata, con qualche variante, ripresa
da altri filosofi; per es., da Riehl nel suo libro sul Criticismo (1786-87) e
da Cohen nella sua Erica della volontà pura (1904): il quale ultimo deduce
l’esistenza delle persone in generale dal carattere giuridico e dalle funzioni
pubbliche dell’uomo, sicchè la molteplicità degli io non esisterebbe che come
molteplicità di « persone giuridiche ». Dall’altro lato, dal punto di vista che
l’io conosce in modo immediato solo se stesso e i suoi stati interiori, cioè
dal punto di vista di un accesso privilegiato alla conoscenza interiore dell’io
(v. CoscieNZA) nasce il problema di vedere come mai una parte dell’esperienza
dell’io possa essere riferita ad altri io; e il problema ancora più grave di
vedere quale garanzia questo riferimento offra in favore dell’esistenza
effettiva dell’altro io. Per rispondere a questi problemi due teorie sono state
avanzate: 1° la teoria secondo la quale l’esistenza degli altri sarebbe
inferita mediante un « giudizio di analogia », a partire dalle percezioni che
ci rivelano movimenti analoghi a quelli mediante i quali noi esprimiamo il
nostro proprio io. Ma questa teoria, propria della psicologia associazionista,
ha contro di sè il fatto che la credenza nell’esistenza o soggettivistico del
problema è apparso sempre più debole; ed è stato anche attaccato, sulla base di
osservazioni sperimentali, dalla psicologia contemporanea. Scheler osservò che
non esiste alcun privilegio ontologico o metafisico a favore dei pensieri o dei
sentimenti che l’io chiama «miei ». Il mio pensiero mi è dato come « mio» allo
stesso titolo in cui il pensiero di un altro mi è dato come pensiero « altrui
»: è questo il caso comunissimo e normale in cui noi comprendiamo una
comunicazione qualsiasi che ci vien fatta. Tra il mio e l’altrui c'è sempre una
connessione strettissima ed essi si determinano e si condizionano
vicendevolmente, senza tuttavia che le sfere rispettive si lascino fissare mai
rigidamente, come è provato dal fatto che spesso non sappiamo dire se una certa
esperienza psichica ci venga da noi stessi o da altri (Sympathie, III, cap.
III). Questo equivale a negare il carattere privato e rigidamente soggettivo
dell’Zo (v.) e a riconoscere che esso si muove, sin dalla sua costituzione e in
tutte le sue manifestazioni, in una rete di rapporti intersoggettivi che lo
costituiscono in proprio e nella quale vengono ritagliate le sfere correlative
del «mio » e del « tuo ». Questo punto di vista si ritrova frequentemente, e
anche presso scuole diverse, nella filosofia contemporanea. Mead afferma che «
l’uomo diventa un io nella sua esperienza solo in quanto il suo atteggiamento
richiama un corrispondente atteggiamento nei rapporti sociali ».
L’autocoscienza stessa o io non è altro, in questo caso, che l’atteggiamento
generalizzato degli altri nei nostri riguardi. « Noi prendiamo il ruolo di
quello che può essere chiamato l’altro generalizzato e nel far questo appariamo
come oggetti sociali, come io» (Phil. of the Present, pag. 185). Dall’altra
parte Carnap ha espresso un punto di vista assai vicino a questo, insistendo
sul carattere secondario e derivato della distinzione tra l’io e il tu. «La
stessa caratterizzazione degli elementi fondamentali del nostro sistema
costitutivo come psichicamente propri cioè come ‘psichici’ e come ‘miei’
acquista significato solo quando si sono costituiti il campo del non psichico
(contrapposto allo psichico) e del ‘tu’» (Der logische Aufbau der Welt, $ 65).
Queste notazioni dimostrano che un punto di partenza solipsistico che pretenda
fondarsi su dati cadenti nell’àmbito della coscienza personale è sempre più
difficile a sostenersi. Ed anche una filosofia come quella di Sartre per la
quale l’altra esistenza è tale in quanto non è la mia, sicchè il rapporto
interpersonale è un rapporto di negazione reciproca, e solo la negazione è «la
struttura costitutiva dell’essere altri » (L’étre et le néant, pag. 285), si
presenta come un trascendimento del cogito. « Ciò che noi chiamiamo, in
mancanza di meglio, il cogito dell’esistenza altrui, si confonde col mio
proprio cogito. Bisogna che il cogito mi getti fuori di lui sull’A., come mi ha
gettato fuori di lui sull’in-sè e questo non già rivelandomi una mia struttura
a priori che punterebbe verso l’altro egualmente a priori, ma scoprendo in me
la presenza concreta e indubitabile di questo o quell’altro concreto come ha
già rivelato a me la mia esistenza inconfrontabile contingente e tuttavia
necessaria e concreta» (/bid., pag. 308-09). Analogamente per Husserl
l’esperienza dell’altro è una specie di Einfhlung o empatia per la quale
l’altro si costituisce per «appresentazione» come «un altro me stesso»
(Cartesianische Meditationen, $ 52). L’io stesso fa in modo che « una
modificazione intenzionale di se stesso e della sua primordialità pervenga alla
validità sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione di un altro,
di un altro io» (Die Krisis, $ 54 b). Il termine ALTRUISMO -- ingl. Altruism;
franc. Altruisme; ted. Altruismus -- è stato creato da Comte, in opposizione a
ego-ismo, per designare la dottrina morale del positivismo. Nel Catechismo
positivista Comte enuncia la massima fondamentale dell’altruismo: vivere per
gli altri. Questa massima, egli ritenne, non è contraria a tutti,
indistintamente, gli istinti dell’uomo; giacchè l’uomo possiede, accanto agli
istinti egoistici, istinti simpatetici che l'educazione poiivista può
sviluppare gradatamente sino a renderli predominanti sugl’altri. Già, infatti,
le relazioni domestiche e civili tendono a contenere gl’istinti personali,
quando essi suscitano conflitti tra i vari individui, e a promuovere le
inclinazioni benevole che si sviluppano spontaneamente presso tutti
gl'individui. Il termine è sùbito accettato da Spencer -- nei Principi di
psicologia -- il quale ritenne che l’antitesi tra egoismo ed altruismo sia
destinata a scomparire con l’evoluzione morale e farà sempre più coincidere la
sodisfazione del singolo col benessere e la felicità altrui -- Data of Ethics.
Come si vede il fondamento dell’etica altruistica è naturalistico, perchè essa
fa appello agli istinti naturali che portano l’individuo verso gli altri e
intende promuovere lo sviluppo di tali istinti. Il suo termine polemico è
l’etica individualistica del xvm secolo in quanto è un’etica che rivendica i
valori e i diritti dell’individuo contro quelli della società e in particolare
dello stato. Comte, come tutto il romanticismo obbedisce all’esigenza opposta,
che fa leva sul valore preminente dell'autorità statale e perciò la sua etica
prescrive puramente e semplicemente il sacrificio dell'individuo. Non fa perciò
meraviglia che le dottrine interessate alla difesa dell’individuo abbiano
considerato con ostilità e disprezzo la morale dell’altruismo. Così Nietzsche,
identificando l’amor del prossimo coll’altruismo., lo fa condannare da
Zaratustra. Voi andate al prossimo sfuggendo a voi stessi e vorreste far di ciò
una virtù; ma io leggo bene attraverso il vostro altruismo. Voi non sapete
sopportare voi stessi e non vi amate abbastanza: ed ecco che volete sedurre il
vostro prossimo inducendolo all'amore e farvi belli del suo amore -- Also
sprach Zarathustra, sull’Amore del prossimo. Su un terreno più obiettivo e
scientifico Scheler – Sympathie -- nega l’identificazione, presupposta anche da
Nietzsche, dell'altruismoe dell’amore. Egli osserva che gl’atti che si dirigono
verso gl’altri in quanto altri non sono sempre necessariamente amore.
L’invidia, la cattiveria, la gioia maligna, si riferiscono egualmente agli
altri in quanto altri. Un amore che fa completamente astrazione da se stesso
poggia su un odio ancora più primitivo, cioè l’odio verso se stesso. Il fare
astrazione da sè, il non poter sopportare il colloquio con se stesso, son cose
che non hanno niente a che vedere con l’amore. In realtà la massima dell’altruismo,
vivere per gli altri, se presa alla lettera, farebbe di tutti gli uomini mezzi
per un fine che non esiste; ed è perciò contraria ad uno dei teoremi meglio
stabiliti dell’etica moderna, e in generale dell’etica, cioè a quello per il
quale l’uomo non deve mai essere considerato come un semplice mezzo, ma deve
sempre avere, anche, valore di fine. AMABIMUS. V. PURPURFA. L’AMBIENTE -- Environment;
Milieu; Mittel – e, nel significato corrente, un complesso di rapporti tra
mondo naturale ed essere vivente, che influiscono sulla vita e sul
comportamento dello stesso essere vivente. In questo senso la parola -- milieu
ambiant -- è probabilmente introdotta nell’uso da St.-Hilaire -- Études
progressives d'un naturaliste -- e ripresa e adoperata da Comte -- Cours de
philosophie positive. Osservazioni sull’influenza delle condizioni fisiche, e
specialmente del clima, sulla vita degl’animali in generale e in particolare su
quella dell’uomo, ed anche sulla vita politica dell’uomo, si trovano
frequentemente negli scrittori antichi -- si confronti, per es., IPPOCRATE,
Arie acque luoghi, 14-24; ARISTOTELE, Pol. -- e sono state poi variamente
ripetute. Nel mondo moderno si deve a Montesquieu -- L’Esprit des Lois -- il
principio, da lui sistematicamente sviluppato, che il carattere dello spirito e
le passioni del cuore sono estremamente differenti nei diversi climi e che
perciò le leggi devono essere relative e alla differenza di queste passioni e
alla differenza di questi caratteri. Il positivismo ottocentesco attribuì all’ambiente
fisico e biologico il valore di causa determinante di tutti i fenomeni
propriamente umani, dalla letteratura alla politica. L’opera letteraria e
filosofica di Taine contribuì alla diffusione di questa tesi, secondo la quale
l’ambiente fisico, biologico e sociale determina necessariamente tutti i
prodotti e i valori umani e basta a spiegarli. Nella Filosofia dell’arte Taine
afferma che l’opera d’arte è il prodotto necessario dell'ambiente e che
conseguentemente si può derivare da questo non solo lo sviluppo delle forme
generali dell'imaginazione umana, ma anche quella che spiega le variazioni
degli stili, le differenze delle scuole nazionali, e perfino i caratteri
generali delle opere individuali. Nel mondo contemporaneo la nozione d’ambiente
è rimasta fondamentale nelle scienze biologiche, antropologiche e sociologiche
ma si è venuta gradualmente trasformando giacchè la relazione tra l’ambiente e
l’organismo o l’uomo o il gruppo sociale non è stata più intesa secondo uno
schema meccanico cioè come una relazione di determinismo causale assoluto.
L’azione selettiva che l’essere, sul quale l’ambiente agisce, esercita nei
confronti dell’A. stesso è stato ampiamente sottolineato. L'ambiente d’un
organismo, ha detto Goldstein, non è qualcosa di compiuto ma si forma
continuamente a misura che l’organismo vive ed agisce. Si potrebbe dire che
l’A. è estratto dal mondo dalla esistenza dell’organismo, o meglio, per
esprimersi più oggettivamente, che un organismo non può esistere se esso non
riesce a trovare nel mondo, a ritagliarsi in esso, un A. adeguato, a condizione
naturalmente che il mondo gliene offra la possibilità -- Aufbau des Organismus.
Analogamente, a proposito dell’ambiente storico-sociale, Toynbee ha detto: L’ambiente
totale, geografico e sociale, in cui è compreso sia l’elemento umano, sia il
non umano, non può essere considerato come un fattore positivo da cui le
civiltà sono state generate. È chiaro che una combinazione virtualmente
identica dei due elementi dell’ambiente può originare una civiltà in un caso e
mancare di originare una civiltà in un altro, senza che sia possibile da parte
nostra spiegare questa differenza assoluta nel loro sorgere con qualche
sostanziale differenza nelle circostanze, per quanto si possono definire
esattamente i termini della comparazione » (A Study of History, I, pag. 269).
Questo ovviamente non significa che l’A. non agisca affatto sulla vita e sulle
creazioni degli uomini ma solo che ne è piuttosto la condizione che la causa. I
filosofi hanno sottolineato questo nuovo significato dell'ambiente. Mead ha
detto: « L’A. è una selezione che è dipendente dalla 20 AMBIGUITÀ forma
vivente» (Phil. of the Act, pag. 164). Dall’altro lato Heidegger ha inteso la
sua analisi dell’essere nel mondo (che è determinazione essenziale
dell’esistenza) quale una messa in questione e in discussione di quella nozione
di A. che la biologia non fa che presupporre (Sein und Zeit, $ 12). AMBIGUITÀ
(ingl. Ambiguity; franc. Ambiguité; ted. Ambiguitàt). 1. Lo stesso che
Equivocazione (v.). 2. Riferito a stati di fatto o situazioni: possibilità di
interpretazioni diverse o presenza di alternative escludentisi. AMBIVALENZA
(ingl. Ambivalence; francese Ambivalence; ted. Ambivalenz). Uno stato
caratterizzato dalla presenza simultanea di valutazioni o di atteggiamenti
contrastanti od opposti. Il termine è usato specialmente in psicologia per
indicare certe situazioni emotive che implicano amore e odio, e in generale
atteggiamenti opposti, nei confronti del medesimo oggetto (cfr. E. BLeuLER,
Lehrbuch der Psychiatrie. AMERICA (ingl. America; franc. Amérique; ted.
Amerika). I filosofi del Romanticismo hanno avuto una parte importante in
quella « disputa del Nuovo Mondo» che, cominciata verso la metà del *700,
ancora, si può dire, perdura, a proposito dell’inferiorità o superiorità
dell'America. La tesi della debolezza o della « immaturità » delle Americhe
nasce con Buffon che esaminando comparativamente le specie animali in A. e in
Europa, concludeva che in A. «la natura vivente è assai meno attiva, è assai
meno varia e si può dire assai meno forte » (CEuvres, ediz. 1826-28, XV, 429).
Le tesi di Buffon venivano polemicamente amplificate dall’abate De Paw in uno
scritto del 1768, Recherches philosophiques sur les Américains. Nelle mani di
Hegel le notazioni di Buffon e De Paw divengono, conformemente al sistema e
allo spirito di lui, «determinazioni assolute +, verità necessariamente
dedotte. L’A. è un mondo nuovo nel senso di essere immaturo e fiacco; la fauna
vi è più debole, ma in compenso la vegetazione è mostruosa. Mancano in essa i
due strumenti di progresso civile, il ferro e il cavallo (Enc., $ 339, Zus.).
L'A. è quindi un mondo nuovo nel senso che è giovane ed immaturo. Perfino il
mare tra l’A. del sud e l’Asia « manifesta una immaturità fisica anche quanto
alla sua origine ». E per tutto questo « l’A. si è sempre mostrata e si mostra
ancora impotente tanto dal punto di vista fisico quanto da quello spirituale »
(Phil. der Geschichte, ediz. Lasson, pag. 122 e sgg.). È bensì vero che, forse
proprio per questa immaturità, l'A. è «il Paese dell’avvenire, quello a cui, in
tempi futuri, forse nella lotta fra il nord e il sud, si rivolgerà l’interesse
della storia universale ». Ma Hegel aggiunge sùbito: « Come paese dell’avvenire,
essa assolutamente non ci riguarda. Il filosofo non s'intende di profezie. Dal
lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e con
ciò che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo nè di ciò che soltanto è
stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: della ragione; e
con ciò abbiamo abbastanza da fare » (Ibid., ediz. Lasson, pag. 129).
Schopenhauer dal canto suo ripeteva le osservazioni (se così possono chiamarsi)
sull’inferiorità della fauna americana e degli indigeni; e aggiungeva, nel
linguaggio fiorito delle sue invettive, una descrizione degli Stati Uniti come
di un paese prospero ma dominato da un vile utilitarismo e dalla sua
immancabile compagna, l’ignoranza, che ha aperto il cammino alla stupida
bigotteria anglicana, alla sciocca presunzione e alla brutale volgarità
congiunta a una stolta venerazione per le donne (Die Welt, II, 44; Parerga, II,
VI, $ 92). Alla stessa tendenza denigratrice non si sottrae l’altro corno del
Romanticismo, il positivismo che, per bocca di Comte, svaluta la portata della
rivoluzione americana, vede negli Stati Uniti una «colonia universale » e
considera la loro civiltà completamente priva di originalità e semplice
filiazione della civiltà inglese (Cours de phil. positive, V, 470-711; VI,
60n). D'altra parte lo stesso Romanticismo suggeriva ad Emerson un’esaltazione
mistica dell’A. altrettanto fantasica ed arbitraria delle denigrazioni dei
romantici europei (The American Scholar, 1837; The Young American, 1844). Già
Humboldt notava (Ansichten der Natur, 1807) il carattere arbitrario e
fantastico di quelle notazioni che pretendevano di essere « scientifiche » o «
speculative » e che erano soltanto dogmatizzazioni di pregiudizi. Ma con tutto
ciò gli elementi della polemica intorno al Nuovo Mondo sono rimasti per lungo
tempo e forse ancor oggi rimangono quelli che abbiamo accennato. (Per maggiori
particolari, cfr. A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli,AMICIZIA
(gr. quia; ingl. Friendship; francese Amitié; ted. Freundschaft). In generale
la comunità di due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti e
da affetti positivi. Gli antichi ebbero dell’A. un concetto assai più esteso di
quello che oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta
dall’analisi che Aristotele dette di essa nei libri VIII e IX dell’Etica
Nicomachea. L’amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente
congiunta con la virtù: comunque, è ciò che c’è di più necessario alla vita
giacchè i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc., non si
possono nè conservare nè adoperar bene senza gli amici (VIII, 1, 1155 a 1).
L’A. va distinta in primo luogo dalle due cose AMMIRAZIONE 21 cui sembra più
strettamente affine, cioè dall’amore e dalla benevolenza. Essa si distingue
dall’amore (ptc) perchè l’amore è simile ad un’affezione (v.), l’A. a un abito
(v.). Sicchè l’amore si può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il
riamare, che è proprio dell’A., implica una scelta che deriva da un abito
(VIII, 5, 1157b 28). Inoltre, all'amore si accompagnano l’eccitazione e il
desiderio, che sono estranei all’A.; ed esso, a differenza dell’A., è provocato
dal godimento che dà la vista della bellezza (IX, 5, 1166b 30). Si distingue
poi dalla benevolenza perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può
rimanere nascosta: il che non accade dell’A. (IX, 5, 1167 a 10). L’A. è
certamente una specie di concordia, ma una concordia che non riposa
sull’identità delle opinioni ma piuttosto, come la concordia delle città,
sull’armonia degli atteggiamenti pratici, sicchè a giusto titolo si chiama « A.
civile » la concordia politica (IX, 6, 1167 a 22). L’A. è poi certamente una
comunità nel senso che l’amico si comporta verso l’amico come verso se stesso
(IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante specie di amicizie quante sono le comunità,
cioè le parti della società civile: quella tra i naviganti, quella tra i
soldati, quella tra coloro che fanno un qualsiasi lavoro comune (VIII, 9, 1159b
25). Vi può essere anche A. tra il padrone e lo schiavo, se lo schiavo è
considerato, non più soltanto come uno strumento animato, ma come un uomo. Solo
nella tirannide c'è poca o nulla A.: giacchè in essa non c’è niente in comune
tra chi comanda e chi obbedisce, e l’A. è tanto più forte quante più sono le
cose comuni tra uguali (VIII, 11, 1161 b 5). Ci sono, anche, tante A. quante
sono le forme dell'amore: quella del padre col figlio, del giovane col vecchio,
del marito con la moglie. Quest’ultima è quella più naturale e ad essa si
congiungono l’utilità e il piacere (VIII, 12, 1161b 11). Quanto al fondamento
dell’A., esso può essere o l’utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è
chiaro che mentre un’A. fondata sull’utilità o sul piacere è destinata a finire
quando il piacere o l’utilità cessano, l’A. fondata sul bene è la più stabile e
ferma ed è quindi la vera A. (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.). Quest’analisi
aristotelica, che è la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato del
fenomeno dell’A., s’incardina sui seguenti punti: 1° I’A. è una certa comunità
cioè una partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni
determinati; 2° essa è collegata con l’amore e ne segue le forme ma non
s’identifica con l’amore; 3° essa si avvicina piuttosto alla benevolenza ed è
perciò collegata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano
sollecitudine, cura, pietà, ecc. L'A. è così, secondo Aristotele, più estesa
dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bellezza. Ed è
diversa dall’amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele
dice che l’amore è un’affezione (r&80c) cioè una modificazione subita
mentre l’A. è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva
e impegnativa della persona. Dopo Aristotele, l’A. trovò i suoi esaltatori
negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro
condotta pratica. Essa assume però presso questa scuola un carattere
aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come
la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle
testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune notazioni aristoteliche, per
es., questa: « L’A. è nata dall’utile ma essa è un bene per sè. Amico non è chi
cerca sempre l’utile nè chi non lo congiunge mai con l’A.: giacchè il primo
considera l'A. come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge la fiduciosa
speranza di aiuto che è tanta parte dell’A.» (Sent. Var., 39-24, Bignone). Col
prevalere del Cristianesimo l’importanza dell'A. come fenomeno umano primario,
decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e più importante
diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca dei caratteri
selettivi e specifici, che Aristotele aveva riconosciuto all’amicizia. Difatti
« prossimo » è colui col quale c’imbattiamo o che è comunque in rapporto con
noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima aristotelica dell’A.,
«comportarsi verso l’amico come verso se stesso », vedere in lui « un altro se
stesso » (Er. Nic., IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32), viene estesa dal
Cristianesimo a tutto il prossimo. AMMIRAZIONE -- Gavpdtew; Admiratio; Wonder;
Admiration; Bewunderung, Staunen --, secondo gli antichi l’A. è il principio
della filosofia. Platone dice: « Questa emozione, questa A. è propria del
filosofo; nè la filosofia ha altro principio fuori di questo; e chi affermò che
Iride è figliola di Taumante non ha secondo me tracciato male la genealogia»
(7eet., 11, 155d). E Aristotele: «In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per
la prima volta a filosofare ed anche ora filosofano: da principio cominciarono
ad ammirare le cose intorno a cui era più facile il dubbio, poi procedettero a
poco a poco a dubitare anche delle cose maggiori, come, ad es., delle affezioni
della luna e di ciò che concerne il sole e le stelle e della generazione
dell’universo. Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è
anche amatore del mito: il mito consiste infatti di cose mirabili» (Mer., I, 2,
982b 12 sgg.). Al principio dell’età moderna Cartesio ha espresso lo stesso
concetto: « Quando ci si presenta qualche oggetto insolito e che giudichiamo
nuovo o diverso da ciò che prima conoscevamo o 22 AMMISSIONE supponevamo che
fosse, questo oggetto fa sì che noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e
poichè ciò accade prima che noi sappiamo se l’oggetto ci sia utile o meno, l’A.
mi appare come la prima di tutte le passioni; ed essa non ha opposto perchè se
l’oggetto che si presenta non ha in sè niente che ci sorprenda, noi non siamo
affetti da esso e lo consideriamo senza passione» (Passions de lame, II, 53).
Su questo punto la differenza tra Cartesio e Spinoza è grande: Spinoza
considerò l’A. solo come l’imaginazione di una cosa a cui la mente rimane
attenta per essere essa priva di connessione con altre cose (E:., III, 52 e scol.)
e si rifiutò di considerarla come una emozione primaria e fondamentale, tanto
meno come una emozione filosofica o che sia all'origine della filosofia.
L'unico atteggiamento filosofico è per lui l’amore intellettuale di Dio, la
contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria di tutte le
cose nella Sostanza divina. Per Aristotele e per Cartesio l’A. è invece
l’atteggiamento che è alla radice del dubbio e della ricerca: è il prender
coscienza di non comprendere ciò che si ha davanti e che, anche se è per altri
rapporti familiare, ci si rivela, ad un certo punto, inspiegabile e
meraviglioso. Kant parlava dell'A. a proposito della finalità della natura, in
quanto è inesplicabile con i concetti dell’intelletto (Crit. del Giud., $ 62).
A sua volta Kierkegaard definiva l’A. come «il sentimento appassionato del
divenire» e la riteneva propria del filosofo che considera il passato, come un
segno della non necessità del passato. «Se il filosofo non ammira nulla (e come
potrebbe senza contraddizione ammirare una costruzione necessaria?) egli è con
ciò estraneo alla storia; giacchè dovunque entra in gioco il divenire (che
certamente è nel passato) l’incertezza di ciò che è sicuramente divenuto
(l’incertezza del divenire) non può esprimersi che mediante questa emozione
necessaria al filosofo e propria di lui » (Philosophische Brocken, p. IV, $ 4).
Whitehead ha detto «la filosofia nasce dell’A.» (Nature and Life, 1934, 1).
AMMISSIONE (ingl. Admission; franc. Admission; ted. Aufnahme). Una proposizione,
che si assume da altri (in quanto altri l'hanno già proposta oppure in quanto
si trova ad essere comunemente adoperata) allo scopo di fondare su di essa un
qualche ragionamento o di effettuare a partire da essa una qualche inferenza.
Oppure: l’atto di assumere una proposizione siffatta. La proposizione ammessa
può essere ritenuta o vera o falsa o probabile o indifferente; se la si ritiene
vera la si chiama un assioma; se probabile, un’ipotesi; se indifferente, un
postulato. Ma essa può essere ammessa anche solo allo scopo di confutarla,
mediante una riduzione all’assurdo. Dall’assurzione (v.) l'A. si distingue in
quanto concerne una proposizione la cui scelta o proposta, come base di un
ragionamento, è già stata fatta da altri. AMORALE, AMORALISMO (ingl. Amoral,
Amoralism; franc. Amoral, Amoralisme; ted. Amoralisch, Amoralismus).
L’aggettivo «A.» designa propriamente ciò che è indifferente alle valutazioni
morali: in questo senso un uomo A. è un uomo sulla cui condotta i giudizi sul
bene e sul male non hanno alcuna presa e che perciò si regola indipendentemente
da essi. Il termine « amoralismo » designa invece una professione di amoralità
e perciò la pretesa di prescindere dai valori della morale currente e di
sostituirvi altri valori; in questo senso esso è stato spesso adoperato per
designare l’atteggiamento di Nietzsche (v. TRASMUTAZIONE DEI VALORI). L’espressione
‘AMOR DI SÉ’ -- puavria; self-love; amour de soi; Selbstliebe -- non deve
essere confusa nè con « amor proprio » che significa vanità, o, nel migliore
dei casi, senso di fierezza o di orgoglio, nè con egoismo. Aristotele distinse
la filautia, che è una virtù, dall’egoismo volgare di chi ama se stesso in
quanto vuole attribuirsi la maggior parte di lucro, di piaceri e di onori. « Il
filautos, egli disse, è piuttosto colui che si appropria del bello e del bene e
si dà ad esso in signoria e gli obbedisce in tutto » (Er. Nic., IX, 8, 1168 a,
28). In altre parole, chi ama se stesso nel vero senso, non pretende la parte
maggiore del piacere, degli onori o del lucro, ma la parte maggiore del bene e
del bello, cioè l'esercizio della virtù. In senso analogo, S. Tommaso afferma
che l’uomo ama se stesso quando ama la sua natura spirituale, non quella
corporea e che in tal senso egli deve amare se stesso dopo Dio ma prima di
qualsiasi altro; sicchè, per es., non può sopportare d’incorrere in peccato per
liberare il prossimo dal peccato (S. 7A., II, II, q. 26, a. 4). Nell’età
moderna, Malebranche (nella Première lettre au R. P. Lamie) ha ripreso la
distinzione tra amor proprio e A. considerando il primo come la fonte di tutte
le sregolatezze umane e il secondo invece come il principio di tutti gli sforzi
per il compimento del dovere. La distinzione fu ripresa da Vauvenargue (De
l’esprit humain, 24): «Con l’amore di noi stessi si può cercare la propria
felicità fuori di sè. Si può amare qualcosa fuori di sè più che la propria
esistenza e non si è per se stessi l’unico oggetto. L’amor proprio al contrario
subordina tutto alle proprie comodità e al proprio benessere, e ha in se stesso
l’unico oggetto e l’unico fine; sicchè mentre le emozioni che vengono dall’A.
dànno noi alle cose, l’amor proprio vuole che le cose si diano a noi e fa di sè
il centro di tutto ». Kant, pur considerando l’A. di sì come una specie dell’egoismo
(inteso però nel senso più generale di desiderio AMORE 23 della felicità) lo
distingueva come benevolenza verso di sè (o philautia) portata all’estremo,
dalla compiacenza verso se stesso (o arrogantia) e lo riteneva suscettibile di
accordarsi con la legge morale e di diventare «amore razionale di sè » (Crit.
R. Prat., libro I, cap. III, A 129). Le analisi di Scheler hanno insistito sul
carattere non egoistico dell’A. di sé: «L’amore orientato verso i valori e, per
il loro tramite, verso gli oggetti che ne sono i portatori, senza preoccuparsi
di sapere a chi appartengono questi valori, se a ‘ me’ o ad ‘altri’ »
(Symparhie, II, cap. I, $ D. AMORE
(gr. tpwc, dyamn; lat. Amor, Caritas; ingl. Love; franc. Amour; ted. Liebe). I significati che questo termine presenta nel
linguaggio comune sono molteplici, disparati e contrastanti; e altrettanto
molteplici, disparati e contrastanti sono quelli che esso presenta nella
tradizione filosofica. Cominceremo con l’accennare agli usi più correnti del
linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e servircene come criterio per
selezionare e ordinare gli usi filosofici del termine stesso: @) in primo luogo
con la parola A. si designa il rapporto intersessuale, quando questo rapporto è
selettivo ed elettivo ed è perciò accompagnato dall’amicizia e da affetti
positivi (sollecitudine, tenerezza, ecc.). Dall’A. in questo senso si
distinguono spesso le relazioni sessuali a base puramente sensuale, che sono
fondate non già sulla scelta personale ma sull'’anonimo ed impersonale bisogno
di rapporti sessuali. Spesso però lo stesso linguaggio comune estende anche a
questo tipo di rapporti la parola A., come quando si dice « fare all’A. +; 5)
in secondo luogo la parola A. designa una vasta gamma di rapporti
inter-personali; come quando si parla dell’A. dell'amico per l’amico, del padre
per il figlio o reciprocamente, dei cittadini tra di loro, dei coniugi tra di
loro; c) in terzo luogo si parla dell’A. per cose od oggetti inanimati: per
es., l’A. del denaro, dei quadri, dei libri, ecc.; d) in quarto luogo si parla
dell’A. per oggetti ideali: per es., l'A. della giustizia, del bene, della
gloria, ecc.; e) in quinto luogo si parla dell’A. per attività o forme di vita:
A. del lavoro, della propria professione, del gioco, del lusso, del divertimento,
ecc.; f) in sesto luogo si parla di A. per comunità o enti collettivi: per es.,
amor di patria, amor di partito, ecc.; g) in settimo luogo si parla di A. del
prossimo e di A. di Dio. Indubbiamente alcuni di questi significati si possono
eliminare come impropri perchè possono essere espressi e designati più
esattamente da altre parole. Così: a) per ciò che riguarda il rapporto
inter-sessuale lo si può designare come A. solo quando esso è a base elettiva e
implica l’impegno personale reciproco. Si potrà così evitare di designare come
« A.» il rapporto sessuale occasionale o anonimo. Per ciò che concerne gli usi
indicati sotto c) (cioè A. di oggetti inanimati), è chiaro che qui la parola «
A.» sta per desiderio di possesso, quando tale desiderio raggiunge la forma
dominante della passione. E per ciò che concerne gli usi indicati sotto d) (A.
di oggetti ideali) è anche chiaro che la parola « A.» sta qui per indicare un
certo impegno morale atto a segnare limiti e condizioni all’attività
dell’individuo. Infine per ciò che riguarda e) (A. di attività, ecc.) la parola
« A.» sta ad indicare un certo interesse più o meno dominante, cioè tutivi
dell’A. non può essere determinato una volta per tutte giacchè esso è diverso a
seconda delle forme o delle specie diverse dell’A. ed implica anche gradi
diversi di intimità, di intrinsichezza e di forma emotiva. Per es., l’A. tra
uomo e donna o quello tra padre e figlio o quello tra cittadini o quello tra
uomini che si considerano l’un l’altro come « prossimo », hanno differenti basi
biologiche, culturali e sociali e non si lasciano ricondurre a uno stesso tipo
o forma di solidarietà, di concordia e di compartecipazione emotiva. Bisognerà
pertanto tenere presente questa diversità nella considerazione dell’uso che i
filosofi hanno fatto del termine, giacchè spesso quest’uso si modella su uno o
più tipi particolari di esperienza amorosa. I Greci videro nell’A. soprattutto
una forza unitiva e armonizzatrice e la intesero sul fondamento dell'A.
sessuale, della concordia politica e dell'amicizia. Secondo Aristotele (Mer.,
I, 4, 984 b 25 sgg.), Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che l’A. è
la forza che muove le cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle
riconobbe nell’A. la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia
la forza che li separa: il regno dell’A. è lo sfero, la fase culminante del
ciclo cosmico, nella quale tutti gli elementi sono legati nella più completa
armonia. In questa fase non c’è nè il sole, nè la terra, nè il mare perchè non
c’è altro che un tutto uniforme, una divinità che gode della sua solitudine
(Fr. 27, Diels). Pla24 AMORE tone ci ha data la prima trattazione filosofica
dell'A.: da essa vengono assunti e conservati i caratteri dell’A. sessuale; e
nello stesso tempo tali caratteri vengono generalizzati e sublimati. In primo
luogo, l’A. è mancanza, insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio
di acquistare e conservare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, seguenti). In
secondo luogo l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che
l'annuncio e l’apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (/bid., 205
e). In terzo luogo l’A. è desiderio di vincere la morte (com’è dimostrato
dall’istinto di generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso
la quale l’essere mortale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo
sempre lo stesso, come fa l'essere divino, ma lasciando dopo di sè in cambio di
ciò che invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (/bid., 208 a,
b). In quarto luogo, Platone distingue tante forme dell’A. quante sono le forme
del bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della
sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi
il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la
via attraverso la quale l’A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè
filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai
modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica
(Fedro, 265 b, seguenti). Questa dottrina platonica dell’A., mentre contiene
gli elementi di un’analisi positiva del fenomeno, offre anche il modello di una
metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della
filosofia. Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva
dell'amore. Per lui l’A. o è l’A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei © tra
persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia (v.). In
generale l’A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, appartengono
non all’anima come tale ma all’uomo in quanto è composto di anima e corpo (De
An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di
anima e corpo. Aristotele inoltre riconosce all’A. quel fondamento di bisogno,
imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva insistito. La divinità, egli
dice, non ha bisogno di amicizia giacchè essa è il suo proprio bene a se
stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud., VII, 12, 1245b 14). L’A.
è quindi un fenomeno umano e non c’è da meravigliarsi che di esso Aristotele
non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è un’affezione, cioè una
modificazione passiva, mentre l’amicizia è un abito, cioè una disposizione
attiva (Ef. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). AIl’A. si congiunge la tensione emotiva
e il desiderio: nessuno è preso da A. se non sia stato prima colpito dal
godimento della bellezza; ma questo godimento di per sè non è ancora A., che si
ha soltanto se si desidera l’oggetto amato quando è assente e se lo si brama
quando è presente (/bid., IX, 5, 1167 a 5). L’A. che è legato al piacere può
cominciare e finire rapidamente ma può anche dar luogo alla volontà di vivere
insieme; e in questo caso assume la forma dell’amicizia (/bid., VII, 3, 1156 b
4). Se l’analisi aristotelica dell'A. è priva di riferimenti metafisici e
teologici, bisogna ricordare che l'ordinamento finalistico del mondo e la
teoria del primo motore immobile conducono Aristotele a dire che Dio, come
primo motore, muove altre cose «come oggetto d°A.+, cioè come termine del
desiderio che le cose hanno di raggiungere la perfezione di lui (Met., XII, 7,
1072b 3). Questa notazione sarà largamente adoperata dalla filosofia medievale.
Sul finire della filosofia greca, il neoplatonismo ha adoperato la nozione
dell’A. non già per definire la natuogni « prossimo»; dall’altro lato esso si
trasforma in un comando, che non ha connessioni con le situazioni di fatto e
che si propone di trasformare queste situazioni e di creare una comunità che
non esiste ancora ma che dovrà rendere tutti gli uomini come fratelli: il regno
di Dio. L’A. del prossimo diventa il comando della nonresistenza al male
(MatT., 5, 44); ela parabola del buon Samaritano (Luc., 10, 29 sgg.) tènde a
definire l'umanità cui l’A. deve dirigersi, non nel suo senso composto, ma nel
suo senso diviso, come ogni persona con la quale ciascuno venga a contatto; la
quale proprio come tale fa appello alla sollecitudine e all’A. del cristiano.
Inoltre, nella concezione cristiana, Dio stesso risponde con l'A. all’A. degli
uomini, perciò il suo attributo fondamentale è quello di « Padre». Le Lettere
di S. Paolo, identificando il regno di Dio con la Chiesa e considerando nella
Chiesa il « corpo di Cristo » di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.)
fanno dell’A. (&y&mm) che è il vincolo della comuAMORE 25 nità
religiosa, la condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello
Spirito, la profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. « L’A.
sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la
fede, la speranza, l’amore, queste tre cose; ma l’amore è la maggiore di tutte
» (Cor., I, 13, 7-13). L’elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel
periodo della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell’amore.
Nei grandi sistemi della Patristica orientale (Origene, Gregorio di Nissa) la
terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza
subordinata di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute
trinitarie che il concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto.
Soltanto per opera di S. Agostino, con l’identificazione dello Spirito Santo
con l’A. (mentre Dio Padre è l’Essere e Dio Figlio è la Verità) l’A. viene
introdotto esplicitamente nella stessa essenza divina e diventa un concetto
teologico, oltre che morale e religioso. L’A. di Dio e l'A. del prossimo si
uniscono in S. Agostino quasi a formare un concetto unico. Amare Dio significa
amare l’A.; ma, dice Agostino, «non si può amare l’A. se non si ama chi ama».
Non è A. quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è
l’A., se non ama l’altro uomo. L'A. fraterno fra gli uomini «non solo deriva da
Dio, ma è Dio stesso» (De Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei
suoi aspetti essenziali, alla coscienza degli uomini. La nozione dell’A. rimane
tuttavia in S. Agostino quella che era per i Greci, una specie di rapporto,
unione o vincolo che lega un essere con l’altro: quasi «una vita che unisce o
tende ad unire due esseri, l’amante e ciò che si ama » (2bid., VII, 6). Le
notazioni agostiniane vengono riprese frequentemente lungo tutto lo sviluppo di
una delle principali correnti della Scolastica medievale, cioè dell’Agostinismo
(v.): da Giovanni Scoto Eriugena a Giovanni Duns Scoto. Scoesseri creati; ma
1’A. intellettuale, che è carità e virtù, è più perfetto del primo, quindi,
aggiungendosi ad esso, lo perfeziona, nel modo stesso in cui la verità
soprannaturale si aggiunge, senza contrastarla, alla verità naturale e la
perfeziona (S. Th., I, g. 60, a. 1). Quanto all’A. intellettuale, cioè alla
carità, questa è definita da S. Tommaso come « l’amicizia dell’uomo verso Dio
»: intendendosi per « amicizia +, secondo il significato aristotelico, l'A. che
è congiunto con la benevolenza (amor benevolentiae) cioè che vuole il bene di
colui che si ama, e non vuole semplicemente appropriarsi del bene che è nella
cosa amata (amor concupiscientiae) come accade in chi ama il vino o un cavallo.
Ma l’amicizia suppone non solo la benevolenza ma anche il mutuo A. e così si
fonda su una certa comunicazione, che, nel caso della carità, è quella
dell’uomo con Dio, che comunica a noi la Sua beatitudine (/bid., II, 2, q. 23,
a. 1). Questa comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che c'è di proprio nell’A.:
esso è una specie di unione o vincolo (unio ve/ nexus) di natura affettiva, che
è simile all’unione sostanziale in quanto chi ama si comporta verso l’amato
come verso se stesso. Una unione reale è poi anche l’effetto dell’A.; ma si
tratta di un'unione che non àltera o corrompe coloro che si uniscono ma si
mantiene nei limiti opportuni e convenienti: per es., fa sì che parlino e
dialoghino insieme o si cogiungano in altri modi siffatti (/bid., II, 1, q. 28,
a. 1, ad 2°). In quanto « amare » significa voler il bene di qualcuno, l'A.
appartiene alla volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor di Dio è diverso da
quello umano perchè mentre quest’ultimo non crea la bontà delle cose ma la
trova nell’oggetto da cui è suscitato, l’A. di Dio infonde e crea la bontà
nelle cose stesse (bid., I, q. 20, a. 2). La speculazione teologica sull’A.
ritorna nel platonismo rinascimentale; ma questo accentua la reciprocità
dell'A. tra Dio e l’uomo, conformemente alla tendenza propria del Rinascimento
a insistere sul valore e la dignità dell’uomo come tale. Mar26 AMORE silio
Ficino afferma che l’A. è il legame del mondo e abolisce l’indegnità della
natura corporea che viene riscattata dalla sollecitudine di Dio (Theo/. Plat.,
XVI, 7). L’uomo non potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non lo amasse; Dio si
rivolge al mondo con un libero atto di A., prende cura di esso e lo rende vivo
ed attivo. L’A. spiega la libertà dell’azione divina come quella dell’azione
umana, giacchè esso è libero e nasce spontaneamente dalla libera volontà (In
Conv. Piat. de Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti ritornano nei Dialoghi
d’A. di Leone Ebreo che ebbero vastissima diffusione nella seconda metà del
’500. Ma anche nel naturalismo del Rinascimento l’A. ritorna talvolta come
forza metafisica e teologica. Campanella ritiene che le tre primalità
dell’essere (cioè i principi costitutivi del mondo) siano il Potere, il Sapere
e l’A. (Mer., VI, proem.). L’A. infatti appartiene a tutti gli enti perchè
tutti amano il loro esszione di A. si può considerare, nella tradizione
filosofica, come un portato dell’agostinismo; almeno fino al Romanticismo dal
quale questa nozione viene ricondotta ad un senso panteistico, il cui
precedente più importante è Spinoza. Bisogna poi tener presente che l’uso
teologico della nozione di A. implica non solo che Dio sia oggetto d’A. (il che
non è negato da nessuna concezione cristiana della divinità) ma che Egli stesso
ami: il che è cosa completamente diversa e che per l’appunto si ritrova
soltanto nell’agostinismo, nel Romanticismo e in talune concezioni che, come
quella di Feuerbach e del positivismo moderno, tendono a identificare Dio con
l’umanità. In realtà l’A., nel suo concetto classico, che si modella sulla
esperienza umana, ha come sua condizione la mancanza, e quindi il desiderio e
il bisogno, di ciò che si ama; difficilmente può essere pertanto attribuito a
Dio che nella sua completezza e infinità si sottrae a ogni deficienza. La
concezione panteistica dell’A., per es., come quella di Spinoza, di Schelling e
di Hegel, si sottrae a questa difficoltà solo interpretando l’A. come unità o
coscienza dell’unità, cioè in un modo che non trova riscontro in qualsiasi tipo
di esperienza amorosa. L’unità, sia essa o no cosciente di sè, non ha niente a
che fare con l’A. ed è anzi la negazione di esso perchè esclude il rapporto e
la comunità che costituiscono l’A. in tutte le sue manifestazioni. È abbastanza
ovvio che dove c'è una cosa sola non c’è nè chi ami nè chi sia amato. Alla
tradizione agostiniana si possono riportare le famose parole di Pascal: «Il Dio
di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio
di A. e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli
ch’Egli possiede e fa loro sentire interiormente la loro miseria e la Sua
misericordia infinita » (Pensées, 556, Brunschwicg). Ma è dubbio che in questo
o simili testi di Pascal si possa vedere molto più della nozione che Dio è, in
primo luogo e soprattutto, oggetto d'amore. Quanto a Malebranche, egli afferma
che Dio ha creato il mondo « per procurarsi un onore degno di Lui» (Recherche
de la vérité, IX) e fa dire al Verbo: «È la mia potenza che fa tutto, così il
bene come il male... perciò tu devi amare solo me perchè nessuno all’infuori di
me produce in te i piaceri che tu sperimenti in occasione di ciò che accade nel
tuo corpo » (Medirations chrétiennes, XII, 5); parole che sembrano escludere la
dottrina di Dio come amore. Le notazioni di Cartesio intorno al fenomeno
dell’A., riportato alla scala umana, sono importanti. «L’A., egli dice, è un’emozione
dell’anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali che la incita a
congiungersi volontariamente con gli oggetti che le appaiono convenienti». In
quanto è prodotta dagli spiriti l’A., che è un’affezione e dipende dal corpo, è
diversa dal giudizio che anche induce l’anima, di sua libera volontà, a unirsi
con le cose che essa crede buone (Pass. de l’dme, II, 79). L'A. si distingue
altresì dal desiderio, che è rivolto al futuro; esso consente invece di
considerarsi sùbito uniti con ciò che si ama «in modo tale che noi imaginiamo
un tutto di cui siamo solo una parte e di cui la cosa amata è l’altra parte »
(Ibid., 80). Cartesio rigetta la distinzione medievale tra A. di concupiscenza
e A. di benevolenza perchè, egli dice, questa distinzione concerne gli effetti
dell’A. ma non l’essenza di esso: in quanto siamo volontariamente congiunti con
qualche oggetto, quale che sia la natura di questo, abbiamo per esso un senso
di benevolenza e questo è uno dei principali effetti dell’A. (/bid., 81). Ci
sono tuttavia varie specie dell’A., relative ai diversi oggetti che possiamo
amare: I’A. che un uomo ambizioso ha per la gloria, il povero per il denaro,
l’ubbriacone per il vino, un uomo brutale per una donna che desidera violare,
l’uomo d’onore per l’amico o per la moglie e un buon padre per i suoi figli,
sono AMORE 27 specie diverse e tuttavia simili dell'amore. Le prime quattro
tuttavia, sono A. solo del possesso degli oggetti ai quali l'emozione si dirige
e non sono A. degli oggetti in se stessi; le altre invece si dirigono verso
questi stessi oggetti e desiderano il bene di essi (/bid., 82). Di questa
natura è anche l’amicizia; la quale, per di più, è legata alla stima della
persona amata; sicchè non si può avere amicizia per un fiore, un uccello, un
cavallo, ma solo per gli uomini (/bid., 83). In generale, quando stimiamo
l'oggetto dell'A. meno di noi stessi, proviamo per esso un semplice affetto
(v.); quando lo stimiamo come noi stessi, proviamo amicizia; e quando lo
stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Di quest’ultima il principale
oggetto è ovviamente Dio, ma essa può dirigersi anche alla patria, alla città e
a qualsiasi uomo che stimiamo molto più di noi stessi (/bid., 83). Sulla stessa
linea si trova l’analisi di Hume secondo il quale l’A. è un’emozione
indefinibile, di cui però si può intendere il meccanismo. La causa di essa è
sempre un essere pensante (non si possono amare oggetti inanimati) e il
meccanismo con cui questa causa agisce è costituita da una doppia connessione:
una connessione di idee — tra l’idea di sè e l’idea dell’altro essere pensante
— e una connessione emotiva tra l’emozione dell’A. e quella dell’orgoglio (che
è l’emozione che ci mette in rapporto col nostro io); o tra l’emozione
dell'odio e quella dell’umiltà (Diss. on the Passions, II, 2). In generale gli
scrittori del ’700 insistono sulla connessione dell’A. con la benevolenza: che
è il tratto su cui aveva insistito Aristotele a proposito dell'amicizia.
Leibniz ha espresso nella forma più chiara, che doveva essere ripetuta numerose
volte nella letteratura del ’700, questa nozione dell’amore. « Quando si ama
sinceramente una persona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann, pag. 789790) non
si cerca il proprio profitto nè un piacere staccato da quello della persona
amata, ma si cerca il proprio piacere nell’appagamento e nella felicità di
questa persona; e se questa felicità non piacesse di per se stessa ma solo a
causa di un vantaggio che ne risulta per noi, non si tratterebbe più di un A.
sincero e puro. Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in questa
felicità e che si provi dolore nell’infelicità della persona amata; giacchè ciò
che dà immediatamente piacere di per se stesso è anche desiderato di per se
stesso come costituente (almeno in parte) lo scopo dei nostri intenti e come
qualcosa che entra nella nostra propria felicità e ci dà sodisfazione ». Questa
nozione dell’A. toglie, secondo Leibniz, il contrasto fra due verità, cioè tra
quella che è impossibile per noi di desiderare altra cosa se non il nostro
proprio bene e quella che non c’è A. se non quando cerchiamo il bene
dell’oggetto amato di per se stesso e non per nostro proprio vantaggio. Questa
nozione ha anche il vantaggio, secondo Leibniz, di esser comune all’A. divino e
all’A. umano perchè esprime ogni tipo di A. « non mercenario », qual è, per
es., la caritas o « benevolenza universale » (Op. Phil., pagina 218). Va da sè
che in questo senso l’A. può rivolgersi solo a « ciò che è capace di piacere o
di felicità »; sicchè non si può dire, se non per metafora, che amiamo le cose
inanimate di cui godiamo (Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo genere
sono assai frequenti negli scrittori del °700. Wolff dice che l’A. è «la
disposizione dell’anima a prender piacere dalla felicità altrui (Psicho!.
empirica, $ 633). E Vauvenargues afferma: « L'A. è il compiacersi nell’oggetto
amato. Amare una cosa significa compiacersi del suo possesso, della sua grazia,
del suo accrescimento, temere la sua privazione, i suoi decadimenti, ecc. + (De
l’esprit humain, $ 24). Nessuno degli scrittori del ”700 mette in dubbio il
fondamento sensibile dell’A.: fondamento per il quale esso si differenzia
dall’amicizia. Vauvenargues, per es., dice: « Nell’amicizia lo spirito è
l'organo del sentimento, nell’A. sono i sensi. E Kant sembra ammettere questo
presupposto quando distingue risolutamente l’A. sensibile o « patologico »
dall’A. « pratico » cioè morale, che è comandato dalla massima cristiana « Ama
Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ». L’amor di Dio, come
inclinazione, dice Kant, è impossibile perchè Dio non è un oggetto dei sensi. E
un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser comandato,
perchè non è in potere di nessuno amare un altro solamente per precetto. « Amar
Dio» può significare quindi soltanto «eseguire volentieri i suoi comandamenti
+; e «amare il prossimo » soltanto « mettere in pratica volentieri tutti i
doveri verso di esso». Ma qui la parola « volentieri » dice che la massima
cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza che esso sia
raggiungibile da parte degli esseri finiti. Difatti sarebbe inutile e assurdo
«comandare » ciò che si fa « volentieri »; perciò il precetto evangelico
presenta l’intenzione morale nella sua perfezione totale «come un ideale di
santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tuttavia è l’esemplare a
cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso ininterrotto ma
infinito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3) (FanaTISMO). La dottrina di Spinoza
presenta due concetti dell’A., dei quali il secondo doveva essere utilizzato
dai Romantici. In primo luogo l’A. come ogni altra emozione (affectus) è
un’affezione dell’anima (passio) e precisamente consiste nella gioia
accompagnata dall’idea di una causa esterna (Zr., III, 28 AMORE 13 scol.). In questo
senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama alcuno giacchè esso
non è soggetto ad alcuna affezione (/bid., V, 17, corol.). Ma esiste poi un «
A. intellettuale di Dio » che è la visione di tutte le cose nel loro ordine
necessario, cioè in quanto derivano, con eterna necessità, dall’essenza stessa
di Dio (/bid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo amore intellettuale è il solo
eterno ed è quello con ui Dio ama se stesso; sicchè l’A. intellettuale della
mente verso Dio è parte dell’A. infinito con cui Dio ama se stesso. « Ne
consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per
conseguenza che l’A. di Dio verso gli uomini e l’A. intellettuale della mente
verso Dio, sono la medesima cosa» (4bid., V, 36 corol.). Questo A. è ciò in cui
consiste la nostra salvezza o beatitudine, o libertà; ed è ciò che nei libri
sacri si chiama « gloria » (/bid., scol.). È chiaro che esso non è più
un’affezione, nè una emozione nel senso che Spinoza ha dato a tali termini, ma
è la pura contemplazione di Dio, anzi, poichè la mente che contempla Dio non è
che un attributo di Dio, quest’A. non è altro che la contemplazione che Dio ha
di sè, come unità di se stesso e del mondo. Qui il concetto dell’A. cessa di
riferirsi all’esperienza umana: diventa il concetto metafisico dell’unità di
Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le manifestazioni del mondo,
uomini compresi. Questo concetto doveva diventare centrale e dominante nel
Romanticismo (v.) della prima metà dell’800, che s’impernia tutto sul tentativo
di dimostrare l’unità (cioè la totale identità e intrinsichezza) del finito e
dell’Infinito. Schleiermacher fa di quest’unità, in quanto si rivela nella
forma del sentimento, il fondamento della religione; Fichte, Schelling e Hegel
fanno della stessa unità, da essi posta come principio della ragione, il
fondamento della filosofia. Ma fu per l’appunto quest’unità che consentì ai
Romantici di elaborare una teoria dell’A., per la quale l’A. stesso, pur
rivolgendosi a cose o creature finite, vede o coglie, in queste, le espressioni
o i simboli dell’Infinito (cioè dell’Assoluto o di Dio). Per l’unità del finito
e dell’Infinito, infatti, l’aspirazione all’Infinito può giungere al suo
appagamento anche nel mondo finito, per es., nell’A. verso la donna. A.,
poesia, unità di finito e d’Infinito e sentimento di quest’unità, diventano
sinonimi per i romantici. Federico Schlegel è forse colui che ha espresso
meglio questi concetti. « La sorgente e l’anima di tutte le emozioni, egli
dice, è l’A.; e lo spirito dell'A. deve nella poesia romantica esser presente
ovunque, invisibile e visibile... Le passioni galanti alle quali nella poesia
dei moderni, dall’epigramma alla tragedia, non si può sfuggire, sono il grado
minimo di quello Spirito, o piuttosto, secondo i casi, la lettera estrinseca di
esso o null’affatto o qualcosa di non amabile e privo di amore. No, è il Soffio
divino che ci commuove nei suoni della musica. Esso non si lascia prendere a
forza o meccanicamente afferrare, ma amichevolmente attirare dalla bellezza
mortale e in essa velare: anche le magiche parole della poesia possono essere
penetre e animate dalla sua forza. Ma nella poesia dove non è o non può essere
dappertutto, esso non è affatto. Esso è una Sostanza infinita e non aderisce e
non rivolge il suo intero ». Essi sono reciprocamente indipendenti solo in
quanto « possono morire». L'A. è superiore a tutte le opposizioni e ad ogni
molteplicità. Queste notazioni romantiche ritornano nelle opere mature di
Hegel. « L’A., egli dice, esprime in generale la coscienza della mia unità con
un altro, sicchè io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si afferma
solo come rinunzia al mio essere per sè e attraverso il sapermi come l’unità di
me con l’altro e dell’altro con me » (Fil. del dir., $ 158, aggiunta). «La vera
essenza dell’A., dice ancora Hegel nelle Lezioni di estetica, consiste
nell’abbandonare la coscienza di sè nell’obliarsi in un altro se stesso e
tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio » (Vorles. iiber
die Aesta nozione romantica, che vede nell’A. la totalità della vita e
dell’universo nella forma di un « sentimento infinito » che è fine a se stesso,
si ritrova in tutta la tradizione letteraria del Romanticismo, e specialmente
nella narrativa, a cominciare dalla Lucinda di Schlegel. Questa stessa nozione
ha anche penetrato di sè il costume e la vita dei popoli occidentali sino, si
può dire, ai giorni nostri: nei quali ancora l’aggettivo «romantico » sembra il
più adatto a definire la natura di un sentimento esaltato e tendente a
infinitizzarsi, in cui l’aspetto spirituale e l’aspetto sensuale si complicano
e si limitano l’un l’altro, dando luogo a vicende interiori di cui ci si
compiace di seguire le più minute sfumature, esagerandone l’importanza e il
valore. Fa parte anche dell’A. romantico, in quanto il suo proprio oggetto è
l’infinito, o meglio l’infinita unità e identità, l’insistenza sull’A. come
aspirazione,desiderio o brama, che invece di trovare sodisfazione nell’atto
sessuale, teme di essere diminuito o indebolito da quest’atto e tende ad
evitarlo. La «lontananza » è ritenuta dai Romantici come un mezzo che favorisce
i sogni voluttuosi; perciò l’A. romantico subisce di regola un raffreddamento
alla presenza dell’oggetto amato. Ma la concezione romantica dell’A. si trova
anche in filosofie e indirizzi che sono diversi dal Romanticismo o almeno non
ne condividono tutti i caratteri. Schopenhauer distingue nettamente l’A.
sessuale (*pwc) e l'A. puro (iy&rm). L'A. sessuale è semplicemente
l’emozione di cui si serve il « genio della specie » per favorire l’opera
oscura e problematica della propagazione della specie (Metaf. delPA. sessuale).
Ma il «genio della specie» non è che la cieca, malvagia e disperata « volontà
di vivere +, che costituisce la sostanza dell’universo, il suo « noumeno ».
L’A. sessuale non è quindi che la manifestazione in forma fenomenica e cioè
sotto l’apparenza della diversità e della molteplicità degli esseri viventi,
dell’unica forza che regge il mondo. Quanto all’A. puro, esso non è altro che
compassione e la compassione è la conoscenza dell’altrui dolore. Ma l’altrui
dolore è poi il dolore del mondo, il dolore della stessa volontà di vita divisa
in se stessa e lottante contro se stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche:
al di là delle quali, l’A. come compassione è la percezione dell’unità
fondamentale (Die Welt, I, $ 67). In tal modo la nozione romantica dell’A. come
sentimento dell’unità cosmica, rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa
rimane anche nell’analisi di un suo seguace, Edoardo von Hartmann, che la rende
più esplicita affermando che l’A. è l’identificazione dell’amante e dell’amato;
una specie di allargamento dell’egoismo mediante l’assorbimento di un io da
parte di un altro io, onde il senso più profondo dell’A. consiste nel trattare
l’oggetto amato come se fosse, nella sua essenza, identico con l’io che ama. Se
quest’unità e identità non ci fossero, afferma Hartmann, l’A. stesso sarebbe
un'illusione; ma Haduo dell’altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla
produzione e alla riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle
cosiddette « zone erotogene +; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti
della vita umana. L’impulso sessuale specifico è una formazione tarda e
complessa, formazione che d’altronde non è mai completa come è dimostrato dai
pervertimenti sessuali, così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono
quindi, secondo Freud, deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di
comportamento che rimontano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti
ad uno sviluppo normale e si sono fissati nella forma di una fase primitiva (v.
PsicANALISI). Dalla libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori
dell’A. mediante l’inibizione e la sublimazione. La inibizione ha la funzione
di mantenere la /ibido nei limiti compatibili con la conservazione della
specie; e da essa derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della
vergogna, del pudore, ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le ma30
AMORE nifestazioni della /ibido. Nell’inibizione della libido e dei suoi
contenuti obiettivi, prendono radici le nevrosi. La sublimazione invece, si ha
quando la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione
voluttuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri
oggetti, che saranno in questo modo amati di per se stessi, indipendentemente
dalla loro capacità di produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione d non
contiene nessun elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le
forme dell’A. e che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono
ciechi ed anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta
nella sua critica dell’A. universale. « Alcune persone, dice Freud, si rendono
indipendenti dall’acquiescenza dei loro oggetti trasferendo il valore
principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si
proteggono contro la perdita dell’oggetto amato rivolgendo il loro A., non a
oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le incertezze
e le delusioni dell’A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale di esso e
trasformando l’istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che esse
inducono in se stesse con questo processo — un immutabile, non deviabile
atteggiamento tenero — ha poca somiglianza superficiale con le tempestose
vicende dell’A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo » (Civilisation and
its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono
due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un’ingiustizia
verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni
di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest’A. in
un modo o in un altro: ne sarà degno perchè è così simile a me in qualche
aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perchè è molto più
perfetto di me sicchè io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o
perchè è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le
pene. Ma se non c’è alcun motivo specifico di amarlo, l’amarlo sarà assai
difficile per me e sarà un’ingiustizia per quelli che sono degni del mio A.
giacchè porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l’A. che
potrò dargli, come adempienza al precetto dell’A. universale, sarà soltanto una
piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono
autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro
prossimo come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è
l’esempio superlativo dell’atteggiamento anti-psicologico del super-ego
culturale. Ma è un comando impossibile a rispettarsi: tale un’enorme inflazione
di A. potrebbe solo abbassare il valore e non sarebbe un rimedio del male»
(/bid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente che l’A.
implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito all’oggetto
amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella dottrina di
Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della libido da cui
ogni A. deriva. La critica di Freud all'«A. universale» è importante e, per
qualche aspetto, decisiva per l’orientamento contemporaneo intorno al problema
dell’amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica contro un bersaglio
sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il vero bersaglio di
essa è la nozione modeall’uomo nella sua finitudine. Ma nonostante questo
trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l’A. è infatti inteso da
Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l’unità di Dio e dell’uomo,
dello spirito e della natura ». L’A. « non ha plurale ». L’incarnazione stessa,
per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro, assoluto A., senza aggiunta,
senza distinzione tra l’A. divino e l’umano » (/bid., pag. 82). Sulla base di
questa nozione Feuerbach ha delineato la progressiva estensione dell’A.
dall’oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal figlio al padre e finalmente alla
famiglia, alla gente, alla tribù, ecc.: la quale estensione sarebbe dovuta al
moltiplicarsi delle azioni reciproche e perciò della reciproca dipendenza
degl’istituti e degl’interessi vitali. Il termine ultimo di quest’estensione
progressiva sarebbe « la umanità nel suo complesso +, che come tale è l’oggetto
più alto dell'A. e l'ideale morale per eccellenza. Sull’A. esteso a tutta
l’umanità hanno fondato la loro etica gli scrittori positivisti e specialmente
Comte e Spencer; e su di esso si è pure fondata l’etica del neo-criticismo
tedesco quale si trova, per es., espressa in Cohen. In questi indirizzi i
termini « umanità» e « A.» diventano sinonimi perchè significano l’unità degli
esseri umani e qualche volta, addirittura, l’unità cosmica secondo il concetto
romantico. Le forme dell'A. vengono da questo punto di vista classificate
secondo la maggiore o minore estensione del circolo di oggetti cui l’A. si
estende. Così l’A. della patria sarebbe inferiore all’A. dell’umanità, l’A.
della famiglia inferiore all’A. della patria e l’A. di se stesso inferiore a
quello che si prova per un amico. Scheler ha mostrato (Natura e forma della
simpatia, 1923) il carattere fittizio di questa gerarchia che pretende ridurre
le varietà autonome dell'A. ad un'unica forma che avrebbe gradi diversi a
seconda dell’estensione del circolo umano che costituisce il suo oggetto. Le
sue osservazioni a questo proposito coincidono sostanzialmente con quelle già
accennate di Freud: il valore dell’A. diminuisce, mon s’accresce, a misura che
l’A. si estende a un numero di oggetti maggiore: giacchè, io generale, l’A. di
ciò che è prossimo ha più valore dell’A. di ciò che è lontano, almeno finchè si
rivolge ad un essere vivente; e Nietzsche ha avuto torto a contrapporre (in
Così parlò Zaratustra) l’A. del lontano all’A. del prossimo. Scheler ha negato
il presupposto stesso della dottrina dell’A. universale: la nozione romantica
dell’A. come unità o identificazione. L’A., e in generale la simpatia in tutte
le sue forme (v. Simpatia), implica, e nello stesso tempo, fonda, la diversità
delle persone. Ti senso dell’A. consiste proprio nel non considerare e nel non
trattare l’altro come se fosse identico a sè. «L’A. vero, dice Scheler
(Sympathie, I, cap. IV, $ 3) consiste nel comprendere sufficientemente un’altra
individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto
pur mentre la considero altra da me, che in linea di principio si orientano
verso le qualità vitali che chiamiamo più « nobili ». Ma se l’A. sessuale
domina la sfera vitale esistono altre forme di A. corrispondenti alla sfera
spirituale e alla sfera religiosa; e queste forme sono varietà qualitativamente
diverse, qualità primordiali e irriducibili le une alle altre, che fanno
pensare ad una preformazione, nella struttura psichica dell’uomo, dei rapporti
elementari che esistono tra uomo e uomo (/bid.). Tra queste forme non c’è
tuttavia l’A. dell'umanità. L'umanità può essere amata come individuo unico ed
assoluto solo da Dio; il cosiddetto A. dell’umanità è perciò soltanto l’A.
dell’uomo medio di una certa epoca cioè dei valori correnti in quest'epoca, che
interessano i sostenitori di questa forma di amore. La quale, secondo Scheler,
non è altro che risentimento, cioè odio per i valori positivi impliciti in «
paese natale », « popolo », « patria », 4 Dio», odio che sostituendo l’umanità
a questi portatori di valori specificamente superiori cerca di darsi e di dare
l'illusione dell’A. (/bid.). Le analisi di Scheler sono, nella filosofia
contemporanea, il primo tentativo di sottrarre la nozione dell’A. all’ideale
romantico dell’assoluta unità. Si può scorgere tuttavia la suggestione e
l’azione di quest’ideale in due dottrine contemporanee, apparentemente
eterogenee; la dottrina dell'A. mistico di Bergson e la dottrina dell’A.
sessuale di Sartre. Secondo Bergson la formula del misticismo è questa: «Dio è
A. e oggetto d’A.» (Deux sources de la morale et de la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare dell’esattezza della
prima parte di questa formula, perchè difficilmente si può riscontrare nei
mistici la tesi che Dio ami l’uomo (ciò che Dio offre all'uomo che lo ama è la
salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria +), ciò che
Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come un’unità fra
l'uomo e Dio. « Non c’è più separazione completa fra chi ama e chi è amato: Dio
è presente e la gioia è senza limiti» (/bid., pag. 252). Per quest’unità, l’A.
dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. « Attraverso Dio, con
Dio egli ama tutta l’umanità di A. divino ». Ma questo A. non è la fraternità
dell’ideale razioè di stampo romantico, non meno romantico è l’* amor profano »
di Sartre. Il presupposto dell’analisi di Sartre è che l’A. sia il tentativo o,
per meglio dire, il progetto di realizzare l’unità o l’assimilazione tra l’io e
l’altro. Questa esigenza di unità o di assimilazione, è, dalla parte dell’io,
l’esigenza che esso sia per l’altro una totalità, un mondo, un fine assoluto.
L’A. è, fondamentalmente, un voler essere amato; e voler essere amato significa
« voler situarsi al di là di tutto il sistema dei valori posto dagli altri,
come la condizione di ogni valorizzazione e come il fondamento oggettivo di
tutti i valori» (L’étre et le néant, pag. 436). La volontà di essere amato è
così la volontà di valere per l’altro come l’infinito stesso. « Lo sguardo
dell’altro non mi permea più di finitudine, non immobilizza più il mio essere
in ciò che sono semplicemente; io non potrò essere guardato come brutto, come
piccolo, come vile, perchè questi caratteri rappresentano necessariamente una
limitazione di fatto del mio essere e un’apprensione della mia finitudine come
finitudine » (/bid., pag. 437). Ma affinchè l’altro possa considerarmi così,
occorre che esso possa volere, cioè che sia libero: perciò il possesso fisico,
il possesso dell’altro come cosa è, nell’A., insodisfacente e deludente.
Occorre che l’altro sia libero per volermi amare e per vedere in me l'infinito.
Il che vuol dire che occorre che si mantenga « come pura soggettività, come
l’assoluto per il quale il mondo viene all’essere » (/bid., pag. 455). Ma qui
appunto è il conflitto e lo scacco inevitabile dell’A.: giacchè da un lato
l’altro esige da me la stessa cosa che io esigo da lui, cioè d'essere amato e
di valere per me come la totalità infinita del mondo; e dall’altro, proprio per
voler ciò, per amarmi, «mi delude radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da
lui che egli fondasse il mio essere come oggetto privilegiato, mantenendosi
come pura soggettività nei miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi
riconosce invece come soggetto e s’inabissa nella sua oggettività di fronte
alla mia soggettività » (Ibid., pag. 444). In altri termini ognuno, nell’A.,
vuol essere per l’altro l’oggetto assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma
per questo occorre che l’altro rimanga soggettività libera e altrettanto
assoluta. Ma poichè entrambi vogliono esattamente la stessa cosa, l’unico
risultato dell’A. è un conflitto necessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì
un’altra via di realizzare l'assimilazione dell’uno e dell’altro, che è
esattamente l’inversa di quella ora descritta: in luogo di progettare di
assorbire l’altro conservandogli la sua alterità posso progettare di farmi
assorbire dall’altro e di perdermi nella sua soggettività per sbarazzarmi della
mia. In questo caso, invece di cercare di esistere per l’altro come
oggettolimite, come mondo o totalità infinita, cercherò di farmi trattare come
un oggetto fra gli altri, come uno strumento da utilizzare, in una parola, come
una cosa. Si avrà allora l’atteggiamento masochista. Ma il masochismo stesso è
e dev’essere uno scacco perchè si avrà un bel volere diventare un semplice
strumento inanimato, una cosa umile, ridicola od oscena; si dovrà, per
l’appunto, volerlo cioè valere, a questo scopo, come soggettività libera (/bid.,
pag. 346-47). Non c'è pertanto salvezza nell’A.: il conflitto e lo scacco gli
sono intrinsecamente necessari. D'altronde un conflitto analogo Sartre vede
anche nel semplice desiderio sessuale, di cui così definisce « l’ideale
impossibile »: « Possedere la trascendenza dell’altro come pura trascendenza e
tuttavia come corpo: ridurre l’altro alla sua semplice fattualità, perchè esso
è allora nel mezzo del mio mondo, ma fare che questa fattualità sia una
rappresentazione perpetua della sua trascendenza nullificante » (/bid., pag.
463-64). E come l’A. può tendere al masochismo come a un’illusoria soluzione
del suo conflitto, così il desiderio sessuale tende al sadismo cioè alla non
reciprocità dei rapporti sessuali, al godimento d’essere «potenza possessiva e
libera nei confronti di una libertà imprigionata dalla carne » (/bid., pag.
469). Non c’è dubbio che l’analisi di Sartre, assai ricca di notazioni e di
riferimenti, rappresenti un esame spregiudicato di certe forme che l’A. può
assumere ed assume, e dei conflitti cui esse mettono capo. Ma si tratta delle
forme dell’A. romantico e delle sue degenerazioni. L'A. di cui parla Sartre è
il progetto della fusione assoluta fra due infiniti; e due infiniti non possono
che escludersi e contraddirsi. Voler essere amato significa per Sartre voler
essere la totalità dell’essere, il fondamento dei valori, il tutto e
l’infinito: cioè il mondo o Dio stesso. E l’altro, l'amato, dovrebbe essere un
soggetto altrettanto assoluto ed infinito, capace di dare assolutezza ed infinità
a chi lo ama. Sono evidenti i presupposti romantici di quest’impostazione.
L’unità assoluta ed infinita che il Romanticismo classico ingenuamente
postulava come una realtà garantita dell'A. diventa, in Sartre, un progetto
inevitabilmente destinato allo AMORE 33 scacco. Quello di Sartre è un
Romanticismo deluso e consapevole del suo fallimento. È tuttavia palese nella
filosofia contemporanea la tendenza anti-romantica a togliere all’A. il suo
carattere d’infinità, cioè la sua natura « cosmica » o «divina» e a
circoscriverlo in limiti più ristretti e precisabili. Russell ha messo in luce
la fragilità dell’A. romantico che pretende di essere la totalità della vita e
va invece rapidamente incontro all’esaurimento e al fallimento. « L’A., egli ha
detto, è ciò che dà valore intrinseco a un matrimonio e, come l’arte e il
pensiero, è una delle cose supreme che fanno la vita degna di essere vissuta.
Ma sebbene non ci sia un buon matrimonio senza A., i migliori matrimoni hanno
uno scopo che va al di là dell'amore. L’A. reciproco di due persone è troppo
circoscritto, troppo separato dalla comunità per essere per se stesso lo scopo
principale di una buona vita. Esso non è in se stesso una fonte sufficiente di
attività, non è sufficientemente prospettivo per costituire un’esistenza in cui
si possa trovare una sodisfazione ultima. Esso diventa presto o tardi
retrospettivo, è una tomba di gioie morte, non una sorgente di nuova vita.
Questo male è inseparabile da ogni scopo che può essere raggiunto solo in
un’unica emozione suprema. I soli scopi adeguati sono quelli i quali insistono
sul futuro che non possono mai essere pienamente raggiunti ma sono sempre in
crescendo e infiniti come l’infinità della ricerca umana. Solo quando l’A. è
legato a qualche scopo infinito di questa specie, può avere la serietà e la
profondità di cui è capace » (Principles of Social Reconstruction, pag. 192).
Con ciò l’A. non è negato ma ricondotto ai limiti che lo definiscono. « Un
uomo, dice ancora Russell, che non ha mai veduto le cose belle in compagnia
della donna amata, non ha conosciuto appieno il magico potere che tali cose
possiedono. Inoltre l’A. è in grado di spezzare il duro nòcciolo del proprio io
perchè è una specie di collaborazione biologica nella quale le emozioni
dell’uno sono necessarie alla sodisfazione degli istintivi propositi dell’altro
» (La conquista della felicità; trad. ital., pag. 42). In questo senso esso,
tuttavia, non richiede il sacrificio delle persone che si amano ma costituisce
piuttosto un arricchimento e un compimento delle loro personalità. Non richiede
neppure l’ammutolimento dello spirito critico da ambe le parti ma piuttosto il
rispetto della reciproca autonomia e la fedeltà agli impegni presi. Per questo
è indispensabile la realizzazione dell’uguaglianza di condizione morale e
giuridica tra i sessi ed anche una trasformazione e una liberalizzazione delle
regole morali che ora restringono e inibiscono in modo troppo rigido i rapporti
sessuali. Dall'altro lato però, «il rapporto sessuale senza A. ha un valore minimo
e deve essere considerato come un primo esperimento, tale da dare un concetto
approssimativo dell’A.» (Marriage and Morals, cap. IX; trad. ital, pag. 118).
Uno sguardo d’insieme alle teorie di cui si è fatto cenno mostra che in esse
ricorrono due nozioni fondamentali dell’A., all’una o all’altra delle quali
ciascuna di esse può essere agevolmente ricondotta. La prima è quella dell’A.
come un rapporto che non annulla la realtà individuale e l'autonomia degli
esseri tra i quali intercorre, ma tènde a rafforzarle, mediante uno scambio
reciproco emotivamente controllato di servizi e di cure di ogni genere, scambio
nel quale ognuno cerca ilbene dell’altro come suo proprio. In questo senso ’A.
tènde alla reciprocità ed è sempre reciproco nella sua forma riuscita: la quale
tuttavia potrà sempre dirsi un’urione (di interessi, d’intenti, di propositi,
di bisogni, nonchè delle emozioni correlative) ma mai un’ unità » nel senso
proprio del termine. In questo senso l’A. è un rapporto finito tra enti finiti,
suscettibile della più grande varietà di modi in conformità con la varietà di
interessi, propositi, bisogni, e relative funzioni emotive, che possono
costituirne la base oggettiva. « Rapporto finito » significa rapporto non
necessariamente determinato da forze ineluttabili, ma condizionato da elementi
e situazioni atte a spiegarne le modalità particolari. Significa altresì
rapporto soggetto alla riuscita come alla non riuscita e, anche nei casi più
favorevoli, suscettibile di riuscite solo parziali e di stabilità relativa. In
questo caso, ovviamente, l’A. non è mai «tutto» e non costituisce la soluzione
di tutti i problemi umani. Ogni tipo o specie di A., e, in ogni tipo o specie,
ogni caso di esso, sarà delimitato e definito, nel rapporto che lo costituisce,
da quei particolari interessi, bisogni, aspirazioni, preoccupazioni, ecc., la
cui compartecipazione costituirà di volta in volta la base o il motivo
dell'amore. Specificamente, l’A. potrà essere definito come il controllo
emotivo di tali tipi o modi di compartecipazione e dei comportamenti
corrispondenti. Il valore di questo controllo emotivo può essere reso ovvio da
qualche osservazione, Per es., la fedeltà nell’A. non ha valore se deriva non
dal controllo emotivo, ma da una fredda nozione del dovere; e d’altra parte
certe infedeltà non intaccano necessariamente l’amore. In questi limiti in cui
l'A. è un fenomeno umano, per la descrizione del quale termini come « unità »,
« tutto », « infinito », « assoluto » sono fuori luogo, l’A. perde di sostanza
cosmica quanto guadagna d’importanza umana; e il suo significato,
oggettivamente constatabile, per la formazione, la conservazione, l’equilibrio
della personalità umana, diventa fondamentale. La nozione dell’A. in questo
senso è quella 34 AMOR FATI illustrata da Platone, Aristotele, S. Tommaso,
Cartesio, Leibniz, Scheler, Russell. La seconda ricorrente teoria dell’A. è
quella che vede in esso un'unità assoluta o infinita, ovvero la coscienza, il
desiderio o il progetto di tale unità. Da questo punto di vista l’A. cessa di
essere un fenomeno umano per diventare un fenomeno cosmico o meglio ancora la
natura del Principio o della Realtà suprema. La riuscita o la non riuscita
dell'amore umano diventa indifferente ed anzi, l’A. umano, come aspirazione
all’identità assoluta, e come tentativo da parte del finito di identificarsi
con l’Infinito, viene condannato preventivamente all’insuccesso e ridotto ad
un’aspirazione unilaterale, per la quale la reciprocità è deludente e che si
contenta di vagheggiare la vaga forma di un ideale sfuggente. Due sono le
conseguenze di tale concetto dell'amore. La prima è l’infinitizzazione delle
vicende amorose che, considerate come modi o manifestazioni dell’Infinito,
acquistano un significato e una portata sproporzionata e grottesca senza
rapporto con l’importanza reale che esse hanno per la personalità umana e per i
rapporti di essa con gli altri. La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano
viene destinato allo scacco; e la stessa riuscita di tale A., constatabile
nella reciprocità, nella possibilità della compartecipazione, viene assunta
come il segno di questo scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente
riscontrare nella letteratura romantica sull’amore. Questa nozione dell'analisi.
è quella che si trova difesa da Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre.
AMOR FATI. Espressione usata da Nietzsche come « formula per la grandezza
dell’uomo » e che significa: «Non voler nulla di diverso da quello che è, non
nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò
che è necessario, ma amarlo». La formula esprime l’atteggiamento proprio del
superuomo e la natura dello 4 spirito dionisiaco » in quanto è accettazione
integrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli
più sconcertanti, tristi e crudeli (Ecce Homo, passim; Wille zur Macht, ed.
Krònee la situazione o l’oggetto nei suoi elementi, sicchè un procedimento
analitico si dice riuscito quando tale risoluzione è stata compiuta. Il
procedimento venne adoperato da Aristotele nella logica della dimostrazione
(apodittica) con lo scopo di risolvere la dimostrazione nel sillogismo, il
sillogismo nelle figure, le figure nelle proposizioni (An. pr., I, 32, 47a 10).
Nella logica del ’600, la differenza fra analisi e sintesi cominciò ad essere
esposta come la differenza tra due metodi di insegnamento. L’ordine
didascalico, diceva Jungius, o è sintetico cioè compositivo o analitico cioè
risolutivo ». L'ordine sintetico va «dai princìpi al principiato, dai
costituenti al costituito, dalle parti al tutto, dai semplici ai composti » ed
è quello adoperato dal logico, dal grammatico, dall’architetto e anche dal
fisico quando passa dalle piante agli animali o dagli esseri meno perfetti a
quelli più perfetti. L'ordine analitico procede per la via opposta ed è proprio
del fisico e dell’etico, in quanto quest’ultimo passa, ad es., dalla
considerazione del fine a quella dell’azione onesta (Logica Hamburgensis, 1638,
IV, cap. 18). Non più come diversi metodi d’insegnamento, ma come diversi
procedimenti di dimostrazione vennero considerate l’analisi e la sintesi a
partire da Cartesio. Dice Cartesio: « La maniera di dimostrare è duplice: l’una
dimostra attraverso l’A. o risoluzione, l’altra attraverso la sintesi o
composizione. L’A. dimostra la vera via per la quale la cosa è stata
metodicamente inventata e fa vedere come gli effetti dipendano dalla causa...
La sintesi, al contrario, quasi esaminando le cause dai loro effetti (benchè la
prova che essa contiene vada sovente dalle cause agli effetti) dimostra in verità
chiaramente ciò che è contenuto nelle sue conclusioni e si serve di una lunga
serie di definizioni, postulati, assiomi, teoremi, problemi » (Rép. aux II
Ob.). Cartesio stesso nota come gli antichi geometri si fossero serviti
prevalentemente della sintesi (come infatti fecero PapPo, VII, 1 sgg. e
ProcLOo, Comm. al I libro di Euclide, pag. 211, Friedlein), mentre egli ha
preferito l'A. perchè questa via « sembra la più vera e la più adatta per
insegnare». Hobbes ripeteva sostanzialmente queste considerazioni (De Corpore,
VI, $ 1-2) e la Logica di Porto Reale chiamava l’A. « metodo d’invenzione » e
la sintesi « metodo di composizione » o « metodo di dottrina » (Log., IV, 2).
Questo punto di vista sanzionava la superiorità del procedimento analitico
nella filosofia moderna. Tale superiorità è presupposta anche da Leibniz che
definisce l’analisi dal punto di vista logico-linguistico: L'analisi è questa:
un qualsiasi termine dato sia risolto nelle sue parti formali, cioè si ponga la
definizione di esso; queste parti siano a loro volta risolte in parti, cioè si
dia la definizione dei termini della definizione, e così via sino alle parti
semplici cioè ai termini indefinibili » (De Arte Combinatoria, Op., ed.
Erdmann, pag. 23 a-b). Con altre parole Newton diceva la stessa cosa: « Con la
via dell'A. noi possiamo procedere dai composti agli ingredienti e dai
movimenti alle forze che li producono; e in generale dagli effetti alle loro
cause e dalle cause particolari alle generali, sinchè il ragionamento termina
alle più generali » (Opticks, 1704, Ill, 1, q. 31; ed. Dover, pag. 404). Wolff
contrapponeva nello stesso senso il metodo analitico e il metodo sintetico: «
Si chiama analitico il metodo dal quale le verità sono disposte nell’ordine in
cui furono trovate o almeno in cui potevano essere trovate. Si dice sintetico
il metodo dal quale le verità sono disposte in modo che ciascuna possa essere
più facilmente intesa e dimostrata a partire dall’altra » (Log., $ 885). Non
diverso è il significato che Kant dette all’opposizione dei due metodi. Più
particolarmente nel De Mundi Sensibilis atque intellegibilis forma et ratione,
I, $ 1, nota, egli distinse due significati di A.: uno qualitativo che è «il
regresso a rationato ad rationem» l’altro quantitativo (di cui dichiara di
avvalersi) che è «il regresso dal tutto alle sue parti possibili cioè mediate,
cioè alle parti delle parti, sicchè l’A. non è la divisione ma la suddivisione
del composto dato. Kant si avvalse di questo procedimento in tutte le sue tre
opere principali, in ciascuna delle quali la parte positiva fondamentale è
costituita da una « Analitica ». Procedimento analitico è, secondo Kant, quello
proprio della « logica generale » in quanto «risolve l’intera opera formale
dell’intelletto e della ragione nei suoi elgni caso di determinare gli elementi
veri o effettivi che condizionano queste attività, in contrasto con gli
elementi apparenti o fittizi o dialettici. Naturalmente il metodo analitico non
ha niente a che fare con i giudizi analitici. «Il metodo analitico in quanto si
oppone al sintetico è tutt’altra cosa che un complesso di giudizi analitici:
esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto della questione, come
dato, per risalire alle condizioni che lo rendono possibile » (Pro/., $ 5,
nota). Hegel fissò in modo analogo il carattere fondamentale del procedimento
analitico quando scrisse: « Anche quando il conoscere analitico procede a
rapporti che non sono una materia data esteriormente ma determinazioni di
pensiero, rimane ciò nondimeno analitico in quanto per esso anche questi
rapporti sono dati» (Wissenschaft der Logik, III, III, II, A a; trad. ital.,
pag. 295). Il riconoscimento di dati si può infatti assumere come il crattere
fondamentale del procedimento analitico, quello che più profondamente lo
distingue dal sintetico (v. FiLosoFia). Nella filosofia e in generale nella
cultura moderna e contemporanea la tendenza analitica, cioè la tendenza a
riconoscere nell’A. il procedimento della indagine, si è estesa e si è
manifestata feconda. Questa tendenza coincide sostanzialmente con la tendenza
empiristica (nel senso metodologico dell’empirismo [v.})) a restringere
l’indagine ai « fatti osservabili » e alle relazioni fra tali fatti: tendenza
la quale implica in ogni caso l’esigenza di indicare il metodo o il
procedimento mediante cui il fatto può essere effettivamente osservato. In
questo senso il procedimento analitico porta all'eliminazione di realtà o di
concetti «in sè», cioè assoluti e indipendenti da ogni osservazione o
verificazione e presupposti come realtà o verità « ultime». Sotto questo
aspetto la fisica relativistica e la meccanica quantistica possono essere
considerate come risultati del procedimento analitico. Quando Einstein osservò
che, per parlare di « fatti simultanei », occorre dare un metodo per osservare
la simultaneità di tali fatti (dando così la chiave della teoria della
relatività) non fece che condurre a buon fine l’A. della nozione di « fatti
simultanei ». E quando Niels Bohr e i suoi allievi misero in luce che ogni
osservazione fisica è accompagnata da un effetto dello strumento osservante
sull’oggetto osservato, non fecero che condurre a buon fine l’A. di « osservazione
fisica »; e da questa analisi è nata l’intera meccanica quantistica.
Analogamente la rinuncia a postulare un mezzo di trasmissione non osservabile
dei fenomeni elettromagnetici (il cosiddetto « etere ») può essere considerato
come un risultato del rafforzamento del procedimento analitico. In matematica
lo stesso procedimento ha prevalso in quanto si è rinunciato a discutere che
cosa siano i punti, le rette, i numeri, in sé, e ci si è limitato all’A. delle
relazioni intercorrenti tra questi termini e dei postulati che le esprimono. Da
questo punto di vista 36 ANALITICA l'A. si è estesa e rafforzata a danno di ciò
che si chiama « metafisica », cioè del dominio delle realtà assolute e delle
verità necessarie. Nel campo delle scienze storiche Dilthey ha contrapposto al
metodo metafisico e aprioristico, adoperato, per es., da Hegel, il metodo
analitico e descrittivo proprio della psicologia: onde si parla oggi dell’« A.
storica » che mira a comprendere un fatto storico nei suoi elementi e nella
connessione di tali elementi. Si parla anche di « A. sociologica + nel senso di
un procedimento diretto a risolvere una realtà sociale nei comportamenti, negli
atteggiamenti e nelle istituzioni che ne costituiscono gli elementi
osservabili. Nel dominio della filosofia contemporanea l’A. assume varie forme
sia a li in cui l’uomo si trova nel mondo. Nell’empirismo logico, l’A. è A. del
linguaggio e tènde a eliminare le confusioni mediante la determinazione e il
controllo del significato o modo d’uso dei segni. Queste tendenze analitiche
della filosofia contemporanea sono più o meno in polemica con la metafisica
tradizionale e tendono a dare all’indagine filosofica un metodo rigoroso per
l'accertamento e il controllo dei suoi risultati. Nello stesso tempo, tutte più
o meno indulgono a certi irrigidimenti metafisici; parlando, per es., di «ati
ultimi » come fa Bergson, di « forme o essenze necessarie » come fa Husserl, di
« strutture necessarie » come fa Heidegger, di « proposizioni atomiche » o di «
fatti atomici » come fa l’empirismo logico, ecc. Si può dire tuttavia che la
tendenza delle filosofie analitiche e dell’indirizzo analitico delle scienze
consiste nella progressiva eliminazione di punti fermi, cioè di elementi o
strutture che per la loro sostanzialità e necessità blocchino il corso
ulteriore dell’A. e lo immobilizzino su risultati assunti come definitivi e
perciò sottratti ad ogni ulteriore controllo. Questa tendenza mira perciò a
determinare e utilizzare tecniche di controllo che siano suscettibili di correzione
o rettificazione. Da questo punto di vista l’A. è l’equivalente aggiornato
dell’empirismo tradizionale e ad essa si contrappone la metafisica, nel senso
classico del termine, come scienza o pretesa scienza di ciò che, essendo «
necessariamente +» ed «in sè», non ha bisogno di essere analizzato cioè
descritto, interpretato o compreso mediante procedure verificabili. L’ANALITICA
-- Analytics; Analitique; Analitik – e, in generale, una disciplina o una parte
di disciplina il cui procedimento fondamentale è l’analisi. Aristotele chiamò
A. la parte della logica che mira a risolvere ogni ragionamento nelle figure
fondamentali del sillogismo (Primi Aalitici) ed ogni prova nei sillogismi
stessi e nei primi princìpi che costituiscono le loro premesse evidenti (Secondi
Analitici). Kant chiamò « A. trascendentale » la prima parte della « dottrina
degli elementi » nella Critica della ragion pura e nella Critica della ragion
pratica (mentre la seconda parte di essa è la Dialettica): intendendo per A. la
deato 8 appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente)
in questo concetto A (Crit. R. Pura, Intr., IV). Sul carattere di questa
implicazione però nulla vien detto; e il famoso esempio addotto da Kant della
proposizione «i corpi sono estesi » che sarebbe analitica di fronte ANALOGIA 37
alla proposizione «i corpi sono pesanti» che sarebbe sintetica non chiarisce
certo il concetto giacchè non si vede perchè l’estensione debba essere
contenuta implicitamente nel concetto di corpo e non la pesantezza. 3° La
tautologia. In questo senso Wittgenstein ha considerato le proposizioni
analitiche come tautologie. « La tautologia, egli ha detto non ha condizioni di
verità perchè è incondizionatamente vera » (Tractatus, 4.461). Ma dall’altrca;
ma la proposizione « nessuno scapolo è sposato » non è più una tautologia ma è
tuttavia una proposizione analitica, fondata sulla sinonimia tra « scapolo » e
« non sposato +. (Cfr. QuINE, From
a Logical Point of View, 1953, cap. ID. 4° La sinonimia. Questa può essere stabilita: a) mediante definizioni,
come si fa di solito nelle matematiche e in tutti i linguaggi artificiali; 5)
mediante il criterio dell’intercambiabilità, con cui Leibniz definisce la
stessa identità (v.); in tal caso si chiamano sinonimi i termini che possono
essere scambiati in uno stesso contesto senza alterare la verità del contesto
stesso; c) mediante regole semantiche come anche accade nei linguaggi
artificiali. È da notare che la difficoltà di stabilire con questi procedimenti
il significato esatto di sinonimia e quindi di A. ha condotto alcuni logici
moderni a negare che esista una netta distinzione tra A. e sinteticità (MORTON
WHITE, The Analytic and the Synthetic: an Untenable Dualism, in SipNEY Hook,
ed. John Dewey, New
York, 1950; W. V. O. QuINE, From a Logical Point of View, Cambridge, 1953, cap.
II). Il termine “ANALOGIA” -- &vadoyia;
Analogia; Analogy; Analogie; Analogie -- ha due significati fondamentali: 1° il
senso proprio e ristretto, desunto dall’uso matematico (per cui vale
proporzione) di eguaglianza di rapporti; 2° il senso di estensione probabile
della conoscenza mediante l’uso di somiglianze generiche che si possono addurre
tra situazioni diverse. Nel primo significato il termine fu adoperato da
Platone e da Aristotele ed è tuttora adoperato dalla logica e dalla scienza.
Nel secondo significato, il termine è stato ed è adoperato nella filosofia
moderna e contemporanea. L’uso medievale del termine serve da passaggio
dall’uno all’altro significato. 1° Platone adoperò il termine per indicare
l’uguaglianza dei rapporti fra le quattro forme — a due a due — di conoscenza
che distinse nella Repubblica (VII, 14, 534a 6): cioè fra la scienza e la
dianoia che appartengono alla sfera dell’intelligenza (che ha per oggetto
l’essere); e la credenza e la congettura che appartengono a quella della
opinione (che ha per oggetto il divenire). « Come l’essere sta al divenire,
dice Platone, così l’intelligenza sta all’opinione; e comche gli elementi e i
principi delle cose non sono gli stessi, ma sono solo analoghi, nel senso che
sono gli stessi i rapporti che hanno tra loro. Per es., « nel caso del colore,
la forma sarà il bianco, la privazione il nero e la materia la superficie; nel
caso della notte e del giorno, la forma sarà la luce, la privazione sarà l’oscurità
e la materia sarà l’aria» (/bid., 12, 4, 1070b 18). Ovviamente, il bianco, il
nero e la superficie non sono le stesse cose rispettivamente che la luce,
l’oscurità e l’aria; ma identico è il rapporto fra 38 ANALOGIA queste due terne
di cose (come fra moltissime altre terne): rapporto che è espresso con i
principi di forma, privazione e materia. In questo senso, cioè come uguaglianza
di rapporti in tutti i casi in cui si tcessario. Questi due significati
dell’essere non sono univoci cioè identici e neppure eguivoci, cioè
semplicemente diversi; sono analoghi cioè simili ma di proporzioni diverse.
Solo Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno l’essere per
partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il primo
principio universale dell'essere, ma Dio non è simile ad esse: questo rapporto
è l’A. (S. TA., I, q. 4, a. 3). Il rapporto analogico si estende a tutti i
predicati che si attribuiscono allo stesso tempo a Dio e alle creature. Per
es., il termine « sapiente» riferito all’uomo significa una perfezione distinta
dall’essenza e dalla esistenza dell’uomo, mentre riferito a Dio vuol dire una
perfezione che è identica alla sua essenza e al suo essere; inoltre, riferito
all'uomo, fa comprendere ciò che vuol significare mentre riferito a Dio lascia
fuori di sè la cosa significata che trascende i limiti dell'intendimento umano
(/bid., I, q. 13, a. 5). Il diverso significato che un termine può avere a
seconda della sua attribuzione a questa o a quella realtà fu poi chiamato dagli
scolastici A. di attribuzione. Questo tipo di A. si verifica non soltanto a
proposito dell’attribuzione di uno stesso termine a Dio e alle creature ma in
molti altri casi come, per es., quando si dice che è sana una medicina ed è
sano un animale in quanto la medicina è causa della sanità che è nell’animale
(/bid., I, q. 13, a. 5). L’A. di proporzionalità si riferisce invece soltanto
all’analogicità di significato tra l'essere di Dio e l'essere delle creature: e
diventa un tema di discussioni polemiche nella Scolastica del sec. xm e della
prima metà del sec. x1v. L’A. di proporzionalità viene spesso dai Tomisti (come
dallo stesso S. Tommaso) riportata ad Aristotele, ma in realtà questi aveva
bensì cominciato col riconoscere vari sensi dell’essere ma solo per ricondurli
a modi e specificazioni dell’unico senso della sostanza, cioè dell’essere in
quanto essere, dell'essere nella sua necessità, che è l'oggetto della
metafisica. Aristotele perciò non distingueva nè poteva distinguere tra
l’essere di Dio e l’essere delle altre cose: per es., Dio e la mente sono
sostanze proprio nello stesso senso (Er. Nic., I, 6, 1096 a. 24). Il maggior
critico e oppositore del Tomismo su questo punto fu Duns Scoto che, per
l’appunto rifacendosi ad Aristotele, considerò la nozione di essere comune a
tutte lo cose esistenti, quindi alle creature come a Dio. La considerò perciò
univoca per il motivo fondamentale che, se così non fosse, sarebbe impossibile
conoscere nulla di Dio e determinare un qualsiasi attributo di Lui, risalendo
per via causale dalle creature (Op. Ox., I, d. 3, q. 3, n. 9). In tal modo egli
ripristinò pure l’unità della scienza dell’essere cioè della metafisica che per
il tomismo era divisa in scienza dell’essere creato (metafisica) e in scienza
dell’essere necessario (teologia) e pertanto ridusse la teologia a scienza
pratica (cioè diretta, non a conoscere, ma a guidare l’uomo verso la propria
salvezza). 2° Il secondo significato del termine, come estensione probabile
della conoscenza mediante il passaggio da una proposizione che esprime una
certa situazione a un’altra proposizione che esprime una situazione
genericamente simile o come estensione della validità di una proposizione da
una certa situazione a una situazione genericamente simile era conosciuto dagli
antichi col nome di « procedura per somiglianza » (St mapafoXîc 0 Su spor ros).
Aristotele dice: « La probabilità appare anche nel procedimento per somiglianza
quando si dice il contrario del contrario: per es., se bisogna far del bene
agli amici, si può dire per somiglianza che bisogna far del male ai nemici»
(Top., I, 10, 104 a 28; cfr. EI. Soph., 173 b 38; 176a 33; ecc.). Questo
procedimento ovviamente non ha niente a che fare con l’A.: il rapporto è
diverso (come il « far del male » è diverso dal «far del bene +) e tra le due
situazioni pertanto non c’è uguaglianza di rapporti ma solo una generica
simiglianza. Aristotele consiglia l’uso di questo procedimento a scopi polemici
(Top., VIII, 1, 156b 25). Euclide di Megara ne aveva già negata la validità
logica. Egli infatti «ripudiava il procedimento per simiglianza dicendo che
esso si avvale o di cose simili o di cose dissimili. Se di simili è meglio
rivolgersi alle cose stesse che a quelle di cui sono simili; se di dissimili è
inutile la comparazione » (Diog. L., II, 107). Come ragionamento per analogia
era intesa l’induzione dagli Epicurei che pertanto ne difendevano la validità
subordinatamente al postulato dell’uniformità della natura. Dice Filodemo:
«Quando noi giudichiamo: ‘ Poichè gli uomini che sono alla nostra portata sono
mortali, tutti gli uomini sono mortali’ il metodo dell’analogia sarà valido
solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione di esserci
manifesti sono, sotto tutti i rispetti, simili a quelli che sono alla nostra
portata, sicchè si deve assumere che anch'essi siano mortali. Senza questo
presupposto il metodo dell’analogia non è valido» (De Signis, II, 25). Nella
filosofia moderna la prima difesa dell’analogia è probabilmente quella di Locke
che nel IV libro del Saggio include PA. fra i gradi dell’assenso; e
precisamente la considera come la probabilità che concerne cose che trascendono
llla permanenza della sostanza che si esprime dicendo: «In ogni cangiamento dei
fenomeni la sostanza permane e la quantità di essa nella natura non aumenta nè
diminuisce +; 5) il principio della serie temporale secondo la legge della
causalità, che si esprime dicendo: « Tutti i cangiamenti avvengono secondo la
legge del nesso di causa ed effetto »; c) il principio della simultaneità
secondo la legge dell’azione reciproca che si esprime dicendo: « Tutte le
sostanze in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono
tra loro in azione reciproca universale ». Kant ha chiarito nel modo seguente
il senso nel quale questi princìpi sono detti analogie. In matematica, le A.
sono formule che esprimono l'uguaglianza di due rapporti quno bensì a priori e
quindi certi in modo indubitabile, ma nel contempo sono privi di evidenza
intuitiva; mentre gli « assiomi dell’intuizione » (v. Assioma) e le «anticipazioni
della percezione » (ANTICIPAZIONI) sono princìpi costitutivi perchè insegnano «
come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione, sia rispetto alla loro
realtà percepita, possono essere prodotti secondo le regole di una sintesi
matematica » (Crir. R. Pura, Anal. dei princ., IMI, 3). Come si vede, permane
in quest’uso kantiano il significato dell’A. come eguaglianza tra rapporti; ma
tali rapporti sono detti « qualitativi » nel senso che con essi non sono dati
gli oggetti, ma soltanto quelle relazioni che consentono di scoprirli e
ordinarli in unità. E difatti, i princìpi della permanenza della sostanza, di
causalità e di reciprocità non fanno conoscere nulla; ma servono a scoprire gli
oggetti conoscibili e a ordinarli, secondo i loro nessi, nell’unità
dell'esperienza. In tal senso l’A. è uno strumento, anzi uno degli strumenti
fondamentali per estendere la conoscenza dei fenomeni naturali sulla guida
delle loro connessioni determinanti. La logica e la metodologia della scienza
dell’800 sono state diffidenti verso l’A., considerandola generalmente come
un'estensione della generalizzazione induttiva al di là dei limiti nei quali
essa offre garanzia di verità. Stuart Mill considerò il ragionamento per A. «
un’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso in
qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte le
circostanze materiali. Un oggetto ha la proprietà 5; un altro oggetto non ha la
proprietà 5, ma è simile al primo in una proprietà a non connessa con b; l’A.
porterà alla conclusione che anche questo oggetto ha la proprietà b. Per es.,
si dice che i pianeti sono abitati perchè la Terra è abitata ». Questo modo di
argomentare può, secondo Stuart Mill, accrescere solo in grado non
determinabile, ma in ogni caso assai modesto, la probabilità della conclusione;
ma in compenso può dar luogo a molte fallacie (Logic, V, 5, 6). Ma la logica e
la metodologia del nostro secolo sono assai meno diffidenti nei confronti
dell'A. forse perchè la riportano al significato 1° cioò a uguaglianza di
rapporti. Per es., uno dei procedimenti analogici consiste nella creazione di
simboli che abbiano somiglianza maggiore o minore con le situazioni reali, e i
cui rapporti riproducano quelli inerenti agli elementi di tali situazioni. Tali
simboli sono qualche volta modelli meccanici cioè disegni o schemi o macchine
che riproducono i rapporti intercedenti di elementi reali; tali sono, per es.,
i modelli del sistema solare, della struttura dell'atomo, del sistema nervoso,
ecc. Altre volte tali modelli sono ottenuti mediante il cosiddetto processo di
extrapolazione il quale consiste nel portare al limite il comportamento di un
insieme di casi ordinati in una serie nella quale si suppongano eliminate
gradualmente le influenze disturbatrici. Si parla così, per es., di velocità
infinita o di velocità zero, di masse ridotte a un punto geometrico, di leve
perfette, di gas ideali, ecc. Ogni modello è un esempio di A., nel senso 1°,
perchè il proprio di un modello è quello di riprodurre, fra i propri elementi,
gli stessi rapporti degli elementi della situazione reale. Ma i fisici parlano
oggi di A. anche come di condizione o di elemento integrante delle ipotesi e
delle teorie scientifiche. Secondo questo indirizzo, l’A. entra nella
costituzione di un’ipotesi in quanto «le proposizioni di un’ipotesi devono
essere analoghe ad alcune leggi conosciute »: e in questo senso l’A. non è solo
un aiuto alla formulazione di una teoria ma ne è parte integrante. «
Considerare l'A. come un aiuto all’invenzione delle teorie è così assurdo come
considerare la melodia come un aiuto alla composizione di una sonata. Se la
sodisfazione delle leggi dell'armonia e i principi formali di sviluppo fossero
tutto ciò che è richiesto per comporre musica, noi saremmo tutti grandi
compositori; ma è l’assenza del senso melodico che ci impedisce di raggiungere
eccellenza musicale col semplice mezzo di acquistare un manuale di musica » (N.
R. CampBELL, Physics: The Elements, 1920, pag. 130). L’A. corrisponderebbe
perciò, nella fisica a ciò che è il senso musicale nella musica: essa
garantirebbe l'adeguazione di un'ipotesi scientifica alle uniformità espresse o
formulate nelle leggi. ANALYSIS SITUS. V. TopoLocia. ANAMNESI (gr. daviumo;
ingl. Reminiscence; franc. Réminiscence; ted. Reminiszenz). Il mito dell’A. è
esposto da Platone nel Merone come antitesi e correttivo del « principio
eristico » che non è possibile all'uomo indagare nè ciò che sa nè ciò che non
sa; giacchè sarebbe inutile indagare ciò che si sa e impossibile indagare quando
non si sa che cosa indagare. A questo discorso che «può rendere pigri e riesce
gradito ai fiacchi » Platone oppone il mito per cui l’anima è immortale, ed è
perciò nata e rinata molte volte, sì da aver visto ogni cosa sia in questo
mondo che in un mondo di là; sicchè essa può, all’occasione, ricordare ciò che
prima sapeva. «E poichè tutta la natura è congenere e l’anima ha appreso tutto,
nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa (che è poi quello che si
chiama ‘imparare ’) trovi da sè tutto il resto, se ha coraggio e non si stanca
ANARCHISMO 4l nella ricerca, giacchè il ricercare e l’apprendere non son altro
che reminiscenza » (Men., 80 e-81 e). A. è stata chiamata da Croce il processo
della conoscenza storica perchè il soggetto di essa, lo Spirito assoluto, non
ha altro da fare che ricordare o richiamare ciò che è in lui; e le fonti della
storia (documenti ed avanzi) non hanno per l’appunto che questa funzione di
richiamo (Teoria e storia della storiografia, 1917, pag. 12 sgg.; La storia come
pensiero e come azione, 1938, pag. 6). ANANCHISMO (ingl. Anancism). Termine
adoperato da Peirce per indicare il principio della necessità assoluta
nell’evoluzione del mondo (Chance Love and Logic, II, 5; Coll. Pap. 6. 302).
ANAPODITTICO -- avanédertoc; lZndimostrativus; Anapodeictic; Anapodictique;
Anapodiktisch – e, alla lettera, non dimostrabile. Aristotele chiama così le
premesse prime del sillogismo che egli dice pure immediate -- Et. Nic., VI, 12,
1143 b 12; An. post., I, 2,72b 27, ecc.. Ma la teoria dei ragionamenti
anapodittici è sviluppata dal portico proprio in contrasto con la teoria
sillogistica di Aristotele. Mentre i sillogismi o ragionamenti apodittici
traggono da premesse evidenti una conclusione non evidente, i ragionamenti
anapodittici hanno una conclusione evidente e sono la base di tutti gli altri
ragionamenti che possono sempre essere ad essi ridotti -- SESTO E., Ip. Pirr.,
II, 156; cfr. CICERONE (vedasi)., Top.. Il portico enumera cinque tipi
fondamentali di ragionamenti anapodittici e ritenevano che ad essi potessero
ridursi tutti gli altri ragionamenti: onde Sesto Empirico dice che, tolti
quelli di mezzo, tutta la dialettica sarà rovesciata. Ecco come essi
esemplificavano tali tipi fondamentali. Se è giorno c'è luce. Ma è giorno.
Dunque c’è luce. Se è giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno. Se
non è giorno è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. O è giorno o è notte. Ma
è giorno. Dunque non è notte. O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è
giorno (/p. Pirr., II, 157-568; Diog. L.. Assumendo questi ragionamenti come
fondamento della dialettica cioè dell’arte stessa del ragionare, il portico
riduceva al ragionamento anapodittico ipotetico o disgiuntivo, che è sempre a
due termini, ogni altra specie di ragiona» mento, implicitamente negando che
avesse valore autonomo il ragionamento dimostrativo a tre termini cioè il
sillogismo aristotelico. Come sinonimo di questo termine Leibniz usò il termine
asillogistico per indicare un tipo di ragionamento non sillogistico. « Bisogna
sapere, egli disse, che ci sono conseguenze asillogistiche buone, che non si
potrebbero dimostrare a rigore con un sillogismo senza cambiare un po’ i
termini; e questo stesso cambiamento dei termini fa che la conseguenza sia
asillogistica ». Per es.: « Gesù Cristo è Dio, dunque la madre di Gesù Cristo è
la madre di Dio»; oppure «Se Davide è il padre di Salomone, Salomone è il
figlio di Davide » (Nouv. Ess., IV, 17, 4). ANARCHISMO (ingl. Anarchism; franc.
Anarchisme; ted. Anarchismus). La dottrina che l’individuo è la sola realtà,
che dev'essere assolutamente libero e che ogni costrizione esercitata dividuo
entra per moltiplicare la sua forza e che per lui è solo un mezzo. Questa forma
di associazione può nascere solo dal dissolvimento della società attuale, che è
per l’uomo lo stato di natura, e può essere solo il risultato di
un’insurrezione che riesce ad abolire ogni costituzione statale. Sul carattere
rivoluzionario dell’A., insistettero poi gli anarchici russi, il maggiore dei
quali fu Michele Bakunin (1814-96) autore di numerosi scritti fra i quali uno
intitolato Dio e /o Stato (1871) in cui afferma la necessità di distruggere
tutte le leggi, le istituzioni e le credenze esistenti. La tesi anarchica della
contrapposizione netta e radicale tra tutti gli ordinamenti politici e sociali
esistenti, considerati come il male stesso, e il nuovo ordinamento libertario
da venire, considerato come il bene totale, è stata di nuovo ripresentata da G.
Landauer 42 ANFIBOLA (Die Revolution). (Su di lui cfr. K. MANNHEIM, Ideologie
und Utopie, 1929, IV, $ 1; trad. ital., pag. 194 sgg.). ANFIBOLIA (gr.
&upifolla; lat. Amphibolia; ingl. Amphiboly; franc. Amphibolie; ted.
Amphibolie). In Aristotele (Soph. E/., 4, 166 a) è uno dei sofismi in dictione,
e precisamente la fallacia (v.) che consegue dal fatto che una frase è resa
ambigua dalla sua difettosa costruzione grammaticale. Più genericamente il
termine A. è stato inteso per una parola che significa due o più cose (SESTO
EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 256). In Kant il termine A. è usato nell’espressione «
A. dei concetti di riflessione » per indicare lo scambio che nasce dalla
confusione tra l’uso empirico-intellettuale e l’uso trascendentale dei concetti
di riflessione quali « unità » e « molteplicità », « materia» e «forma», e simili
(Critica R. Pura, An. dei Principi, Appendice). G. P. ANFIBOLOGIA. V.
ANFIBOLIA. ANGELI (gr. &ryedow; lat. Angeli; ingl. Angels; franc. Anges;
ted. Engel). Così furono chiamate dalla teologia cristiana le «creature
incorporee » che fanno da intermediarie tra Dio e le creature corporee, ammesse
dal neo-platonismo (v. Dio). La fonte dell’angelologia medievale è lo scritto
dello pseudo Dionigi l’Areopagita Sulla gerarchia celeste (sec. v). La
gerarchia celeste è costituita da nove ordini di A. raggruppati in disposizioni
ternarie. La prima disposizione è quella dei Serafini, dei Cherubini e dei
Troni; la seconda è quella delle Dominazioni, delle Virtù e delle Podestà; la
terza è quella dei Principati, degli Arcangeli e degli Angeli. Questa dottrina
fu accettata da S. Tommaso (S. 7A., I, q. 108, a. 2); e adottata da Dante nel
Paradiso. ANGOSCIA (ingl. Dread; franc. Angoisse; ted. Angst). Nel suo
significato filosofico, cioè come atteggiamento dell’uomo di fronte alla sua
situazione nel mondo, il termine è stato introdotto da Kierkegaard nel Concetto
dell’A. (1844). La radice dell’A. è l’esistenza come possibilità (v.
ESISTENZA). A differenza del timore e di altri stati analoghi che si
riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'A. non si riferisce a nulla di
preciso: essa è il puro sentimento della possibilità. L’uomo nel mondo vive di
possibilità giacchè la possibilità è la dimensione del futuro e l’uomo vive
continuamente proteso verso il futuro. Ma le possibilità che si prospettano
all’uomo non hanno alcuna garanzia di realizzazione. Solo per una pietosa
illusione esse gli si presentano come possibilità piacevoli, felici o
vittoriose: in realtà, come possibilità umane, esse non offrono garanzia alcuna
e celano sempre l’alternativa immanente dell’insuccesso, dello scacco e della
morte. « Nel possibile tutto è possibile », dice Kierkegaard; il che vuol dire
che una possibilità favorevole non ha maggiore sicurezza della possibilità più
disastrosa ed orribile. Pertanto l’uomo che si rende conto di questo, riconosce
la vanità di ogni accortezza e non ha di fronte a sè che due vie: o il
suicidio, o la fede, cioè il ricorso a « Colui al quale tutto è possibile ».
L’A. è, secondo Kierkegaard, parte essenziale della spiritualità che è propria
dell’uomo, sicchè se l’uomo fosse angelo o bestia non conoscerebbe l’A.: e
infatti arriva a mascherarla o a nasconderla l’uomo nel quale la spiritualità è
troppo debole. In quanto riflessione sulla propria condizione umana, la
spiritualità dell’uomo è connessa all’A. cioè al sentimento della minaccia
immanente ad ogni possibilità umana come tale. — Nella filosofia contemporanea,
Heidegger ha imperniato sull’angoscia la sua analisi esistenziale (v.
EMoZIONE). L’A. è la situazione affettiva fondamentale «che può tener aperta la
continua e radicale minaccia che viene dall’essere più proprio e isolato
dell’uomo »: cioè la minaccia della morte. Nell’A., l’uomo « si sente in
presenza del nulla, dell’impossibilità possibile della sua esistenza ». In
questo senso l’A. costituisce essenzialmente ciò che Heidegger chiama «l’essere
per la morte» cioè l'accettazione della morte come «la possibilità
assolutamente propria, incondizionata e insormontabile dell’uomo » (Sein und
Zeit, $ 53). Ma con ciò l’A. non è la paura della morte o dei pericoli che
possono prospettarla. Dice Heidegger: « La paura trova il suo appiglio
nell’ente di cui ci si prende cura dentro il mondo. L’A. invece scaturisce
dall’Esserci stesso. La paura giunge improvvisa dall’intramondano. L’A. si leva
dall’essere-nel-mondo in quanto gettato essere-per-la-morte » (/bid., $ 68 b).
L'A. non è neppure il pensiero della morte o l'attesa © la preparazione della
morte. Vivere per la morte, angosciarsi, significa comprendere l’impossibilità
dell’esistenza in quanto tale. E comprendere tale impossibilità significa
comprendere che tutte le possibilità dell’esistenza in quanto consistono di
anticipazioni o progetti, che pretendono trascendere la realtà di fatto, non
fanno che ricadere nella realtà di fatto. Perciò il vero significato dell’A. è
il destino, cioè la scelta della situazione di fatto come un’eredità cui non si
può sfuggire e il riconoscimento dell’impossibilità o nullità di ogni altra
scelta che non sia l’accettazione della situazione in cui si è già. In altri
termini, l'A. come comprensione esistenziale rende possibile all’uomo far di
necessità virtù: accettare con un atto di scelta quella situazione di fatto,
che è il suo destino e che senza l’A. cercherebbe vanamente di trascendere. La
coincidenza di necessità e libertà sembra così il significato dell’A.
heideggeriana (/bid., $ 74). In questo senso Heidegger dice che l’A. « libera
l’uomo dalle possibilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche » (/bid., $
68 b). Tuttavia non è solo dalla filosofia esistenzialistica che l’A. viene
considerata come la rivelazione emotiva della situazione umana nel mondo. Una
ricca letteratura psicologica ha chiarito il carattere omni-pervadente dell’A.
che rimane distinta dalla paura, dal timore e da altri stati emotivi che hanno
carattche si verifichi una situazione di impotenza; oppure la situazione
presente mi ricorda un evento traumatico precedentemente vissuto. Così io
anticipo questo trauma, mi comporto come se esso fosse già qui, sin tanto che
c’è ancora tempo di respingerlo. L’A. è dunque da un lato aspettativa del
trauma, dall’altro una ripetizione attenuata di esso » (Hemmung, Symptom und
Angst, 1926, cap. XI, B; trad. ital., pag. 106). Dall'altro lato lo studio
delle persone nelle quali l'A. si manifesta nelle forme più imponenti (per es.,
in quelle colpite da lesioni cerebrali) ha portato qualche scienziato (per es.,
GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1934) a definire l’A. come
«l'impossibilità di mettersi in rapporto con il mondo?» e di « realizzare un
còmpito corrispondente all'essenza dell’organismo », considerandola così come
il caso limite di quelle «reazioni di catastrofe » che accompagnano il
dibattito dell’organismo con il mondo. ANIMA (gr. vvyh; lat. Anima; ingl. Soul;
franc. Ame; ted. Seele). In generale, il principio della vita, della
sensibilità e delle attività spirituali (comunque intese e classificate), in
quanto costituente un’entità a sè o sostanza. Quest’ultima notazione è
importante perchè l’uso della nozione di A. è condizionato dal riconoscimento
che un certo insieme di operazioni o di eventi, quelli appunto detti « psichici
» 0 « spirituali », costituiscano le manifestazioni di un principio autonomo,
irreducibile, per la sua originalità, ad altre realtà, sebbene in rapporto con
esse. Che poi l’A. sia incorporea 0 abbia la stessa costituzione delle cose
corporee, è questione meno importante: giacchè la soluzione materialistica di
essa è spesso ugualmente fondata, come la sua opposta, sul riconoscimento
dell’Acome sostanza. In questo significato fondamentale, l’A. viene il più
delle volte considerata come « sostanza »: intendendosi con questo termine per
l’appunto una realtà a sè, cioè che esiste indipendentemente dalle altre (v.
SostAnZA). Il riconoscimento della realtà-A. sembra provvedere un solido
fondamento ai valori connessi con le attività spirituali umane, i quali, senza
di essa, sembrerebbero sospesi nel nulla; sicchè la sostanzialità dell’A. viene
considerata, dalla maggior parte delle teorie filosofiche tradizionali, come
una garanzia della stabilità e della permanenza di quei valori: garanzia che
viene talora rafforzata dalla credenza che l’A. è, nel mondo, la realtà più
alta o ultima o, qualche volta, lo stesso principio ordinatore e governatore
del mondo. Date queste caratteristiche della nozione, la storia filosofica di
essa si presenta relativamente monotona perchè è in prevalenza la reiterazione
della realtà dell’A. nei termini di quei concetti che ogni filosofo assume per
definire la realtà stessa. Sicchè, per es., l’A. è aria per Anassimene (Fr. 2,
Diels) e per Diogene d’Apollonia (Fr. S, Diels) i quali ritengono che il
principio delle cose è l’aria; è armonia per i Pitagorici (Arisr., Pol., VIII,
5, 1340 b 19) che nell’armonia esprimibile in numeri vedono la struttura stessa
del cosmo; è fuoco per Eraclito (Fr. 36, Diels) che vede nel fuoco il principio
universale; è, per Democrito, formata di atomi rotondi, che possono più
agevolmente penetrare nel corpo e muoverlo (Arisr., De an., I, 2, 404, 1); e
così via. Probabilmente Platone non fece che esprimere un pensiero implicito in
queste determinazioni quando affermò che l’A. si muove da sè e definì I’A.
appunto sulla base di questa caratteristica. «Ogni corpo a cui il muoversi è
impresso da fuori è inanimato; ogni corpo che si muove di per sè dal di dentro
è animato; e tale è appunto la natura dell’A.» (Fedro, 245 d). L'A. è quindi la
causa della vita (Crar., 399 d) e pertanto è immortale giacchè la vita
costituisce la sua stessa essenza (Fed., 105d sgg.). Con queste determinazioni
Platone distingueva nettamente la realtà dell’A., semplice, incorporea, che si
muove da sè, che vive e dà vita, dalla realtà corporea che ha i caratteri
opposti. E queste determinazioni dovevano servire di base a tutte le ulteriori
trattazioni filosofiche dell’anima. Tra esse, quella di Aristotele è la più
importante perchè le determinazioni che Aristotele attribuisce all’essere
psichico, nei termini del suo concetto dell’essere, dovevano lungamente
rimanere il modello di buona parte delle dottrine dell’anima. Secondo Aristotele,
l’A. è la sostanza del corpo. Essa è definita come «l’atto finale (enrelechia)
primo di un corpo che ha la vita in potenza». L'A. sta al corpo come l’atto
della visione sta all’orpo (/bid., II, 2, 413 b 26). Come atto o attività l’A.
è forma e come forma è sostanza, in una delle tre determinazioni della sostanza
che può essere o la forma o la materia o il composto di forma e materia. La
materia infatti è potenza, la forma è atto e ogni essere animato è composto di
queste due cose; ma mentre il corpo non è l’atto dell’A., l’A. è l’attività di
un corpo determinato cioè la realizzazione della potenza che è propria di
questo corpo: onde si può dire che essa non esiste nè senza il corpo nè come
corpo (/bid., 414a 11). Queste determinazioni aristoteliche hanno costituito,
per lunghi secoli, l'intero progetto della « psicologia dell’A.». A seconda dei
vari interessi (metafisico, morale, religioso) che hanno presieduto agli
sviluppi di tale psicologia, si è insistito, nella storia di essa, sull’una o
sull’altra delle determina» zioni aristoteliche. Di queste, le più importanti
sono: che l’A. sia sostanza cioè realtà nel senso forte del termine; e che sia
principio indipendente di operazioni, cioè causa. Queste determinazioni hanno
lo scopo di garantire un solido sostegno alle attività spirituali quindi ai
valori che sono prodotti da tale attività. La seconda serie di determinazioni
sono quelle della semplicità e indivisibilità; che hanno lo scopo di garantire
l’impassibilità dell’A. nei confronti dei mutamenti corporei e, per il tramite
della indecomponibilità, la sua immortalità. La terza determinazione importante
è il suo rapporto col corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma
con la materia, dell’atto con la potenza. La prima determinazione non viene negata
neppure dai materialisti. Epicuro che ritiene I’A. composta di particelle
sottili, diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo, ritiene tuttavia che
l’A. abbia la capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal
corpo e di cui il corpo partecipa, ma che è in una certa misura indipendente
dal corpo stesso: giacchè quando l’A. si distacca da esso, il corpo non ha più
sensibilità (Ep. a Erod., 63 sgg.). In questo modo l'A. non è semplice nè
immortale (essa si dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è
tuttavia una realtà a sè, dotata di una propria capacità causativa,
indispensabile alla vita stessa del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono
che l’A. è un soffio congenito in noi; che, come tale, è corpo perchè se non fosse
corpo non potrebbe nè unirsi al corpo nè separarsi da esso; ma che può tuttavia
essere immortale, com’è certamente immortale l’A. del mondo, di cui sono parti
quelle degli esseri animati, e le A. dei saggi (Dioc. L., VII, 156-57). Qui la
corporeità dell'A. non toglie ad essa nè la semplicità nè l’immortalità; come
non la toglie nella concezione di Tertulliano che anch’egli la considera come
un soffio o flatus di Dio e perciò generata, corporea e immortale (De an., 8
sgg.). L’accettazione quasi universale della dottrina aristotelica dell'A. ha
una eccezione in Plotino. Plotino critica egualmente sia la dottrina che l’A. è
corpo sia e in relazione, cioè le cose e gli altri uomini (/bid., V, 3, 1-2). I
Neoplatonici e i Padri della chiesa orientale ripetono le determinazioni
neoplatoniche: l’immaterialità e l’unità dell'A. sono i caratteri fondamentali
riconosciuti ad essa da Porfirio (STOB., Ecl.) e da Proclo (/nsf. theol., 15);
nonchè da Gregorio di Nissa (De an. et resur., pag. 98 sgg.). Ma è soprattutto
S. Agostino che raccoglie l’eredità del neo-platonismo e la trasmette al mondo
cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spirituale come via d’accesso
privilegiata alla realtà propria dell’anima. Questa via d’accesso è
l’esperienza interiore, la riflessione sulla propria interiorità, la «
confessione » come riconoscimento della propria realtà intima; in una parola
ciò che nel linguaggio moderno si chiama coscienza (v.). Nei Soliloqui (I, 2)
S. Agostino dichiarava di non voler conoscere altro che « Dio e l’A. ». Ma Dio
e l’A. non richiedono, per lui, due indagini parallele o comunque diverse,
giacchè Dio è nell’A. e si rivela nella più riposta interiorità dell'A. stessa.
« Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la
verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso » (De
vera rel., $ 39). Quest’atteggiamento che domina tutta la ricerca agostiniana
doveva dare i suoi frutti più tardi, a cominciare dalla tarda Scolastica. — Ma
la Scolastica è nel suo complesso dominata dalla dottrina aristotelica dell’A.,
che viene riproposta quasi negli stessi termini a partire da Scoto Eriugena (De
divis. nat., II, 23) sino a Duns Scoto (Op. Ox., IV, 43, q. 2), il quale ultimo
si limita ad aggiungere che, poichè l’A. è la forma del corpo, come diceva
Aristotele, essa non può sussistere quando il corpo è distrutto e che pertanto
l'immortalità è pura materia di fede. Le stesse notazioni di S. Tommaso (S.
7A., I, q. 75; C. Genr., II, 79 sgg.) non aggiungono nulla alla dottrina aristotelica
dell’A., salvo la maggiore insistenza sull’indipendenza dell’A. dal corpo, al
fine di garantirne l’immortalità. La sola innovazione che la Scolastica
agostiniana presenta di fronte a questa teoria, e in contrasto con l’indirizzo
aristotelico-tomistico della stessa Scolastica, concerne il rapporto tra A. e
corpo: l'ammissione di una forma corporeitatis che è propria del corpo come
tale, anteriormente alla sua unione con l’A. e che lo predispone a tale unione.
La forma corporeitatis è la realtà che il corpo umano possiede, come corpo
organico, indipendentemente dalla sua unione con I’A. (Duns Scoro, Op. Ox., IV,
11, q. 3; OCKHAM, Quodl., II, q. 10). Quest'ammissione è legata al
riconoscimento che la materia in generale non è pura potenza ma possiede, già
come materia, una certa realtà attuale che è appunto la forma corporeitatis (v.
AGOSTINISMO). Ma la Scolastica del *300 ci offre, con Ockham, un’innovazione
assai più radicale; il dubbio avanzato sulla realtà dell’A. intellettiva. Dice
infatti Ockham (Quodi., I, q. 10) che, se s’intende per A. intellettiva « una
forma immateriale e incorruttibile che è tutta in tutto il corpo e tutta in
ciascuna parte, non si può conoscere con evidenza, nè con la ragione nè con
l’esperienza, che una tale A. sia forma del corpo e che l’intendere sia proprio
di una tale sostanza ». Difatti le ragioni che si possono addurre per la
dimostrazione di una tale forma, sono dubbie; e, quanto all’esperienza, tutto
ciò che noi sperimentiamo sono l’intellezione, la volizione, ecc.: operazioni
che possono ben essere proprie di una « forma estesa, generabile e corruttibile
», cioè del corpo stesso. Ockham perciò relega tra le materie di fede non solo
l’immortalità dell’A. (come aveva già fatto Duns Scoto) ma la realtà stessa
dell'A. intellettiva come supposto soggetto delle operazioni spirituali di cui
ates il punto di partenza della filosofia moderna. La nozione dell’A. come
sostanza sopravvive alla crisi del Rinascimento. Nè il materialismo di Telesio
e di Hobbes costituiscono vere e proprie negazioni della sostanzialità
dell’anima. Telesio ammette una sostanza intellettiva, direttamente creata e
infusa da Dio nell’uomo, solo per spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua
aspirazione al trascendente (De rer. nat., V, 2); ma lo stesso « spirito
animale », di cui egli si avvale per spiegare la sensibilità, l’intelligenza e
anche la vita morale dell’uomo, pur essendo di natura corporea e prodotto e
tosti ‘PMR de4dal seme, è da lui considerato come realtà a sè, come « sostanza
» (/bid., V, 10). Quanto a Hobbes, egli dichiara illegittimo il pivela « un
essere l’esistenza del quale ci è più conosciuta di quella degli altri in modo
che può servire come principio per conoscerli» (Lett. d Clercelier, in CEuvres,
IV, 443). Ora il cogito comprende «tutto ciò che è in me e di cui sono
immediatamente cosciente » (Z/ Rép., def. I): cioè il dubitare, il capire, il
concepire, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’imaginare, il
sentire, ecc. Sicchè la coscienza è una via d’accesso privilegiata perchè
sicura al punto da essere assolutamente indubitabile, ad una realtà, la
sostanza A., che è a sua volta privilegiata perchè può servire come principio
per conoscere le altre realtà. E difatti è la stessa coscienza, in quanto
testimonia il carattere passivo della facoltà sensibile, che fa ’A. nei termini
del loro concetto di realtà. Per Spinoza, l’A. è «l’idea di un corpo singolo
esistente in atto + (Er., II, 11): è cioè la coscienza correlativa a un corpo
organico. Non si può dire che l’A. sia sostanza perchè la sostanza è una sola
ed è Dio. Ma, come idea, l’A. è parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è
una manifestazione necessaria della sostanza divina (/bid., II, 9) quindi è
eterna (/bid., V, 23). Per Leibniz l'A. è una sostanza spirituale, una monade
che, come uno specchio, rappresenta in sè tutto il mondo ma è in se stessa
semplice, cioè senza parti e indecomponibile (Monad., $$ 1, 56). A differenza
delle altre monadi, che sono gli atomi spirituali che compongono tutte le cose
dell’universo (comprese quelle corporee), l'A. è sa nozione di A. come realtà o
sostanza, Hume contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della
coscienza i cui dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della
conoscenza umana. La rivalità tra le due nozioni di A. e di coscienza raggiunge
il suo punto culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè
alla nozione di A. nei suoi attributi tradizionali di sostanzialità,
semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo {Crit. R. Pura, Dial.
trasc., Paralogismi della ragion pura). La critica kantiana consiste nel dire
che l’intera psicologia razionale si fonda su di un « paralogisma » cioè su un
errore formale di ragionamento o su un «equivoco »: nel senso che assume come
oggetto di conoscenza, a cui sia applicabile la scienza e, spesso, ridotta alla
stessa coscienza. Quest’inversione del rapporto tra A. e coscienza per cui la
coscienza, da via d’accesso alla realtà-A., si trasforma in questa stessa
realtà, è egualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia
ottocentesca, l’Idealismo e il Positivismo. Hegel, per es., considera l’A. come
il primo grado dello sviluppo dello Spirito, che è la coscienza nel suo grado
più alto, cioè Auto-coscienza; e la configura come « Spirito soggettivo », cioè
come lo spirito nell’aspetto della sua individualità. Ed ecco come egli
descrive il processo dello Spirito soggettivo: « Nell'A. si desta la coscienza;
la coscienza si pone come ragione che si è immediatamente destata alla
consapevolezza di sè; e la ragione mediante la sua attività si libera col farsi
oggettività, coscienza del suo oggetto» (Enc., $ 387). Il primo di questi
momenti, cioè il destarsi della coscienza, è l’anima. Ad essa Hegel riconosce
le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immaterialità), ma in un senso
in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza. « L’A.,
egli dice, non è immateriale soltanto per sè ma è l’immaterialità universale
della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e quindi il
fondamento assoluto di ogni particolarizzamento e individualizzazione dello
spirito, di modo che lo spirito ha nell’A. ogni materia della sua
determinazione e l’A. resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in
tale determinazione ancora astrapreparare e di fondare una « scienza » dei
fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In
questa direzione già il termine « A. » appare improprio e viene spesso
sostituito dal termine spirito (v.); e in questo senso Stuart Mill, dice, per
es., che lo spirito (mind) è la «serie delle nostre sensazioni» con in più «
un'infinita possibilità di sentire» (Examination of Hamilton’s Philosophy, pag.
242 sgg.) o, più semplicemente, « ciò che sente » (Logic, VI, IV, 1). Oggetto della
psicologia diventano i « fenomeni psichici » o « gli stati di coscienza », che
vengono spiegati mediante il vario associarsi dei loro elementi più semplici
(v. ASssociaZIONISMO). Tale psicologia senza A. presiedette agli inizi della
psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’eliminazione, dal campo di
essa, della nozione tradizionale dell'A. come sostanza. Il termine tuttavia fu
ed è ancora usato per indicare l’insieme delle esperienze psichiche in quanto
sono raccolte in una qualche unità. Così l’intese Wundt (Logik, II, pag. 245
sgg.), che per unità intese l’unità della coscienza. E così l’intende anche
Dewey: «In conclusione si può affermare che la parola A., quando è liberata da
tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota la qualità
delle attività psico-fisiche, in quanto sono organizzate in unità. Alcuni corpi
hanno A. in modo eminente come altri hanno eminentemente fragranza, colore e
solidità... Dire enfaticamente di una persona particolare che essa ha un’A. o
una grande A., non significa pronunziare una frase fatta applicabile ugualmente
a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione che l’uomo o la donna
in questione possiede in grado notevole le qualità di una sensibile, ricca e
coordinata cipazione a tutte le situazioni della vita. Così le opere d’arte, la
musica, la pittura, l’architettura, hanno A., mentre altre sono morte,
meccaniche » (Experience and Nature, pag. 293 sgg.). Ma l’A. in questo senso
non è più « un abitante del corpo »; designa un insieme di capacità o di
possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno. L'ultima
critica alla nozione di A. è quella di Ryle (Concept of Mind, 1949) che ha
battezzato la concezione dell'A. che fa risalire a Cartesio come quella dello
«spettro nella macchina ». In realtà la nozione è molto più antica, come si è
visto, e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle
garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene
che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della
vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di
tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono.
Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori,
biblioteche, musei, uffici, ecc., che costituiscono un’Università, si domandi
che cosa sia e dove risieda l’Università stessa. L'Università non è un’unità
che si aggiunga agli organismi o ai membri che la costituiscono e che possegga
quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure l’A. non ha
realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti particolari
superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In conclusione,
anche assai prima di quest’ultima condanna, la nozione tradizionale di A. come
una specie di realtà a sè, principio e fondamento degli eventi detti mentali,
era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità funzionale o di una
qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli eventi. Ma in questa
forma la nozione rinvia a quella di coscienza (v.). L’espressione ‘ANIMA BELLA’
-- xx} yuyn; Belle dime; Schòne Seele -- è di origine mistica: Plotino già
parla dell’A. bella che è l’A. che quella in cui il sentimento morale ha finito
per assicurarsi di tutte le affezioni dell’uomo, al punto da poter abbandonare
senza timore alla sensibilità la direzione della volontà, senza mai correre il
rischio di trovarsi in disaccordo con le decisioni di questa... Un”A. bella non
ha altro merito che quello di esistere. Con facilità, come se l’istinto agisse
per lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità e il sacrificio più eroico,
che essa strappa all’istinto naturale, appare come libero effetto di quel
medesimo istinto » (Werke, ed. Karpeles, XI, 202. Cfr. PAREYSON, L’estetica
dell’Idealismo tedesco, pag. 239 sgg.). Kant non rifiutò recisamente questo
concetto di Schiller e pur attenuandolo, non negò che la virtù potesse e
dovesse accordarsi le Esperienze di Wilhelm Meister e la faceva parlare così:
«Io non mi ricordo di nessun comando; niente mi apANOMALIA 49 pare in figura di
legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto; io seguo
liberamente le mie disposizioni e so così poco di limitazione come di
pentimento ». L’A. bella è una delle figure tipiche del Romanticismo:
l’incarmazione della moralità, non come regola o dovere, ma come effusione del
cuore o dell’istinto. Scheler, pur rendendosi conto del decadentismo di questa
nozione romantica, ritiene ancora tuttavia che « l'antica questione circa il
rapporto tra l’A. bella che vuole il dover essere ideale e lo realizza non già
per dovere ma per inclinazione, e il comportamento ‘ per il dovere * a cui Kant
riduce ogni valore morale, va risolta nel senso che l’A. bella è non solo di pari
valore, ma di valore superiore » (Formalismus, pag. 226). Ma nell’uso
contemporaneo l’espressione ha assunto un significato ironico o derisorio,
designando l'atteggiamento di chi vive contento della propria presunta
perfezione morale, ignorando o misconoscendo i problemi effettivi, le
difficoltà e le lotte che rendono difficile l'esercizio di un'attività morale
efficace. Questo capovolgimento di apprezzamento è dovuto probabilmente a
Nietzsche che nella Genealogia della morale (I, $ 10) descrisse i puri di
cuore, le A. belle che si drappeggiano poeticamente della loro virtù, come «
uomini del risentimento » che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta
contro coloro che incarnano la ricchezza e la potenza della vita (v.
RISENTIMENTO). ANIMA DEL MONDO (gr. persàn yuxh; lat. Anima Mundi; ingl.
World-Soul; franc. Ame du monde; ted. Weltseele). Nozione che ricorre
frequentemente nella cosmologia tradizionale, la quale concepisce spesso il
mondo come « un grande animale », dotato perciò di un’A. propria. Così Platone
concepì il mondo nel Timeo e imaginò che l’A. di esso fosse costruita e
distribuita geometricamente nel mondo dal Demiurgo (Tim., 34 b). — La nozione
fu ripresa dagli Stoici che identificarono Dio col mondo e lo concepirono come
« un animale immortale, razionale, perfetto, intelligente e beato » (Diog. L.,
VII, 137). Per Plotino l’A. del mondo è la seconda emanazione dell’Uno o Dio e
procede dall’Intelletto, che è la prima emanazione, come questo procede
dall’Uno. L'A. universale guarda da un lato all’intelletto, dall’altro alle
cose inferiori o materiali che essa ordina e governa (Enn., V, 1, 2). Nella
Scolastica I’A. del mondo venne talora identificata con lo Spirito Santo: così
fece Abelardo (Theol. Christ., I, 17); e così fecero alcuni rappresentanti
della Scuola di Chartres (Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres). Nel
Rinascimento questa dottrina venne ripresa da Giordano Bruno che considerò Dio
come l’intelletto universale « che è la prima e principal facoltà dell'A. del
mondo, la quale è forma universale di quello {del mondo 4 — ABBAGNANO,
Disionario di filosofia, stesso] » (De /a causa, III) e fu comunemente
accettata da tutti coloro, e furono moltissimi, che ammisero la validità della
magia (Cornelio Aggrippa, Paracelso, Fracastoro, Cardano, Campanella, ecc.)
giacchè fu ritenuta il fondamento di quella « simpatia universale » fra le cose
del mondo, che il mago utilizza per i suoi incantesimi e le sue operazioni
miracolose. Del concetto di A. del mondo si servì Schellling (Sul/"A. del
mondo, 1798) per dimostrare la continuità del mondo organico e del mondo
inorganico in un fuffo che è esso stesso un organismo vivente; mentre negava
invece l’« A. mondiale » Hegel, giacchè riteneva che l’A. «ha la sua verità
effettiva solo come individualità, soggettività » (Enc., $ 391). Col prevalere
della scienza e della concezione meccanica del mondo, la nozione di A. del
mondo diveniva ovviamente inservibile. ANIMA, PARTI DELL’. V. FACOLTÀ. ANIMISMO
(ingl. Animism; franc. Animisme; ted. Animismus). Termine usato da Tylor
(Primitive Culture, 1, 1934, p. 428-29) per indicare la credenza, diffusa
presso i popoli primitivi, che le cose naturali sono tutte animate; e perciò la
tendenza a spiegare gli avvenimenti con l’azione di forze o princìpi animati.
Nell’A. così inteso il Tylor vide la forma primitiva della metafisica e della
religione. Questa dottrina partiva dal presupposto che la prima e fondamentale
preoccupazione dell’uomo primitivo sia quella di spiegare in qualche modo i
fatti che lo circondano. L'osservazione sociologica ha però mostrato che questo
non è il caso e che il primitivo è soprattutto interessato alla caccia, alla
pesca, agli eventi e alle festività della tribù: e che con questi interessi è
legato non già l'A. ma piuttosto la magia (v.). La dottrina che l’atteggiamento
magico è quello da cui è nata la religione e su cui s'impernia la cultura
primitiva è stata chiamata preanimismo. (Cfr. su di esso MARETT, The Threshold of Religion,
1909; G. FRAZER, Tie Golden Bough, 1911-14; MaLINOWSKI, Magic Science and
Religion, 1925). ANNO GRANDE. V. Cicto. ANOETICO (ingl.
Anoeric; franc. Anoétique; ted. Anoetik). Aggettivo che viene talvolta usato a
designare le funzioni diverse dall’intelletto, per es., la sensibilità, le
emozioni, ecc. ANOMALIA (ingl. Anomaly; franc. Anomalie; ted. Anomalie). In
generale ogni fatto o elemento che si scosta dal modello uniforme,
costantemente riscontrato, di un certo genere di fatti o elementi: per es., un
corpo vivente presenta un’A. se la struttura di qualche suo organo si allontana
da quella riscontrata in corpi dello stesso genere. Un fatto anomalo è un fatto
che contravviene alla previsione probabile, fondata su uniformità ricorrenti
(vedi ANOMIA (ingl. Anomy; franc. Anomie; tedesco Anomie). Termine moderno
usato soprattutto da sociologi (per es., Durkheim) per indicare l'assenza o la
deficienza di organizzazione sociale e quindi di regole che assicurino
l’uniformità degli accadimenti sociali. ANONIMIA (ted. Man). Secondo Heidegger,
è il modo d’essere livellato ‘dell’esistenza quotidiana, nella sua « medietà »
pubblica, cioè nelle forme che finisce per assumere nella vita d’ogni giorno.
In tale modo d'essere, « ognuno è gli altri e nessuno è se stesso. Il Si in cui
trova risposta il problema circa il Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a
cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-insieme »
(Sein und Zeit, $ 27) (v. MEDIETÀ). ANORMALITÀ (ingl. Abnormality; francese
Anormalité; ted. Unregelmdssigkeit). Ciò che è contrario a una norma e perciò
si sottrae, in qualche misura, alla funzione o al fine che la norma tènde a
garantire o a raggiungere. Il termine ha un significato diverso da anomalia
(v.) giacchè questa non sempre costituisce un’anormalità. L’anomalia è una
variante imprevista, un caso che si allontana dall’uniformità riconosciuta:
essa può essere e può non essere un’anormalità. Per es., un organo anomalo è
anormale solo nel caso in cui non è in grado di adempiere alla funzione che gli
sarebbe propria. ANTECEDENTE (ingl. Antecedent; franc. Antécédent; ted. Antezedens).
In Logica, il primo termine di una conseguenza (v.). o. P. ANTEPREDICAMENTI
(lat. Antepraedicamenta; ingl. Antepredicament; franc. Anteprédicament; ted.
Antepridicament). Nel Medioevo con il nome di A. si designava spesso l’/sagoge
alle Categorie di Porfirio. Inoltre la medesima parola designava anche,
naturalmente, le quinque voces (o categorie della Logica) trattate appunto
nell’/sagoge: genere (v.), specie (v.), differenza (v.), proprio (v.),
accidente (v.). Husserl ha chiamato evidenza antepredicativa quella con cui gli
oggetti si danno, con le varie modalità del loro essere, nel mondo della vita
(v.): evidenza che è a fondamento del giudizio predicativo o apofantico
(Erfahrung i agi 1939, intr.). ANTICHI E MODERNI (ingl. pe pe Moderns; franc. Anciens et
Modernes). La disputa sulia superiorità degli A. o
dei moderni nacque in Italia con i Pensieri diversi (1620) di Alessandro
Tassoni, si svolse soprattutto in Francia e in Inghilterra e vertè
sostanzialmente intorno al concetto della storia come progresso. La nozione di
progresso anzi trova appunto la sua origine da questa disputa e specialmente
nel Dialogo dei morti (1683) di Fontenelle. Il concetto che viene elaborato in
quelle discussioni era stato già espresso da Giordano Bruno con l’affermazione
che « noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori »
perchè attraverso il tempo il giudizio si matura (Cena delle ceneri, in « Op.
It. », I, 31-32); concetto che Bacone aveva a sua volta espresso con quello di
veritas filia temporis tolto da Aulo Gellio (Noct. Att., XII, 11): «
L’antichità, diceva Bacone, fu antica e maggiore rispetto a noi, ma per
rispetto al mondo nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano possiamo
aspettarci molta maggior conoscenza delle cose umane e maggior maturità di
giudizio che da un giovane — per via dell’esperienza e del gran numero di cose
da lui vedute, udite e pensate — così pure dall'età nostra (se avesse coscienza
delle sue forze e volesse darsi a sperimentare e capire) sarebbe giusto aspettarsi
più gran cose che dai tempi A., essendo questa per il mondo la maggiore età,
aiutata e arricchita da infiniti esperimenti ed osservazioni + (Nov. Oro., I,
84). Questo concetto ripetuto da Fontenelle costituì il primo nòcciolo della
nozione di progresso (v.). — (Sulla disputa degli A. e dei moderni cfr.
RIGAULT, Histoire de la querelle des Anciens et des Modernes, 1856; J. B. Bury,
7he /dea of Progress, 1932,ANTICIPAZIONE (gr. rp6anpis; lat. Anticipatio; ingl.
Anticipation; franc. Anticipation; tedesco Antizipation). Con questo termine i
logici stoici ed epicurei designavano i concetti generali (di genere e specie)
in quanto mediante essi i dati della esperienza erano « anticipati » dalla
mente (Dioc. L., VII, 1, 54). Nella filosofia moderna, sulle tconclude in una
contraddizione; nella Logica stoica il ragionamento che conclude in un dilemma,
come «è giorno oppure non è giorno» (invece in Aristotele «se è giorno, allora
non è giorno +). ANTILOGIA (gr. avrmoyla; ingl. Antilogy; franc. Antilogie;
ted. Antilogie). Contraddizione (v.). Talora il termine equivale a disputa, o
ad arte della disputa, perchè questa consiste nel contrapporre un argomento a
un altro argomento. AntiANTINOMIE s1 logici fu il titolo di un’opera di
Protagora (Dioc. L., II, 37). ANTILOGISMO (ingl. Antilogism; franc.
Antilogisme; ted. Antilogismus). Termine coniato con parole greche (&vri,
«contro » e X6yoc, « ragione +), introdotto per indicare atteggiamenti
filosofici di ostilità alla ragione discorsiva. G.P. ANTIMETAFISICO (ingl. Antimetaphysic;
franc. Antimétaphysique; ted. Antimetaphysik). Termine usato dai moderni ad
indicare un atteggiamento o un indirizzo di pensiero contrario alle pretese
della metafisica classica e cioè che si rifiuta di ammettere la validità di una
ricerca che proceda al di là dei confini dell’esperienza o che comunque metta
capo ad affermazioni non verificabili in termini di esperienza (v. METAFISICA).
Più specificamente la critica antimetafisica si dirige (seguendo l’esempio di
Hume) contro i due concetti fondamentali di sostanza e di causa o contro
l’interpretazione che renda possibile la loro applicazione ad oggetti che
trascendano il limite dell’esperienza. ANTINOMIE (ingl. Antinomies; franc.
Antinomies; ted. Antinomien). Con questo termine o con quello di paradossi sono
chiamate le contraddizioni cui mette capo l’uso della nozione assoluta di tutti
nella matematica e nella logica. Le A. in questo senso non erano ignote
all’antichità perchè fecero parte di quei ragionamenti insolubili o
convertibili di cui Megarici e Stoici si compiacevano e che furono talora anche
chiamati dilemmi (vedi DILEMMA). Tali ragionamenti vengono nella tarda
scolastica trattati nelle raccolte di /nsolubilia o di Obligatoria; e il più
famoso di essi è quello del mentitore che già Cicerone ricordava: « Se tu dici
che mentisci, o dici il vero e allora menti o dici il falso e allora dici la
verità » (Acad., IV, 29, 96). Questo paradosso veniva nel sec. xIv discusso da
Ockham (Summa Log., III, II, 38). Nella logica contemporanea, la prima contraddizione
del genere fu messa in luce da Burali Forti nel 1897 e riguardava la serie dei
numeri ordinali: se la serie di tutti i numeri ordinali ha un numero ordinale,
che sia, per es., w, anche è sarà un numero ordinale, sicchè la serie di tutti
i numeri ordinali avrà il numero w + 1, più grande di w e è non sarà il numero
ordinale di tutti gli ordinali (« Una. questione sui numeri transfiniti », in
Rend. del Circolo Matematico di Palermo, 1897). Ma il più famoso paradosso, che
richiamò l’attenzione su tutti gli altri, fu quello di Russell, che concerne la
classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse. Ci sono classi che
non sono membri di se stesse, come, ad es., la classe degli uomini: la quale,
non essendo un uomo, non è membro di se stessa. Ci sono invece classi che sono
membri di se stesse, come la «classe dei concetti », che è essa stessa un
concetto. Ora la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse è,
o no, membro di se stessa? Se sì, contiene un membro che è membro di se stesso
e pertanto non è più la classe di tutte le classi che non contengono se stessa
come membro. Se no, sarà una delle classi che non contengono se stessa come
membro e deve perciò appartenere alla classe di tali classi. Questo paradosso
pubblicato da Russell nel 1902 ha dato poi luogo alla riorganizzazione che
della logica matematica hanno fatto Whitehead e Russell nei Principia
Mathematica (1910-13). Ao di variazione è un insieme di oggetti individuali.
Sono di grado due quelle fornite di una variabile apparente che sta in luogo di
una funzione proposizionale di grado uno; e così via. Posto ciò, si stabilisce
la regola che non si possono trattare sullo stesso piano proposizioni
ricavabili da funzioni di grado diverso. Per es., l’A. del mentitore dipende
dal fatto che la frase «io mento » s’interpreta nel senso: « Qualunque sia la
mia presente affermazione x, x è una menzogna »; e che si identifica questa
frase, che chiamiamo », con l’affermazione x. Ma in realtà y è di grado diverso
da x perchè x è la variabile apparente contenuta in y: perciò non può essere
identificata con y. In altre parole, quando si dice ‘ io mentisco ’, non
s’intende che è una menzogna la frase stessa «io mentisco » ma che è una
menzogna qualche altra frase cui essa fa riferimento. Russell tuttavia per
rendere possibile in matematica quel tipo di asserzione impropriamente espressa
con la frase (che dà luogo alle A.) «tutte le proprietà di x, introduceva
l’assioma delle classi o assioma di riducibilità. Egli diceva: «Sia g x una funzione,
di qualsiasi ordine, di un argomento x che può essere o un individuo o una
funzione di qualsiasi ordine. Se ® è dell’ordine immediatamente superiore a x,
scriviamo la funzione nella forma p!x; e in tal caso chiameremo ® una funzione
predicativa. Così la funzione predicativa di un individuo è una funzione di
primo ordine; e per argomenti di tipo più alto le funzioni predicative prendono
il posto che le funzioni di primo ordine prendono nei rispetti degli individui.
Noi assumiamo allora che ogni funzione è equivalente, per tutti i suoi valori,
a qualche funzione predicativa dello stesso argomento » (Mathematical Logic,
ecc., Op. Cit., pagina 81-82). Russell riteneva di avere in questo modo salvato
il concetto di classe dall’A. e nello stesso tempo di averlo reso ancora
utilizzabile nella sua funzione fondamentale, che sarebbe quella di ridurre
l’ordine delle funzioni proposizionali; ma l’assioma suscitò molte critiche,
che mostrarono specialmente come esso aveva l’effetto di restaurare la
possibilità di quelle definizioni impredicative che la teoria dei gradi era
diretta ad eliminare (cfr. su tali critiche A. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, $ 59, n. 588). Lo stesso Russell nella Introduzione alla
seconda edizione dei Principia Mathematica (1925) raccomandava l’abbandono
dell’assioma di riducibilità. Ramsey propose allora di dividere le A. in due
categorie: le antinomie /ogiche (in senso stretto) che sono quelle
esemplificate dall’A. di Russell e che non fanno riferimento alla verità o
falsità delle espressioni; e le A. sintattiche, esemplificate dall'A. del
mentitore, che sono quelle che nascono dal riferimento semantico e si possono
perciò anche chiamare semantiche o epistemologiche (Foundations of Mathematics,
1931). Ramsey osservò che le antinomie della seconda specie non compaiono nei
sistemi logistici ma solo nei testi che li accompagnano e che pertanto esse
possono essere trascurate dalla logica in quanto ha per oggetto la costruzione
di sistemi simbolici. Per le A. logiche, invece, Ramsey osservò che basta la
teoria semplice dei tipi; la cui regola fondamentale, Carnap, seguendo il
suggerimento di Ramsey, ha così formulata: « Un predicato appartiene sempre a
un tipo diverso da quello dei suoi argomenti (cioè appartiene a un tipo di
livello più alto); e perciò un enunciato non può avere mai la forma ‘F(F)’»
(The Logical Syntax of Language, $ 60 a). Questa regola basta a evitare le
definizioni impredicative (v.): sicchè la teoria dei tipi semplici è quella
oggi più comunemente accettata dai logici, per ciò che concerne le A. logiche.
2° La seconda soluzione fondamentale delle A. riguarda invece le A. sintattiche
cioè semanticoepistemologiche, che sono quelle nelle quali ricorrono i concetti
di vero e falso. Questa soluzione consiste nel considerare quelle A. come
proposizioni indecidibili cioè come proposizioni sulla cui verità o falsità la
struttura della lingua, nella quale esse sono formulate, non permette di
decidere nè in un senso nè nell’altro. Mediante un ampliamento della lingua
considerata, tali proposizioni possono diventare suscettibili di decisione; ma
a sua volta tale ampliamento può dar luogo ad altre proposizioni indecise. Una
soluzione di questo genere era stata già prospettata da Ockham quando,
nell’analisi del paradosso del mentitore, aveva riconosciuto il carattere
indecidibile degli enunciati autoriflessivi. Così, diceva Ockham, non è
legittimo porre che A significhi « A significa il falso». È certamente
possibile che A significhi il falso; ma appunto perchèANTINOMIE è possibile, e
soltanto tale, esso non significa nè il vero nè il falso (Summa Log., III, II,
38). Questo punto di vista è stato oggi rafforzato dal cosiddetto teorema di
Gédel secondo il quale è impossibile provare la non contraddittorietà di un
sistema logistico con i mezzi di espressione contenuti nello stesso sistema («
Ùber formal unentscheidbare Sétze der Principia Mathematica und verwandter
Systeme », in Monatsh. Math. Phys., 1931). Posto ciò, si può intendere come le
A. sintattiche nascano quando i predicati vero e falso, riferiti a un
linguaggio determinato S, sono usati dentro questo stesso linguaggio.
Dall’altro lato, la contraddizione può essere evitata adoperando i predicati
‘vero (in S)” e ‘falso (in S)” in una sintassi di S, che non è formulata nello
stesso S; ma in un altro linguaggio Sy (CARNAP, Logical Syntax of Language, $
60b). Questo equivale a dire che l'affermazione «io mentisco» può essere vera
al livello di un certo linguaggio e falsa al livello di un altro linguaggio; e
che cioè essa rimane indecisa finchè non si è determinato il livello del
linguaggio a cui viene riferita. Soluzioni sostanzialmente simili a queste sono
state proposte da Quine (Mathematical Logic, 1940, cap. VII; cfr. From a Logical
Point of View, VII, 3) e da Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 57). ANTINOMIE KANTIANE (ingl.
Kanzian Antinomies; franc. Antinomies kantiennes; ted. Kants Antinomien). La parola A. significa propriamente «conflitto di
leggi» (QUINTILIANO, /nst. Or., VII, 7, 1) ma fu estesa da Kant a indicare il
conflitto in cui la ragione viene a trovarsi con se stessa in virtù dei suoi
stessi procedimenti. Kant parlò delle A. nel campo della cosmologia razionale,
cioè della dottrina che ha per oggetto l’idea del mondo. Questa idea, come
tutte le idee della ragion pura (v. IDEA), nasce dal tentativo, illegittimo
secondo Kant, di applicare le categorie a se stesse, cioè dall’uso riflessivo
delle categorie. L’idea di mondo è infatti «l’unità incondizionata delle
condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in generale ». Le «
condizioni oggettive, ecc. », sono le categorie e i princìpi da esse derivati;
e l’unità è ancora una categoria. Le A. che sorgono in questo modo sono,
secondo Kant, naturali o inevitabili: naturali perchè l’idea di mondo, che ad
esse dà origine, per quanto priva di validità empirica e quindi conoscitiva, è
formata dalla ragione con un procedimento naturale che consiste nell’applicare
alle categorie le stesse categorie, che dovrebbero essere invece applicate
soltanto ai fenomeni; inevitabili, perchè una volta formatasi l’idea di mondo
come la totalità assoluta, incondizionata, di tutti i fenomeni e delle loro
condizioni, non si può in alcun modo evitare di giungere a proposizioni
contraddittorie. Kant enumera quattro A. che corrispondono ai quattro gruppi di
categorie, cioè alle categorie secondo la qualità, la quantità, la relazione e
la modalità. Ecco le quattro A.: 18 Antinomia. Tesi: il mondo ha un inizio nel
tempo e, nello spazio, è chiuso dentro limiti. Antitesi: il mondo non ha nè
inizio nel tempo nè limite nello spazio ma è infinito sia nel tempo che nello
spazio. 2 Antinomia. Tesi: ogni sostanza composta consta di parti semplici e
non esiste altro che il semplice o ciò che risulta composto dal: semplice.
Antitesi: non esiste al mondo alcuna cosa composta di parti semplici e non
esiste in nessun luogo niente di semplice. 3» Antinomia. Tesi: la causalità
secondo leggi della natura non è la sola da cui possano essere spiegati i
fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una
causalità della libertà. Antitesi: non c’è alcuna libertà, ma tutto nel mondo
accade unicamente secondo le leggi della natura. 48 Antinomia. Tesi: nel mondo
c’è qualcosa che o come sua parte o come sua causa è un essere assolutamente
necessario. Antfitesi: in nessun luogo esiste un essere assolutamente
necessario nè nel mondo nè fuori del mondo come sua causa. Sia la tesi che
l’antitesi di ciascuna di queste A. è dimostrabile con argomenti logicamente
ineccepibili: tra l’una e l’altra è quindi impossibile decidere. Il conflitto
pertanto rimane e dimostra l’illegittimità della nozione che gli ha dato
origine, cioè dell’idea di mondo. Questa, essendo al di là di ogni esperienza
possibile, rimane inconoscibile e non può fornire alcun criterio àtto a
decidere per l’una o l’altra delle tesi in conflitto. L’illegittimità della
nozione di mondo risulta evidente dal fatto che la tesi delle A. presenta un
concetto di esso troppo piccolo per l’intelletto, mentre l’antitesi presenta un
concetto troppo grande per l'intelletto stesso. Così, se il mondo ha avuto un
principio, regredendo empiricamente nella serie dei tempi bisognerebbe arrivare
ad un momento in cui questo regresso si arresta; e questo è un concetto del
mondo troppo piccolo per l’intelletto. Se invece il mondo non ha avuto un
principio, il regresso nella serie del tempo non può mai esaurire l’eternità; e
questo è un concetto troppo grande per l’intelletto. Lo stesso si dica per la
finità o l’infinità spaziale, per la divisibilità o io di sommo bene: «O il
desiderio della felicità dev'essere la causa movente per la massima della virtù
o la massima della virtù dev'essere la causa efficiente della felicità »; ed
una A. del giudizio teleologico (Critica d. Giud., $ 70) che è formata dalla tesi
« Ogni produzione delle cose materiali è possibile secondo leggi puramente
meccaniche » e dall’antitesi « Alcuni prodotti della natura non sono possibili
secondo leggi puramente meccaniche ». A proposito delle A. kantiane, Hegel le
interpretava come se Kant avesse voluto togliere la contraddizione dal mondo in
se stesso e attribuirla alla ragione. E aggiungeva: «È questa una troppo grande
tenerezza per il mondo, voler allontanare da esso la contraddizione per
trasportarla invece e lasciarla altro le tesi di esse e rigettava le antitesi,
riconoscendo così la finità del mondo nello spazio e nel tempo (Essais de
critique générale, I, pag. 282). Il risultato raggiunto dalla discussione
kantiana delle A. è tuttavia importante. Esso consiste nell’aver messo in quarantena
l’idea tradizionale del mondo come totalità assoluta e nell’aver insegnato
l’uso critico del concetto di mondo. L’ANTIPERISTASI -- dvrireplotani;
Antiparistasis – e uno dei modi tradizionali di spiegare il movimento dei
proiettili; poichè la natura non permette il vuoto, quando un corpo esce
velocemente dal luogo in cui stava, l’aria si precipita in questo luogo e
spinge il corpo stesso che passa così ad un altro luogo; e così via, per tutta
l’estensione del movimento. A questa spiegazione, Aristotele obiettava che essa
non tiene conto del fatto che esiste un corpo che non è mosso da altro: il
cielo (Fis., VIII, 10, 267 a 12). La nozione fu criticata da coloro che
elaborarono la dottrina dell’impeto (v.): per es., da Buridano (Quaesr. super
physicam, VIII, q. 12. Cfr. anche BoviLLo, De Nihilo, in Opera, 1510, f. 72
v.). ANTISTORICISMO (ingl. Antihistoricism; franc. Antihistoricisme; ted.
Antihistorismus). Termine adoperato soprattutto da Croce per designare
l’Illuminismo che, come «razionalismo astratto » avrebbe considerato « la
realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo di idee o di valori e in un
basso mondo che le riflette o le ha riflesse finora in modo fuggevole o
imperfetto e al quale converrà una buona volta imporli, facendo succedere alla
storia imperfetta o alla storia senz’altro una realtà razionale perfetta » (La
storia, pag. 51). Da questo punto di vista, sono « antistoriche » tutte le
dottrine che distinguono ciò che è da ciò che dev'essere e cioè che non
ammettono l’identificazione hegeliana di realtà e razionalità. — In realtà,
l’Illuminismo non è « antistoricismo » ma piuttosto « antitradizionalismo », in
quanto ha costituito la prima e più radicale condanna della tradizione come
portatrice e garante di verità (v. ILLUMINISMO; TRADIZIONE). ANTITESI (gr.
d&vrtdeoc; ingl. Antithesis; franc. Antithèse; ted. Antithesis). 1.
Contrapposizione: Aristotele dice che la contraddizione è una A. che non ha
termine medio (An. post., I, 2, 72 a 10). 2. Uno dei due termini della contrapposizione,
quello che si oppone alla tesi. In questo senso Kant chiamò A. il secondo
membro dell’antinomia (v.) ed Hegel chiamò A. il secondo momento del
procedimento dialettico detto appunto « momento dialettico » o « negativo
razionale». ANTITETICA (ted. Antithetik). Kant intese con questo termine «un
conflitto di conoscenze in apparenza dogmatiche (thesis cum antithesi) a
nessuna delle quali si attribuisca un diritto prevalente all’assenso ». L’A. si
opporrebbe così alla Tetica (v.). In particolare, l’A. trascendentale è «una
ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo
risultato » (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. II, sez. II). ANTITIPIA
(gr. dvritria; lat. Antitypia; ingl. Antitypy). Termine d’origine epicurea
(SESTO, Adv. Math., I, 21) adoperato da Leibniz per indicare l'attributo della
materia per il quale «essa è nello spazio » e per il quale perciò un corpo è
impenetrabile all’altro (Op., ed. Erdmann, pag. 463, 691). ANTROPOLOGIA (ingl.
Anthropology; francese Anthropologie; ted. Anthropologie). L’esposizione
sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo. In questo senso
generale l’A. è stata ed è una parte di ogni filosofia; ma come disciplina
specifica e relativamente autonoma essa APATIA 55 è nata solo in tempi moderni.
Kant distinse un’A. fisiologica che considera quel che la natura fa dell’uomo
da un’A. pragmatica che considera invece quello che l’uomo come essere libero
fa, oppure può suo oggetto proprio non solo nell’analisi e nella
classificazione dei linguaggi ma nella comprensione, attraverso i linguaggi,
della psicologia individuale e di gruppo (cfr., R. Linton, ed. The Science of
Man in the World Crisis, 1945, 1952”). Secondo Lévi-Strauss lA. si distingue
dalla sociologia in quanto tende ad essere la scienza sociale dell’osservato
mentre la sociologia tende ad essere la scienza sociale dell'osservatore
(Anthr. structurale, 1958, cap. XVII). I filosofi hanno spesso sottolineato
l’importanza dell’A. come scienza filosofica, cioè come determinazione di ciò
che l’uomo deve essere, nei confronti di ciò che è. Humboldt, per es., voleva
che l’A., pur movendo a determinare le condizioni naturali dell’uomo
(temperamento, razza, nazionalità, ecc.) mirasse a scoprire, attraverso di
esse, l’ideale stesso dell'umanità, la forma incondizionata, alla quale nessun
individuo si adegua mai perfettamente ma che rimane lo scopo cui tutti gli
individui tendono ad avvicinarsi (Schriften, I, pag. 388 sgg.). In tal senso
l’A. è stata intesa da Scheler (// posto dell’uomo nel cosmo, 1928) che perciò
la colloca in un posto intermedio tra la scienza positiva e la metafisica. —
Più specificamente il còmpito dell’A. filosofica dovrebbe essere quello di
considerare l’uomo non già semplicemente come natura, come vita, come volontà,
come spirito, ecc., ma precisamente come uomo e cioè di riportare il complesso
delle condizioni o degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza
specifico. Tale è l’esigenza prospettata, per es., da Biswanger (Ausgewédhite
Vortràge und Ausdtze, I, pag. 176). E in questo senso il Saggio sull'uomo
(1944) di Cassirer è una ricerca di A. filosofica che si accentra intorno al
concetto dell’uomo come animal symbolicum, cioè come animale che parla e crea
l’universo simbolico della lingua, del mito e della religione. ANTROPOMORFISMO
(inglese Anthropomorphism; franc. Anthropomorphisme; ted. Anthropomorphismus).
S'indica con questo nome la tendenza a interpretare ogni tipo o specie di
realtà nei termini del comportamento umano o per somiglianza o analogia con
questo comportamento. « Credenze antropomorfiche » 0 « antropomorfismi » sono
dette solitamente le interpretazioni di Dio in termini di condotta umana. Una
critica di tale A. fu già fatta da Senofane di Colofone. « Gli uomini, egli
disse, credono che gli dèi hanno avuto nascita e hanno voce e corpo simili al
loro » (Fr. 14, Diels) perciò gli Etiopi fanno i loro dèi camusi e neri, i
Traci dicono che hanno occhi azzurri e capelli rossi; e anche i buoi, i
cavalli, i leoni, se potessero, imaginerebbero i loro dèi a loro somiglianza
(Fr. 16, 15). — Ma l’A. non appartiene soltanto al dominio delle credenze
religiose. L'intera scienza moderna si è venuta formando attraverso una
progressiva liberazione dall'A. e lo sforzo di considerare le operazioni della
natura non secondo la loro somiglianza con quelle dell’uomo, ma juxta propria
principia. PANTROPOSOFIA (ingl. Anthroposophy, francese Anthroposophie; ted.
Anthroposophie). Il termine fu creato da J. P. V. Troxler per indicare, la
dottrina naturale della conoscenza umana (Naturlehre der menschlichen
Erkenntnis, 1828) e ripreso da R. Steiner quando, nel 1913 si distaccò dal
movimento teosofico e volle sottolineare l’importanza della dottrina intorno
alla natura e al destino dell’uomo. Cfr. STEINER, Die Rétsel der Philosophie, 2
voll., 1924-26 (v. TEOSOFIA). APAGOGICO, PROCEDIMENTO. Vedi ABDUZIONE;
RIDUZIONE. APATIA (gr. &rdBeva; ingl. Apathy; franc. Apathie; ted.
Apathie). Il termine propriamente significa insensibilità; ma nell’uso
filosofico antico esso designò l’ideale morale dei Cinici e degli Stoici, cioè
l'indifferenza verso tutte le emozioni e il disprezzo di esse: indifferenza e
disprezzo raggiunti attraverso l’esercizio della virtù. In questo senso, per
cui l’insensibilità non è una dote nativa e naturale, ma un ideale di vita
difficile a raggiungersi, Cinici e Stoici videro nell’A. la felicità stessa
(Diog. L., VI, 1, 8-11). Kant vide nell’A. un nobile ideale, ma aggiunse che la
natura fu saggia a dare all’uomo la simpatia, per guidarlo provvisoriamente e
cioè prima che la ragione raggiunga in lui la sua maturità, come un aiuto o
appoggio sensibile alla legge morale e surrogato temporaneo della ragione
(4ntr., $ 75). L’età moderna e contemporanea, nonostante la grande suggestione
che l’etica stoica ha sempre esercitato, non si mostra propensa all’ideale
dell’A., giacchè essa è portata a riconoscere il valore positivo delle emozioni
e ad evitare, perciò, la condanna sommaria e totale di esse che è inclusa nella
nozione di apatia (v. EMOZIONE). APEIRON (gr. &repov). L'infinito o
l’indeterminato: secondo Anassimandro di Mileto, il principio e l'elemento
primordiale delie cose. Esso non è una miscela dei vari elementi corporei, in
cui questi siano compresi ognuno con le sue qualità determinate; ma piuttosto è
una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti e che perciò, oltre
che infinita, è anche indefinita o indeterminata (Diels, A, 9). Questa duplice
determinazione di infinità nel senso di inesauribilità e di indeterminatezza è
poi rimasta per molto tempo attaccata al concetto di infinito (v.). APERTO
(ingl. Open; franc. Ouvert). Aggettivo adoperato frequentemente in senso
metaforico nel linguaggio comune e filosofico per indicare atteggiamenti o
istituzioni che ammettono la possibilità di una partecipazione o comunicazione
estesa o addirittura universale. Uno «spirito aperto» è uno spirito accessibile
a suggerimenti, consigli, critiche che gli vengono dagli altri o dalla stessa
situazione e che è disposto a tenere nel massimo conto, cioè senza pregiudizi,
tali suggerimenti. Una «società aperta» è una società che rende possibile per
vie pacifiche la correzione delle proprie istituzioni (K. Popper, The Open
Society and its Enemies, London, 1945). Bergson chiamò società aperta quella
che «abbraccia l’umanità intera» (Deux sources, 1932, I; trad. ital., pag. 28).
C. Morris ha issa che interpreta il succedersi dei mondi come il teatro della
progressiva rieducazione degli esseri alla condizione beata originaria.
Gregorio afferma anche recisamente il carattere universale dell’A.: « Perfino
l’inventore del male (cioè il demonio), unirà la propria voce all’inno di
gratitudine al Salvatore » (De hom. opif., 26). Nell’età moderna una dottrina
analoga è stata sostenuta da Renouvier nella Nuova Monadologia (1899): viene
qui ripresa la tesi di Origene di una pluralità di mondi successivi e del
passaggio da un mondo all’altro determinato dall’uso che l’uomo fa della
libertà in ciascuno di essi; e la si corregge solo nel senso che «la fine
raggiunta si ricongiunge col principio, non nell’indistinzione delle anime, ma
nell’umanità perfeer oggetto la verità necessaria, cioè la verità propriamente
detta e che ci conduce attraverso l’apodissi cioè la dimostrazione alla
scienza, sicchè giustamente viene chiamata sia apodittica sia epistemonica»
(Logica Hamburgensis, 1638, IV, I, cap. I, $ 1). Questo nome è stato poi
raramente usato (cfr., ad es., BOUTERWEK, /deen zu einer Apodiktik, 1799).
APODITTICO (gr. &rodemtixéc ; lat. Apodicticus; franc. Apodictique; ted.
Apodiktisch). 1. Dimostrativo. Questo è il significato generale e fondamentale
del termine: significato che esso ha in Aristotele sia quando Aristotele lo
riferisce alla proposizione (An. Pr., I, 1, 24 a 30) sia quando lo riferisce
alla scienza, definita come «abito dimostrativo » (Fr. Nic., VI, 3, 1139 b 31).
2. Necessario. Questo secondo significato è stato introdotto come significato
primario da Kant che chiamò A. i giudizi in cui l’affermazione o la negazione
si considera come necessaria. « La proposizione A., scrisse Kant, pensa il
giudizio assertorideterminato attraverso le leggi dello stesso intelletto e
perciò affermato a priori; ed esprime così una necessità logica » (Crit. R.
Pura, $ 9, 4). Questa, ovviamente, non è la necessità della dimostrazione. Kant
però non escluse neppure il significato tradizionale perchè divise le
proposizioni apodittiche in quelle dimostrabili e quelle immediatamente certe
(Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I [A 736, B 764]). L’uso di Kant è
stato seguito da Husserl che ha parlato di « visione A. + e di «evidenza A.?
(Ideena verità contemplata l’uomo greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e
assurdo dell’esistenza: l’arte gli venne in soccorso, trasfigurando l’orribile
e l’assurdo in imagini ideali, per virtù delle quali la vita fu resa
accettabile (Geburr der Tragòdie, $ 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo
spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dètte
luogo alla tragedia e alla commedia. Più tardi Nietzsche vide nello spirito
dionisiaco il fondamento stesso dell’arte in quanto questa «corrisponde agli
stati di vigore animale » (Wille sur Macht, $ 361, ed. Kroner, 802). Lo stato
apollineo non è che la risultanza estrema dell’ebbrezza dionisiaca, una specie
di semplificazione e concentrazione dell’ebbrezza stessa. Lo stile classico
rappresenta questo stato ed è la forma più elevata del sentimento di potenza.
Sull’esempio di Nietzsche, Spengler ha chiamato apollinea « l’anima della
cultura antica che ha scelto il corpo individuale presente e sensibile come
tipo ideale della estensione ». Apollinei sono «la statica meccanica, i culti
materiali degli dèi dell'Olimpo, le città greche politicamente isolate, la
sorte di Edipo e il simbolo del fallo» (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Questa caratterizzazione come quella corrispondente di faustismo (v.) è
perfettamente arbitraria e fanAPOLOGETICA (ingl. Apologetics; franc.
Apologétique; ted. Apologetik). La disciplina che ha per oggetto la difesa
(apologia) di un determinato sistema di credenze. Il termine viene più
frequentemente riferito alla difesa delle credenze religiose: per es., « A.
cristiana ». APOLOGISTI (ingl. Apologists; franc. Apologistes; ted.
Apologeten). Si chiamano con questo nome i Padri della Chiesa del n secolo che
scrivevano in difesa (apologia) del Cristianesimo contro gli attacchi e le
persecuzioni che gli venivano mossi. La prima apologia di cui si abbia notizia
(ma ne rimane solo un frammento) è la difesa presentata all'imperatore Adriano
intorno al 124 da Quadrato, discepolo degli Apostoli. Il principale dei Padri
A. è Giustino. Altri autori di apologie sono Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ermia. Coi Padri A. comincia l’attività filosofica cristiana. La tesi comune
che essi difendono è che il Cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile
ed è il risultato ultimo al quale la ragione deve giungere. I filosofi pagani
conobbero semi di verità che essi non potettero intendere appieno: i Cristiani
conoscono la verità intera perchè Cristo è il /ogos, cioè la ragione stessa
della quale partecipa tutto il genere umano. L’apologetica di questi Padri
costituisce perciò il primo tentativo di inserzione del Cristianesimo nella
storia della filosofia classica. APONIA (gr. &rovia; ingl. Aponia; franc.
Aponie; ted. Aponie). L'assenza di dolore come piacere stabile, e quindi
eticamente accettabile, nell’etica di Epicuro (Fr. 2, Usener). APOREMA (gr.
&répnua; ingl. Aporem; francese Aporème; ted. Aporem). In Aristotele (Top.,
VIII, 11, 162 a), è definito come un ragionamento dialettico che conclude ad
una contraddizione, e quindi che non permette di stabilire per quale dei due
corni della contraddizione stessa si debba scegliere. G.P. APORETICA (ingl.
Aporetic; franc. Aporétique; ted. Aporetik). Così Nicolai Hartmann ha chiamato
(da aporia = dubbio) quello stadio della ricerca filosofica che consiste nel
mettere alla luce i problemi cioè tutti quegli aspetti dei fenomeni che non
sono stati compresi e che perciò costituiscono le aporie naturali
(Systemarische Philosophie, $ 5). APORIA (gr. &ropla; ingl. Aporia; franc.
Aporie; ted. Aporie). Questo termine viene usato nel senso di dubbio razionale
cioè di difficoltà inerente a un ragionamento e non di stato soggettivo di
incertezza. Essa è perciò il dubbio oggettivo, l’effettiva difficoltà di un
ragionamento o della conclusione cui un ragionamento mette capo. Per es., « Le
A. di Zenone d’Elea sul movimento », « Le A. dell’infinito », ecc. A
POSTERIORI. V. A PRIORI. APPARENZA (gr. tò qparvuevov; lat. Apparentia; ingl.
Appearance; franc. Apparence; tedesco Erscheinung). Questo termine ha avuto
nella storia della filosofia due significati simmetricamente opposti. Esso è
stato inteso: 1° come nascondimento della realtà; 2° come manifestazione o
rivelazione della realtà stessa. Secondo il significato 1°, l’A. vela od oscura
la realtà delle cose sicchè questa non si può conoscere se non procedendo al di
là dell’A. e prescindendo da essa. Secondo il significato 2°, l’A. è ciò che
manifesta o rivela la realtà stessa, sicchè questa trova nell’A. la sua veriA.
e realtà fu per la prima volta stabilito in modo netto e tagliente da Parmenide
d’Elea che contrappose «la via della verità e della persuasione », che ha per
oggetto l’essere, la sua unità, inevitabilità e necessità, alla «via
dell’opinione» che ha per oggetto il non essere, cioè il mondo sensibile nel
suo divenire. Ma il mondo dell’opinione e il mondo dell’A. coincidono, secondo
Parmenide: « Anche questo imparerai: come siano verosimilmente le cose
apparenti per chi le esamini in tutto e per tutto» (Fr. 1, 31, Diels). La
stessa coincidenza tra A. e opinione, opinione e sensazione è presupposta da
Platone, che interpreta il principio protagoreo dell’homomensura come se
significasse « quali le cose appaiono a me tali sono per me» e pertanto come se
identificasse conoscenza e sensazione (7eef., 152 a). D'altra parte il mondo
dell'opinione è, secondo la Repubblica, il mondo sensibile diviso nei suoi due
segmenti delle ombre e imagini riflesse, e delle cose e degli esseri viventi
(Rep., VI, 510). Di questo mondo delle A. sensibili non si può avere, secondo
Platone, che conoscenza verosimile o probabile, data la sua natura incerta e
sfuggente: conoscenza che differisce non di grado ma di qualità dalla
conoscenza scientifica o razionale che ha per oggetto l’essere (7irm., 29). Lo
stesso Platone tuttavia affermando che l’oggetto dell’opinione sta all’oggetto
della conoscenza come l’imagine sta al modello (Rep., VI, 510a), ammise un
rapporto di somiglianza o di corrispondenza tra A. e realtà. Ma il passo
decisivo fu fatto da Aristotele che riconobbe la neutralità dell’A. sensibile:
questa, sia come sensazione, sia come imagine può essere tanto vera che falsa.
Certamente hanno torto coloro che ritengono che è vero tutto ciò che appare
giacchè questi dovrebbero ammettere anche la realtà dei sogni; e, rispetto al
futuro, non potrebbero stabilire alcuna differenza tra il parere dell’esperto
(per es., del medico che fa la prognosi) e il parere dell’ignorante (Mer., IV,
5, 1010 b 1 sgg.). L'A. non contiene quindi nessuna garanzia di verità e solo
il giudizio intellettuale su di essa può certificarla o confutarla. Ma
d’altronde essa è il punto di partenza della stessa ricerca scientifica la
quale, come è chiarito da ciò che i matematici fanno ril’intero mondo sensibile
come l’A., cioè la manifestazione, del mondo intellegibile, e quest’ultimo come
l’A. o l’imagine di Dio stesso: pensiero che sarà ereditato da Scoto Eriugena:
« Tutto ciò che s’intende e si sente non è altro che l’apparizione
dell’apparente, la manifestazione dell’occulto (De divis. nat., III, 4)». Da
questo punto di vista «il mondo è una teofania, ogni opera della creazione
manifesta l’essenza di Dio che perciò diventa apparente e visibile in essa e
per essa » (/bid., I, 10; V, 23). Lungo l’una o l’altra di queste due vie
procede quella che si potrebbe chiamare la rivalutazione dell’A. del mondo
moderno. Lungo la prima procede quella che si potrebbe chiamare la
rivalutazione empiristica. Già nella Scolastica del °300, Pietro Aureolo
partendo dalla negazione di ogni realtà universale e nell’intento di eliminare
la species come intermediaria della conoscenza intellettuale, affermava che «
le cose stesse sono viste dalla mente e ciò che si vede non è una qualche forma
speculare ma è la cosa stessa nel suo essere apparente (esse apparens) e questo
essere apparente è ciò che chiamiamo concetto o rappresentazione oggettiva »
(In Sent., I, d. 9, a. 1). La distinzione tra il senso e l’intelletto non
dipende perciò dalla natura dell'oggetto appreso ma dal modo di apprendere. Al
senso e all’imaginazione le cose appaiono sotto le condizioni della quantità
mentre l’intelletto astrae da ciò che è quantitativo e materiale (/bid., I, d.
35, a. 1). Ma è solo nel mondo moderno, a partassunta come punto di partenza
dell'indagine che concerne le cose non create dall’uomo (al modo in cui le
definizioni sono il punto di partenza per l'indagine delle cose create
dall’uomo, cioè degli enti matematici e politici). Con queste parole di Hobbes
era posto il fondamento dell’empirismo moderno. Esso, mentre sottolineava il
carattere relativo e soggettivo delle A. sensibili, le assunse come l’unico
fondamento della conoscenza umana. Locke osserva che se i nostri sensi
venissero modificati e resi più pronti cd acuti, l’A. delle cose muterebbe
completamente; ma con ciò essa diverrebbe anche incompatibile con l’essere
nostro o almeno con i bisogni della nostra vita (Saggio, II, 23, 12). «A.
sensibili» sono le idee di cui parla Berkeley (Prinma Kant, che i corpi paiano
semplicemente esseri esterni o che l’anima mia paia semplicemente data nella
mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del tempo,
secondo le quali, come condizione della loro esistenza, pongo quelli e questa,
sono nel mio modo di intuire e non in questi oggetti. Sarebbe un errore il mio,
se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come fenomeno » (Crif.
R. Pura, Estetica trascendentale, Osservazioni gen., 3). L'affermazione: «I
sensi ci rappresentano gli oggetti come appaiono, l’intelletto come sono» viene
interpretata da Kant nel senso che l’intelletto rappresenta gli oggetti nella
connessione universale dei fenomeni (il che non dice che essi siano
indipendenti dalla relazione con l’esperienza possibile e quindi dalle « A.
sensibili +) (/bid., Analitica dei princìpi, cap. III). L’A. fenomenica è
dunque chiamata tale solo per sottolinearne le connessioni con le condizioni
soggettive del conoscere e per distinguerla dall’ipotetica conoscenza noumenica
in modo da poterne chiaramente stabilire i limiti (v. FENOMENO). Dall’altro
lato la stessa negazione del carattere ingannevole dell’A., è stata utilizzata,
nella filosofia moderna, per ribadire il carattere assoluto della conoscenza
umana. Così Hegel vede nell’A. fenomenica l’essenza stessa. A. ed essenza non
si oppongono ma s’identificano: l’A. non è che l'essenza che esiste nella sua
immediatezza. « L’apparire, egli dice, è la determinazione per mezzo di cui
l’essenza non è essere ma essenza; e l’apparire sviluppato è il fenomeno.
L’essenza non è perciò dietro o di là del fenomeno; ma, perciò appunto che
l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è il fenomeno + (Enc., $ 131). Vero è
che come determinazione « immediata », l’A. è destinata, secondo Hegel, ad
essere assorbita o superata da altre determinazioni, riflesse o mediate, nello
sviluppo dialettico dell’Idea assoluta; ma è pur vero che l’intera dottrina di
Hegel è sorretta dal pensiero che non c’è realtà così recondita che in qualche
modo non si manifesti ed appaia. Nella filosofia contemporanea questo punto di
vista ha trovato la sua migliore espressione per opera di Heidegger. « Quale
significato dell’espressione ‘fenomeno * è quindi da tener ben fermo il
seguente: ciò che si manifesta in se stesso, il rivelato... Questo manifestarsi
lo definiamo come apparire (Scheinen). Anche in greco l’espressione
phainomenon, ha questo significato: ciò che ha l’aspetto di apparente, A.
Soltanto perchè qualcosa, in virtù del suo senso, pretende in generale di
manifestarsi, cioè di essere fenomeno, è possibile che essa si manifesti come
qualcosa che non è, cioè abbia l’aspetto di... Noi riserviamo al termine ‘
fenomeno * il significato positivo e originario di phainomenon e distinguiamo
fenomeno da A., considerando quest’ultima come una modificazione privativa di
fenomeno» (Sein und Zeit, $ 7A). Questo tuttavia non vuol dire che la filosofia
contemporanea ha identificato l’essere con l’apparenza. Essa ha piuttosto
riproposto in nuova forma il problema del loro rapporto passando a considerare
questo rapporto in forma oggettiva od ontologica cioè senza riferimento ad una
qualsiasi soggettivazione idealistica. Non è senza ragione che l’ultima opera
importante nella quale sia stato dibattuto nella forma tradizionale il problema
del rapporto tra apparenza e realtà appartiene a un idealista: F. H. Bradley
(A. e Realtà, 1893). Soprattutto per l’influenza dell’impostazione
fenomenologica (vedi FeNoMENOLOGIA) la considerazione del rapporto tra
l’apparire e l’essere è stata sottratta completamente sia al dualismo tra
questi due termini sia agli altri dualismi coi quali veniva di solito
interpretata, come quello tra sensazione e pensiero, soggettività e
oggettività, ecc. L’intero rapporto si colloca sul piano oggettivo delle
esperienze diverse o dei gradi diversi di esperienza. Un filosofo che fonda le
sue costruzioni su un gruppo di esperienze o su un dato tipo di realtà, che
perciò in qualche modo privilegia e considera fondamentale, è portato a
valutare meno reali o significanti e in qualche modo semplicemente « apparenti
» le altre forme di esperienza o gli altri tipi di realtà. E, per es., chi
privilegia l’esperienza interiore o coscienza, è portato a considerare come
meno significante o in qualche modo solo « apparente » l’esperienza esterna o
sensibile; o reciprocamente. Ma in ogni caso anche ciò che si dichiara
apparente viene assunto come A. di qualche cosa; perciò dotata, già come A., di
un suo grado o misura di realtà. Sicchè la relazione tra realtà e A. viene a
configurarsi come relazione tra realtà e imagine o realtà e simbolo e, in ogni
caso, tra due gradi o determinazioni oggettive. Il significato specifico della
parola ‘APPERCEZIONE’ -- Apperception; Apperception; Apperzeption -- è stato
per la prima volta chiarito da Leibniz come consapevolezza delle proprie
percezioni. Dice Leibniz: La percezione della luce o del colore, per es., di
cui abbiamo l’A., è composta di molte piccole percezioni di cui non abbiamo
l’A.; e un rumore che noi percepiamo ma a cui non facciamo attenzione diviene
appercepibile se subisce un piccolo aumento » (Nouv. Ess., II, 9, 4). Mentre le
percezioni appartengono anche agli anl’Idealismo romantico (v. IDEALISMO; Io).
In senso psicologico-metafisico, il concetto di A. fu pure inteso da Maine de
Biran che chiamò «A. interna immediata » la coscienza che l’io ha di se stesso
come « causa produttrice » nell’atto di distinguersi dall’effetto sensibile che
la sua azione determina ((Euvres inédites, ed. Naville, I, pag. 9; III, pag.
409-10). Un nuovo concetto dell’A. fu dato da Herbart come fondamento per
intendere il meccanismo della vita rappresentativa. L'A. fu intesa da Herbart
come il rapporto tra masse diverse di rappresentazioni il quale fa sì che una
massa si appropri dell’altra al modo stesso in cui le nuove percezioni del
senso esterno vengono accolte ed elaborate dalle rappresentazioni omogenee più
vecchie. Questo fenomeno per cui una massa rappresentativa, detta
appercipiente, accoglie ed assimila a sè una o più rappresentazioni omogenee,
dette appercepite, è il fenomeno dell’A., che Herbart identificò col senso interno
(Psychol. als Wissenschaft, II, $ 125). Questa nozione fu molto adoperata nella
psicologia e nella pedagogia dell’800 soprattutto per chiarire il fenomeno
dell’apprendimento e per riconoscere le condizioni psicologiche che lo
facilitano. Sul carattere attivo dell'A. come l’atto per il quale un contenuto
psichico viene portato ad una più chiara comprensione, insistè Wundt che parlò
anche di una « psicologia dell’A.» che avrebbe dovuto contrapporsi alla
dominante psicologia associazionistica appunto per il maggiore rilievo
riconosciuto alla attivitche è difficile (cfr. S. Tommaso, S. 7h., q. I, 81, a.
2). Queste notazioni sono rimaste pressocchè immutate per secoli. Hobbes dice
che l’A. e la fuga differiscono dal piacere e dal dolore come il futuro differisce
dal presente: sono esse stesse piacere e dolore ma non presenti, bensì previsti
o aspettati -- De hom.. Spinoza connette l’appetito con lo sforzo (conatus)
della mente di perseverare nel proprio essere per una durata infinita: « Questo
sforzo, egli dice, si chiama volontà quando si attribuisce alla sola mente, si
chiama appetito quando si riferisce insieme alla mente e al corpo; l’appetito,
perciò, è l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura derivano necessariamente
le cose che servono APPRENDIMENTO alla sua conservazione e che perciò è
destinato a compiere » (Er., III, 9, Scol.). Leibniz vide nell’A. l’azione del
principio interno della monade che opera il mutamento o il passaggio da una
percezione all'altra (Monad., $ 15). Kant definì l’appercezione come la
determinazione spontanea della forza propria d’un soggetto, che avviene per
mezzo della rappresentazione di una cosa futura considerata come effetto della
forza medesima -- Antr.. L’appercezione
costituisce perciò quella che, nella Critica della Ragion Pratica, egli chiama
facoltà di desiderare inferiore la quale presuppone sempre, come suo motivo
determinante, un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare
superiore che è determinata dalla semplice rappresentazione della legge -- Cri.
R. Pratica. Nella filosofia moderna e contemporanea il termine A. è caduto in
disuso ed è stato sostituito da altri come « tendenza » o « volontà », ai quali
vengono talora riferite le determinazioni che la filosofia antica aveva
attribuite all’appetizione. APPRENDIMENTO (gr. pd@nas; ingl. Learning; franc.
Apprendre; ted. Erlernung). L’acquisizione di una tecnica qualsiasi, simbolica,
emotiva o di comportamento: cioè un mutamento nelle risposte di un organismo
all’ambiente che migliori tali risposte ai fini della conservazione e dello
sviluppo dell’organismo stesso. Tale è il concetto che la psicologia moderna dà
dell’A., pur nella varietà delle teorie che presenta. Questo concetto
d'altronde non è che la generalizzazione di una nozione antichissima dell’A.,
considerato come forma di associazione. Fu Platone il primo a illustrare questa
nozione con la sua teoria della anamnesi: « Tutta la natura essendo congenita,
egli diceva, ed avendo l’anima appreso tutto, nulla impedisce che chi si
ricorda di una sola cosa — che è quello che si chiama apprendimento — trovi da
sè tutto il resto se abbia costanza e non desista dalla ricerca, perchè il
ricercare e l’apprendere non son altro che reminiscenza » (Men., 81d). L’A. è
perciò secondo Platone dovuto all’associazione delle cose tra loro per cui
l’anima può, dopo aver afferrato una cosa, afferrare anche l’altra che è legata
con essa. Non sostanzialmente diversa da questa fu la teoria avanzata da
Herbart, secondo la quale l’A. di premio e punizione. Le prime reazioni ad una
situazione problematica sono date a caso. Quando una di queste reazioni ha
successo, essa viene scelta nelle prove successive, riuscendo infine ad
eliminare le altre. Thorndike ha formulato a questo proposito la cosiddetta
/egge dell’effetto secondo la quale la risposta a uno stimolo è rafforzata, se
è seguita da un premio. Secondo lo stesso Thorndike, questi due fattori, la
ripetizione della reazione indovinata e il premio, bastano a spiegare tutti i
processi dell’A. e quindi l’intera condotta dell’uomo (cfr. Animal
Intelligence: Experimental Studies, 1911; The Psychology of Wants, Interests
and Attitudes, 1935, spec. pagina 24). Più recentemente le stesse idee sono
state generalizzate da Hull che ha insistito sui moventi dell’A., scorgendovi
uno stato di bisogno. Uno stimolo condizionato può rimanere attaccato ad una
risposta che lo segue solo se questa produce una diminuzione del bisogno
(Principles of Behavior, 1943). Se questa dottrina sia sufficiente a spiegare
l’A. umano, è cosa su cui gli psicologi non sono d’accordo (cfr. la discussione
relativa in E. R. HILGARD, Theories of Learning, 1948). Il dubbio concerne il
problema se l’A. consista semplicemente nel dare risposte indovinate o se esso
implichi anche la scelta intelligente di tali risposte in base a determinati
perchè. Sembra difficile escludere dal processo umano dell’A. le scelte
intelligenti guidate dalle relazioni espresse dai segni « se», « ma», «come»,
«non di meno», ecc. Da questo punto di vista il fatto che l’uomo intenda la relazione
tra i segni e le risposte è un elemento dell’A., non riducibile alla pura legge
dell'effetto (cfr. M. WERTHEIMER, Productive Thinking, 1945). Il termine ‘APPRENSIONE’
-- Apprehensio; Apprehension; Appréhension; Apprehenzion – e introdotto dalla
Scolastica per designare l’atto con cui si apprende o si assume come oggetto un
termine qualsiasi -- concetto, proposizione o qualità sensibile --, in quanto
distinto dall’assenso con cui propriamente si giudica di esso e cioè lo si
afferma o lo si nega. Ockham dice: Fra gli atti dell’intelletto, uno è quello
apprensivo che si riferisce a tutto ciò cui mette capo l’atto della potenza
intellettiva, l’altro si può dire giudicativo giacchè con esso l'intelletto non
soltanto apprende l’oggetto, ma anche assentisce ad esso o A PRIORI, A
POSTERIORI 63 ne dissente » (/n Sent., Prol., q. 1, O). L’atto apprensivo può
consistere sia nella formazione di una proposizione sia nella conoscenza di un
complesso già formato (Quodl., V, q. 6). La parola viene anche adoperata da Wolff
(Log., $ 33) e Kant se ne avvalse nella prima edizione della Critica della
Ragion Pura (Deduzione dei concetti puri dell’intelletto) parlando di una «
sintesi dell’A. » che consisterebbe nel raccogliere il molteplice della
rappresentazione in modo che da esso sorga «l’unità dell’intuizione ».
Talvolta, nell’uso moderno, A. viene contrapposta a comprensione come
conoscenza primitiva o semplice che non cobi in poi, la filosofia araba aveva
formulato la distinzione tra la dimostrazione propter quid e la dimostrazione
quia, che da Alberto di Sassonia furono poi chiamate rispettivamente
dimostrazioni @ priori e dimostrazioni a posteriori. «La dimostrazione è
duplice, dice Alberto; una è quella che procede dalle cause all'effetto e si
chiama dimostrazione a priori o dimostrazione propter quid o dimostrazione
perfetta, e questa dimostrazione fa conoscere la ragione per cui l’effetto è.
L’altra è la dimostrazione che procede dagli effetti alle cause e si chiama
dimostrazione a posteriori o dimostrazione quia o dimostrazione non perfetta, e
questa dimostrazione ci fa conoscere le cause per le quali l’effetto è » (In
An. Post., I, q. 9). I due termini vengono adoperati per tutta la Scolastica e
fino al sec. xvi appunto in questo senso, per indicare due specie di dimostrazione.
2° A partire dal sec. xvi, per opera di Locke e dell’empirismo inglese, i due
termini acquistano un significato più generale passando a designare, l’a
priori, le conoscenze raggiungibili mediante l’esercizio della pura ragione e
l’a posteriori, invece quelle raggiungibili con l’esperienza. Hume e Leibniz
sono d’accordo nel contrapporre, in questo senso, a priori e a posteriori. Dice
Hume: « Oso affermare, come proposizione generale che non ammette eccezione,
che la conoscenza della relazione di causa ed effetto non è, in nessun caso,
raggiunta, ragionando a priori, ma sorge interamente dall’esperienza quando noi
troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente uniti con altri»
(Zng. Conc. Underst., IV, 1). E Leibniz contrappone costantemente il «conoscere
a priori» e il « conoscere per esperienza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 15; Monad.,
$ 76); «la filosofia sperimentale che procede a posteriori» e la «pura ragione»
che «giustifica @ priori » (Op., ed. Erdmann, pag. 778 b). Wolff esprimeva con
la sua solita chiarezza l’uso dominante ai suoi tempi dicendo: « Ciò che
apprendiamo con l’esperienza, diciamo di conoscerlo a posteriori; ciò che ci è
noto col ragionamento diciamo di conoscerlo a priori » (Psychol. emp., $$ 5,
434 sgg.). La nozione kantiana dell’a priori, come conoscenza indipendente
dall’esperienza, ma non precedente (nel senso cronologico) l’esperiecostituisce
non un campo o dominio a parte di conoscenze ma la condizione di ogni
conoscenza oggettiva. L’a priori è la forma della conoscenza, come l’a
posteriori è il contenuto. Sull’a priori si fondano le conoscenze della
matematica e della fisica pura; ma l’a priori di per se stesso non è conoscenza
ma la funzione che condiziona universalmente ogni conoscenza, sia sensibile che
intellettuale. I giudizi sintetici a priori sono infatti possibili in virtù
delle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto. L'a priori è per Kant
l’elemento formale cioè insieme condizionante e fondante di tutti i gradi della
conoscenza; e non solo della conoscenza, giacchè anche nel dominio della
volontà e del sentimento sussistono elementi a priori, come dimostrano la
Critica della Ragion Pratica e la Critica del giudizio. La nozione kantiana
dell’a priori è stata assunta o presupposta da buona parte della filosofia
moderna. L’Idealismo romantico la corresse nel senso di ammettere che l’intero
sapere è a priori, cioè interamente prodotto dall'attività produttiva dell’Io.
Così pensarono Fichte e Schelling. Hegel ritenne che il pensiero è
essenzialmente la negazione di un esistente immediato, quindi di tutto ciò che
è a posteriori o fondato nell’esperienza. L°a priori è invece la riflessione e
la mediazione dell’immediatezza, cioè l'universalità, lo «starsene del pensiero
in se stesso» (Enc., $ 12). Più frequentemente, nella filosofia moderna, l’a
priori conserva il significato kantiano. E a tale sisono i seguenti: 1° La
nozione di Dio come dell’Essere necessario, cioè tale che non può non esistere,
e del mondo come derivante da Dio la sua propria necessità. In quanto prodotti
da una Causa prima necessaria, tutti gli eventi del mondo sono a loro volta
necessari. Gli Arabi ammettono una ininterrotta catena causale che va da Dio,
come Primo Motore, alle Intelligenze celesti e ai cieli, infine agli
avvenimenti terrestri e all'uomo. Essi giustificano perciò l’astrologia,
spiegandone le deficienze con l’imperfetto grado di osservazione. 2° La
dottrina dell’intelletto agente o attivo come una sostanza di natura divina,
separata dall’anima umana: dottrina che Averroè modificò nel senso di ritenere
separato dall’uomo e divino anche l'intelletto passivo o potenziale che Ai
Kindi e Alfarabi ritenevano propri dell’uomo. All’uomo appartiene, secondo
Averroè, soltanto una specie di riproduzione o d’imagine del vero intelletto.
L'unico intelletto divino si moltiplica nelle varie anime umane come la luce
del sole si moltiplica distribuendosi sui vari oggetti che illumina. Questa
dottrina, che metteva in dubbio l’immortalità dell’anima umana, in quanto
separava da essa e attribuiva a Dio la sua parte più alta e immateriale, venne
chiamata dottrina dell’unità dell’intelletto. ARCHEUS 65 3° La tendenza propria
dell’aristotelismo e in particolare di Averroè a porre la filosofia al di sopra
della religione, attribuendole il fine della contemplazione e riservando alla
religione il dominio dell'azionein quanto accompagna la massima fioritura
dell’Impero arabo nel Mediterraneo, ha avuto notevole influenza sulla
Scolastica latina. In primo luogo, essa ha fornito a tale Scolastica buona parte
del suo materiale; che le è pervenuto attraverso le traduzioni latine delle
traduzioni arabe delle traduzioni siriache delle opere di autori greci. In
secondo luogo, essa le ha offerto un costante punto di riferimento polemico,
portandola ad organizzarsi come filosofia della libertà di fronte alla
filosofia della necessità del mondo musulmano. L’aristotelismo stesso, al suo
primo comparire nel mondo occidentale, fu identificato con la sua
interpretazione A.; e solo per opera di Alberto Magno e di S. Tommaso fu poi
adattato alle esigenze della Scolastica cristiana (v. SCOLASTICA). ARAZIONALE
(gr. &oyoc; lat. Alogus; inglese Arational; franc. Alogique; ted.
Alogisch). Ciò che è privo di ragione o non si può esprimere o spiegare
razionalmente: lo stesso che irrazionale. Questo è l’uso classico del termine
(PLATONE, Gorg., SOl a; Conv., 202a; Teet., 205e; Sof., 238 c, ecc.; ARIST.,
Et. Nic., X, 2, 1172 b 10). Il termine greco (come quello latino) serve anche a
designare le grandezze incommensurabili che noi chiamiamo irrazionali (ARIST.,
An. Post., I, 10, 76b 9; EUCLIDE, Z/., X, def. 10, ecc.). L’uso moderno ha
tentato, raramente e senza successo, di distinguere A. da irrazionale. ARBITRIO (lat. Arbitrium,
ingl. Free Will; francese Arbitre; ted. Willkur). Il principio dell’azione negli animali e nell’uomo.
A. è perciò termine più generale di volontà (v.) la quale può essere attribuita
solo all'uomo. Dice Kant: « È A. semplicemente animale (arbitrium brutum)
quello che non può essere determinato se non da stimoli sensibili ossia
patologicamente. Ma quello che è indipendente da stimoli sensibili, e quindi
può essere determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla
ragione, dicesi libero A. (arbitrium liberum) e tutto ciò che vi si connette o
come principio o come conseguenza è detto pratico » (Critica KR. Pura, Dottr.
trascendentale del metodo; Il canone della R. Pura, sez. I). L’A. implica così
una possibilità di scelta, che tuttavia non è ancora libertà. Per libero A. v.
LIBERTÀ. di manifestazioni del passato e le proietta come possibilità per
l’avvenire. La storia A. considera invece ciò che è stata nel passato la vita
di ogni giorno e radica in essa la mediocrità del presente. La storia critica
serve invece a romrla col passato, a rinnovarsi (v. STORIA). ARCHETIPO (lat.
Archetypus; ingl. Archetype; ted. Archetyp, Urbild). Il modello o l’esemplare
originario o l’originale di una serie qualsiasi. A. sono state dette le idee
platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente, le idee
esistenti nella mente di Dio, come modelli delle cose create (PLOTINO, Enn., V,
1, 4; PROCLO, in Rep., II, 296). Ma Locke (Saggio, II, 31, $ 1) adoperò la
parola A. per dire soltanto modello: « Chiamo adeguate le idee che
rappresentano perfettamente gli A. da cui la mente suppone siano state tratte,
che essa intende siano rappresentate da quelle idee e cui essa le riferisce».
A., in questo caso, sono le forze naturali, le idee semplici o le idee
complesse che si assumono come modelli per misurare l’adeguatezza delle altre
idee (v. EcTIPO). ARCHEUS. Secondo Teofrasto Paracelso, è la forza che muove
gli elementi, cioè lo spirito animatore della natura. Come tutte le cose sono
composte di tre elementi (zolfo, sale, mercurio), così tutte le forze che le
animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività incosciente dell'A.
(Meteor., pag. 79 sgg.). 66 ARCHITETTONICA ARCHITETTONICA (gr. dpyitextovii)
TEX; ingl. Architectonics; franc. Architectonique; ted. Architektonik). In
generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di subordinare i
mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante. In questo
senso la parola è usata da Aristotele (Et. Nic., I, 1, 1094 a 26) il quale
parla anche (Et. Eud., I, 6, 1217 a) di una «intelligenza A. e pratica » cioè
costruttiva e operativa. La parola fu usata per la prima volta come nome di una
disciplina filosofica da Lambert che intitolò ad essa una sua opera
(Architettonica, 1771) e la intese come «la teoria degli elementi semplici e
primitivi nella conoscenza filosofica e matematica ». Kant riprese la parola
per indicare «l’arte del sistema » al quale dedicò un capitolo (il III) nella
seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Come sisGOMENTO (gr.
2606; lat. Argumentum; ingl. Argument; franc. Argument; ted. Argument). 1. In
un primo significato, A. è qualsiasi ragione, prova, dimostrazione, indizio,
motivo, che sia adatto a captare l’assenso e a indurre persuasione o
convinzione. A. comuni o tipici o schemi di A. sono i luoghi (rérrot, loci) che
costituiscono l’oggetto dei Topici di Aristotele. Cicerone infatti definiva i
luoghi come le sedi dalle quali provengono gli A. i quali sono « le ragioni che
fanno fede di una cosa dubbia » (Top., 2, 7). Il significato generalissimo
della parola A. risulta chiaro anche nella definizione di S. Tommaso: «A. è ciò
che convince (arguit) la mente ad assentire a qualcosa» (De ver., q. 14, a. 2,
ob. 14); e in quella di Pietro Ispano che riprendcui il discorso verte o può
vertere. A questo secondo significato del termine si riconnette l’uso di esso
nella logica e nella matematica per indicare i valori delle variabili
indipendenti di una funzione. A. è in questo senso ciò che riempie lo spazio
vuoto di una funzione o ciò a cui la funzione deve essere applicata perchè
abbia un valore determinato. La parola è stata per la prima volta usata in
questo senso da G. Frege, Funktion und Begriff, 1891 (v. FUNZIONE).
ARISTOCRAZIA. V. Governo, FORME DI. ARISTOTELISMO (ingl. Aristotelianism;
francese Aristotélisme; ted. Aristorelismus). Con questo termine s'intendono
alcuni capisaldi della dottrina di Aristotele che sono passati nella tradizione
filosofica o hanno ispirato le scuole o i movimenti che più direttamente si
rifanno ad Aristotele stesso, come la Scuola peripatetica, l’A. arabo, l’A.
cristiano medievale, l’A. del Rinascimento e varie altre tendenze del mondo
medievale e moderno. Tali capisaldi possono essere riassunti nel modo seguente:
1° L'importanza accordata da Aristotele al mondo della natura e il valore e la
dignità delle indagini ad esso dirette. Mentre Platone pensava che tali
indagini non possono raggiungere che un certo grado di probabilità assai
inferiore alla conoscenza scientifica (Tim., 29 c), Aristotele ritenne che non
c’è nella natura nulla di così insignificante che non valga la pena di essere
studiato, dato che, in ogni caso, il vero oggetto dell’indagine è la sostanza
delle cose (v. SOSTANZA). 2° Il concetto della metafisica come filosofia prima
e teoria della sostanza e come fondamento della intera enciclopedia delle
scienze (v. METAFISICA). 3° La dottrina delle quattro cause (formale,
materiale, efficiente, finale) e quella del movimento, come passaggio dalla
porenza all’atto, che consentirono ad Aristotele l’interpretazione della intera
realtà naturale (v. le voci corrispondenti). 4° La teologia con il suo concetto
di Primo Motore e di Atto puro (v. Dio). 5° La dottrina dell’essenza
sostanziale o necessaria, posta a base della teoria della conoscenza e della
logica (v. ANIMA; ESSENZA; ESSERE). 6° L'importanza attribuita alla logica, di
cui Aristotele è il primo espositore sistematico, come ARTE 67 strumento di
ogni conoscenza scientifica (v. ConCETTO; LOGICA; SILLOGISMO; TOPICA; ecc.). Le
varie correnti dell’A. si sono rifatte, abitualmente, soltanto ad alcuni di
questi capisaldi e ciò spiega perchè l’A. è talora apparso come una metafisica
teologica (nella Scolastica medievale) talora come naturalismo (nel
Rinascimento) e talaltra come spiritualismo (in alcune interpretazioni moderne,
per es., quelle di Ravaisson e Brentano). ARITMETICA (ingl. Arithmetic; franc.
Arithmétique; ted. Arithmetik). La teoria matematica dei numeri naturali, cioè
dei numeri interi positivi. S’intendono comunemente per leggi dell’A. le
seguenti proposizioni o regole: lo a+b=b+a (legge commutativa dell’addizione);
2° ab = ba (legge commutativa della moltiplicazione); 3° a+(b+0=(a+td5)+c
(legge associativa dell’addizione); 4° a (bc) = (ab)c (legge associativa della
moltiplicazione); 5° a(b + c) = ab + ac (legge distributiva). La
formalizzazione dell’A. cioè la riduzione dell’A. ad un sistema logico fondata
su pochi assiomi è stata effettuata per la prima volta da Peano che si avvalse
di alcuni concetti di Dedekind. Peano presuppose come nozioni primitive quella
di zero, quella di insieme di numeri naturali e quella di successione espressa
con l’espressione i/ successivo di. Egli fece vedere come tutte le proposizioni
dell’A. si lasciassero derivare dai cinque assiomi seguenti: 1° 0 è un numero
naturale; 2° se x è un numero naturale, il numero successivo è anche un numero
naturale; 3° se x e y sono numeri naturali e se il successivo di x è identico
al successivo di y, allora x e y sono identici; 4° se x è un numero naturale,
il numero successivo di x è differente da 0; 5° se 0 appartiene a un insieme a
e se il succes» sivo di un numero naturale qualunque appartiene anche a questo
insieme, l'insieme dei numeri naturali è una parte di a. Con l’espressione
aritmetizzazione della matematica s'intende talora l’esigenza che si affacciò
verso la metà dell’800, nel campo delle matematiche, ad opera soprattutto di
Weierstrass, di dare unità e rigore logico all’analisi matematica, fondandola
sopra una teoria dei numeri reali. Questa teoria fu poi sviluppata da Cantor e
Dedekind. Cfr. le memorie di logica matematica di Peano ora raccolte in Opere
Scelte, Roma, 1958. Cfr. pure B.
RusseLL, /Introduction to Mathematical Philosophy, 1918 (v. MATEMATICA:
NUMERO). ARMONIA (gr. dpuovia; lat. Yarmonia;
inglese Harmony; franc. Harmonie; ted. Harmonie). L’ordine o la disposizione
finalisticamente organizzata delle parti di un tutto, per es., del mondo, o
dell’anima, la quale fu detta « A.» dai Pitagorici in quanto proporzione o
mescolanza degli elementi corporei (cfr. PLAT., Fed., 86 c). Empedocle si
avvalse del concetto per definire la natura dello sfero (Fr. 122, Diels). Il
termine è stato usato da Leibniz nell’espressione A. prestabilita per designare
un particolare sistema di comunicazione tra le sostanze spirituali (monadi) che
compongono il mondo. Leibniz ritiene che tali sostanze non possono influenzarsi
reciprocamente essendo ognuna « chiusa in se stessa » e perciò esclude la
dottrina comunemente ammessa della influenza reciproca. Esclude pure la
dottrina che egli chiama della assistenza e che è propria del sistema delle
cause occasionali di Guelingx e Malebranche secondo il quale la comunicazione
tra le varie monadi sarebbe stabilita di volta in volta direttamente da Dio.
L’A. prestabilita è la dottrina secondo la quale le varie monadi, come tanti
orologi costruiti perfettamente, sono sempre tra loro d’accordo, pur seguendo
ognuna la propria legge. Così l’anima e il corpo vivono ognuno per proprio
conto e tuttavia d’accordo perchè Dio ha coordinato le leggi dell’uno e
dell’altra. Il corpo segue la legge meccanica, l’anima segue la propria
spontaneità: l’A. tra essi è stata predisposta da Dio all’atto della creazione
(Phil. Schriften, ed. Gerhardt, IV, pag. 500 sgg.). Il termine ricorre
frequentemente nello spiritualismo, specialmente in Ravaisson. Si è avvalso di
esso Whitehead per spiegare la bellezza, la verità, il bene nonchè la libertà e
la pace e tutta «la grande avventura cosmica ». «La grande A., egli dice
(Adventures of Ideas, pag. 362), è l’A. di individualità durature connesse
nell’unità del fondamento. È per questa ragione che la nozione di libertà non
abbandona mai le civiltà più alte; la libertà in ognuno dei suoi molti sensi è
l’esigenza di una vigorosa autoaffermazione ». ARS MAGNA V. COMBINATORIA, ARTE.
ARTE (gr. teyxvà; lat. Ars; ingl. Ars; franc. Art; ted. Kunsto erworatuei) di
cui la prima consiste semplicemente nel conoscere, la seconda nel dirigere, in
base alla conoscenza, una determinata attività (Pol., 260 a, b; 292 c). In tal
modo I’A. comprende per Platone ogni attività umana ordinata (compresa la
scienza) e si distingue nel suo complesso dalla natura (Rep., 381 a). —
Aristotele restrinse notevolmente il concetto dell’arte. In primo luogo egli
sottrae all’àmbito dell'A. la sfera della scienza, che è quella del necessario,
cioè di ciò che non può essere diverso da com'è. In secondo luogo egli divide
quel che cade fuori della scienza, cioè il possibile (che « può essere in un
modo o nell’altro ») in ciò che appartiene all’azione e in ciò che appartiene
alla produzione. Soltanto il possibile che è oggetto di produzione, è oggetto
dell’arte. In questo senso si dice che l’architettura è un’A.; e l’A. si
definisce come l’abito, accompagnato da ragione, di produrre qualcosa (Et.
Nic., VI, 3-4). L’àmbito dell’A. viene così a restringersi molto. Sono A. la
retorica e la poetica, ma non è A. l’analitica (la logica) il cui oggetto è
necessario. Sono A. quelle manuali o meccaniche, come è A. la medicina; mentre
non è A. la fisica o la matematica. Questo è, almeno, il punto di vista di Aristotele
maturo; giacchè le pagine con cui si apre la Metafisica sembrano invece
stabilire una distinzione puramente di grado tra l’A. e la scienza, ponendo
l’A. stessa come intermediaria tra l’esperienza e la scienza. Anche quelle
pagine si concludono tuttavia con l’affermazione che la sapienza è piuttosto
conoscenza teoretica anzichè A. produttiva (Mer., I, 1, 982 a 1 sgg.). Questa
distinzione aristotelica non fu però ereditata nel suo rigore dal mondo antico
e medievale. Gli Stoici estesero di nuovo la nozione dell’A., affermando che «
l’A. è un insieme di comprensioni », intendendo per comprensione l’assenso od
una rappresentazione comprensiva (Sesto E., Ip. Pirr., Ill, 241; Adv. dogm., V,
182); questa definizione non permette infatti di distinguere l’A. dalla
scienza. E Plotino che fa invece questa distinzione perchè vuole conservare
alla scienza il suo carattere contemplativo, distingue le A. in base al loro
rapporto con la natura. Distingue pertanto l’architettura e le A. analoghe, che
hanno il loro termine nella fabbricazione di un oggetto, da quelle che si
limitano ad aiutare la natura come la medicina e l’agricoltura e dalle A.
pratiche, come la retorica e la musica, che tendono ad agire sugli uomini,
rendendoli migliori o peggiori (Enn., IV, 4, 31). A partire dal sec. 1 si
chiamarono « A. liberali » (cioè degne dell’uomo libero) in contrasto con le A.
manuali, nove discipline, alcune delle quali Aristotele avrebbe chiamate
scienze e non arti. Queste discipline furono enumerate da Varrone: grammatica,
retorica, logica, aritmetica, geometria, astronomia, musica, architettura e
medicina. Più tardi, nel sec. v, Marciano Capella nelle Nozze di Mercurio e
della filologia riduceva a sette le A. liberali (grammatica, retorica, logica,
aritmetica, geometria, astronomia e musica), eliminando quelle che gli parevano
non necessarie ad un essere puramente spirituale {che non ha corpo) cioè
l’architettura e la medicina e stabilendo così il curriculum di studi che
doveva restare immutato per molti secoli (v. CuLTURA). S. Tommaso stabiliva la
distinzione tra A. liberali e A. servili sul fondamento che le prime sono
dirette al lavoro della ragione, le seconde invece « ai lavori esercitati con
il corpo, che sono in un certo modo servili, in quanto il corpo è sottomesso servilmente
all’anima e l’uomo è libero secondo l’anima » (S. 7h., II, 1, q. 57, a. 3, ad
3). La parola A. rimase tuttavia a designare per lungo tempo non solo le A.
liberali ma anche le A. meccaniche, cioè i mestieri; come ancora accade oggi
che intendiamo per A. o artigiano un mestiere o chi pratica un mestiere. Kant
ha riassunto le caratteristiche tradizionali del concetto quando ha distinto
l’A. dalla natura da un lato, dalla scienza dall’altro; e ha distinto, nell’A.
stessa, l'A. meccanica e l’A. estetica. Su quest’ultimo punto egli dice:
«Quando l’A., conformemente alla conoscenza di un oggetto possibile, compie
soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, essa è A. meccanica; se
invece ha per scopo immediato il sentimento di piacere, è A. estetica. Questa è
A. piacevole o A. bella. È piacevole quando il suo scopo è di far sl che il
piacere si accompagni alle rappresentazioni in quanto semplici sensazioni; è
bella quando il suo scopo è di accno strato geologico è perciò comunemente
assunta dagli antropologi come segno della presenza dell’uomo nell’età
corrispondente: e la natura e la complessità degli A. si assumono come base per
distinguere i tipi di cultura cui appartengono. L’A., per essere riconosciuto
tale, deve manifestare l’intenzione, preesistente alla sua costruzione, di
utilizzarlo per uno scopo determinato: cioè costituire la realizzazione di un
progetto (v.). ARTEFICE INTERNO. Così Giordano Bruno chiamò nel De /a causa,
principio e uno l'intelletto universale, che è «l’intima più reale e propria
facultà e parte potenziale de la anima del mondo +»: perchè « forma la materia
e la figura da dentro ». ASCESI (gr. &oxna; ingl. Ascesis; franc. Ascèse;
ted. Askese). La parola significa propriamente esercizio e originariamente
indicò l’allenamento degli atleti e le loro regole di vita. Con i Pitagorici, i
Cinici e gli Stoici, la parola si cominciò ad applicare alla vita morale in
quanto la realizzazione della virtù implica limitazione dei desideri e
rinuncia. Il senso di rinuncia e di mortificazione divenne perciò prevalente;
A. significò nel Medioevo la mortificazione della carne e la purificazione dai
legami corporei. La rivolta contro l’ideale ascetico si iniziò col Rinascimento
cioè con la rivalutazione degli aspetti corporei e sensibili dell’uomo. Kant
considera l’ascetica morale come « l’esercizio fermo, coraggioso e ardito della
virtù» e la contrappone all’A. monacale « che per timore superstizioso o per
ipocrito orrore di sè usa mortificare e trascurare il proprio corpo »; e si
castiga invece di pentirsi moralmente, cioè di prendere la risoluzione di
correggersi (Meraph. der Sitten, II, $ 53). Schopenhauer ha dato un significato
metafisico all’A. in cui ha visto «l'orrore dell’uomo per l’essere di cui è
espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nòcciolo
e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore» (Die Welt, I, $ 68), e
perciò il solo strumento di liberazione, di cui l’uomo disponga. ASCETISMO
(ingl. Asceticism; franc. Ascétisme; ted. Asketismus). La pratica dell’ascesi.
ASEITÀ (lat. Aseitas; ingl. Aseity; franc. Aséité; ted. Aseitàt). Qualità o
carattere dell’essere che ha in se stesso la causa e il principio del proprio
essere, cioè di Dio. Abalietà è la qualità contraria, cioè quella dell’essere
che ha in un altro essere la sua causa. Vocaboli usati nella tarda Scolastica.
ASILLOGISTICO. V. ANAPODITTICO. ASINO DI BURIDANO (ingl. Buridan®s Ass; franc.
Ane de Buridan; ted. Esel des Buridan). Giovanni Buridano maestro e rettore
dell’Università di Parigi nella prima metà del xv secolo fu discepolo di Ockham
ed è importante per alcune osservazioni che anticipano il principio d'inerzia
della meccanica moderna (v. ImpETO). Il caso dell’A., il quale, messo in mezzo
tra due fasci di fieno uguali morrebbe di fame prima di decidersi a mangiare
l’uno o l’altro di essi, non si trova nelle sue opere. Se ne trovano però le
premesse. Buridano ritiene infatti che la volontà segue necessariamente il
giudizio dell’intelletto; per es., si decide per il bene maggiore, se l’intelletto
lo giudica tale. Ma quando l’intelletto giudica uguali due beni, la volontà non
può decidersi nè per l’uno nè per l’altro: la scelta non avviene (/n Eth., III,
q. 1). Questo è proprio il caso dell’asino. Soltanto che Buridano ritiene che
l’uomo può non morire di fame come l’A.: può difatti sospendere o impedire il
giudizio dell’intelletto (/bid., III, q. 4). L'origine del caso (per quanto non
riferito all’A.) si trova in Aristotele: « Si dice che chi è molto assetato o
affamato, se si trova a uguale distanza dal cibo e dalla bevanda,
necessariamente rimane immobile dove si trova» (De Cael., II, 13, 295 b 33). E
neanche Dante riferisce il caso all’A.: «Intra duo cibi, distanti e moventi —
D’un modo, prima si morria di fame — Che liber uom l’un si recasse a’ denti»
(Par., IV, 1-3). In realtà la discussione intorno al caso dell’A. di Buridano
fu propria di un periodo (l’ultima Scolastica) nel quale si accentuò il
carattere arbitrario della scelta volontaria e si intese la libertà dell’uomo
come « arbitrio d’indifferenza » (v. LIBERTÀ). ASOMATICO -- Asomatous;
Asomatique; Asomatisch – e privo di corpo o disincarnato. La condizione
dell'anima dopo la sua separazione dal corpo, o delle sostanze angeliche.
ASPETTAZIONE (ingl. Expectation; francese Attente; ted. Erwartung).
L’anticipazione di un avvenimento futuro (v. AvvENIRE). Una delle forme
dell’attenzione o attenzione aspettansito egli dice: « L’intelletto può
assentire ad una cosa in due modi. Nel primo modo, perchè è mosso ad assentire
dallo stesso oggetto o perchè è cognito di per se stesso, come accade dei primi
principi di cui abbiamo intelligenza, o perchè è conosciuto attraverso altro
come accade delle conclusioni di cui abbiamo scienza. Nel secondo modo,
l'intelletto assentisce a qualcosa, non perchè sia mosso sufficientemente dal
suo proprio oggetto, ma per una scelta volontaria che lo inclina da una parte
piuttosto che dall’altra. Ora se questo accadrà insieme col dubbio e col timore
che l’altra parte sia vera, si avrà l’opinione; se accadrà invece con certezza
e senza quel timore, si avrà la fede » (S. Th., II, 2, q. 1, a. 4). Nell’ultima
fase della Scolastica la dottrina dell’A. fu elaborata da Ockham. Secondo
Ockham, l’atto dell’A. accompagna l’atto dell’apprendimento. « Chiunque
apprende una proposizione, egli dice (Ir Sent., Prol., q. 1 55), assente,
dissente o dubita di essa ». La teoria dell’A. è sostanzialmente la teoria
dell’errore. Secondo Ockham, quando una proposizione è empiricamente o
razionalmente evidente, l’A. è garantito dalla sua evidenza; mentre quando
questa evidenza manca l’A. è più o meno volontario e va incontro alla
possibilità dell’errore (/bid., II, q. 25). Una dottrina analoga si trova in
Cartesio. Per giudicare si richiede in primo luogo l’intelletto, dato che non
si può giudicare su ciò di cui non si ha l’apprensione, e in secondo luogo la
volontà per cui si assentisce a ciò cosa (Scienza morale, ed. naz. 1941, pag.
109). La Grammatica dell’A. (1870) di Newmann distinse l’A. reale, che si
dirige alle cose, dall’A. nozionale che si dirige alle proposizioni. L’A.
nozionale è ciò che viene chiamato professione, opinione, presunzione,
speculazione; l’A. reale è la credenza. L’A. nozionale ad una proposizione
dogmatica è un atto teologico, l’A. reale alla stessa proposizione è un atto
religioso. Le due cose non si contraddicono, ma solo l’A. reale raggiunge al
credo dogmatico i sentimenti e le imaginazioni che condizionano la sua validità
religiosa. Queste idee di Newmann riprese e sviluppate da Ollé-Laprune e da
Blondel dettero lo spunto alla filosofia dell’azione (v.). ASSENZA. V. NULLA.
ASSERZIONE (gr. &répavote, Abyog drtopam degli Stoici. E in realtà i due
termini sono equivalenti, finchè non si consideri il diverso contesto in cui
trovano posto (v. ENUNCIATO e PROPOSIZIONE). Nella logica matematica
contemporanea Russell, sull'esempio di Frege seguito da molti altri logici ha
introdotto un simbolo speciale (° — ’) da anteporre al simbolo dell’asserzione.
La logica terministica medievale riconosceva, invece che le espressioni «è vero
che ‘p’» e ‘p’ (dove ’p’ è il segno di una proposizione) sono da considerarsi
sinonime. L’A. tuttavia implica in ogni caso che si creda o si assentisca alla
proposizione (v.) espressa; e come tale è talora distinta da enunciato (v.).
Cfr. .AsSENSO. G.P. ASSIALE, EPOCA. V. Epoca. ASSICURAZIONE (ingl. Security;
franc. Assurancej ted. Assecuranz)ì. Un sistema di A. fu suggerito da Royce per
realizzare quella che egli chiamava la « Grande comunità » umana. L’A. è
difatti un’associazione fondata sul principio triadico dell’interpretazione:
come in questa c’è l’interprete che interpreta qualcosa a qualcuno, così
nell’A. ci sono con lo stesso rapporto l’assicurato, l'assicuratore e il
beneficiario (La speranza nella grande comunità, 1916). Royce ha anche suggerito
lA. contro la guerra (Guerra e A., 1914). ASSIOMA (gr. dElwua; lat. Axioma;
inglese Axiom; franc. Axiome; ted. Axiom). Originariamente la parola significa
dignità o valore (gli Scolastici e Vico dicevano appunto degnità) e fu
adoperata dagli Stoici per indicare l’enunciato dichiarativo che Aristotele
chiamava apofantico (Diog. L., VII, 65). I matematici l’usarono per designare i
principi indimostrabili, ma evidenti, della loro scienza. Aristotele ha dato la
prima analisi di questa nozione, intendendo per A. «le proposizioni prime da
cui parte la dimostrazione » (che sono i cosiddetti A. comuni ) e in ogni caso
i « principi che devono essere necessariamente posseduti da chi vuol apprendere
checchessia » (An. post., I, 10, 76b 14; I, 2, 72a 15). Come tale l’A. è
completamente diverso dall’ipotesi e dal postulato (v.). Il principio di
contraddizione è esso stesso un A., anzi «il principio di tutti gli A. » (Mer.,
IV, 3, 1105 a 20 sgg.). Questo significato della parola come principio che
appare immediatamente evidente dai suoi stessi termini si è mantenuto costante
attraverso l’antichità e l’età moderna. «I princìpi immediati, dice S. Tommaso
(In I Post., Lez. 5), non sono conosciuti per il tramite di qualche termine
medio ma attraverso la conoscenza dei loro stessi termini. Posto che si sappia
che cosa è il tutto e che cosa è la parte, si riconosce che ‘il tutto è
maggiore della parte ’ giacchè in tutte le proposizioni di questa specie il
predicato è compreso nella nozione del soggetto ». La verità dell’A. è in altri
termini manifestata dalla semplice intuizione dei termini che entrano a
comporlo. Veramente l’esempio scelto da S. Tommaso si presta particolarmente a
rivelare il carattere fittizio dell’evidenza intuitiva cui sarebbe affidata la
validità dell’assioma. Già a poca distanza da S. Tommaso, Ockham riscontrava
che il principio «il tutto è maggiore della parte » non vale quando si tratta
di tutti che comprendono infinite parti e che non si può dire che nell’intero
universo ci siano più parti che in una fava, se in una fava ci sono infinite
parti (Quodi., I, q. 9; Cent. theol., concl. 17, C). Dopo le ricerche di Cantor
e di Dedekind noi sappiamo oggi che questo preteso A. è semplicemente la
definizione degli insieme finiti (v. INFINITO). Per più secoli si è cercato di
giustificare in un modo o nell’altro la validità assoluta degli A.; ma questa
validità non è stata posta in dubbio. Bacone ritenne gli A. ottenibili per via
di deduzioneo di induzione (Nov. org., I, 19) mentre Cartesio li ritenne verità
eterne che hanno sede nella nostra mente (Princ. Phil., I, 49); entrambi però
li credettero verità immutabili. Locke considerò gli A. come proposizioni,
esperimenti, esperienze immediate (Saggio, IV, 7, 3 e sgg.) e Leibniz invece li
considerò come principi innati nella forma di disposizioni originarie che
l’esperienza rende esplicite (Nouv. Ess., I, 1, 5); ma entrambi attribuirono ad
essi il carattere di verità evidenti. Gli empiristi non hanno dubitato della
loro evidenza più dei razionalisti; Stuart Mill afferma che essi sono «verità
sperimentali, generalizzazioni dalla osservazione » (Logic, II, 5, $ 4).
Altrettanto evidenti, ma a priori, sono gli A. per Kant che li definisce «
princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente certi». La certezza
immediata, cioè l’evidenza, è, secondo Kant, la caratteristica degli assiomi.
La matematica possiede A. perchè essa procede mediante la costruzione dei
concetti. La filosofia, invece, che non costruisce i suoi concetti, non
possiede assiomi. Gli stessi A. dell’intuizione che Kant ha posto fra i
principi dell’intelletto puro, non sono veramente A. secondo lo stesso Kant, ma
semplicemente contengono «il principio della possibilità degli A. in generale»
(Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del met., Disciplina della ragion pura, I). Nel
mondo contemporaneo la nozione di A. ha subito la sua trasformazione più
radicale. La caratteristica che lo definiva, l'immediatezza della sua verità,
la certezza, l’evidenza, gli è stata negata. Questo risultato si deve allo
sviluppo del formalismo matematico e logico, cioè all’opera di Peano, Russell,
72 ASSIOMATICA Frege e Hilbert. Secondo il punto di vista formalistico, che è
quello ora più diffuso, gli A. della matematica non sono nè veri nè falsi, ma
sono assunti convenzionalmente, in base a motivi di opportunità, come
fondamenti o premesse del discorso matematico (HiLBERT, « Axiomatischen Denken
», in Math. Annalen, 1918). In tal modo gli A. non si distinguono più dai
postulati e le due parole vengono oggi usate scambievolmente. La scelta degli
A. è in una certa misura libera e in questo senso si dice che gli A. sono «
convenzionali» o «assunti per convenzione». Ma in realtà questa scelta è
limitata da esigenze o condizioni precise che si possono riassumere nel modo
seguente: 1° Gli A. devono essere coerenti, altrimenti il sistema che ne
dipende diventa contraddittorio. E che il sistema diventi contraddittorio
significa che esso permette di dedurre qualsiasi cosa e si può in esso
dimostrare una proposizione qualsiasi come la sua negazione. Poichè la prova
della non contraddittorietà non si può ottenere nell’interno di un sistema (v.
AssIoMaTICA), ci si avvale abitualmente del sistema della riduzione a una
teoria anteriore la cui coerenza appare bene stabilita, per es., all’aritmetica
classica o alla geometria euclidea. Questo procedimento indubbiamente non
equivale a una dimostrazione di non contraddittorietà, ma fornisce un indizio
importante. Un altro procedimento è la realizzazione, cioè il riferimento del
sistema a un modello reale; sul presupposto che ciò che è reale deve essere
possibile, quindi non contraddittorio. 2° Un sistema di A. deve essere completo
nel senso che di due proposizioni contraddittorie formulate correttamente nei
termini del sistema, una deve poter essere dimostrata. Il che vuol dire che in
presenza di una qualsiasi proposizione del sistema, si può sempre dimostrarla o
confutarla e per conseguenza decidere sulla sua verità o falsità in rapporto al
sistema dei postulati. In questo caso il sistema si chiama decidibile. 3° La
terza caratteristica di un sistema di A. è la loro indipendenza, cioè la loro
irreducibilità reciproca. Tale condizione non è così indispensabile come quella
della coerenza, ma è opportuna per evitare che le proposizioni primitive siano
troppo numerose. 4° Infine il minor numero possibile e la semplicità degli A.
sono condizioni desiderabili che conferiscono eleganza logica ad un sistema di
assiomi. ASSIOMATICA (ingl. Axiomarics; franc. Axiomatique; ted. Axiomatik).
L’A. si può considerare come un risultato di quella aritmetizzazione della
analisi che ha avuto luogo nelle matematiche a partire dalla seconda metà del
x1x secolo per impulso soprattutto di Weierstrass. Il primo tentativo di
assiomatizzazione della geometria fu fatto da Pasch nel 1882. All’assiomatizzazione
delle matematiche ha poi contribuito il formalismo di Peano, Russell, Frege e
specialmente l’opera di Hilbert. Ma l’A. non si limita oggi al dominio delle
matematiche: la fisica la ricerca come suo scopo finale o almeno come sua
formulazione ultima e più soddisfacente: e ogni disciplina che raggiunga un
certo grado di rigore tende ad assumere la forma assiomatica. Il significato
dell'A. può essere riassunto brevemente nei punti seguenti: 1° Assiomatizzare
una teoria significa in primo luogo considerare, al posto di oggetti o di
classi di oggetti forniti di caratteri intuitivi, simboli opportuni, le cui
regole d’uso siano fissate dalle relazioni enunciate dagli assiomi. Poichè tali
simboli sono privi di ogni riferimento intuitivo, la teoria formale così
ottenuta è suscettibile di molteplici interpretazioni, che si chiamano modelli.
Ma il modello qui non è un archetipo preesistente alla teoria, e anche la
teoria concreta originale, che ha fornito i dati per lo schema logico dell’A.,
non è che uno di tali modelli. La caratteristica dell'A. è quella di prestarsi
a interpretazioni o a realizzazioni differenti, delle quali essa costituisce la
struttura logica comune. 2° Il metodo A. è un potente strumento di
generalizzazione logica. Uno dei modi di generalizzazione di tale metodo
consiste nel far cadere successivamente alcuni assiomi di una certa teoria
deduttiva conservando gli altri e così costruendo teorie sempre più astratte.
Il sistema generato dall’A. così ristretta, è coerente, se il sistema iniziale
lo è, e costituisce una generalizzazione di questo. 3° L’A. rende
indispensabile distinguere tre modi in cui si possono differenziare l’una
dall'altra le teorie deduttive. Consideriamo il caso della geometria euclidea.
In primo luogo, se si modifica uno dei suoi postulati, si otterranno altre
geometrie che si dicono vicine ad essa o imparentate con essa: in questo senso
si parla di una pluralità di geometrie. In secondo luogo, si può effettuare la
ricostruzione logica di una qualsiasi di queste geometrie in più modi cioè
secondo A. differenti; e queste A. saranno eguivalenti fra loro. Infine, se si
sceglie una di queste A. si potranno il più delle volte trovare per essa
interpretazioni differenti: ci saranno cioè vari modelli di essa, modelli che
saranno detti isomorfi. Ci saranno così: a) una pluralità di geometrie; 5) una
pluralità di A. per una stessa geometria; c) una pluralità di modelli per una
stessa assiomatica. 4° La caratteristica fondamentale dell'A. è la scelta e la
chiara enunciazione delle proposizioni primitive di una teoria, cioè degli
assiomi che inASSOCIAZIONISMO 73 troducono i termini indefinibili e
stabiliscono le regole d’uso indimostrabili. La scelta delle nozioni primitive
è la parte fondamentale nella costituzione di un’assiomatica. È ormai chiaro
tuttavia che le stesse nozioni di « primitivo +, « indefinibile », «
indimostrabile » sono relative, nel senso che un termine indefinibile o una
proposizione indimostrabile nell’interno di un sistema possono diventare
definibili o dimostrabili se si modificano le basi del sistema. Per es., nella
geometria euclidea non si può dimostrare il postulato delle parallele; ma se si
rinuncia a dimostrare il teorema che la somma degli angoli di un triangolo è
uguale a due retti, si può assumere questa proposizione come un assioma, e
dimostrare l’unicità della parallela. Inoltre, spesso i termini non definiti
sono implicitamente definiti dall’insieme dei postulati prescelti (definizione
per postulati). La scelta dei postulati si dice che è libera: in realtà essa
deve obbedire a particolari condizioni che la limitano notevolmente; per queste
condizioni v. ASSIOMA. 5° Si è detto (v. Assioma) che il limite fondamentale
per la scelta degli assiomi è la loro coerenza o compatibilità. Tuttavia un
teorema di Gédel (1931) ha stabilito che un’aritmetica non contraddittoria
comporta enunciati non decisi e tra questi enunciati c'è la non contraddizione
del sistema aritmetico. In altri termini non si può, rimanendo nell'àmbito di
un sistema, stabilire la non contraddittorietà del sistema stesso. È questo uno
dei limiti dell'A. oltre quelli messi in luce dalla corrente intuizionista dei
matematici (v. MaTEMATICA). ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (inglese Axioms of
Intuition; franc. Axiomes de l’intuition; ted. Axiomen der Anschauung). Kant ha
indicato con quest’espressione quei princìpi sintetici dell’intelletto puro che
derivano dall’applicazione delle categorie all’esperienza e che esprimono la
possibilità delle proposizioni della matematica e della fisica pura. Tutti i princìpi
dell’intelletto puro hanno la funzione di eliminare il carattere soggettivo
della percezione dei fenomeni, riconducendo tale percezione a quella
connessione necessaria dei fenomeni stessi che è propria dell’esperienza
oggettivamente valida. In particolare, glmenti della coscienza, connessione per
la quale tali elementi, quali che siano, si richiamano l’un l’altro secondo
uniformità o leggi riconoscibili. La simiglianza, la continuità e il contrasto,
costituiscono le uniformità o le leggi fondamentali dell'A. che furono già
riconosciute da Platone (Fed., 76 a) e da Aristotele (De memoria et
reminiscentia, II, 451 b 18-20). In sèguito il fenomeno non ha più attratto
l’attenzione dei filosofi sino all’età moderna. Hobbes nel Leviathan dedica un
capitolo (il III) all’A. delle imagini, ma fu Locke a creare l’espressione
stessa « A. delle idee» e a introdurre il fenomeno relativo come principio di
spiegazione della vita della coscienza. L’importanza che l’A. acquista per
opera di Locke deriva dal presupposto asulle connessioni naturali sono fondate
tutte le operazioni dello spirito umano: la conoscenza nei suoi vari gradi,
l’imaginazione, la volontà, ecc. Per Locke tuttavia l’A. delle idee assume
forme differentissime. Hume la ridusse invece a solo tre principi: la
rassomiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causa ed effetto
(/ng. Conc. Underst., III). Abbandonato, dopo di Kant, in filosofia come
principio esplicativo dell’intera vita spirituale, l'A. è rimasta il principio
esplicativo della psicologia scientifica dalla metà dell’800 fino ai princìpi
del nostro secolo. Nel periodo contemporaneo la psicologia della forma o
gestaltismo (v.) ha impugnato lo stesso presupposto atomistico su cui si
fondava la teoria dell’associazione. L’ASSOCIAZIONISMO -- Associationism;
Associationnisme; Associazionstheorie – e l’indirizzo filosofico e psicologico
che assume come principio esplicativo dell’intera vita spirituale
l’associazione delle idee (v.). Il presupposto dell'A. è l’atomismo psicologico
cioè la riscluzione di ogni 74 ASSOLUTISMO evento psichico in elementi semplici
che sono le sensazioni, le impressioni, o, genericamente, le idee. Il fondatore
dell'A. è Hume, ma uno dei suoi maggiori diffonditori fu l’inglese Hartley per
il quale l’associazione delle idee è per l’uomo ciò che la gravitazione è per i
pianeti: cioè la forza che determina l’organizzazione e lo sviluppo del tutto.
L’A. trovò altre manifestazioni importanti nell’opera di Mill che se ne servì
nell’analisi dei problemi morali spiegando con l’associazione tra il piacere
proprio e l’altrui il passaggio dalla condotta egoistica alla condotta
altruistica; e di Stuart Mill (1806-73) che se ne avvalse nella trattazione di
problemi morali e logici. Ma dopo Stuart Mill Il’A. ha cessato di essere una
dottrina filosofica viva; ed è rimasta soltanto come ipotesi operante nel
dominio della psicologia scientifica dalla quale è stata esclusa solo negli
ultimi decenni ad opera della psicologia della forma (v. PSICOLOGIA).
ASSOLUTISMO (ingl. Absolutism; franc. Absolutisme; ted. Absolutismus). Termine
coniato nella prima metà del xvi secolo per indicare ogni dottrina che difenda
il « potere assoluto » o la « sovranità assoluta » dello Stato. Nel suo senso
politico originario il termine ora designa: 1° l’A. utopistico di Platone nella
Repubblica; 2° l’A. papale affermato da Gregorio VII e da Bonifacio VIII,
rivendicante per il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, la p/enitudo
potestatis cioè la sovranità assoluta su tutti gli uomini compresi i principi,
i re e l’imperatore; 3° l’A. monarchico del xvi secolo che trova il suo
difensore in Hobbes; 4° l’A. democratico, teorizzato da Rousseau nel Contratto
sociale e da Marx e dagli scrittori marxisti come «dittatura del proletariato
». Tutte queste forme dell'A. difendono ugualmente, pur con motivi o fondamenti
vari, l’esigenza che il potere statale venga esercitato senza limitazioni o
restrizioni. L'esigenza oche determinano la condotta più riuscita che si possa
tenere ad un dato stadio di conoscenza. Chiunque vuol trovare di più in queste
asserzioni, scoprirà alla fine che ha inseguito una chimera ». L’A. filosofico
non è tanto di chi parla dell’Assoluto o ne riconosce l’esistenza, ma di chi
pretende che l’assoluto stesso appoggi le sue parole e dia ad esse
un’incondizionata garanzia di verità. In questo senso il prototipo dell’A.
dottrinale rimane l’Idealismo romantico, secondo il quale nella filosofia non è
il filosofo come uomo che si manifesta e parla, ma l’Assoluto stesso che giunge
alla sua consapevolezza e si manifesta a se stesso. ASSOLUTO (ingl. Absolute;
franc. Absolu; ted. Absolut). Il termine latino absolutus (sciolto da, staccato
da, cioè liprovarla falsa »; il quale secondo significato è meno dogmatico del
primo. Così rispondere « Assolutamente no» ad una domanda o ad una richiesta,
significa semplicemente avvisare che questo «no» è saldamente appoggiato da
buone ragioni e sarà mantenuto. Questi usi comuni del termine corrispondono
all'uso filosofico che, genericamente, è quello di «senza limiti», «senza
restrizioni », e quindi «illimitato » o « infinito ». Molto probabilmente la
diffusione della parola, la quale ha inizio dal °700 (per quanto sia stato
Niccolò da Cusa ASSURDO 75 a definire Dio come l’A., Docta ignor., II, 9) è
dovuta al linguaggio politico e ad espressioni come « potere A. », « monarchia
A. +, ecc., nelle quali la parola significa chiaramente «senza restrizioni » 0
« illimitato ». La grande voga filosofica del termine è dovuta al Romanticismo.
Fichte parla di una « deduzione A.», di «attività A.», di «sapere A.», di
«riflessione A.», di «Io A.», per indicare, con questa ultima espressione, l’Io
infinito, creatore del mondo. E nella seconda fase della sua filosofia, quando
cerca di interpretare l’Io come Dio fa della parola un abuso che rasenta il
ridicolo: « L’A. è assolutamente ciò che è, riposa su e in se medesimo
assolutamente », « Esso è ciò che è assolutamente perchè è da se stesso...
perchè accanto all’A. non rimane niente di estraneo ma svanisce tutto ciò che
non è l’A.» (Wissenschafislehre, 1801, $$ 5 e 8; Werke, II, pag. 12, 16). La stessa
inflazione della parola si trova in Schelling; il quale, comfilosofia. Il
Romanticismo ha così fissato l’uso della parola sia come aggettivo sia come
sostantivo. Secondo questo uso la parola significa « senza restrizioni », «
senza limitazioni », «senza condizioni »; e come sostantivo significa la Realtà
che è priva di limiti o condizioni, la Realtà suprema, lo « Spirito » 0 « Dio
». Già Leibniz aveva detto: «Il vero infinito, a rigore, non è che l'A. »
(Nouv. Ess., II, 17, $ 1). E in realtà il termine può essere considerato come
sinonimo di « Infinito » (v.). Dato il posto centrale che la nozione di
infinito ha nel Romanticismo (v.) s’intende come questo sinonimo abbia trovato
accoglimento e voga nel periodo romantico. In Francia la parola fu importata da
Cousin del quale sono noti i legami col Romanticismo tedesco. In Inghilterra
essa fu introdotta da William Hamilton, il cui primo scritto fu uno studio
sulla Filosofia di Cousin (1829); e la nozione divenne la base delle
discussioni sulla conoscibilità dell’A., iniziate da Hamilton e Mansel e
continuate dall’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) che, come questi
due pensatori, affermò l’esistenza e insieme l’inconoscibilità dell’Assoluto.
Nella filosofia contemporanea la parola è stata ampiamente usata appunto da
quella corrente che più strettamente si rifaceva all’Idealismo romantico, cioè
dall’Idealismo angloamericano (Green, Bradley, Royce) e italiano (Gentile,
Croce) per designare la Coscienza infinita o lo Spirito infinito. La parola
rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico,
precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che comprende e risolve
in sè ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non
avendo nulla fuori di sè che possa limitarlo o condizionarlo. Nel suo uso
comune come in quello filosofico il termine rimane a significare o lo stato di
ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condizioni e di limiti, o (come
sostantivo) ciò che realizza se stesso in modo necessario e infallibile.
ASSORBIMENTO, LEGGE DI (ingl. Law of Absorption; franc. Loi d’absorption). Con
questo nome si designano nella Logica contemporanea i due teoremi dell’algebra
delle proposizioni: p»pa=pì P(pv9)=p e i
due corrispondenti teoremi dell'algebra delle classi: —avab=a; alavb)=a. L’A. è
in queste espressioni la possibilità logica di sostituire p a pvpgq 0 a p(pvg)
nelle prime espressioni; o a ad avab o ad a(avb) nelle seconde espressioni.
(Cfr. CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, 15. 8). Fuori del linguaggio della
logica, la legge significa che, se un concetto ne implica un altro, esso
assorbe quest’altro, nel senso che l’asserzione simultanea dei due equivale
all’asserzione del primo e può essere quindi sostituita dall’asserzione di
questo ogni volta che essa ricorra. Cfr. TAUTOLOGIA. ASSUNZIONE (gr. ji; lat.
Sumptio; inglese Assumption, Sumption; franc. Assomption; ted. Vordersatz). La
proposizione che si sceglie come premessa del ragionamento; oppure l’atto di
scegliere una proposizione a questo scopo (cfr. CiCERONE, De divinatione, II,
53, 108). Più precisamente, la proposizione che si sceglie come prima premessa
del sillogismo e che talora è detta anche /emma (v.) (cfr. HAMILTON, Lectures
on Logic, 1, pag. 283). L’A. non implica necessariamente la verità della
premessa che si assume. Si può assumere una proposizione vera o un'ipotesi o
anche una proposizione falsa allo scopo di confutaria. Il termine è equivalente
a posizione (v.). ASSURDO (lat. &torov, &Sivarov; lat. Absurdum; ingl.
Absurd; franc. Absurde; ted. Absurd). In generale, ciò che non trova posto nel
sistema di 76 ASTRATTE, IDEE credenze cui si fa riferimento o è in contrasto
con qualcuna di tali credenze. Gli uomini, e i filosofi, hanno sempre fatto un
uso abbondante di questa parola per condanso più ristretto e preciso la parola
significa «impossibile » (adynaton) perchè contraddittorio. In questo senso
Aristotele parlava di un ragionamento per A. o di una riduzione all’A.; che
sarebbe un ragionamento che assume come ipotesi la proposizione contrapposta
alla conclusione che si vuol dimostrare e fa vedere che da tale ipotesi deriva
una proposizione contraddittoria con l’ipotesi stessa (An. Pr., II, 11-14, 61a
sgg.). La dimostrazione per A., aggiunge Aristotele (/bid., 14, 62 b 27) si
differenzia dalla dimostrazione ostensiva perchè assume ciò che, con la
riduzione all’errore riconosciuto, vuol distruggere; la dimostrazione
ostensiva, invece, parte da premesse già ammesse. Leibniz chiamò dimostrazione
apagogica il ragionamento per A. e lo ritenne utile o almeno difficilmente
eliminabile, nel dominio della matematica (Nouv. Ess., IV, 8, $ 2). Kant che
adopera lo stesso nome, lo giustificò nelle scienze ma lo escluse dalla
filosofia. Lo giustificò nelle scienze perchè in queste è impossibile il modus
ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla verità delle sue
conseguenze: bisognerebbe infatti conoscere tutte le conseguenze possibili: il
che è impossibile. Ma se da una proposizione può essere ricavata anche una sola
conseguenza falsa, la proposizione è falsa: perciò il modus tollens dei
sillogismi conchiude insieme con rigore e con facilità. Ma questo modo di
ragionare è senza pericoli solo nelle scienze in cui non si può scambiare
l’oggettivo col soggettivo, cioè nelle scienze della natura. In filosofia
invece quello scambio è possibile, cioè può darsi che sia soggettivamente
impossibile ciò che non è oggettivamente impossibile. E quindi il ragionamento
apagogico non porta a conclusioni legittime (Critica R. Pura, Disciplina della
ragion pura, IV). ASTRATTE, IDEE. V. ASTRAZIONE. ASTRATTE, SCIENZE. V. Scienze,
CLASSIFICAZIONE DELLE. ASTRATTIVA, CONOSCENZA (lat. Cognitio abstractiva; ingl.
Abstractive Knowledge; francese Connaissance abstractive; ted. Abstrahierende
Erkenntnîss). Termine che Duns Scoto adoperò, simmetricamente od oppostamente a
quello di conoscenza intuitiva (cognitio intuitiva), per indicare una delle
specie fondamentali della conoscenza: la prima delle quali « astrae da ogni
esistenza aTRAZIONE 77 alla quantità discreta e continua; il fisico prescinde
da tutte le determinazioni dell’essere che non si riducono al movimento.
Analogamente il filosofo spoglia l’essere di tutte le determinazioni
particolari (quantità, movimento, ecc.) e si limita a considerarlo solo in
quanto essere» (Mer., XI, 3, 1061 a 28 sgg.). L’intero procedimento del
conoscere può essere, secondo Aristotele, descritto con l’A.: «La conoscenza
sensibile consiste infatti nell’assumere le forme sensibili senza la materia
come la cera assume l’impronta del sigillo senza il ferro o l’oro di cui esso è
composto è (De An., II, 12, 424 a 18). E la conoscenza intellettuale riceve le
forme intelligibili astraendole dalle forme sensibili nelle quali sono presenti
(/bid., III, 7, 431 sgg.). All’operazione dell’A., S. Tommaso riduce la
conoscenza intellettuale; la quale è un astrarre la forma dalla materia
individuale e così trarre fuori l’universale dal particolare, la specie
intelligibile dalle imagini singole. AI modo in cui possiamo considerare il
colore di un frutto prescindendo dal frutto, senza perciò affermare che esso
esista separato dal frutto; così possiamo conoscere le forme o specie
universali dell’uomo, del cavallo, della pietra, ecc., prescindendo dai
princìpi individuali cui vanno unite, ma senza pretendere che esistano
separatamente da questi. L’A. perciò non falsifica la realtà ma solo rende
possibile la considerazione separata della forma e con ciò la conoscenza
intellettuale umana (S. 7h., I, q. 85, a. 1). Questi concetti, o concetti
affini, ricorrono in tutta la Scolastica. La Logica di Porto Reale (I, 4) ha
riassunto assai bene il pensiero della Scolastica e la stretta connessione del
procedimento astrattivo con la natura dell’uomo, dicendo: «La limitazione della
nostra mente fa sì che non possiamo comprendere le cose composte se non
considerandole nelle loro parti e contemplando le facce diverse con cui esse ci
fronteggiano: ciò è quello che si suole generalmente chiamare conoscere per A.
». Locke per primo ha messo in luce la stretta connessione del procedimento
dell’A. con la funzione simbolica del linguaggio. « Mediante l’A., egli dice,
le idee tratte da esseri particolari diventano le generali rappresentanti di
tutti gli oggetti della stessa specie e i loro nomi diventano nomi generali,
applicabili a tutto ciò che esiste ed è conforme a tali idee astratte... Così,
venendo oggi osservato nel gesso o nella neve lo stesso colore che ieri lo
spirito ha ricevuto dal latte, esso considera quel solo aspetto e ne fa la
rappresentazione di tutte le altre idee dalla medesima specie; e avendogli dato
il nome ‘bianchezza’ con questo suono significa la medesima qualità, dovunque
essa venga imaginata o incontrata; e così vengono composti gli universali, sia
che si tratti di idee, sia che si tratti di termini » (Saggio, II, 11, $ 9).
Proprio sulla base di queste osservazioni di Locke, Berkeley giunse alla
negazione dell’idea astratta e della stessa funzione della astrazione. Egli
nega, in altri termini, che l’uomo possa astrarre l’idea del colore dai colori,
l’idea dell’uomo dagli uomini, ecc. Non c’è infatti l’idea di un uomo che non
abbia alcun carattere particolare, come non c’è in realtà un uomo di tal
genere. Le idee generali, non sono idee prive di ogni carattere particolare
(cioè « astratte »), ma idee particolari assunte come segni di un gruppo di
altre idee particolari fra loro affini. Il triangolo che un geometra ha
presente per dimostrare un teorema non è un triangolo astratto, ma un triangolo
particolare, per es., isoscele; ma poichè di tale carattere particolare non si
fa menzione nel corso della dimostrazione, il teorema dimostrato vale per tutti
indistintamente i triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di quello
considerato (Princ. of Hum. Know., Intr., $ 16). Hume ripetette l’analisi
negativa di Berkeley (7reazise, I, 1, 7). Tali analisi tuttavia non negano
l’A., ma piuttosto la sua nozione psicologica in favore del concetto
logico-simbolico di essa. L’A. non è l’atto con cui lo spirito pensa certe idee
separatamente da certe altre; è piuttosto la funzione simbolica di certe
rappresentazioni particolari. Kant tuttavia sottolinea l’importanza dell’A. nel
senso tradizionale, mettendola accanto alla attenzione come uno degli atti
ordinari dello spirito e sottolineando la sua funzione di separare una rappresentazione,
di cui si è coscienti, dalle altre con cui essa è legata nella coscienza. Per
quanto egli esemplifichi in modo curioso l’importanza di questo atto (« Molti
uomini sono infelici perchè non sanno astrarre ». « Un celibe potrebbe fare un
buon matrimonio se soltanto sapesse astrarre da una verruca del viso o dalla
mancanza di un dente della sua amata », [Aner., $ 3]), è chiaro che l’intero
procedimento di Kant inteso a isolare (isolieren) gli elementi a priori della
conoscenza o in generale dell’attività umana, è un procedimento astrattivo. «In
una logica trascendentale, egli dice per es., noi isoliamo l'intelletto (come
sopra, nell’Estetica trascendentale, la sensibilità) e rileviamo di tutta la
nostra conoscenza soltanto la parte del pensiero che ha la sua origine
unicamente nell’intelletto » (Crit. R. Pura, Div. della Log. trascend.). Con
Hegel si assiste allo strano fenomeno di una sopravvalutazioperciò, secondo
Hegel, la realtà stessa, anzi la sostanza della realtà. Dall’altro lato,
tuttavia, l’astratto è considerato da Hegel come ciò che è finito, immediato,
non posto in relazione col tutto, non risolto nel divenire dell’Idea, e perciò
prodotto di una prospettiva provvisoria c fallace. «L’astratto è il finito, il
concreto è la verità, l’oggetto infinito » (Phil. der Religion, II, in Werke,
ed. Glockner, XVI, pag. 226). «Soltanto il concreto è il vero, l’astratto non è
il vero » (Geschichte der Phil., III, in Werke, ed. Glockner, XIX, pag. 99). È
chiaro tuttavia che Hegel intende per astratto quello che comunemente si chiama
concreto — le cose, gli oggetti particolari, le realtà singole offerte o
testimoniate dall’esperienza — mentre chiama me immanenza di esso nelle
rappresentazioni singole e dell’« astrattezza » delle nozioni considerate
avulse dai particolari (Logica, 48 ediz., 1920, pag. 28). Bergson ha
costantemente contrapposto il tempo «concreto» della coscienza al tempo «
astratto» della scienza; e in generale il procedimento della scienza che si
avvale di concetti o simboli cioè di «idee astratte o generali» al procedimento
intuitivo o simpatetico della filosofia (cfr., per es., La pensée et le
mouvant, 3» ediz., 1934, pag. 210). Simili temi polemici sono stati assai
frequenti nella filosofia dei primi decenni del nostro secolo. E certamente la
polemica contro l’A. è stata efficace contro la tendenza ad entificare i
prodotti di essa cioè a considerare come sostanze o reogo alle vere e proprie
entità astratte, per es., nella matematica. «Il più ordinario fatto della
percezione, come, ad es., ‘ c’è luce ® implica A. precisiva o prescissione. Ma
l’A. ipostatica, l'A. che trasforma il ‘c’è luce’ in ‘c’è la luce qui’ che è il
senso ch'io do comunemente alla parola A. (dal momento che prescissione indica
l’A. precisiva) è un modo specialissimo del pensiero. Esso consiste nel
prendere un certo aspetto di un oggetto o di più oggetti percepiti (dopo che è
stato già prescisso dagli altri aspetti di tali oggetti) e di esprimerlo in
forma proposizionale con un giudizio » (Coll. Pap., 4.235; cfr. 3.642; 5.304).
Questa distinzione che era stata già accennata da James (Princ. of Psychol., I,
243) ed è stata accettata da Dewey (Logic, cap. 23; trad. ital., pag. 603604)
non toglie che sia la prescissione sia l’A. ipostatica sono specificazioni di
quella generale funzione selettiva, che tradizionalmente è stata indicata con
la parola « astrazione ». Paul Valéry ha poeticamente insistito sull’importanza
dell’A. in ogni costruzione umana quindi anche nell’arte: « L'uomo, ti dico,
fabbrica per A.; ignorando e dimenticando gran parte delle qualità di ciò che
impiega, applicandosi soltanto a condizioni chiare e distinte che possono per
lo più essere simultaneamente soddisfatte non da una ma da più specie di
materie» (Eupalinos, trad. ital., pag. 134). ASTRAZIONISMO -- Abstractionism;
Abstractionnisme; Abstraktionismus -- James -- The Meaning of Truth -- chiama
l’uso illegittimo dell’astrazione e in particolare la tendenza a considerare
come reali i prodotti dell’astrazione. ASTROLOGIA (gr. dotpodoria; lat.
Astrologia; ingl. Astrology; franc. Astrologie; ted. Astrologie). La credenza
nell’influsso dei movimenti degli astri sul destino degli uomini e la scienza,
o pretesa scienza, fondata su questa credenza. L'A. è legata con la nascita
dell’astronomia nel mondo orientale e ha accompagnata l’astronomia nella prima
parte della sua storia. Secondo F. Cumont, furono i Caldei i primi a concepire
l’idea di una necessità inflessibile che regoli l’universo e a sostituire tale
idea a quella di un mondo retto da dèi in conformità delle loro passioni.
L’idea fu ad essi suggerita ATEISMO dalla regolarità dei movimenti dei corpi
celesti (CumonT, Oriental Religions in Roman Paganism, trad. ingl., pag. 179).
Questa credenza condusse a stabilire una corrispondenza tra il macrocosmo
(mondo) e il microcosmo (uomo): corrispondenza in virtù della quale gli
avvenimenti dell’uno si rifletterebbero negli avvenimenti dell’altro e sarebbe
possibile, a partire dalla conoscenza dei primi, predire in qualche modo i
secondi. L’A. si diffuse in Occidente nel periodo greco-romano. La filosofia
araba la giustificò, proprio come gli antichi Caldei, sul fondamento della
necessità universale che lega insieme tutti gli eventi del mondo e che da Dio,
come primo motore, va sino agli eventi umani. Questa catena necessaria passa
attraverso gli avvenimenti celesti: gli avvenimenti terrestri, e quelli umani,
non sono determinati direttamente da Dio, ma sono determinati da lui per il
tramite degli avvenimenti celesti, cioè dei movimenti degli astri. Sicchè tali
movimenti sono quelli che immediatamente determinano gli eventi del mondo
sublunare e quindi del mondo umano; e la conoscenza di essi rende possibile la
previsione di questi. Le credenze astrologiche erano comuni nel Medioevo,
nonostante le condanne ecclesiastiche: Dante stesso ne partecipava (Conv., II,
14; Purg., XXX, 109 seguenti). Nel Rinascimento furono difese e giustificate da
uomini come Paracelso, Bruno, Campanella. Quest'ultimo dedicò all’A. un’opera
Astrologicorum Libri VII, 1629, e si avvalse di essa per confermare il suo
vaticinio dell’imminente ritorno del mondo all’unità religiosa e politica
(Atheismus triumphatus, 1627). Altri filosofi furono ostili all’astrologia, pur
ammettendo la validità della magia. Così fece, per es., Pico della Mirandola
che scrisse le Disputationes adversus Astrologos nelle quali accusa l’A. di
rendere gli uomini servi e miserabili; e così fece Giovan Battista Helmont
negando l’influsso degli astri sugli avvenimenti umani (De Vita Longa, 15, 12).
L’A. ha perduto il suo fondamento scientifico con la scienza moderna, la quale
esige, per poter affermare un qualsiasi rapporto causale, che tale rapporto sia
riscontrato uniforme in un numero di casi sufficientemente grande. Il rapporto
causale tra i movimenti degli astri e gli eventi umani potrebbe pertanto essere
riconosciuto come tale solo sul fondamento di osservazioni ripetute e
ripetibili, che ne mettessero in luce tutti gli anelli intermedi, in modo da
farne comprendere il funzionamento. Niente del genere si è verificato nell’A.
la quale tuttora si fonda su antichi testi e tradizioni, su simbolismi non
suscettibili di controllo e su credenze magiche o teosofiche. D'altronde, le
credenze astrologiche rimangono tra le più diffuse anche nel mondo
contemporaneo, permeato com'è di spirito scientifico: forse lo spirito
contemporaneo trova in esse un correttivo all'assenza di sicurezza che è
caratteristica della sua situazione e nelle predizioni astrologiche una via per
limitare, sia pure in modo arbitrario e fantastico, le previsioni intorno al
suo destino prossimo o lontano. ASTRUSO (lat. Abstrusus [= nascosto]; inglese
Abstruse; franc. Abstrus; ted. Abstrus). Termine peggiorativo per qualificare
qualsiasi nozione inconsueta o di difficile comprensione; 0, come dice Locke
(Saggio, II, 12, $ 8) «lontana dai sensi e da ogni operazione del nostro
spirito ». Il termine è applicato soprattutto a nozioni astratte; ma viene
ugualmente applicato a nozioni che si allontanino, più o meno, dall’ordinario
universo di discorso. ASTUZIA DELLA RAGIONE (ingl. Astuteness of the Reason;
franc. Astuce de la raison; ted. List der Vernunfr). Così Hegel ha chiamato il
fatto che l’Idea universale fa agire nella storia le passioni degli uomini come
suoi strumenti e le fa logorare e consumarsi per i propri fini. « L’Idea paga
il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca ma con le passioni
degli individui. Cesare doveva compiere quello che era necessario per
rovesciare la decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta ma quello che
era necessario restò: la libertà secondo l’idea giaceva più profonda
dell’accadere esterno » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 83-84; trad.
ital, pag. 98). ATANATISMO (ingl. Arhanatism; franc. Athanatisme; ted.
Athanatismus). Così fu chiamata da alcuni autori dell’800 la dottrina
dell’immortalità dell’anima. ATARASSIA (gr. drapazla; ingl. Afaraxia; franc.
Ataraxie; ted. Ataraxie). Termine usato dapprima da Democrito (Fr., 191) poi
dagli Epicurei e dagli Stoici per designare l’ideale della imperturbabilità o
della serenità dell’anima derivante dal dominio sulle passioni o
dall’estirpazione di esse (v. ApATIA). Analogamente «Il fine dello scetticismo
è l’A. nelle cose opinabili e la moderazione nelle cose che sono per necessità
» (SESTO E., /potip. Pirr., I, 25). ATEISMO (gr. a0e6mns; lat. Arheismus;
inglese Atheism; franc. Athéisme; ted. Atheismus). È, in generale, la negazione
della causalità di Dio. Il riconoscimento dell’esistenza di Dio può
accompagnarsi con l’ateismo se non include anche il riconoscimento della causalità
specifica di Dio. La prima analisi dell'A. che la storia della filosofia
ricordi è quella di Platone nel X libro delle Leggi. Platone considera tre
forme di A.: 1° la negazione della divinità; 2° la credenza che la divinità
esista ma non si curi delle cose umane; 3° la credenza che la divinità possa
essere propi80 ATEISMO ziata con doni ed offerte. La prima forma è il
materialismo: il quale dipende dall’opinione che la natura precede l’anima e
cioè che la materia « dura e molle, pesante e leggera» preceda «l’opinione, la
previsione, l’intelletto, l’arte e la legge ». Questo è l’errore di tutti i
filosofi della natura che pongono l’acqua, o l’aria o il fuoco come principi
delle cose e li chiamano «natura» per intendere che sono l'origine di esse
(Leggi, X, 891 c, 892 b). Per confutare il materialismo non c’è che da
dimostrare che l’anima precede la natura; e Platone dimostra come lo stesso
movimento dei corpi materiali presuppone un Primo Motore immateriale (v. Dro,
Prove DI). La seconda forma di A., che consiste nel ritenere che la divinità
non si occupa delle cose umane, è confutata da Platone con l’argomento che essa
equivarrebbe ad ammettere che la divinità è pigra e indolente e a ritenerla
inferiore al più comune mortale che sempre vuol rendere perfetta l’opera sua,
grande o piccola che sia. Infine la peggiore aberrazione è quella dei malvagi i
quali credono di poter propiziarsi la divinità con doni ed offerte. Costoro
pongono la divinità stessa alla pari dei cani che, ammansiti dai doni, permettono
di depredare le greggi e al di sotto degli uomini comuni che non tradiscono la
giustizia accettando doni delittuosamente offerti. Platone è così severo con
quest’ultima forma di A. che, per evitarla, vorrebbe impedire ogni forma di
sacrificio privato ed ammettere solo quelle effettuate sui pubblici altari e
con rituale stabilito (Leggi, X, 909 d). L’analisi di Platone assomma a dire
che l’unica forma di A. filosofico è il materialismo naturalistico, il quale
pone il corpo prima dell’anima; le altre due forme sono piuttosto pregiudizi
volgari che credenze filosofiche (sebbene la prima di esse, l’indifferentismo
degli dèi, doveva essere fatta propria dagli Epicurei). Uno sguardo al corso
ulteriore della filosofia occidentale mostra che accanto al materialismo,
possono essere considerati, come forme di A. filosofico, lo scetticismo, il
pessimismo e il panteismo. 1° Nell’età moderna la coincidenza di materialismo e
A. è stata affermata da Berkeley che appunto da questa coincidenza è stato
indotto a sostenere l’irrealtà della materia (v. IMMATERIALIsMO). Se si ammette
che la materia è reale l’esistenza di Dio diventa inutile perchè la materia
stessa diventa la causa di tutte le cose e delle idce che sono in noi.
L’esistenza della materia è il principale fondamento dell'A. e del fatalismo e
della stessa idolatria (Prince. of Hum. Knowledge, $$ 92-94). In linea di fatto
si può dire che non la realtà della materia, ma solo la causalità della materia
è uno dei fondamenti dell’ateismo. Il materialismo settecentesco di La Mettrie
e d’Holbach come quello ottocentesco di Luigi Buchner, di Ernesto Heckel e di
Felice Le Dantec hanno appunto questo fondamento. Dio viene eliminato come
principio causale di spiegazione perchè si ammette come tale la materia. 2° La
seconda forma di A. filosofico è quella scettica, che trova la sua prima
manifestazione nel neo-accademico Carneade di Cirene (214-129 a. C.). Questi
non solo fa vedere la debolezza delle prove che si adducono dell’esistenza
della divinità, ma mostra le difficoltà inerenti al concetto di divinità. Per
es., Carneade dice: « Se esistono, gli dèi sono viventi, se viventi sentono...
Se sentono, ricevono piacere o dolore. E se ricevono dolore sono capaci di
turbamento e mutazioni in peggio; e così sono mortali» (Sesto E., Adv. math.,
IX, 139-40). Un punto di vista analogo a quello di Carneade è stato elaborato
nell'età moderna da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale. Hume
ritiene che una prova « priori dell’esistenza di Dio sia impossibile perchè
l’esistenza è sempre materia di fatto. Quanto alle prove a posteriori, egli
rigetta la validità di una prova cosmologica, ritenendo illegittimo chiedersi
la causa di una collezione di individui. « Se, egli dice, si mostra la causa di
ciascun individuo di una collezione che comprende venti individui, è assurdo
domandare poi la causa dell’intera collezione che è stata già data con le cause
particolari. Questo vuol dire che non ha senso domandarsi la causa del mondo
nella sua totalità. Maggior valore ha la prova fisico-teologica; ma essa può
consentire soltanto di risalire ad una causa proporzionata all’effetto; e
poichè l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, la causa dovrebbe
essere altrettanto imperfetta e finita. Ma se la divinità si riconosce
imperfetta e finita, manca il motivo per riconoscerla unica. Se una città può
essere costruita da più uomini, perchè l'universo non potrebbe essere stato
creato da più deità o dèmoni? » (Works, Il, 1827, pag. 413). Da ultimo la
disputa tra teismo e A. diventa una questione di parole: « Il teista ammette
che l’intelligenza originale è assai diversa dalla ragione umana. L’ateista
ammette che il principio originale dell’ordine ha qualche remota analogia con
la ragione stessa. Volete allora, miei signori, bisticciare intorno al grado
dell’analogia ed entrare in una controversia che non ammette preciso
significato nè conseguentemente una conclusione qualsiasi? » (/bid., pag. 535).
Questo tipo di scetticismo non è tuttavia, come spesso il materialismo, una
forma di professato A.: esso ténde, come si vede, a togliere ogni valore
drammatico alla disputa sull’A. e a dimostrarla da ultimo insignificante. 3° La
terza forma di A. è il panteismo (v.). Anche qui non si tratta di un professato
A. ma piuttosto di un'accusa che spesso viene rivolta a ATOMISMO 81coloro che
identificano Dio col mondo. L’accusa di A. è stata per molto tempo rivolta a
Spinoza per il suo Deus sive Natura: in realtà, come notava Hegel, più
esattamente si sarebbe dovuto parlare di acosmismo (v.). Accuse di A. furono
rivolte anche a Fichte in séguito ad un articolo pubblicato nel 1798 nel
Giornale filosofico di Jena, « Sul fondamento della nostra credenza nel governo
divino del mondo», nel quale s’identificava Dio con l’ordine morale del mondo.
Per la polemica che seguì a questo articolo, Fichte fu costretto a dimettersi
dall’Università di Jena. Fichte, come Spinoza, rigettava l’accusa di A.; e,
comunque si voglia giudicare la cosa, è certo che il panteismo non è A.
professato. 4° A. professato è invece, in alcune delle sue forme, il
pessimismo. Il disordine, il male, l’infelicità del mondo sono, secondo
Schopenhauer, ostacoli insormontabili sia all’affermazione del Dio personale
che è richiesto dal teismo, sia all’identificazione del mondo con Dio operata
dal panteismo (Selected Essays, trad. ingl. Belfort-Bax, pag. 71). Teismo e
panteismo presuppongono l’ottimismo che non solo è smentito dai fatti in quanto
viviamo nel peggiore dei mondi possibili, ma è anche pernicioso perchè non fa
altro che legare gli uomini alla spietata e crudele volontà di vita (Die Welt,
ecc., II, cap. 46). Nella filosofia contemporanea, la dottrina di Sartre
rappresenta un A. pessimistico aggiornato coi nuovi indirizzi della
speculazione. Non è il male o il dolore come tale il fondamento di questo pessimismo;
ma piuttosto l'ambiguità radicale, l’incertezza dell’esistenza umana gettata
nel mondo e dipendente soltanto dalla propria assoluta libertà che la condanna
allo scacco. Non c’è Dio, secondo Sartre, ma c’è l’essere che progetta di
essere Dio, cioè l’uomo: progetto che è nello stesso tempo l’atto della libertà
abissò nel mare e scomparve, rendendo impraticabile e inesplorabile il mare nel
quale era situata (7im., 24 sgg.). La Nuova A. è un’opera postuma di Bacone,
pubblicata nel 1627. È la descrizione di 8 — ARRAGNANO, Dizionario di
filosofia. una società in cui la scienza, posta a servizio dei bisogni umani,
ha scoperto o va scoprendo le tecniche per far dell’uomo il dominatore
dell’universo. La Nuova A. è perciò un paradiso della tecnica dove sono portati
a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo e ha l’aspetto di un
enorme laboratorio sperimentale nel quale gli abitanti cercano di « estendere i
confini dell’impero umano ad ogni cosa possibile ». I numi tutelari dell’isola
sono i grandi inventori di tutti i paesi e le sacre reliquie sono gli esemplari
di tutte le più rare e importanti invenzioni. ATOMICO (ingl. Atomic; franc.
Atomique; ted. Atomik). Elementare, non riducibile a parti costitutive più
semplici. Fatto A.: si è tradotto con questa espressione ciò che Wittgenstein
aveva chiamato «stato di cose» (Sachkverhalte) cioè il fatto in quanto
costituisce l’elemento ultimo del mondo (Tract. logico-philos., 1922, 2).
Proposizione A.: la proposizione elementare cioè quella che « asserisce
l’esistenza di un fatto A. + (/bid., 4. 21). Corrisponde alla propositio
categorica della logica scolastica: è una proposizione immediatamente vera o
falsa (appunto come imagine di un fatto A.), non scomponibile in altre
proposizioni più semplici. G. P.-N. A. ATOMISMO (ingl. Aromism; franc. Atomisme; ted. Atomismus). S’intendono con questa parola tre dottrine diverse,
che hanno scopi diversi, e precisamente: 1° l’A. filosofico o naturalismo
atomistico; 2° la teoria atomica; 3° la concezione atomistica della realtà
psichica o sociale o del linguaggio. 1° L’A. filosofico è quello di Democrito e
Leucippo, degli Epicurei e di Gassendi. Esso è una filosofia della natura che
non ha maggiori basi sperimentali della fisica aristotelica (v. ATOMO). 2° La
teoria atomica (ingl. Atomic Theory; franc. Théorie atomique; ted. Atomtheorie)
è quella formulata nella scienza moderna per la prima volta da Dalton, ed
esprime il modello che la scienza si è via via fatta dell’aromo (v.). 3° La
concezione atomistica (ingl. Atomistic Idea; franc. Idée atomistique; ted.
Atomistisches Denken) consiste nel proporre per la spiegazione della vita della
coscienza o della società o del linguaggio un’ipotesi analoga a quella dell’A.
filosofico o della teoria atomica assumendo che coscienza o società o
linguaggio siano costituiti da elementi semplici irreducibili, la cui diversa
combinazione ne spieghi tutte le modalità. Così fa l’associazionismo (v.) per
la vita della coscienza e l’individualismo (v.) per la vita della società. Si
parla pertanto di A. associazionistico (per es., ne parlava JAMES, Psychology,
I, 1890, pag. 604 e ne parla KATZ, Gestalipsychologie, cap. 1). L’espres82
ATOMISTICO sione «A. sociale» ricorre frequentemente a designare le dottrine
individualistiche che ritengono la società risolvibile interamente negli
individui che la compongono. Infine l’espressione « A. logico » fu adoperata da
Russell nel 1918 per indicare la sua filosofia. «La ragione per cui io chiamo
la mia dottrina A. logico, egli diceva, è che gli atomi ai quali desidero
arrivare come residui ultimi della analisi sono atomi logici e non atomi fisici
» (« The Phil. of Logical Atomism», in The Monist, 1918, ora in Logic and
Knowledge, London, 1956). Già nel libro Merodo scientifico in filosofia (1914)
aveva parlato di « proposizione atomica » intendendo la proposizione che
esprime un fatto cioè che afferma che una cosa ha una certa qualità o che certe
cose hanno certe relazioni; e aveva chiamato « atomico » il fatto espresso
dalla proposizione atomica. Questi concetti costituiscono anche i capisaldi del
Tractatus Logico-Philosophicus (1922) di Wittgenstein. ATOMISTICO. V. AtoMisMo.
ATOMO (gr. &ropov; ingl. Atom; franc. Atome; ted. Arom). La nozione di A.
ha offerto alla filosofia occidentale una delle più importanti alternative di
speculazione e di ricerca. Essa è stata infatti lo strumento principale della
spiegazione meccanica delle cose e in generale del mondo (v. MeccanIcisMo).
Leucippo e Democrito elaborarono nel sec. v a. C. questa nozione: l’A. è un
elemento corporeo, invisibile per la sua piccolezza e non divisibile. Gli A.
differiscono solo per forma e grandezza; unendosi e disunendosi nel vuoto
determinano la nascita e la morte delle cose e disponendosi diversamente ne
determinano la diversità. Aristotele (Mer., I, 4, 985 b 15 sgg.) li paragonò
alle lettere dell'alfabeto, che differiscono fra loro per la forma e danno
luogo a parole e a discorsi diversi, disponendosi e combinandosi diversamente.
Le qualità dei corpi dipendono dunque o dalla figura degli A. o dall’ordine e
dal movimento di essi. Perciò non tutte le qualità sensibili sono oggettive e
appartengono veramente alle cose che le provocano in noi. Sono oggettive le
qualità proprie degli A.; la forma, la durezza, il numero, il movimento; invece
il freddo, il caldo, i sapori, i colori, gli odori, sono soltanto apparenze
sensibili provocate bensì da speciali figure o combinazioni di A., ma non
appartenenti agli A. stessi (DeMOCRITO, Fr. 5, Diels). Il movimento degli A. è
determinato da leggi immutabili: « Nessuna cosa, dice Leucippo {Fr. 2) accade
senza ragione ma tutto accade per una ragione e di necessità ». Il movimento
originario degli A. facendoli roteare e urtarsi in tutte le direzioni produce
un vortice dal quale le parti più pesanti sono portate al centro e le altre
invece respinte verso la periferia. Il loro peso, che li fa tendere verso il
centro, è dunque un effetto del loro movimento vorticoso. In questo modo si
formano infiniti mondi che incessantemente si generano e si dissolvono. Questi
capisaldi, propri del vecchio atomismo, rimasero immutati nelle altre forme
dell’atomismo. La fisica di Epicuro rappresenta una ripetizione della fisica
democritea: non molta importanza ha difatti la variante di Epicuro che gli A.
cadono in linea retta e che s’incontrano e producono vortici quando, senza
causa, deviano dalla traiettoria rettilinea (CICERONE, De fin., I, 18; De nat.
deor., I, 69). La nozione dell’A. non viene utilizzata per tutto il Medioevo,
durante il quale l’unica teoria fisica accettata è quella aristotelica delle
quattro cause (v. Fisica). E ai principi dell’età moderna, per quanto la
nozione ritorni occasionalmente — per es., in Cusano e in Giordano Bruno (De
minimo, I, 2) — non viene utilizzata come strumento di una teoria sistematica se
non da Pierre Gassendi. Questi però, ammettendo che gli A. sono creati da Dio,
da lui dotati di movimento, e da lui guidati e ordinati mediante una specie di
anima del mondo, fa perdere alla fisica epicurea il carattere materialistico e
meccanico e la trasforma in una fisica spiritualistica e finalistica (Synragma
Philosophiae Epicuri, 1658). Nel frattempo Cartesio aveva dato luogo al
meccanismo non atomistico e considerato impossibile la stessa nozione di atomo.
«Se gli A. esistessero, egli disse, dovrebbero necessariamente essere estesi e
in tal caso, per quanto si imaginassero piccoli potremmo sempre dividerli col
pensiero in due o più parti minori e riconoscerli perciò come divisibili »
(Princ. Phil., II, 20) Fu probabilmente in base a questa considerazione che
Leibniz accettò la nozione di un A. non più fisico ma psichico, cioè della
monade (v.). La scienza moderna, pur essendo meccanistica, non si avvale, da
principio, dell'atomo. È vero che alla fine dell’Orrica (1704) Newton adduceva
un complesso di ragioni, cioè di esperienze, per ammettere che « tutti i corpi
siano composti di particelle dure »; e formulava l’ipotesi che « Dio al
principio abbia dato alla materia la forma di particelle solide, dotate di
massa, dure, impenetrabili e mobili, di tali dimensioni e figure e con tali
proprietà e in tali proporzioni con lo spazio, da essere adatte al fine per il
quale egli le ha formate» (Opzicks, IMI, 1, q. 31); ma è anche vero che queste
e simili speculazioni cadevano fuori della scienza appartenendo alla sfera
delle opinioni private dello scienziato. In realtà, l’ipotesi atomica fa il suo
ingresso nella scienza soltanto ai principi dell’800, per opera della chimica.
La legge delle proporzioni multiple, formulata da Giovanni Dalton, esprimeva il
fatto che quando una sostanza entra in combinazione con quantità diverse di
un’altra sostanza, queste quantità stanno tra loro come i numeri semplici, cioè
ATTEGGIAMENTO 83 si comportano come se fossero parti indivisibili. Ma le parti
indivisibili non sono altro che atomi.’ Pertanto l’ipotesi della composizione
atomica della materia come spiegazione della legge delle proporzioni multiple
veniva avanzata da Dalton nel 1808. Per quanto essa suscitasse sùbito vivaci
opposizioni perchè appariva come il ritorno di una vecchia dottrina metafisica
quindi come uno sconfinamento della scienza nella metafisica, essa in realtà
era ora un’ipotesi invocata a dar ragione di un fatto bene accertato. E più che
un’ipotesi, la nozione stessa apparve come una realtà quando nel 1811 la teoria
di Avogadro (circa l’uniformità del numero delle particelle contenute in un
volume dato di gas) permetteva di stabilire il peso degli A. relativamente ali’
A. d’idrogeno, assunto come unità: il che dava agli A. una realtà fisica
(misurabile). La nozione di A. doveva subire una trasformazione radicale a
partire dalla seconda metà dell’800 con lo studio dei fenomeni dei gas
rarefatti e delle emanazioni radioattive. L’A., indivisibile per la chimica,
non era più indivisibile per la fisica. Verso il 1904 Thompson escogitava il
primo modello di A., imaginando che esso fosse costituito da una piccola palla
elettrizzata positivamente che racchiudesse nel suo interno un certo numero di
elettroni. Ma alcune esperienze di Rutherford mostravano che la materia è assai
meno compatta di come avrebbe fatto supporre il modello atomico di Thompson.
Perciò Rutherford verso il 1911 imaginava la struttura dell'A. come un sistema
solare in miniatura, costituito da un nucleo centrale elettrizzato
positivamente (paragonabile al Sole) e da vari elettroni rotanti intorno ad
esso (paragonabili ai pianeti). Un'ulteriore innovazione del modello dell’A. fu
operata da Bohr, il quale, tenendo presente la scoperta del quantum di azione,
imaginò che l’elettrone percorra intorno al nucleo un numero determinato di
ellissi e possa saltare da un’ellissi all’altra, liberando in questo salto un
quanium di energia. La scoperta del principio di indeterminazione (v.)
dimostrava tuttavia che non è possibile osservare nella sua interezza la traiettoria
di un elettrone e che perciò la stessa nozione di traiettoria non ha
significato fisico (nulla che non sia osservabile o misurabile ha significato
fisico). Ma allora lo stesso modello dell’A. di Bohr perdeva il suo significato
fisico e cessava di avere la pretesa di essere l’imagine esatta dell’atomo. Dal
1927 in poi, cioè dalla data in cui Heisenberg ha scoperto il principio di
indeterminazione, la scienza ha praticamente abbandonato ogni tentativo di
descrivere l’A. o di definirlo in un modo qualsiasi. Allo stato attuale delle
cose l’aggettivo «atomico » rimane soltanto a designare la scala sulla quale
certi fenomeni possono essere osservati e misurati. L’ATOMO PRIMEVO -- Primeval
Atom – e l’ipotesi cosmogonica che presenta l’universo come il risultato della
disintegrazione radioattiva di un atomo (G. LeMAITRE, The Primeval A., An Essay
on Cosmogony, 1950) (v. COSMOLOGIA). ATTEGGIAMENTO (ingl. Attitude; franc.
Attitude; ted. Einstellung). Termine ampiamente usato nella filosofia, nella
sociologia e nella psicologia contemporanee per indicare in generale
l’orientamento selettivo e attivo dell’uomo nei confronti di una situazione o
di un problema qualsiasi. Dewey ritiene la parola sinonima di abito (v.) e di
disposizione (v.); e in particolare gli sembra che essa designi «un caso
speciale di predisposizione, la disposizione che aspetta di prorompere
attraverso una porta aperta» (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 41). Lewis
analogamente dice che nell’A. ciò che è presente è afferrato nel suo significato
pratico e anticipatorio, come un indizio di ciò che sta al di là, nel futuro
(An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 438). Del termine si è servito
ampiamente Stevenson per la sua distinzione tra « significato descrittivo » e «
significato emotivo » delle parole: il primo dei quali si avrebbe quando la
risposta allo stimolo è un insieme di processi mentali conoscitivi e il secondo
quando la risposta allo stimolo è una certa spinta all'azione. Stevenson chiama
A. questa spinta all’azione, che viene, non si sa perchè, qualificata come «
emotiva »; ma ritiene troppo difficile definire precisamenono di un determinato
reticolato di forme trascendentali » (Psychologie, Intr., $ 4). Più
precisamente l’A. si può definire come il progetto di scelte a venire di fronte
a un certo tipo di situazione (o di problemi); o come un progetto di
comportamento che consenta di effettuare scelte di valore costante nei
confronti di una situazione determinata. In questo caso dire, per es., che «x
ha un A. contrario al matrimonio » significa dire che x progetta di non
sposarsi; perciò, in generale, l’A. di x per S è un progetto di x riguardante
il comportamento da te84 ATTEGGIAMENTO NATURALnere nei confronti di situazioni
in cui S è possibile (cfr. ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, cap.V).
ATTEGGIAMENTO NATURALE (tedesco Naturlicher Einstellung). Husserl ha chiamato
così l’A. che consiste nell’assumere come esistente il comune mondo in cui
viviamo, formato di cose, beni, valori, ideali, persone, ecc., così com’esso si
offre a noi. Da questo A. la filosofia fenomenologica intende uscire mediante
un dubbio radicale che consiste nel sospendere l’A. naturale, cioè nel vietarsi
ogni giudizio sull’esistenza del mondo e di tutto ciò che è in esso. Solo
questo nuovo A. sarebbe il punto di partenza della ricerca filosofica (/deen,
I, $ 27 seg.) (v. EPOCHÉ; SOSPENSIONE DELL’ASSENSO). ATTENZIONE (ingl.
Attention; franc. Aftention; ted. Aufmerksamkeit). Nozione relativamente
recente (sec. xvil) con la quale s’intende in generale l’atto con cui lo
spirito prende possesso in forma chiara e vivida di uno dei suoi possibili
oggetti; o il presentarsi in forma chiara e vivida di uno di tali possibili
oggetti allo spirito. La nozione di A. si trova in Cartesio, che la intende
come l’atto con cui lo spirito prende in considerazione un unico oggetto per
qualche tempo (Passions de l’àme, I, $ 43). Locke chiama «A.» l’A. passiva con
la quale lo spirito è attratto da certe idee mentre chiama «riflessione» l’A.
attiva per cui esso sceglie certe idee come propri oggetti privilegiati
(Saggio, II, I, $ 8). Egli dice: «Quando si prende nota delle idee che ci si
presentano da sè, ed esse vengono per così dire registrate nella memoria, si
tratta dell’A. » (/bid., II, 19, $ 1). Leibniz, invece, dà un senso attivo
all’A.: « Noi facciamo A. agli oggetti che distinguiamo e preferiamo agli altri
». E come forme dell’A. enumera la considerazione, la contemplazione, lo
studio, la meditazione (Nouv. Ess., II, 19, $ 1). Essa costituisce il passaggio
dalle piccole percezioni all’appercezione (/bid., prefaz.). Lo stesso carattere
attivo l’A. conserva in Wolff (Psychol. emp., $ 237) e in Kant (Antr., I, $ 3)
il quale la definisce come «lo sforzo di diventar cosciente delle proprie
rappresentazioni ». A partire dalla seconda metà del sec. xrx, col sorgere
della psicologia scientifica, l’A., considerata come una delle condizioni della
vita psichica, cade sotto la competenza di questa scienza. Il concetto di essa
rimane quello che i filosofi avevano formulato; e gli psicologi distinguono
un’A. spontanea o passiva o involontaria, per la quale è l’oggetto che s'impone
alla coscienza; e un’A. attiva o volontaria o controllata per la quale è il
soggetto che sceglie l'oggetto della sua attenzione. La psicologia
contemporanea considera l’A. come l’adattamento attivo ad una situazione, come
l’orientamento selettivo nei confronti degli oggetti da percepire (cfr., ad
es., D. O. HeBB, 7lie Organisation of Behaviour, 1949, pag. 4). Con questa
nozione dell’A., che si adatta allo schema generale prevalente nelle scienze
antropologiche secondo il quale ogni attività dell’uomo è la sua risposta a un
complesso determinato di stimoli (situazioni o problemi), l'A. è stata
sottratta al dominio della pura interiorità e riconosciuta come una forma di
comportamento (v.). ATTIMO (gr. tò tEalewne; lat. Momentum; ingl. Instant;
franc. Instant; ted. Augenblick). 1. Secondo il significato specifico, che è
proprio di una certa tradizione filosofica, l’A. ha un significato diverso
dall’ora (v.) o istante, che è il limite o la condizione del tempo, perchè
rappresenta una specie di incontro o di compromesso tra il tempo e l’eternità.
Questa nozione rimonta a Platone. «L’A., egli diceva, sembra che indichi ciò
che fa da transizione tra due mutamenti inversi. Il trapasso infatti dal
movimento alla quiete e viceversa non ha luogo a partire da un’immobilità che è
ancora immota o dal movimento che è tuttora mosso. La natura un po’ strana
dell’A. si asside nel mezzo tra la quiete ed il moto pur non essendo cesso nel tempo
e lo fa essere il punto di arrivo e di partenza di ciò che si muove verso lo
star fermo e di ciò che sta fermo verso il muoversi» (Parm., 156 d). In altri
termini per Platone l’A. non è nè il tempo nè l'eternità, nè il movimento nè la
quiete, ma sta in mezzo tra essi e costituisce il loro punto di incontro.
Questa nozione è stata ripresa da Kierkegaard che ha visto nell’A. la subitanea
inserzione dell'eternità nel tempo e quindi la subitanea inserzione della
verità divina nell'uomo cioè la nascita della fede (Philosophische Brocken,
cap. IV; cfr. Werke, II, pag. 108, 116 sgg.). Il carattere istantaneo della
fede esclude che essa possa essere suscitata o prodotta da procedimenti di
dimostrazione o di persuasione. Di qui la polemica di Kierkegaard contro la
chiesa ufficiale danese. Polemica che egli condusse nel giornale che intitolò
per l’appunto L’attimo. Il concetto dell’A. ritorna nell’esistenzialismo
tedesco ma senza la risonanza religiosa che aveva in Kierkegaard. Dice Jaspers:
« L’A. vissuto è il fatto supremo, calore di sangue, immediatezza, vita,
presente corporeo, totalità del reale, unica cosa vera e concreta. Invece di
partire dal presente per perdersi nel passato o nel futuro, l’uomo trova
l’esistenza e l’assoluto nell’A. che solo può darglieli. Passato e futuro sono
abissi oscuri informi, tempo indefinito, mentre l’A. può essere l'abolizione
del tempo, la presenza dell’eterno » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925,
I, 3; trad. ital., pag. 132). Lo stesso Jaspers mette in rapporto la che istante
od ora (v.). ATTITUDINE (ingl. Aptitude; franc. Aptitude; ted. Eignung). Da non
confondere con atteggiamento (v.). Questo termine designa la presenza di
determinati caratteri che nel loro complesso rendono l’individuo
particolarmente adatto ad un còmpito determinato. Sulla determinazione delle A.
è fondato l’orientamento professionale, cioè la selezione e l’avviamento
dell’individuo a questo o a quel lavoro, in conformità delle sue attitudini.
ATTIVISMO (ingl. Activism; franc. Activisme; ted. Activismus). Il significato
di questo termine va tenuto distinto da quello di artualismo (v.): questo
indica la teoria metafisica per la quale la realtà è atto o attività, mentre il
termine in questione indica l’atteggiamento (talvolta razi A. sono state, in
questo senso, il fascismo, il nazismo e lo stalinismo. (Cfr. K. MANNHEIM,
/deologie und Utopie, 1929, III, $ 2; trad. ital., pag. 141). ATTIVITÀ (ingl.
Activity; franc. Activité; tedesco Tatigkeit o Aktiviràt). Questo termine ha
due significati corrispondenti ai due significati della parola azione. Da un
lato, infatti, esso viene adoperato a indicare un complesso più o meno omogeneo
di azioni volontarie (in riferimento al significato 2° della parola azione)
come quando si dice «x ha svolto intensa A. politica». Dall’altro, è adoperato
a indicare il modo d'essere di ciò che agisce o ha in suo potere l’azione, come
quando si dice « Lo spirito nel conoscere è attivo + per dire che non è
semplicemente ricettivo o passivo. Il contrario di A. in questo secondo senso è
« passività », mentre il contrario di A. nel primo senso è s inerzia » o «
inazione ». L’uso filosofico coincide con l’uso del linguaggio comune ed è
quindi anch’esso duplice. Tuttavia prevale, soprattutto nell’uso moderno, il
secondo significato. Malebranche (Recherche de la vérité, II, 7), alcuni
ideologi francesi e Galluppi (Filosofia della volontà, I, 6, $ 60) si servono
del termine A. per designare il modo d’agire della volontà; ma anche in questo
caso il significato del termine è il secondo, non il primo. Per questo secondo
significato si può forse risalire a Locke che distingue la « passività » dello
spirito per la quale esso riceve tutte le sue idee semplici, dall'A. per cui
esso « compie in proprio numerosi apotere creativo, è al centro della filosofia
di Fichte. « L’A. dell’io consiste nell’illimitato porsi » dice Fichte
(Wissenschaftslehre, 1794, II, $ 4) e ponendo se stesso, l'io pone nello stesso
tempo anche il mondo esterno come proprio limite e condizione. Da Fichte in poi
la filosofia moderna ha avuto come uno dei suoi temi preferiti «1’A. creatrice
dello spirito » delle quali alcune filosofie, come l’attualismo di Gentile,
hanno fatto 86 ATTO il proprio tema dominante. È chiaro che in queste forme
estreme la nozione di attività perde il suo significato: questo deriva dal
rapporto con quelia di passività, in quanto designa la possibilità e il potere
d’azione di fronte a limiti o condizioni determinate; mentre là dove l’A. è
infinita, limiti o condizioni non sussistono e la distinzione tra A. e passività
non dà senso. ATTO (gr.
evipyea, tvredtyera; lat. Actus; ingl. Act; fr. Acte; ted. Akt). Questo termine ha due significati: 1° quello di
azione nel significato ristretto e specifico di questa parola, come operazione
che emana dall’uomo o da un suo potere specifico (v. AZIONE, 2). Diciamo
infatti « A. volontario », «A. responsabile » o «A. dell’intelletto », « A.
morale », ecc.; ma non diciamo «A. degli acidi sui metalli » o « A. distruttivo
del DDT», ecc., bensì usiamo, in questi casi, la parola « azione +; 2° quello
di realtà che si è realizzata o si va realizzando, dell’essere che ha raggiunto
o va raggiungendo la sua forma piena e finale, in quanto si contrappone a ciò
che è semplicemente potenziale o possibile. Nel secondo senso la parola fa
esplicito riferimento alla metafisica di Aristotele e alla sua distinzione fra
potenza ed atto. L’A. è l’esistenza stessa dell’oggetto: sta alla potenza «come
il costruire al saper costruire, l'essere desto al dormire, il guardare al
tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, e come l’oggetto cavato dalla
materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all’oggetto non
ancora finito » (Mer., IX, 6, 1048 a 37). Alcuni A. sono movimenti, altri
azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine in se stessi, per
es., il vedere o l’intendere o il pensare; mentre l’apprendere, il camminare,
il costruire hanno fuori di sè il loro fine, nella cosa che si apprende, nel
punto cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si costruisce. L'azione perfetta,
che ha in sè il suo fine, è detta da Aristotele A. finale o entelechia (v.).
Mentre il movimento è il processo che porta gradualmente all'A. ciò che prima
era in potenza, l’entelechia è il termine finale (re/os) del movimento, il suo
compimento perfetto. Come tale è anche la realizzazione completa, quindi la
forma perfetta di ciò che diviene, la specie e la sostanza. L’A. precede la
potenza sia rispetto al tempo sia rispetto alla sostanza: giacchè se il seme
vien prima della pianta, in realtà esso non può essere derivato che da una
pianta. Ciò che nel divenire è ultimo, è sostanzialmente primo: la gallina vien
prima dell’uovo (/bid., IX, 8, 1049b 10 sgg.). Queste distinzioni hanno
dominato per molti secoli il pensiero occidentale e sono entrate a far parte
del linguaggio comune. S. Tommaso ripropone queste distinzioni con la sua
solita chiarezza a proposito della differenza tra A. ed azione, dicendo: «L’A.
è duplice, cioè primo e secondo. L’A. primo è la forma e l’integralità della
cosa (forma et integritas rei); l’A. secondo è l’operazione (operatio) + (S.
Th., I, q. 48, a. 5; Contra gent., II, 59). In altri termini ogni realtà come
tale è A. e quindi è A. anche l’azione, per es., un'operazione della volontà o
dell’intelletto, sebbene non si tratti, in questo caso, di un oggetto
esistente. Nella concezione aristotelica la distinzione tra potenza e A.
determina l’ordinamento gerarchico dell’intera realtà che va da un estremo
limite inferiore che è la materia prima (v.), pura potenzialità indeterminata,
a Dio che è puro A., senza mescolanza di potenzialità. Dio è difatti il Primo
Motore immobile dei cieli; e poichè il movimento dei cieli è continuo, il
motore di esso non solo deve essere eternamente attivo, ma dev’essere per sua
natura attività, assolutamente privo di potenza. E poichè la potenza è materia,
esso è anche privo di materia, A. puro (Mer., XII, 6, 1071 b 22). La nozione di
A. puro è rimasta fondamentale per la elaborazione dell'idea di Dio nel
pensiero occidentale. Ad essa si rifanno alcune moderne « filosofie dell'A. »:
qual è quella di Gentile, che è intesa a realizzare la rigorosa e totale
immanenza di ogni realtà nel soggetto pensante, cioè nted. Attribut). Il
termine latino corrisponde probabilmente a ciò che Aristotele chiamava «
accidente per sè » (An. post., I, 22, 83 b 19; Met., V, 30, 1025 a 30): indica,
cioè, un carattere o una determinazione che, pur non appartenendo alla sostanza
dell'oggetto, quale risulta dalla definizione, trova in questa sostanza la sua
causa (vedi AcciIDENTE). Nella Scolastica il termine fu usato quasi
esclusivamente per indicare gli A. di Dio come la bontà, l’onnipotenza, la
giustizia, l’infinità, ecc., che sono anche chiamati momi di Dio (cfr. S.
Tommaso, S. Th., I, q. 33). Quest’uso terminologico fu modificato da Cartesio
con l’estensione del termine alle qualità permanenti della sostanza finita.
Difatti Cartesio intende per A. le qualità in quanto « ineriscono alla sostanza
». Perciò «in Dio diciamo che non ci sono propriamente modi o qualità ma
soltanto A., perchè nessuna variazione si deve concepire in Lui. E anche nelle
cose create, ciò che in cose non si comporta mai in modo diverso, come
l’esisitenza e la durata, non deve essere, nella cosa che esiste ec dura,
chiamata qualità o modo, ma A.» (Princ. Phil, I, $ 56). Questa terminologia è
stata letteralmente fatta propria da Spinoza, con la sola correzione che, dal
momento che non esistono sostanze finite, gli attributi possono essere solo di
Dio. « Per A., dice Spinoza, intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza
come costituente l’essenza di essa » (Er/., I, 4). Dio o la sostanza consta di
infiniti A. ognuno perciò esiste necessariamente (/bid., I, 11): di tali
infiniti A., però ne conosciamo due soltanto, cioè il pensiero e l’estensione
(/bid., II, 1-2). Per la loro immutabilità e la loro connessione con la
sostanza divina, gli attributi sono a loro volta eterni e infiniti e sono il
tramite per il quale da Dio scaturiscono gli enti finiti (i modi della
sostanza) con assoluta necessità (/bid., I, 21-23). Nella filosofia moderna e
contemporanea la parola A. è raramente usata, salvo che nel suo significato
logico-grammaticale di predicato. ATTUALISMO (ingl. Actualism; franc.
Actualisme; ted. Aktualitàtstheorie). Ogni dottrina che riconosca come sostanza
o principio dell'essere un atto o un'attività. Ogni dottrina di questo genere è
una forma di idealismo, e precisamente di idealismo romantico. A. è pertanto la
dottrina di Fichte che riconosce come principio l’attività dell’Io infinito. A.
è pure la dottrina di Hegel per il quale l’Idea è attualità perfetta di
coscienza. In Italia il termine A. è stato ristretto a indicare l’idealismo di
Gentile in quanto risolve ogni realtà nell’atto del pensiero o nel «pensiero in
atto» o « pensiero pensante » (Teoria generale dello spirito come atto puro,
1916). In questo senso Gentile parlava della «attualità» o «attuosità » dello
spirito; e dello spirito come « auto-posizione », « autocreazione » o «
autoctisi ». Questo termine va tenuto distinto da attivismo. AUMENTO E DIMINUZIONE
(gr. dino xal glow; lat. Auctio et diminutio; ingl. Increase and Diminution;
franc. Augmentation et diminution; ted. Vermehrung
und Verringerung). Secondo Aristotele, una delle quattro specie del mutamento e
precisamente il mutamento secondo la categoria della quantità, anch’esso
riducibile, come tutte le altre, al mutamento di luogo (Fis., IV, 4, 211 a).
AURA VITALIS. Termine adoperato da Giovan Battista Helmont (1577-1644) per
indicare la forza che muove, anima e ordina gli elementi corporei. AUTARCHIA
(gr. aùripxera; ingl. Self-sufficiency; franc. Autarchie; ted. Autarkie). La
condizione di autosufficienza del saggio, al quale essere virtuoso basta per
essere felice, secondo i Cinici (Droc. L., VII, 11) e gli Stoici (Zbid., VII,
1, 65). AUT AUT. È il titolo di una delle prime opere di Kierkegaard (1843),
titolo che esprime l’alternativa che si offre all’esistenza umana, di due forme
di vita o come Kierkegaard dice, di due «stadi fondamentali della vita»: la
vita estetica e la vita morale. Tra questi due stadi, come tra essi e lo stadio
religioso che Kierkegaard analizzò in Timore e tremore (1843) non c’è passaggio
nè possibilità di conciliazione, ma abisso e salto. L’aut aut, cioè la forma
dell’alternativa fu da Kierkegaard contrapposta alla forma della dialettica di
Hegel nella quale c’è sempre conciliazione, sintesi e armonia tra gli opposti
(v. DIALETTICA). AUTENTICO (ingl. Authentic; franc. Authentique; ted.
Authentisch). Termine adoperato da Jaspers (insieme a quello simmetrico e
opposto di inautentico) per indicare l'essere che è proprio dell’uomo in
contrapposto acome una caduta da uno ‘stato originario’ più puro e più alto. Di
qualcosa di simile non solo non abbiamo alcuna sperimentazione ontica, ma
neppure la via di una possibile interpretazione ontologica + (/bid., $ 38). In
un senso analogo a quello di Jaspers o di Heidegger, le due parole sono usate
frequentemente nella filosofia contemporanea. AUTISMO (ingl. Autism; franc.
Autisme; tedesco Autismus). Termine creato da Bleuler (LeArbuch der Psychiatrie,
1923) per indicare l’atteggiamento che consiste nell’assorbimento
dell’individuo in se stesso con la conseguente perdita di ogni interesse per le
cose e gli altri. È un egocentrismo (v.) patologico. AUTOCENTRALITÀ (ingl.
Self-centrality; franc. Autocentralité; ted. Selbstcentralitàt). Espressione
adoperata interno; quella è chiamata appercezione pura (e falsamente senso
intimo), questa appercezione empirica. Nella psicologia indaghiamo noi stessi
secondo le rappresentazioni del nostro senso interno, nella logica invece,
secondo ciò che la coscienza intellettuale ci offre. Così l’io ci appare doppio
(il che può essere contraddittorio): 1° l’io come soggetto del pensiero (nella
logica) a cui si riferisce l’appercezione pura (l’io che soltanto riflette) e
di cui nulla si può dire tranne che è una rappresentazione del tutto semplice;
2° l’io come oggetto dell’appercezione equindi del senso interno, che include
una molteplicità di determinazioni le quali rendono possibile un’esperienza
interna ». L’A. non è dunque la coscienza (empirica di sè) ma la cosmateriale
ma questo materiale deve essergli dato e quindi dev'essere un materiale
sensibile. Fichte trasforma questo concetto funzionale kantiano in un concetto
sostanziale: ne fa un Io infinito, assoluto e creatore e pertanto considera
l’A. come auto-produzione o auto-creazione. L’A. diventa così il principio non
solo della conoscenza ma della realtà stessa; e principio non nel senso di
condizione, ma di forza o attività produttiva. Autoproducendosi, l’Io produce
nello stesso tempo il non-io, cioè il mondo, l’oggetto, la natura. Dice Fichte:
« Non si può pensare assolutamente a nulla senza pensare in pari tempo al
proprio Io come cosciente di se stesso; non si può mai astrarre della propria
A.»(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1, 7). Matale A. è in realtà il principio
creatore del mondo: « L’Io di ciascuno è esso stesso l’unica Sostanza suprema »
dice Fichte criticando Spinoza (/bid., $ 3, D6); ‘ L’essenza della filosofia
critica consiste in ciò che un Io assoluto viene posto come assolutamente
incondizionato e non determinabile da nulla di più alto». Questa nozione
dell’A. divenne il fondamento dell’Idealismo romantico. Dice Schelling: «L’A.,
dalla quale noi partiamo, è atto uno ed assoluto; e con quell’atto uno è posto
non solamente l’Io stesso con tutte le sue determinazioni ma anche ogni altra
cosa che è posta in generale per l’Io... L'atto dell’A. è ideale e reale ad un
tempo ed assolutamente. Mercè di esso, ciò che è stato posto realmente, diviene
idealmente anche reale e ciò che si pone idealmente è posto anche realmente »
System des transzendentalen Ideal., 1800, sez. III, avvertenza). Quanto a
Hegel, egli già nella Propedeutica filosofica (Dottrina del concetto, $ 22)
diceva: « Come A. l’Io guarda se stesso, e l’espressione di questa nella sua
purezza è: Io = Io, oppure: Io sono Io» e nella Enciclopedia ($ 424): « La
verità della coscienza è l’A., e questa è il fondamento di quella; cosicchè
nell’esistenza la coscienza di un altro oggetto è A.; io so l’oggetto come mio
(esso è mia rappresentazione), io perciò so in esso me stesso ». Nella sua
forma più alta l’A. è « A. universale » cioè ragione assoluta. « L’A., ossia la
certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive — determinazioni
dell’essenza delle cose — quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale,
in quanto ha siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità
come sapere »' (Enc., $ 439): cioè la ragione come sostanza o realtà ultima del
mondo. L’A. come auto-creazione e perciò creazione della realtà tutta, rimane
la nozione dominante dell’Idealismo romantico, non solo nella sua forma
classica (alla quale si è accennato) ma anche nelle forme ricorrenti nella
filosofia contemporanea, cioè nell’idealismo anglosassone e nell’idealismo
italiano (v. IpeaLISMO). Fuori dell’Idealismo, la nozione non può essere
utilizzata e non presenta neppure problemi: giacchè i problemi filosofici,
psicologici e sociologici inerenti alla coscienza di sè sorgono ovviamente
soltanto quando per tale coscienza s'intenMIE). AUTOMA (gr. adrsuarov; lat.
Automaton; inglese Automaton; franc. Automate). Ciò che si muove da sè, in
generale; o una cosa inanimata che si muove da sè; o, più specificamente, un
apparato meccanico che effettua qualcuna delle operazioni ritenute proprie
dell’animale o dell’uomo. Si hanno notizie di A. favolosi costruiti dagli
antichi. Nel sec. xvm, il meccanico francese Vaucanson costruì un A. che
suonava il flauto. Samuel Butler in scritti romanzeschi (Darwin tra le
macchine, 1863; Lucubratio ebria, 1865; Erewhon, 1872) parlava di macchine che
hanno poteri umani ed entrano in conflitto con. l’uomo. L’inglese Charles 90
AUTONIMO Babbage (1792-1871) progettò una macchina calcolatrice che però non
venne mai costruita. Un A. logico cioè una macchina capace di combinare
proposizioni e derivarne conclusioni fu costruita da Stanley Jevons nel 1869.
John Venn costruiva nel 1881 un diagramma che poteva essere adoperato in
maniera da illustrare le relazioni tra i valori di verità delle proposizioni.
Nel 1885 Allan Marquand disegnava una macchina analoga a quella di Jevons e nel
1947 un calcolatore elettrico fu costruito ad Harvard da T. A. Kalin e W.
Burkhart per la soluzione di problemi impostati sull’algebra di Boole, che ha
per oggetto variabili che possono assumere solo due valori (vero o falso,
indicati rispettivamente con 1 e 0) e che perciò può essere applicata in tutti
i casi in cui si ha la scelta tra due alternative. La teoria degli A. nel senso
moderno, cioè delle macchine calcolatrici fu sviluppata da A. M. Turing nel
1936. I calcolatori eseguono in generale il programma in base al quale sono
stati progettati, ma effettuano le operazioni relative con rapidità e sicurezza
enormemente maggiori di quanto potrebbe fare un uomo. Tali A. sono cioè «
risparmiatori di tempo». Da essi il biologo inglese R. W. Ashby distinse gli «
amplificatori dell’intelligenza » che hanno, ad un certo grado, ciò che
nell’uomo si chiama « iniziativa ». Tra questi ci sono in fase di realizzazione
o in fase teorica, gli A. che giuocano e gli A. che imparano. Von Neumann ha
parlato anche di A. che si riproducono (Theory of Self-Reproducing Automata,
1966). Per le teorie relative a tali A. vedi CIBERNETICA. AUTONIMO. V. Uso.
AUTONOMIA (ingl. Autonomy; franc. Autonomie; ted. Autonomie). Termine
introdotto da Kant per designare l’indipendenza della volontà da ogni desiderio
od oggetto di desiderio e la sua capacità di determinarsi in conformità di una
legge propria, che è quella della ragione. L’A. è cotrapposta da Kant alla
eteronomia per la quale la volontà è determinata dagli oggetti della facoltà di
desiderare. Anche gli ideali morali della felicità o della perfezione
suppongono l’eteronomia della volontà perchè suppongono che essa sia
determinata dal desiderio di raggiungerli e non da una sua propria legge.
L’indipendenza della volontà da ogni oggetto desiderato è la libertà nel senso
negativo, mentre la legislazione propria di essa (come « ragion pratica ») è la
libertà nel senso positivo. « La legge morale non esprime nient'altro che l’A.
della ragion pura pratica, cioè della libertà » (Cri. R. Prat., I, $ 8). In
virtù di tale A. «Ogni essere ragionevole deve considerarsi come fondatore di
una legislazione universale » (Grundlegung zur Met. der Sitten, II, [BA 77))..
Questo è rimasto il concetto classico dell'autonomia. Più genericamente si
parla oggi, per es., di un «principio autonomo» nel senso di un principio che
abbia in sè, o ponga da sè, la sua validità o la regola della sua azione.
AUTOOSSERVAZIONE, AUTORIFLESSIONE, AUTOSCOPIA. V. INTROSPEZIONE.
AUTORIFERIMENTO (ingl. Self-reference). Con questo termine equivalente a
riflessività (v.), è indicata nei Principia Mathematica (Intr., cap. II, pag.
64) di Whitehead e Russell la comune cache resistono acquistano la loro
dannazione. I princìpi infatti sono il terrore non delle buone opere ma delle
cattive. Vuoi non temere la potestà? Fa il bene e avrai lode da essa. Infatti
essa è ministra di Dio a te per il bene. Ma se avrai fatto il male, abbine
timore: perchè non invano porta la spada. Essa infatti è ministra di Dio e
vendica nell’ira colui che fa il male. Perciò siate soggetti di necessità, non
solo per timore dell’ira ma anche per la coscienza » (Ad Rom., XIII, I, 5).
Questo documento è rimasto fondamentale per la concezione cristiana
dell’autorità. Essa viene difesa da Sant'Agostino (De Civ. Dei, V, 19; cfr. V,
21); da Isidoro di Siviglia (Sent., III, 48) e da Gregorio Magno che insiste
sul carattere sacro del potere temporale sino a fare del sovrano il rappresentante
di Dio sulla Terra. Sostanzialmente la stessa tesi veniva fatta propria da S.
Tommaso: « Da Dio, come dal primo dominante, deriva ogni dominio», egli dice
(De Regimine Principum, III, 1). Questa concezione coincide con la prima in un
carattere negativo: cioè nel rendere l’A. completamente indipendente dal
consenso dei soggetti. Ma si differenzia dalla prima in un carattere
fondamentale: essa giustifica ogni A. che venga esercitata de facto. Mentre la
prima non esige che la classe che è destinata a comandare comandi sempre di
fatto (e per Platone infatti la cosa non sta così); la seconda invece implica
che ogni A. che di fatto venga esercitata, essendo posta o stabilita da Dio,
sia sempre pienamente legittima. Questo è il teorema tipico della concezione in
esame: teorema che consente di riconoscerla anche nelle forme più o meno
consapevolmente mistificate. Quando, per es., Hegel afferma che lo Stato è «la
realizzazione della libertà» o «l’ingresso di Dio nel mondo» (Fil. del dir., $
258, Aggiunta) fa coincidere quella che per lui è I’A. più alta con la realtà
storica dello Stato: e cioè giustifica ogni potere di fatto, secondo quello che
è la massima della sua filosofia: « intendere ciò che è, è il còmpito della
ragione, perchè ciò che è, è la ragione » (/bid., Pref.). Da questo punto di
vista, A. e forza coincidono: ciò che possiede la forza di farsi valere non può
non godere di un’A. valida giacchè ogni forza è voluta da Dio o è divina. 3° La
terza 1). Uno dei tipici teoremi di questo punto di vista è il carattere di
legge che viene riconosciuto alle consuetudini: difatti se le leggi non hanno
altro fondamento che il giudizio del popolo, quelle che il popolo stesso
approvò pur senza scriverle hanno lo stesso valore di quelle scritte (/bid., I,
3, 32). I grandi giuristi del Digesto ammettevano pertanto che l’unica fonte 92
AUTOSUFFICIENZA dell’A. è il popolo romano (R. W.-A. J. CARLYLE, History of
Mediaeval Political Theory in the West, II, I, 7; trad. ital., pag. 369 e
sgg.). Tale è la forma che assunse, nel Medioevo, la dottrina del fondamento
umano dell’autorità. Dice Dante: «Il popolo romano di diritto, non con
l’usurpazione, si assunse il còmpito del monarca, che si dice impero, sopra
tutti i mortali » (De Mon., II, 3). Nelio stesso modo Ockham affermava che «
l'impero romano fu certamente istituito da Dio, ma attraverso gli uomini cioè
attraverso i Romani » (Dia/ogus inter magistrum et discipulum, III, tract. II,
lib. I, cap. 27, in GoLpast, Monarchia, II, pag. 899). La stessa A. papale,
Ockham riteneva, è limitata dalle esigenze dei diritti e della libertà di
coloro sui quali si estende ed è quindi l’A. di un principato ministrativus,
non dominativus (De Imperatorum et pontificum potestate, VI). E alla domanda
quali sono i diritti e le libertà che devono essere rispettati dalla stessa A.
papale, Ockham risponde che sono quelli che spettano anche agli infedeli, sia
prima che dopo l'incarnazione di Cristo: giacchè i fedeli non devono nè
dovranno essere in condizioni peggiori di quelle in cui furono gli infedeli sia
prima che dopo l’incarnazione di Cristo (/bid., IX). Marsilio da Padova
affermava chiaramente la tesi generale implicita in simili riconoscimenti: « Il
legislatore, cioè la prima ed effettiva causa efticiente della legge, è il
popolo o il complesso dei cittadini oppure la parte prevalente di essi, che
comanda e decide per sua scelta o per suo volere in un’assemblea generale, in
termini precisi che certi atti umani si devono compiere e altri no sotto pena
di penalità o di punizioni corporali» (Defensor pacis, 1, 12, 3). Nicolò da
Cusa non meno esplicitamente affermava riferendosi all’A. ecclesiastica: «
Poichè tutti gli uomini sono naturalmente liberi, qualsiasi A. che distolga i
sudditi dal fare il male e limiti la loro libertà col timore di sanzioni,
deriva solo dall’armonia e dal consenso dei sudditi, sia che risieda nella
legge scritta sia che risieda in quella vivente, rappresentata dal reggitore »
(De Concordantia catholica, II, 14). Nel mondo moderno, la prevalenza del
contrattualismo (v.) e del giusnaturalismo (v.) determinano la prevalenza di
questa dottrina. E nonostante che oggi contrattualismo e giusnaturalismo non
possano più essere invocati come giustificazioni sufficienti dello Staro (v.) e
del diritto (v.) la tesi dell'origine umana dell’A. non è revocata in dubbio.
La stessa dottrina di Kelsen, attribuendo l’A. all’ordinamento giuridico non è
che una specificazione della tesi tradizionale. Dice Kelsen: «L'individuo che
è, o ha, un’A. deve avere ricevuto il diritto di emanare comandi obbligatori,
di modo che altri individui siano obbligati a obbedire. Tale diritto o potere
può venire conferito a un individuo soltanto da un ordinamento normativo. L’A.
è quindi originariamente la caratteristica di un ordinamento normativo »
(General Theory of Law and State, 1945, II, cap. VI, C, h; trad. ital., pag.
389). Ma, al di là di questo punto di vista formale, sta il problema delle
forme o dei modi in cui il consenso che fonda l’A. può essere esercitato o
espresso, nonchè dei limiti o dell’estensione che esso può o deve avere nei
singoli campi. È chiaro, ad es., che l’A. deve avere in politica còmpiti ed
estensione maggiore che non nel campo della ricerca scientifica; e che pertanto
in politica il consenso che la convalida deve avere limiti ed estensione ed
essere esercitato ed espresso in forme e caratteri diversi che non nel campo
scientifico. Un riconoscimento che esprima accettazione o consenso è alla base
di ogni A.: le modalità, le forme e i limiti istituzionali o meno di quel
riconoscimento possono essere diversissimi e costituiscono problemi
fondamentali di politica generale e speciale. 2. Nella filosofia medievale
auctoritas è un’opinione particolarmente ispirata dalla grazia divina e quindi
in grado di guidare e correggere il lavoro d’indagine razionale. Auctoritas,
può essere la decisione di un concilio, un detto biblico, la sententia di un
Padre della Chiesa. +). Si dice anche, osserva Aristotele, «A. una donna» ma
questo significato è improprio perchè si vuol dire soltanto che si coabita con lei
(Car., 15, 15b 3 sgg.). Queste distinzioni vengono ripetute nella logica
medievale (cfr., ad esempio, Pietro Ispano, Summ. Log., 3.37-38; JunGiUs,
Logics Hamburgensis, I, 14, 24). In un significato così ampio il termine indica
una relazione qualsiasi. Hegel voleva invece restringerlo alla relazione tra la
cosa e le sue proprietà (Enc., $ 125). Marcel ha contrapposto l'A. all’essere.
L’A. sarebbe la categoria dominante nell’esteriorità delle cose, fra le quali
l’uomo stesso vive nella sua funzione sociale o vitale, mentre l’essere sarebbe
la categoria propria della soggettività in quanto mistero (Étre et avoir,
1935). Nell’A. nel fare e nell'essere, Sartre ha visto le tre grandi categorie
dell’esistenza umana. Ma il fare si risolverebbe nell’A., perchè ogni forma
d’azione o di produzione, anche il conoscere, è una forma di appropriazione; e
dall’altro lato l’A. si riduce all’essere perchè il desiderio d’A. è in fondo
riducibile a quello di «essere in rapporto a un certo oggetto in una certa
relazione d’essere » (L’étre er le néant [1943], 1955, pag. 663 sgg.). Nel
linguaggio corrente come in quello della logica e della matematica, A. non
indica oggi che una relazione di qualsiasi genere. AVERROISMO (ingl. Averroism;
franc. Averrolsme; ted. Averroismus). La dottrina di Averroè (Ibn-Rosch,
1126-98) come fu intesa e interpretata dagli Scolastici medievali e dagli
Aristotelici del Rinascimento. Essa si compendiava nei capisaldi seguenti: 1°
eternità e necessità del mondo: tesi che era contraria al dogma delia creazione;
2° separazione dell’intelletto attivo e passivo dall’anima umana e la loro
attribuzione a Dio. Questa tesi, riconoscendo all’anima umana solo una specie
di imagine dell’intelletto, la privava della sua parte più alta ed immortale;
3° dottrina della doppia verità, cioè di una verità di ragione, che si può
ricavare dalle opere di Aristotele, il filosofo per eccellenza, e di una verità
di fede: le quali possono anche essere contrastanti fra loro. La figura
maggiore dell'A. latino fu Sigieri di Brabante, nato verso il 1235, morto verso
il 1281-84. AVVENIMENTO. V. Fatto. AVVENIRE (ingl. Future; franc. Avenir;
tedesco Zukunft). Per il primato dell’A. sulle altre determinazioni del tempo
in alcune forme della filosofia contemporanea (v. TEMPO). AXIOCENTRICO (ingl.
Value-centric). Termine introdotto recentemente nella filosofia americana per
designare la dottrina che afferma la priorità del valore sulia realtà, del
dover essere sull’essere, nel senso che anche il giudizio esistenziale implichi
la distinzione di valore tra verità e falsità. (Cfr. E. G. SpauLDING, The New Rationalism, 1918, pag.
206 sgg.; W. M. UrBAN, 7he /ntelligible World, 1929, pag. 61 seguenti). AXIOLOGIA (ingl. Axiology; franc. Axiologie; ted.
Axiologie). La « teoria dei valori + era stata già da qualche decennio
riconosciuta come una parte importante della filosofia o addirittura la
totalità della filosofia dalla cosiddetta « filosofia dei valori » e da
indirizzi connessi (v. VALORE) quando si cominciò, ai princìpi del nostro
secolo, ad usare, per indicarla, l’espressione axiologia. I primi scritti in
cui tale espressione ricorre sono i seguenti: P. LAPIE, Logique de la volonté,
1902, pag. 385; E. von HARTMANN, Grundriss der Axiologie, 1908; W. M. URBAN,
Valuation, 1909. Il termine ebbe fortuna, mentre non ebbe fortuna l’altro di
Timologia proposto per la stessa scienza (KrerIBIG, Psychologische Grundlegung
eines Systems der Werttheorie, 1902, pagina 194). AZIONE (gr. npdéw; lat.
Actio; ingl. Action; franc. Action; ted. Tat, Handlung). 1. Termine di significato generalissimo che denota
qualsiasi operazione, considero generico, un significato specifico per il quale
il termine possa riferirsi soltanto alle operazioni umane. Così egli ha
cominciato coll’escludere dall’estensione della parola le operazioni che si
realizzano in modo necessario, cioè in un modo che non può essere diverso da
quello che è. Queste operazioni sono oggetto delle scienze teoretiche,
matematica, fisica e filosofia prima. Queste scienze si riferiscono a realtà,
fatti o eventi che non possono essere diversi da ciò che sono. Fuori di esse
rimane il dominio del possibile cioè di ciò che può essere in un modo o
nell’altro; ma neppure tutto il dominio del possibile appartiene all’azione. Da
esso bisogna infatti distinguere quello della produzione che è il dominio delle
arti e che ha il suo carattere proprio e il suo fine negli oggetti 94 AZIONE
ELICITA E AZIONE COMANDATA prodotti (Et. Nic., VI, 3-4, 1149 e sgg.). S.
Tommaso distingue l’A. rransitiva (transiens) che passa da chi opera nella
materia esterna, come il bruciare, il segare, ecc.; e l’A. immanente (immanens)
che rimane nell’agente stesso come il sentire, l’intendere, il volere (S. 7h.,
II, I, q. 3, a. 2; q. 11, a. 2). Ma la cosiddetta A. transitiva non è altro che
il fare o produrre di cui parla Aristotele (Ibid. II, I, q. 57, a. 4). In
queste notazioni tomistiche, come in quelle aristoteliche, è presente la
tendenza a riconoscere la superiorità dell'A. cosiddetta immanente che si
consuma nell’interno del soggetto operante: A. che poi non è altro che
l’attività spirituale o il pensiero o la vita contemplativa. S. Tommaso dice
infatti che solo l’A. immanente è «la perfezione e l’atto dell’agente +»,
mentre l’A. transitiva è piuttosto la perfezione del termine che subisce l’A.
(/bid., II, I, q. 3, a. 2). Dall’altro lato S. Tommaso distingue, nell’A.
volontaria, l’A. imperata che è quella comandata dalla volontà, per es., il
camminare o il parlare e l’A. elicita della volontà che è lo stesso volere.
L’ultimo fine dell’A. non è l’atto elicito della volontà ma quello imperato:
giacchè il primo appetibile è il fine cui la volontà ténde, non la volontà
stessa (/bid., II, I, q. 1, a. 1, ad 2°). Questi concetti sono rimasti per
molto tempo immutati e vengono presupposti anche dalla cosiddetta filosofia
dell’A. (v.); la qualll’attore, dice Parsons, i mezzi impiegati non possono in
generale essere considerati come scelti a caso o dipendenti esclusivamente
dalle condizioni dell'A. ma devono in qualche modo essere soggetti all’influenza
di un determinato fattore selettivo indipendente, la conoscenza del quale è
necessaria alla comprensione del concreto andamento dell'A. ». Questo fattore è
l'orientamento normativo, che per quanto possa essere diversamente orientato,
non manca in nessun tipo d'A. effettiva (The Structure of Social Action, 1949,
pag. 44-45). Questo schema analitico proposto da Parsons risponde indubbiamente
assai bene alle esigenze dell’analisi sociologica; ma esso può essere assunto
anche in filosofia come base per la comprensione dell'A. nei vari campi in cui
la filosofia è interessata cioè nel campo morale, giuridico, politico,
eccetera. AZIONE ELICITA e AZIONE COMANDATA (lat. Actus elicitus et actus
imperatus). Secondo gli Scolastici, l'A. volontaria elicita è l’operazione
stessa della volontà, il volere, mentre l’A. comandata è quella che è diretta,
iniziata e controllata dalla volontà, come, per es., il camminare o il parlare
(S. Tommaso, S. 7h., II, I, Ù AZIONE, FILOSOFIA DELL’ (ingl. Phi losophv of
Action; franc. Philosophie de l’action). Con questo nome si indicano alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea, caratterizzate dalla credenza che
l’A. costituisca la più diretta via per conoscere l’Assoluto o il più sicuro
modo per possederlo. Si tratta di una filosofia di derivazione romantica: il
moralismo di Fichte era fondato sulla superiorità metafisica dell’A. (v.
MoraLISMO). Il primato della ragion pratica di cui Kant aveva parlato non aveva
significato fuori del dominio morale; ma con Fichte questo primato significa
che solo nell’A. l’uomo si identifica con l’Io infinito. Il simbolo della
filosofia dell’A. si può vedere espresso nella frase di Faust, nell’opera di
Goethe, che proponeva di tradurre In principio erat Verbum del IV Evangelo con
«In principio era l’A.». Con questi presupposti romantici si connette la
filosofia dell'A. che in Francia, per opera di OlléLaprune (1830-99) e di
Blondel (1861-1949), assunse una forma religiosa: l'A. è per essa il nucleo
essenziale dell’uomo e solo un’analisi dell'A. può mostrare i bisogappartengono
alla filosofia dell’A. doveva riportare la nozione dell’A. ai suoi limiti e
avviarla ad una nuova fase interpretativa. Questa corrente è il pragmatismo
(v.). Se in un primo tempo l’A. viene dichiarata da William James la misura
della verità del conoscere e quindi assunta a giustificare proposiAZIONE
RIFLESSA 95 zioni morali e religiose teoreticamente ingiustificabili, le
analisi empiristiche di James, e meglio ancora quelle di Dewey, dovevano
mettere in luce il condizionamento dell'A. da parte delle circostanze che lo
provocano, il rapporto di essa con la situazione che ne costituisce lo stimolo;
e perciò i limiti della sua efficienza e della sua libertà. Ma da questo punto
di vista l’A. cessa di essere legata unicamente al soggetto e di trovare
unicamente in esso o nella attività di esso (volontà) il suo principio. Perde
la possibilità di consumarsi e di esaurirsi nel soggetto stesso; e diventa un
comportamento, la cui analisi deve prescindere dalla divisione delle facoltà o
dei poteri dell'anima, mentre deve tener presente la situazione o lo stato di
cose cui deve riuscire adeguato (v. AZIONE; COMPORTAMENTO). AZIONE MINIMA (ingl. Least
Action; francese Moindre Action; ted. Kleinsten Aktion). Il principio che «la natura non fa nulla d’inutile »
(natura nihil facit frustra) e segue la via più breve ed economica. La massima
si trova in Aristotele (De An., III, 12, 434 a 31; De cael., I, 4, 271 a 32; De
Part. Anim., I, 5, 645 a 22), viene ripetuta da S. Tommaso (/n III An., 14); e
ripresa in tempi moderni da Galileo, Fermat, Leibniz, ecc. Nel 1732 Maupertuis
formulava il principio matematicamente e lo introduceva nella meccanica col
nome di «legge di economia della natura » (Lex Parsimoniae). Ma anche per
Maupertuis il principio conservava quel carattere finalistico che aveva
convinto Aristotele ad adottarlo. Nel Saggio di Cosmologia Maupertuis scriveva:
« È questo il principio, così saggio, così degno dell’Essere supremo: qualsiasi
cambiamento abbia luogo in natura, la somma di A. spese in questo cambiamento è
la più piccola possibile ». Tuttavia il principio non ha, nella meccanica, il
significato finalistico che Maupertuis gli attribuiva. Nella riesposizione che
ne dette Lagrange (Mécanique Analytique, II, 3, 6) fu chiaro che esso esprime
la conservazione non soltanto del minimo ma anche del massimo di A. e che
inoltre sia il minimo che il massimo devono essere considerati relativamente e
non assolutamente. Da questo punto di vista Hamilton generalizzava il principio
nella forma di « principio dell'A. stazionaria »: e in questa forma esso dice
soltanto che, in certe classi di fenomeni naturali, il processo di mutamento è
tale che qualche grandezza fisica appropriata sia un estremo (cioè un minimo o
un massimo, più spesso un minimo). Ma quale sia la grandezza in questione e
quale sia il suo minimo o massimo è cosa che può mutare da un ordine di
considerazioni all’altro. Del principio della minima azione si è talora parlato
in psicologia, in estetica e perfino nell’etica (cfr. James, Princ. of
Psychol., II, pag. 188, 239 seguenti; SIMMEL, £inleitung in die moral
Wissenschaft, 1892, I, pag. 58). Esso non va confuso col principio metodologico
dell’economia che concerne, non l’azione della natura o di Dio, ma la scelta
dei concetti e delle ipotesi per la descrizione dei fenomeni naturali (v.
ECONOMIA). AZIONE RECIPROCA. V. RECIPROCITÀ. AZIONE RIFLESSA (ingl. Reflex
Action; franc. Action réflexe; ted. Reflex Bewegune). In generale, una risposta
meccanica (involontaria), uniforme e adatta, dell'organismo ad uno stimolo
esterno © interno all’organismo stesso. Un riflesso è, per es., la contrazione
della pupilla quando l’occhio è stimolato dalla luce o la salivazione al gusto
o alla vista di un cibo. Dal riflesso così inteso va distinto l’arco riflesso
che è il dispositivo anatomo-fisiologico destinato a mettere in atto il
riflesso. Tale dispositivo è formato dal nervo afferente o centripeto che
subisce lo stimolo, dal nervo efferente o centrifugo che produce il movimento e
da una connessione tra questi due nervi, stabilita nelle cellule nervose
centrali. L'importanza filosofica di questa nozione, elaborata prima dalla
fisiologia (sec. xvi) poi dalla psicologia, sta nel fatto che essa è stata
assunta come lo schema esplicativo causale della vita psichica: dapprima dei
meccanismi involontari soltanto (istinti, emozioni, ecc.) poi anche delle
attività superiori. Tutto ciò che dalla vita psichica può infatti essere
ricondotto all’A. riflessa, può essere spiegato causalmente a partire dallo
stimolo fisico che mette in moto l’arco riflesso. Data l’uniformità di tale A.,
essa è prevedibile a partire dallo stimolo: il che vuol dire che essa è
causalmente determinata dallo stimolo stesso. In tal modo l'A. riflessa non è
che il meccanismo per il quale la causalità psichica si inserisce nella
causalità della natura, come parte di essa. Queste nozioni si sono venute
elaborando a partire dalla metà dell’800 in poi cioè da quando la psicologia si
è costituita come scienza sperimentale {v. PsicoLogIa). Conformemente all’indirizzo
atomistico che è stato proprio per lungo tempo della psicologia essa ha cercato
di risolvere i riflessi complessi in riflessi semplici, dipendenti da circuiti
nervosi elementari. La dottrina dei riflessi condizionati fondata da Pavlov su
basi sperimentali (a partire dal 1903; cfr. gli scritti di Pavlov raccolti nel
volume / riffessi condizionati, Torino, 1950) obbedisce alla stessa esigenza ed
ha anzi contribuito per qualche tempo a rafforzarla, facendo nascere la
speranza che anche i comportamenti superiori si potessero spiegare col vario
combinarsi di meccanismi riflessi assai semplici. Un riflesso condizio» nato è
quello in cui la funzione eccitatrice dello stimolo che abitualmente lo produce
(stimolo incondizionato) è assunta da uno stimolo artificiale (condizionato)
col quale il primo è stato in qualche modo associato. Per es., se si presenta
un pezzo di carne a un cane questo stimolo provoca nel cane un’abbondante
salivazione. Se la presentazione del pezzo di carne è stata numerose volte associata
ad un altro stimolo artificiale, per es., al suono di un campanello o alla
comparsa di una luce, questo secondo stimolo finirà per produrre, da solo,
l’effetto del primo, cioè la salivazione del cane. È chiaro che il combinarsi e
il sovrapporsi dei riflessi condizionati può spiegare numerosi comportamenti
che a prima vista non si collegano con riflessi naturali o assoluti. Più
recentemente si è visto nel riflesso condizionato anche la spiegazione del
comportamento cosiddetto simbolico dell’uomo, cioè del comportamento diretto da
segni o simboli, linguistici o di altra natura. Per es., il viaggiatore che
incontra sulla strada un cartello che lo avverte che la strada è più in là
interrotta, reagisce (per es., tornando indietro) proprio come se avesse visto
l'interruzione della strada. Qui il simbolo (il cartello) si è sostituito come
stimolo artificiale allo stimolo naturale (la vista dell’interruzione). Pavlov
e molti sostenitori della teoria dei riflessi condizionati hanno tenuto fede al
principio che ogni riflesso che entra a comporre un riflesso condizionato è un
meccanismo semplice ed infallibile realizzato da un determinato circùito
anatomico. Perciò anche la teoria del riflesso condizionato, com’è esposta da
Pavlov, s’inscrive nei limiti di quella che si suole oggi chiamare «teoria
classica dell’atto riflesso », cioè dell'interpretazione causale dell’A.
riflessa. Tuttavia un imponente complesso di osservazioni sperimentali, fatte
dalla fisiologia e dalla psicologia negli ultimi decenni a partire dal 1920
circa, hanno reso sempre più difficile d’intendere l’A. riflessa nel suo schema
classico. In primo luogo si è visto che l’A. degli stimoli complessi non è
prevedibile a partire da quella degli stimoli semplici che lo compongono e cioè
che i cosiddetti riflessi semplici si combinano tra di loro in modi
imprevedibili. In secondo luogo, lo stesso concetto di « riflesso elementare +,
cioè del riflesso che entrerebbe a comporre i riflessi complessi, è stato
giudicato illegittimo: e difatti tutti i riflessi osservabili sono complessi e
un riflesso « semplice » cioè non decomponibile è una semplice congettura. In
terzo luogo, le stesse osservazioni sui riflessi condizionati dimostrano la
irregolarità e l’imprevedibilità di certe risposte: irregolarità e imprevedibilità
che Pavlov spiegava con la nozione dell’inibizione la quale tuttavia è soltanto
un nome per indicare il fatto che una certa reazione, che si aspettava, non si
è verificata (GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1927; MERLEAU PONTY,
Structure du comportement, 1949). Questi e altri ordini di osservazione, messi
avanti soprattutto dalla psicologia della forma (cfr., ad es., KATZ,
Gestaltpsychologie, cap. III), fanno vedere come il riflesso non può essere
inteso come un’A. dovuta a un meccanismo causale. Si parla di riflesso là dove
si può determinare, nei confronti di un certo stimolo, un campo di reazioni
sufficientemente uniformi per essere prevedute con un alto grado di
probabilità. Le A. riflesse costituiscono da questo punto di vista una classe di
reazioni e precisamente quella caratterizzata dall’alta frequenza di uniformità
delle reazioni stesse. Ma con ciò la nozione di riflesso si sottrae allo schema
causale per rientrare in quello generale di condizionamento (v. CONDIZIONE). B.
Nella logica medievale tutti i sillogismi indicati da una parola mnemonica che
cominci con B (Baralipton, Baroco, Bocardo) sono riducibili al primo modo della
prima figura (Barbara). (Cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). BANAUSIA (gr.
Bavavota). La parola, che in greco significa arte meccanica o lavoro manuale in
genere, implica una valutazione negrato per tutto il Medioevo, e solo il
Rinascimento T ha cominciato ad introdurre nel mondo moderno il concetto della
dignità del lavoro manuale (vedi LAVORO). BARALIPTON. Parola mnemonica usata
dagli Scolastici per indicare il quinto modo della prima figura del sillogismo
e precisamente quello che consiste di due premesse universali affermative e di
una conclusione particolare affermativa come nell’esempio: « Ogni animale è sostanza,
Ogni uomo è animale, Dunque qualche sostanza è uomo + (PIETRO Ispano, Summul.
logic., 4.08). BARBARA. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il
primo dei nove modi del sillogismo di prima figura, il quale consta di due
premesse universali affermative e di una conclusione anche universale
affermativa come l’esempio: «Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale,
Dunque ogni uomo è sostanza » (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.07; Logica di
Porto Reale, III, 5). BARBARI. Parola mnemonica usata nella Logica di Porto
Reale per indicare il quinto modo del sillogismo di prima figura (cioè il
Baralipton) con la modificazione di assumere per premessa maggiore la
proposizione in cui entra il predicato della conclusione. L’esempio è il
seguente: « Tutti i miracoli della natura sono ordinari, Tutto ciò che è
ordinario non ci meraviglia, Dunque ci sono cose che non ci meravigliano, che
sono miracoli della natura » (ARNAULD, Logique, III, 8). BARBARIE. Così Vico
chiamò lo stato primitivo, ferino, del genere umano dal quale poi il timore del
divino ha a poco a poco tràtto l’ordine del mondo propriamente umano. « B.
ritornata + 0 « B. ricorsa +, chiamò poi il Medioevo (Scienza nuova, degnità,
56; Lettera al De Angelis, Opere, ed. Utet, pag. 159). BAROCO. Parola mnemonica
usata dagli Scolastici per indicare il quarto dei quattro modi del sillogismo
di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale
affermativa, 98 BEATITUDINE di una premessa particolare negativa e di una conclusione
particolare negativa come nell’esempio: «Ogni uomo è animale, Qualche pietra
non è animale, Dunque qualche pietra non è uomo » (PIETRO Ispano, Summul.
logic., 4.11). Si è fatta derivare da questa parola la voce « barocco » usata a
designare la forma d’arte o in generale lo spirito proprio del sec. xva. « Non
par dubbio, ha detto Croce, che la parola si ricolleghi ad uno di quei vocaboli
artificialmente composti e memoriali coi quali nella logica medioevale si
vennero designando le figure del sillogismo. Tra quei vocaboli (Barbara,
Celarent, ecc.) due, almeno in Italia, colpirono più degli altri e divennero
quasi proverbiali, a preferenza degli altri: il primo, cioè Barbara, perchè era
il primo, e poi, chissà perchè, Baroco, che designava il quarto modo della
seconda figura. Dico non so perchè non essendo quello più strano degli altri,
nè più contorto il modo di sillogismo che esso indicava: forse vi contribuì
l’allitterazione con Barbara » (Storia dell’età barocca in Italia, 19olta usa
il termine scambievolmente con felicità, connette la B. con la contemplazione e
la commisura all'estensione che l’attività contemplativa ha nei vari esseri
viventi. Così, l’intera vita degli dèi è beata perchè è tutta contemplativa.
Agli uomini spetta una specie di similitudine di questa vita perchè si
sollevano solo di tanto in tanto alla contemplazione; gli animali non sono per
nulla beati perchè mancano di attività contemplativa (Er. Nic., X, 8, 1178 b 9
sgg.). Tra gli uomini, ovviamente, il saggio è il più beato (/bid., I, 11, 1101
b 24). Nella filosofia post-aristotelica e soprattutto in quella stoica, la B.
del saggio divenne un tema diffuso di esercitazione (cfr. il De vita beata di
Seneca) e nel neo-platonismo di Plotino la critica della felicità come è intesa
da Stoici e Aristotelici (Enn., I, 4) si accompagna col concetto di una B. che
è inattiva perchè è indifferente ad ogni realtà esterna. « Gli esseri beati
sono immobili in se stessi e a loro basta d’essere quel che sono: essi non si
arrischiano ad occuparsi di checchessia perchè questo li farebbe uscire dal
loro stato, ma tale è la loro felicità che, senza agire, essi compiono grandi
cose e fanno non poco restando immobili in se stessi» (/bid., III, 2, 1). Dal
neo-platonismo in poi si può dire che il concetto di B. si sia distinto sempre
più nettamente da quello di felicità connettendosi strettamente con la vita
contemplativa, con l'abbandono dell’azione e con l’atteggiamento della
riflessione interiore e del ritorno a se stesso. La tradizione cristiana agì nello
stesso senso, connettendo la B. con una condizione o stato, di tanto
indipendente dalle vicende mondane di quanto invece dipendente dall’interna
disposizione dell’anima. La dottrina aristotelica della felicità propria della
vita contemplativa, servì di modello agli Scolastici per l’elaborazione del
concetto di beatitudine. San Tommaso dice che la B. è « l’ultima perfezione
dell’uomo », cioè l’attività della sua più alta facoltà, l’intelletto nella
contemplazione della realtà superiore, cioè di Dio e degli angeli. « Nella vita
contemplativa l’uomo comunica con le realtà superiori, cioè con Dio e con gli
angeli ai quali si assimila anche nella B.». Pertanto la B. perfetta l’uomo la
otterrà soltanto nella vita futura che sarà tutta e interamente contemplativa.
Nella vita terrena egli può ottenere una B. solo imperfetta, in primo luogo
attraverso la contemplazione e in secondo luogo attraverso l’attività
dell’intelletto pratico che ordina le azioni e le passioni umane, cioè con la
virtù (S. 7A., II, I, q. 3, a. 5). Nell’età moderna il concetto di B. e quello
di felicità si sono sempre più distinti, il primo riferendosi alla sfera
religiosa e contemplativa, il secondo alla sfera morale e pratica. Si può dire
che il solo filosofo che unisca i due significati non per una semplice
confusione, è Spinoza per il quale la B. «è la stessa sodisfazione intima che
nasce dalla cognizione intuitiva di Dio » (Er., IV, app. 4); e che la
identifica con la libertà e con l’amore dell’uomo verso Dio, che è lo stesso
amore con cui Dio ama se stesso (/bid., V, 36 Scol.). Ma poichè l’intuizione di
Dio o l'amore di Dio significano per Spinoza la conoscenza dell’ordine
necessario delle cose del mondo (/bid., V, 31-33) il carattere
mistico-religioso o contemplativo della B. s’identifica col carattere mondano e
pratico della felicità. Lo stesso significato essa ha nell’opera di Fichte
Introduzione alla vita beata (1806). Qui la B. è definita, tradizionalmente,
come l’unione con Dio: ma Fichte si preoccupa di togliere il significato contemplativo
tradizionale, considerandola come il risultato, non già di un « sogno devoto »,
ma della stessa moralità operante (Werke, V, pag. 474). Nel pensiero moderno,
la nozione e la parola one. Si possono distinguere cinque concetti fondamentali
del B., difesi e illustrati sia dentro che fuori l’estetica e cioè: 1° il B.
come manifestazione del bene; 2° il B. come manifestazione del vero; 3° il B.
come simmetria; 4° il B. come perfezione sensibile; 5° il B. come perfezione
espressiva. 1° Il B. come manifestazione del bene è la teoria platonica del
bello. Secondo Platone, alla sola bellezza, fra tutte le sostanze perfette, «
toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più amabile » (Fedro, 250 e).
Perciò nella bellezza, e nell’amore che essa suscita, l’uomo trova il punto di
partenza per il ricordo o la contemplazione delle sostanze ideali (/bid., 251
a). La ripetizione di questa dottrina del B. nel neo-platonismo assume un
carattere teologico o mistico perchè il bene o le essenze ideali di cui Platone
parlava sono da Plotino ipostatizzate e unificate nell’Uno cioè in Dio; e l’Uno
e Dio vengono definiti come «il Bene ». «È il Bene, dice Plotino, che fornisce
la bellezza a tutte le cose» sicchè il B. nella sua purezza è il bene stesso e
tutte le altre bellezze sono acquisite, mescolate e non primitive: perchè
vengono da esso (Enn., I, 6, 7). Questa forma mistica o teologica non sempre
riveste la dottrina del B. come manifestazione del bene; ma è ovvio che simile
dottrina è esplicitamente o implicitamente presupposta ogni volta che si pone
il compito dell’arte nel perfezionamento morale. 2° La dottrina del B. come
manifestazione del vero è propria dell’età romantica. «Il B., diceva Hegel, si
definisce come l’apparizione sensibile dell’Idea ». Ciò significa che bellezza
e verità sono la stessa cosa e che si distinguono solo perchè mentre nella
verità l’Idea ha la sua manifestazione oggettiva e universale, nel B. essa ha
la sua manifestazione sensibile (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner,
I, pag. 160). Raramente, fuori di Hegel, questo punto di vista è stato
presentato in una forma così decisa. Esso tuttavia ricompare in quasi tutte le
forme dell’estetica romantica e costituisce indubbiamente una definizione
tipica del bello. 3° La dottrina del B. come simmetria fu presentata per la
prima volta da Aristotele. Il B. è costituito, secondo Aristotele, dall’ordine,
dalla simmetria e da una grandezza adatta ad essere abbracciata nel suo insieme
da un sol colpo d’occhio (Poetica, 7, 1450b 35 sgg.). E questa dottrina fu
accettata dagli Stoici, dai quali la ripeteva Cicerone: «Come nel corpo esiste
un’armonia di fattezze ben proporzionate congiunta con un bel colorito, che si
chiama bellezza, così per l’anima l’uniformità e la coerenza delle opinioni e
dei giudizi congiunta a una certa fermezza e immutabilità, che è conseguenza
della virtù o contiene l'essenza stessa della virtù, si chiama bellezza »
(Tusc. Disp., IV, 13, 31). Questa dottrina rimase fissata per lungo tempo nella
tradizione. La seguirono gli Scolastici (per es., S. ToMMasO, S. 7h., I, q. 39,
a 8). E la seguirono molti scrittori-artisti del Rinascimento quando vollero
illustrare del piacere sensibile ciò che si suol chiamare « bellezza ». Kant
unificò quelle due definizioni complementari del B. e insistette su quello che
anche oggi appare come il carattere fondamentale di esso cioè il disinteresse.
Conseguentemente egli definiva il B. «ciò che piace universalmente e senza
concetti » (Crif. del Giud., $ 6): e insisteva sull’indipendenza del piacere
del B. da ogni interesse, sia sensibile che razionale. « Ognuno chiama
piacevole, egli disse, ciò che lo sodisfa, B. ciò che gli piace, buono ciò che
apprezza o approva, ciò a cui dà un valore oggettivo. Il piacere vale anche per
gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini nella loro qualità
di esseri animali ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono
ragiopondente alle tre forme dell’attività umana riconosciute proprie
dell’uomo: l’intelletto, il sentimento e la volontà. Per quanto questa tripartizione
sia stata per lungo tempo ritenuta come un dato di fatto originario,
testimoniato dalla «coscienza» o dall’« esperienza interiore +», essa è in
realtà una nozione storicamente derivata, che è nata, nella seconda metà del
’700, dall’inserirsi della « facoltà del sentimento » tra le altre due facoltà
(riconosciute sin dal tempo di Aristotele): la teoretica e la pratica (v.
GUSTO; SENTIMENTO). 5° Come perfezione espressiva o compiutezza
dell’espressione, il B. è implicitamente o esplicitamente definito da tutte le
teorie che considerano l’arte come espressione (v. ESTETICA, 3). Croce ha
detto: « Ci sembare al dominio della moralità, cioè dei mores, della condotta,
dei comportamenti umani inter-soggettivi, e designa perciò il valore specifico
di tali comportamenti. In questo secondo significato, cioè come B. morale, il
B. è oggetto dell’etica e la registrazione dei suoi differenti significati
storici deve essere fatta appunto a proposito della voce Etica (v.). In questa
sede dovremo pertanto occuparci della nozione del B. solo nel primo senso, cioè
nella sua accezione più generale. Possiamo allora distinguere due punti di
vista fondamentali, che si sono intersecati nella storia della filosofia: 1° la
teoria mefafisica per la quale il B. è la realtà e precisamente la realtà
perfetta o suprema e viene desiderato come tale; 2° la teoria soggettueste cose
e sta al di là di esse (/bid., 509 b). Analogamente Plotino vede nel B. la
prima Ipostasi, cioè l'origine della realtà, Dio stesso, e lo considera come causa
ad un tempo dell’essere e della scienza (Enn., VI, 7, 16) e in generale di
tutto ciò che è o vale a un titolo qualsiasi (/bid., V, 4, 1). Queste nozioni
divennero correnti nella filosofia medievale che identificò, secondo l’esempio
neo-platonico, il B. con Dio stesso in modo che può dirsi « buono » solo ciò
che in qualche modo è simile a Dio (S. TomMASO, S. Th., I, q. 6, a. 4). Il
teorema caratteristico di questa concezione del B. è quello che afferma
l’identità di ciò che è B. e di ciò che esiste. « Bonum e ens sono la stessa
cosa in realtà, dice S. Tommaso, per quanto possano dissè col B. »
(Philosophische Propàdeutik, III, $ 83); o che il B. è «la libertà realizzata,
l’assoluto scopo finale del mondo » (Fil. del dir., $ 129). Tutte le forme di
idealismo e di spiritualismo costituiscono altrettante dottrine metafisiche del
B. giacchè tutte identificano il B. con la realtà e, al limite, con la realtà
suprema; così fa, per es., Rosmini che identifica l’essere e il bene (Principi
della scienza morale, ed. naz., pag. 78) e così fa Gentile che identifica il B.
con lo spirito in atto: «Il B. o valore morale non è altro che la realtà
spirituale nella sua idealità, come produzione di se stessa o libertà »
(Logica, I, pag. 110). Alcune filosofie contemporanee che preferiscono parlare
del valore anzichè del B., considerando il valore coola dei valori prescindeva
completamente dalla perfezione oggettiva cui si riferivano le tavole dei valori
della concezione classica greca. Obliterata per tutto il Medioevo, la concezione
soggettivistica del B. ritorna, nel Rinascimento, con gli accenni a un’etica
del movente che ricorrono in questo periodo (v. Erica). Ma fu affermata nella
sua forma più recisa da Hobbes. «L'uomo, egli dice, chiama buono l’oggetto del
suo appetito o del suo desiderio, cartivo l’oggetto del suo odio 0 della sua
avversione, vile l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘ buono ”, ‘ cattivo ’,
‘ vile’, s'intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perchè non c’è nulla
di assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il B.
e per il male, che derivi dalla natura delle cose +» (Leviath., I, 6). Spinoza
accettò con entusiasmo questo punto di vista. « Noi non ci proponiamo,
vogliamo, desideriamo, bramiamo una cosa perchè la giudichiamo buona; ma al
contrario giudichiamo buona una cosa per il fatto che la proponiamo, vogliamo,
desideriamo e bramiamo +» (Er., III, 9, Scol.). E nella Prefazione al IV libro
ribadisce: «Il B. e il male non indicano nulla di positivo, che sia nelle cose
in sè considerate; ma sono nient’altro che modi di pensare o nozioni che ci
formiamo confrontando le cose fra loro. Difatti una stessa cosa può nello
stesso tempo essere buona, cattiva, e anche indifferente ». A sua volta Locke
affermò che «ciò che è àtto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo B.
e ciò che è àtto a produrre pena è ciò che chiamiamo male» (Saggio, II, 21,
43); definizioni che trovano consenziente Leibniz: « Si divide il B. in onesto,
piacevole e utile, ma in fondo io credo che esso deve essere o piacevole di per
se stesso o servire a qualcosa che ci dia un sentimento di piacere: e cioè il
B. è piacevole o utile e l’onesto stesso consiste in un piacere dello spirito »
(Nouv. Ess., II, 20, 2). Kant ha accettato queste notazioni aggiungendovi un
elemento importante, cioè l’esigenza di un riferimento concettuale. «Il B.,
egli dice, è ciò che, mediante la ragione, piace per il suo puro concetto.
Chiamiamo qualcosa buona a (utile) quando essa piace solo come mezzo; quella
che invece piace per se stessa, la diciamo buona 102 in sè. In acere perchè al
riconoscimento del B. è connessa la valutazione concettuale della sua
efficienza rispetto a certi fini e questo costituisce il B. come « un valore
oggettivo ». Dopo di Kant, la nozione di valore ténde a soppiantare quella di
B., nelle discussioni morali, e può essere considerata come l’erede del
concetto soggettivo di B., dotata com’è delle sue stesse connessioni
sistematiche. Sul suo terreno tuttavia rinascerà, in forma appena mutata,
l’alternativa tra una concezione oggettivistica e una concezione
soggettivistica: alternativa che a tutt’oggi costituisce uno dei temi
fondamentali della discussione morale (v. VALORE). BENE SOMMO (gr. caya0év; lat.
Summum bonum; ingl. Supreme Good; franc. Souverain
Bien; ted. Das hochste Gut). Nozione introdotta da Aristotele per indicare ciò
che viene desiderato di per se stesso e non in vista di un B. ulteriore. Un B.
sommo è necessario che ci sia per evitare il processo all’infinito (Et. Nic.,
I, 2, 1094a 18). Per Aristotele il sommo B. è la felicità. Gli Scolastici
adoperano l’espressione per indicare Dio stesso (S. Tommaso, S. 7h., I, q. 6,
a. 1). Kant ritenne l’aggettivo «sommo» equivoco giacchè esso può significare
sia supremo (supremum) sia perfetto (conBENE SOMMO summatum). Il B. supremo è
la condizione prima, originaria di ogni B.: è perciò la virtù. Ma il B.
perfetto è quello che non è parte di un B. maggiore della stessa specie; e in
questo senso la virtù non può dirsi il B. perfetto, che è invece l’unione di virtù
e felicità (Crit. R. Pratica, Dialettica, capitolo II). BENEVOLENZA. V. Bontà.
BENTHAMISMO. V. UTILITARISMO. BERGSONISMO. V. SPIRITUALISMO. BERKELEISMO. V.
IMMATERIALISMO. BICONDIZIONALE (ingl. Biconditional; francese Biconditionnel).
Con questo nome o con quello di «equivalenza materiale » è inteso comunemente,
nella logica contemporanea, il connettivo «se e solo se» simboleggiato talora
col segno = (cfr. Quine, Methods of Logic, $ 3). Il B. equivale ovviamente alla
congiunzione dei due condizionali « se p allora g + e «se gq allora p».
BIOGENETICA, LEGGE (ted. Biogenetisches Grundgesetz). Così il biologo tedesco
Ernesto Haeckel (1834-1919) chiamò il parallelismo tra lo sviluppo
dell’embrione individuale e lo sviluppo della specie a cui esso appartiene. Per
ciò che riguarda l’uomo, «l’ontogenesi ossia lo sviluppo dell’individuo è una
breve e rapida ripetizione (una ricapitolazione) della filogenesi o evoluzione
della stirpe cui esso appartiene » (Nasùrliche Schopfungsgeschichte, 1868;
trad. ital., pag. 178-89). BIOLOGISMO (ingl. Biologism; franc. Biologisme; ted.
Biologismus). 1. L’interpretazione del mondo fisico o del mondo umano per
analogia con l’organismo (v. ORGANICISMO). 2. Lo stesso che Vitalismo (v.). 3.
La metafisica di Hans Driesch (1867-1941), in quanto è una « filosofia
dell’organico ». Driesch divide infatti la filosofia in « dottrina dell’ordine
» che ha per oggetto l’intero mondo inorganico e « dottrina della vita » che ha
per oggetto il mondo organico. Il presupposto di questa suddivisione è che
l'organismo non è riducibile a forma o manifestazione dell’ordine inorganico;
o, in altre parole, non è una macchina. Ciò che esso ha in più della macchina è
l’entelechia che è concepita da Driesch come una specie di monade nel senso
leibniziano, la quale determina tutto lo sviluppo di un essere vivente.
L’entelechia è sopra-individuale e sopra-personale: la nascita di un uomo non è
che la manifestazione di un’entelechia, manifestazione che termina con la
morte. Gli individui sono soltanto parti della vita sopra-personale
dell’entelechia (Philosophie des Organischen, 1908-09; Ordnungslehre, 1925).
BIOSFERA (franc. Biosphère). Così Le Roy ha chiamato la vita nella sua
totalità, in quanto sta con gli individui nello stesso rapportsciplina » o di
«regole » e di « B. di libertà »; di « B. di affetto » e di « felicità », di «
aiuto », di «comunicazione + e via dicendo. Ogni tipo o forma possibile di
rapporto tra l’uomo e le cose o tra l’uomo e gli altri uomini può essere
considerata sotto l’aspetto del B.: il quale implica la dipendenza dell’essere
umano da tali rapporti. Nella storia della filosofia la nozione del B. è stata
trattata sotto due angoli visuali: 1° più frequentementedal punto di vista
morale, cioè dal punto di vista del problema dell’atteggiamento da prendere di
fronte ai B., se limitarli o incoraggiarli o in che modo e grado limitarli; 2°
meno frequentemente, dal punto di vista della importanza e del significato che
il bisogno ha rispetto al modo d’essere proprio dell’uomo, della possibilità che
offre di comprendere e descrivere la sua esistenza. Il problema della
disciplina dei B., cioè della limitazione qualitativa e quantitativa di essi, è
il problema stesso della virtù, in particolare della virtù etica; e i suoi
sviluppi storici devono essere considerati per l’appunto sotto la voce Virtà
(v.). Il problema che il B. presenta come segno, sintomo o elemento della
condizione umana, può essere invece considerato in questa sede. Nell’antichità,
Platone pare che abbia riconosciuto il valore del B.: questo sembra essere il
significato dell’importanza che egli riconosce all’amore, che egli intese nel
Convito (204-05) nel significato più vasto, come mancanza e ricerca di ciò che
manca. AI B. inoltre, Platone attribuì nella Repubblica (II, 369b sgg.)
l’origine dello Stato: « Quando un uomo prende con sè un uomo in vista di un B.
e un altro uomo in vista di un altro B., e la molteplicità dei B. riunisce
nella stessa residenza più uomini che si associano per aiutarsi, a questa
società noi diamo il nome di Stato ». Meno esplicita è la funzione che la
nozione del B. ha nella filosofia di Aristotele: il quale non ignora certo il
peso che esso ha nella vita singola e associata dell’uomo (come mostra
specialmente la sua Politica) ma non gli attribuisce una funzione 103
specifica: l’origine stessa dello Stato è da lui posta nell’esigenza di
realizzare una vita felice, che significa prevalentemente una vita virtuosa
(Pol., VII, 2, 1324 a S sgg.). La filosofia post-aristotelica si disinteressa
dei bisogni anche quando con Epicuro prescrive di sodisfarli (Mass. capit., 26;
Fr. 200, Usener), giacchè è troppo occupata a delineare l’ideale del saggio,
dedito alla vita puramente contemplativa. E non si avvalgono del B. per
interpretare la realtà umana nè la filosofia medievale, nè quella moderna, le
quali preferiscono far leva su quegli elementi o caratteri che mettono in
risalto piuttosto l’indipendenza dell’uomo dal mondo che la sua dipendenza da
esso. Hegel, pur parlando di un «sistema dei B.» preferisce insistere sull’aspetto
per cui il B. è dominato dall’uomo più che dominarlo: « L'animale ha una
cerchia limitata di mezzi e di modi di appagamento dei suoi B., che sono
parimenti limitati. L'uomo, anche in questa dipendenza, dimostra, nello stesso
tempo, il suo superamento della medesima e la sua universalità, soprattutto
mediante la moltiplicazione dei B. e dei mezzi e poi mediante la scomposizione
e la distinzione del B. concreto » (Fil. del Dir., $ 190). La prima clamorosa
affermazione dell’importanza dei B. per l’interpretazione di ciò che l’uomo è O
può essere, si può scorgere nella filosofia di Schopenhauer che interpretò come
B., quindi come mancanza, quindi come dolore, la volontà di vita che
costituisce l’essenza noumenica del mondo. «La base di ogni volontà è bisogno,
mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura »
(Die Welt, 1819, I, $ 57). Al di fuori della metafisica, sul terreno
dell’antropologia, insisteva sulla stretta connessione del B., con la natura
umana L. Feuerbach (Grundsatze der Philosophie der Zukunft, 1844). Marx nei
suoi scritti giovanili (Economia e filosofia, 1844; Ideologia tedesca, 1845-46)
accentuò l’importanza dei B. e perciò del lavoro diretto a sodisfarli, sino a
farne il tema fondamentale della sua antropologia (v. PERsona). Nella filosofia
contemporanea, oltre che dal marxismo, l’importanza della nozione del B. per
l’interpretazione della realtà umana, è sottolineata da un lato dal
naturalismo, dall’altro dall’esistenzialismo. Dewey, per es., insistendo sulla
« matrice biologica » di ogni attività umana, quindi anche della logica, vede
nel B. la rottura dell’instabile equilibrio organico e l’inizio della ricerca
che ténde a ristabilirlo (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 63). Dall’altro
lato Heidegger definendo l’« essere-nel-mondo + in cui l’esistenza dell’uomo
consiste come cura (v.), insiste sulla dipendenza dell’uomo dal mondo, sul suo
«esser gettato nel mondo, dal quale le possibilità umane dei rapporti con le
cose e con gli altri uomini si trovano dominate » (Sein und Zeit, $ 39 sgg.,
cfr. $ 20). La nozione di bisogno che emerge da queste notazioni non è quella
di uno stato provvisorio di mancanza o di deficienza (si ha bisogno dell’aria
anche se ce n’è in abbondanza) ma piuttosto quella di uno stato o condizione di
dipendenza che caratterizza, in modo specifico, l’uomo e in generale l’essere
finito nel mondo. BOCARDO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare
il quinto dei sei modi del sillogismo di terza figura e precisamente quello che
consiste di una premessa particolare negativa, di una premessa universale
affermativa e di una conclusione particolare negativa come nell’esempio:
«Qualche uomo non è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque qualche animale non è
pietra» (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.15). BONTÀ (lat. Bonitas; ingl.
Goodness; francese Bonté; ted. Giitigkeit). Nel significato più esteso:
l’eccellenza di un oggetto qualsiasi (cosa o persona). Dice, ad es., S.
Tommaso: «La B. che in Dio è semplicemente e uniformemente, nelle creature è in
modo molteplice e diviso» (S. 7h., I, q. 47, a. 1). Le discussioni del Sei e
Settecento intorno alla B. di Dio come movente della creazione (cfr. LerBNIZ,
7héod., II, $ 116 e sgg.) si fondarono su un più ristretto significato del
termine, che fu espresso chiaramente da Baumgarten: « La B. (benignità), egli
disse, è la determinazione della volontà a far bene agli altri. Il beneficio è
l’azione utile all’altro, suggerita dalla B.» (Mer., $ 903). In questo senso la
B. si identifica con quella che Aristotele chiamava benevolenza (eùvola) (Er.
Nic., VIII, 2, 1155 b 33). I due significati del termine sono vivi nell'uso
comune. BORIA. Vico parla della B. delle nazioni che consiste nel credere
«d’aver esse prima di tutte l’altre ritrovati i comodi della vita umana e
conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo +»: e della B.
dei dotti «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo
» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 3, 4). La B. dei dotti ha impedito di riconoscere
che l’origine del mondo storico è dovuta a «uomini bestioni » e ha condotto ad
attribuire tale origine a « uomini sapienti » che avrebbero agito per
riflessione. BOVARISMO (franc. Bovarisme). Termine derivato dal nome della
famosa eroina di Flaubert (Madame Bovary, 1857) per indicare l’atteggiamento di
chi crea a se stesso una personalità fittizia e cerca di vivere in conformità
di essa, urtando contro la sua propria natura e contro i fatti. Il termine fu
creato da Jules de Gaultier (Le bovarisme, 1902). BRACHILOGIA (gr.
Bpayvàdoyia). Nel Protagora di Platone, Socrate contrappone alla tendenza di
Protagora di tener lunghi discorsi, la sua esiBOCARDO genza di risposte brevi e
succinte, ovviamente perchè soltanto attraverso lo scambio di frasi concise è
possibile la discussione dialogata (Prof., 334 c-335 a). BRUTISMO (franc.
Brutisme). Termine adoperato da St.-Simon per indicare la concezione
meccanistica dei fenomeni, e che è perciò l’equivalente di meccanicismo (v.).
BUDDISMO (ingl. Buddhism; franc. Bouddhisme; ted. Buddhismus). La dottrina
religiosa e filosofica che si è originata dagli insegnamenti di Gautama Budda
(563-480 a. C. circa) e che è poi stata svolta da mumerosissimi indirizzi in
India, in Cina e in Giappone. I principali testi del B. sono quelli scritti in
lingua pali, detti Tipitaka e divisi in tre gruppi o ceste che sono: 1° il
Surrapitaka che o sforzo; 7° nella giusta mentalità; 8° nella giusta
concentrazione. L’uomo è, secondo il B., sottoposto alla legge dell’incessante
fiuire della vita (dharma) che lo porta di desiderio in desiderio, di dolore in
dolore, e di incarnazione in incarnazione. Finchè l’uomo non si libera dal
desiderio, è sottoposto al ciclo della rinascita (samsara). La liberazione dal
desiderio, ottenuta attraverso le regole morali suddette e la disciplina
ascetica (che il B. condivideva con il bramanesimo e con la pratica yoga), si
ha soltanto con la dissoluzione dell’illusione prodotta dal desiderio (e che è
il karma), con l’eliminazione del desiderio stesso e la distruzione dell’attaccamento
alla vita, che è il nirvana. Le numerosissime scuole, sètte, indirizzi a eguale
in tutti gli uomini ». Questa sinonimia non potrebbe più oggi essere ammessa.
Da un lato la ragione è passata sempre più a designare tecniche specifiche (v.
RAGIONE), dall’altro il B. senso è rimasto a designare un certo equilibrio e
una certa moderazione nel giudizio sulle faccende ordinarie della vita e nel
modo quotidiano di comportarsi. Spesso tuttavia accade che ciò che appare
stravagante o paradossale al B. senso ha maggior valore di ciò che ad esso è
conforme: perchè il B. senso non può far altro che riferirsi al sistema
stabilito di credenze e di opinioni e non può giudicare che in base ai valori
che esso include. Molto spesso la scienza e Ja filosofia devono prescindere dal
B. senso, per quanto non possano prescindere mai o mai interamente da quelle
faccende quotidiane e minute fra le quali il B. senso dovrebbe trovarsi a suo
agio.C. 1. Nella logica medievale tutti i sillogismi indicati con parole
mnemoniche che cominciano con C sono riducibili al secondo modo della prima
figura (Celarent) (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). 2. Nella notazione di
Lukasiewicz è usato per indicare il condizionale o l’implicazione logica, più
comunemente simboleggiato con «95» (A. CHURCH, Introduction to Mathematical
Logic, n. 91). CADUTA (gr.
tertwaw; lat. Casus; ingl. Fall; franc. Chute; ted. Fall). Il mito della C. dell’anima umana da uno stato
originario di perfezione, nel quale contemplava beata la verità a faccia a
faccia, è esposto nel Fedro (248a e sgg.) di Platone e ripetuto da
Plun’addizione o sottrazione delle conseguenze dei nomi generali riuniti
insieme per definire ed esprimere i nostri pensieri » (Leviarh., I, 5). Leibniz
chiamò « C. filosofico », la scienza universale o caratteristica universale
(v.) in cui egli vedeva lo strumento dell’invenzione concettuale (Op., ed.
Erdmann, pag. 82 sgg.). Carnap distingue il C. dal sistema semantico nel senso
che « mentre gli enunciati di un sistema semantico sono interpretati, asseriscono
qualcosa, perciò sono o veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati sono
considerati da un punto di vista puramente formale ». Per sottolineare tale
distinzione talvolta si chiamano formule gli elementi di un C. e proposizioni
gli elementi di un sistema semantico (Foundations of Logic and Mathematics, $
9). Lo stesso Carnap ha osservato che i calcoli possono prendere il nome o dai
segni o espressioni che ricorrono in essi, e in tal senso si dice calcolo degli
enunciati o dei predicati oppure, come accade più frequentemente, dai loro
designati cioè dagli oggetti cui si riferiscono (Introduction to Semantics,
2> ediz., 1959, p-230). In questo secondo senso, il C. proposizionale è lo
studio formalizzato dei connettivi logici (v. ConNETTIVI) e i suoi teoremi sono
costituiti dalle formule che possono essere derivate dalle formule primitive
con l’applicazione successiva delle regole primitive di inferenza. Il C.
funzionale ha invece per oggetto le funzioni proposizionali (v. FUNZIONE) e
adopera, oltre i connettivi, il quantificatore universale (v. OpERATORE). Il C.
delle classi o algebra delle classi, ha da fare con classi o insieme
determinati da funzioni proposizionali o predicati e mette capo a formule che
sono espressioni nelle quali ricorre il simbolo = o =/= (disuguale). L’algebra
delle classi è isomorfica con il C. funzionale perchè coincide con esso nel suo
significato (v. ALGEBRA DELLA Logica). Infine l’a/gebra delle relazioni è lo
studio formalizzato delle relazioni (v.). CANCELLAZIONE CALCOLO COMBINATORIO.
V. ARTE COMBINATORIA. CALCOLO EDONISTICO (ingl. Hedonic Calculus). Così Bentham
chiamò la tavola completa dei moventi dell’azione umana, da servire di guida
per ogni futura legislazione. La tavola com-prende la determinazione della
misura del dolore e piacere in genle: « Parmenide prende per princìpi il C. e
il freddo, che egli però chiama fuoco e terra » (Fisica, I, 5, 188 a 20). Nel
Rinascimento Bernardino Telesio la riprendeva considerando il C. e il freddo
come le due forze o « nature agenti» che determinano l’universo e delle quali
l’una risiede nel Sole, l’altra nella Terra (De Rer. Nat., I, 3). CALENDES.
Parola mnemonica usata dalla Logica di Porto Reale per indicare il sesto modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Celantes), con la modificazione di
assumere per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato della
conclusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i mali della vita sono mali
passeggeri, Tutti i mali passeggeri non sono da temersi, Dunque nessuno dei
mali che sono da temersi è un male di questa vita + (ARNAULD, Logique, III, 8).
CALVO, ARGOMENTO DEL. V. AceRrvo, ARGOMENTO DELL’. CAMBIAMENTO. V. MUTAMENTO.
CAMESTRES. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo dei
quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che
consiste di una premessa universale affermativa, di una premessa universale
negativa, e di una conclusione universale negativa, come nell’esempio: «Ogni
uomo è animale, Nessuna pietra è animale, Dunque nessuna pietra è uomo »
(PIETRO Ispano, Summul. logic., 4, 11). CAMPO (ingl. Field; franc. Champ; ted.
Feld). L'insieme delle condizioni che rendono possibile un evento; o i limiti
di validità o di applicabilità di uno strumento conoscitivo. Kant diceva: « I
mperatura attraverso il volume è un esempio fisico di scalare di C. (D’ABRO,
New Physics, capitolo X). Analogamente nella psicologia, per es., nella
psicologia della forma, dove è stato illustrato così: « Ciò che determina
l'impressione di colore che proviamo in un punto circoscritto del C. visivo è
lo stato eccitatorio globale del C. visivo; ciò che determina l’impressione di
un peso che alziamo non è soltanto la tensione del gruppo muscolare
immediatamente legato al sollevamento del peso, ma pure il tono di tutto il
resto della muscolatura » (KATZ, Gestalipsychologie, 3; trad. ital., pag.
29-30). Più precisamente e generalmente, K. LEWIN ha definito il C., inteso
quale lo « spazio vitale» di un organismo, come «la totalità degli eventi
possibili », dalla quale deriverebbe il comportamento dell’organismo stesso
(Principles of Topological Psychology, 7* ediz., 1936, pag. 14). Dewey adopera
la parola in senso generico: «È sempre in un qualche C. che si verifica
l’osservazione di questo o quell’oggetto. Tale osservazione è fatta allo scopo
di trovare ciò che quel C. rappresenta in rapporto a qualche attiva risposta di
adattamento con cui far procedere un corso di comportamento » (Logic, Intr.;
trad. ital, pagina 11l). Più precisamente la nozione è usata in logica, dove per
C. di una relazione si intende l’insieme del dominante e del dominante inverso
della relazione: cioè dei termini che sono in una data relazione con questo o
quel termine (dominanti) e dei termini con cui questo o quel termine si trova
in una data relazione (dominanti inversi) (v. RELAZIONE). Il concetto è stato
anche usato per la teoria del significato (cfr. A. P. UsHENKO, The Field Theory
of Meaning, 1958) e nella linguistica, nella quale il C. è stato inteso come la
rete di associazioni che connettono un termine a molti altri termini (ULLMANN,
Semantics, 1962, IX, 1). CANCELLAZIONE (ted. Durchstreichung). Nelle /deen (I,
$ 106) Husserl chiama C. la nega108 zione di una credenza o la presa di
posizione contro di essa. CANONE (gr. xawoy; ingl. Canon; franc. Canon; ted.
Kanon). Criterio o regola di scelte per un campo qualsiasi di conoscenza o di
azione. Il termine fu introdotto probabilmente dallo scultore Policleto che
intitolò così un’opera nella quale descriveva la simmetria del corpo e indicava
le regole e le proporzioni che lo scultore deve rispettare (40, A, 3 Diels).
Epicuro chiamò canonica la scienza del criterio, criterio che per lui è la
sensazione nel dominio della conoscenza, e il piacere nel dominio pratico
(Diog. L., X, 30). Il termine fu ripreso dai matematici del °700 e Leibniz
l’adopera per designare « le formule generali che dànno ciò che si domanda »
(Math. Schriften, VIII, 217), per es., quella che dà due numeri di cui si
conosce la somma e la differenza o quella che dà le radici di un’equazione.
Stuart Mill chiama C. le regole che esprimono i quattro metodi della ricerca
sperimentale, cioè quelli di concordanza, di differenza, dei residui e delle
variazioni concomiime dicendo: «Si deve poter volere che la massima della,
nostra azione diventi legge universale » (Grundlegung zur Mer. der Sitten, II).
Nella filosofia moderna e nella filosofia contemporanea si adopera più
frequentemente il termine criterio (v.). Anche C. viene però talvolta adoperato
nel senso tradizionale. Dewey chiama C. i princìpi logici d’identità, di
contraddizione, e del terzo escluso (Logic, cap. XVID. CAOS (gr. y&wc).
Propriamente: abisso sbadigliante. Lo stato di completo disordine anteriore
alla formazione del mondo e dal quale tale formazione s’inizia, secondo i mitologi.
Esiodo dice: «Prima di tutti gli esseri ci fu il C., poi la Terra dal largo
seno» (Teog., V, 116). Aristotele combattette questa nozione (Fis., IV, 208 b
31 sgg.) perchè ammise l’eternità del mondo. Kant si servì di essa per indicare
lo stato originario della materia dal quale si sono poi originati i mondi
(Allgemeine Naturgeschichte oder Theorie des Himmels, 1755, Pref.). CARATTERE
(gr. yapaxtip, 7006; lat. Character; ingl. Character; franc. Caractère; ted.
Charakter). Propriamente il segno, o l’insieme di segni, che contraddistingue
un oggetto e consente di riconoscerlo agevolmente tra gli altri. In
particolare, il modo d’essere o di comportarsi abituale e costante di una
persona, in quanto individua e distingue la persona medesima. In questo senso diciamo
che « Una persona ha un C. ben marcato» o «ben deciso », nel senso che il suo
modo di agire rivela orientamenti abituali e costanti; e qualche volta,
semplicemente, « È un C.». All’opposto descriviamo come « mancanza di C.» o «C.
debole», «incerto » o «incostante » un comportamento abitualmente dovuto
piuttosto a scelte casuali e capricciose che ad un orientamento determinato e
costante. Gli antichi possedevano questa nozione. Eraclito dice che il C.
({90c) di un uomo è il suo destino (Fr. 119, Diels). E l’aristotelico Teofrasto
ci ha lasciato nello scritto intitolato / C. la descrizione di trenta tipi di
C. morali (l’importuno, il vanitoso, lo scontento, il fanfarone, ecc.)
descritti appunto sul fondamento delle loro manifestazioni abituali. Dimenticata
nel Medioevo, durante il quale la parola servì prevalentemente a designare
l’indistruttibilità della ordinazione sacerdotale (S. TomMASO S. Th., III, q.
65, a. 1 sgg.) la nozione fu ripresa nel '600 e rimessa in circolazione da La
Bruyère (Les caractères, 1687). Kant l’ha utilizzata nel tentativo di
conciliare la causalità naturale e la causalità libera. Ciascuna causa
efficiente deve avere un carattere, cioè «una legge della sua causalità, senza
la quale non sarebbe causa ». Un oggetto del mondo sensibile ha in primo luogo
un C. empirico per il quale i suoi atti, come fenomeni, sono connessi
causalmente con gli altri fenomeni in conformità delle leggi naturali. Ma lo
stesso oggetto può anche avere un C. intellegibile « per il quale esso è sì la
causa di quegli atti come fenomeni, ma di per se stesso non sottostà a nessuna
condizione sensibile e non è fenomeno». Del C. intellegibile si può dire « che
esso comincia da se stesso i suoi effetti nel mondo senza che l’azione cominci
in lui stesso +; e con questa distinzione Kant crede di aver accordato fra loro
libertà e natura (Critica R. Pura, Antinomie della ragion pura, $ 3). Meno
metafisicamente (e più chiaramente) nell’ Antropologia egli distingue un C.
fisico che è il segno distintivo dell’uomo come essere naturale e un C. morale
che è il segno dell’uomo come essere razionale, provvisto di libertà. Il C.
fisico dice «ciò che si può fare dell’uomo, il C. morale dice ciò che l’uomo è
capace di fare di se stesso» (Antr., II, a). Schopenhauer ha utilizzato la distinzione
kantiana tra C. empirico e C. intelligibile per neCARATTERE gare la libertà:
tutto ciò che l’uomo fa sarebbe la manifestazione di un €. intelligibile innato
e immutabile (Die Welt, I, $ 55; Neue Paralipomena, $ 220). La distinzione
kantiana di un duplice C., l’uno naturale e immutabile, l’altro morale e
libero, viene universalmente abbandonata nella antropologia contemporanea che
tuttavia dà grande rilievo alla nozione di carattere. Ma nell’interpretazione
di questa nozione, l’antropologia contemporanea si può dire che assuma o l’uno
o l’altro dei due concetti in cui Kant aveva distinto la nozione stessa, e cioè
o che intende il C. come una formazione naturale inevitabile che l’uomo porta
con sè e non può modificare, o lo intende come una formazione dovuta alle
scelte dell’uomo e perciò essa stessa libera e modificabile. Accenneremo solo
ad alcune delle principali prese di posizioni in un senso o nell’altro. La
teoria dei tipi psicologici di Jung appartiene al primo indirizzo perchè
considera il C. come un orientamento prevalentemente inconscio dovuto a
disposizioni organiche o al fondamento istintivo. Il C. di un uomo è la
direzione in cui avviene l’incontro tra quest'uomo e il mondo o tra questo uomo
e la società: è cioè il complesso degli atteggiamenti o delle disposizioni ad
agire o reagire in una certa direzione. Ora, nell’incontro tra l’uomo e il
mondo, due atteggiamenti fondamentali sono possibili: o l’uomo cerca di
dominare il mondo, cioè gli oggetti esterni, assumendo un atteggiamento attivo,
positivo, creatore, oppure cerca semplicemente di difendersi da egie, pag. 1).
Soltanto che per Le Senne il C. non costituisce la totalità dell’uomo: è
soltanto uno degli elementi della sua personalità, la quale comprende, oltre il
C., anche elementi liberamente acquisiti, che possono contribuire a specificare
il C. stesso in un senso o nell’altro. Il C. è pertanto un limite oggettivo,
intrinseco alla stessa personalità, della scelta che la personalità può fare
liberamente di se stessa; ma come limite è qualche cosa di congenito e, in se
stesso, di immutabile. La determinazione dovuta al C., non è quindi per Le
Senne una determinazione necessitante nonostante la sua originarietà e la sua
immutabilità relativa. Per quanto su questo punto Le Senne si riattacchi ad un
caposaldo stabilito da Adler (di cui diremo sùbito) la nozione di C. rimane in
lui quella di una determinazione o complesso di determinazioni originarie e
immodificabili, cioè rimane fissa a quel significato per il quale esso non si
distingue da temperamento (v.). Questo concetto del C. fa della libertà e del
determinismo nella personalità umana due forze diverse e reciprocamente
autonome, di cui l’una risiede nell’io, l’altra nel C. (o nel temperamento),
riproducendo, in linguaggio diverso, il dualismo kantiano di C. intelligibile e
C. empirico. La dottrina di Adler si era invece sottratta a questo dualismo.
Per Adler il C. è la manifestazione oggettiva, rilevabile attraverso
l’esperienza sociale, della stessa personalità umana. Non solo il C. è un
«concetto sociale » nel senso che si può parlare di C. solo riferendosi alla
connessione di un uomo col suo ambiente, ma anche i tratti o le disposizioni di
cui il C. consiste sono rilevabili solo socialmente. Le manifestazioni del C. «
sono simili ad una linea direttiva che aderisce all'uomo come uno schema e che
gli permette, senza molta riflessione, di esprimere in ogni situazione la sua
originale personalità » (Menschenkenntnis, 1926, II, 1; trad. ital, pag. 150
sgg.). Esse non esprimono alcuna forza e substrato innato, ma sono, anche se
molto presto, acquisite. Il C. sostanzialmente è il modo in cui l’uomo prende
posizione di fronte al mondo naturale e sociale; e Adler fonda la valutazione
di esso su due punti di riferimento: la volontà di potenza e il sentimento
sociale, che con la loro azione reciproca costituirebbero gli aspetti
fondamentali del carattere. « Si tratta, egli dice, di un gioco di forze la cui
forma di manifestazione esteriore caratterizza ciò che noi chiamiamo C. »
(/bid., 1926, II, 1; trad. ital., pag. 176). Una distinzione radicale tra
persona e C. fa invece Scheler. La persona è il soggetto degli atti
intenzionali ed è quindi il correlato di un mondo, e precisamente del mondo in
cui essa vive. Il C., invece, è la costante ipotetica x che si assume per
spiegare le particolari azioni di una persona. Pertanto se un uomo agisce in
modo non corrispondente alle deduzioni che abbiamo ricavate dall’imagine
ipoteticamente assunta del suo carattere, si è disposti, a buon diritto, a
mutare questa imagine. Ma la persona non può mutare: non possono quindi
toccarla i mutamenti di C., come non la tocca la malattia psichica che
solamente la nasconde (Formalismus in der Ethik, pag. 501 sgg.). Questa netta
separazione tra C. e persona, che in Scheler è dovuta al primato metafisico che
egli attribuisce alla persona, non trova però riscontri nell’antropologia
contemporanea. I tratti più comuni e importanti di questa antropologia per ciò
che riguarda la dottrina del C., si possono ricapitolare nel modo seguente: 1°
il C. è la manifestazione oggettiva della personalità umana o è questa stessa
personalità nel suo aspetto oggettivo, quale si lascia cogliere attraverso la
comune esperienza umana o le tecniche d'indagine della personalità stessa (vedi
PERSONALITÀ); 2° il C. si differenzia dal remperamento (v.) perchè non è un
dato puramente organico come quest’ultimo e perchè non è un elemento immutabile
e necessitante ma è il risultato delle scelte effettuate da un individuo e
consiste nelle costanti osservabili delle sue scelte; 3° tali scelte non sono
assolutamente libere nè necessitate, ma condizionate da elementi organici,
ambientali, sociali, ecc.; e nelle loro costanti osservabili delineano un
progetto di comportamento nel quale coincidono il C. e la personalità
dell’uomo. CARATTERE POETICO. Secondo Vico, i primi uomini concepirono le cose
dapprima mediante « C. fantastici di sostanze animate e mutoli » cioè mediante
atti o corpi che avessero un qualche rapporto con le idee e poi con « C. divini
ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari » (Scienza nuova, 1744, passim):
nelle quali locuzioni ovviamente la parola « carattere » sta per segno o
simbolo. CARATTERI (ted. Charakters). Così Avenarius (Kritik der reinen
Erfahrung, 1888-90) ha chiamato uno dei due fattori di cui è composto il mondo
dell'esperienza e precisamente quello che consiste nelle determinazioni
emotive, esistenziali, pratiche e in generale valutative degli elementi che
costituiscono l’altro fattore dell’esperienza stessa. Così sono C. il piacere,
il dolore, l’essere, l'apparenza, il sicuro, l’insicuro, ecc., mentre sono
elementi le sensazioni (suoni, colori, ecc.). CARATTERISMI (ted.
Charakterismen). Sono secondo Kant « designazioni dei concetti per mezzo di
segni sensibili concomitanti » come le parole, i gesti, i segni algebrici, ecc.
(Crit. del Giud., $ 59). CARATTERISTICA (lat. Characteristica). Leibniz chiamò
preferibilmente C. o C. universale quella che in un primo tempo (1666) aveva
chiamato «arte combinatoria »: e cioè « l’arte di formare e di ordinare i
caratteri in modo che si riferiscano ai pensieri, cioè in modo che abbiano tra
loro la stessa relazione che c’è tra i pensieri stessi ». I caratteri non sono
altro che i segni o scritti o disegnati o scolpiti. I fondamenti dell’arte C. sono
espressi dallo stesso Leibniz nello scritto Fundamenta calculi ratiocinatoris
(Op., ed. Erdmann, pagina 92 sgg.) nel modo seguente. Tutti i pensieri umani si
possono ridurre a poche nozioni primitive: Csistenza del tesoro sul letto di
morte, sommuovono la terra e la fanno fertile e questo è l’unico tesoro che
trovano (Nova Dilucidatio Principiorum Metaphysicae, 1755, prop. II. Tuttavia
l’idea di Leibniz e i vari tentativi di realizzarla costituiscono il precedente
storico immediato della moderna logica simbolica. CARATTEROLOGIA (franc.
Caraciérologie; ted. Charakterologie o Charakterkunde). Nome entrato nell’uso
nella seconda metà del secolo scorso per indicare la scienza del temperamento o
del carattere. Cfr. CARATTERE; ETOLOGIA. CARDINALI, VIRTÙ (lat. Cardinales
virtutes; ingl. Cardinal Virtues; franc. Vertues cardinales; ted.
Kardinaltugenden). Così furono chiamate da S. Ambrogio (De off. ministr., I,
34; De Par., III, 18; De sacr., III, 2) le cristiano fondamentale «Ama il
prossimo tuo come te stesso ». S. Paolo soprattutto ha insistito sulla
superiorità della C. sulle altre virtù cristiane cioè sulla fede e sulla
speranza. «La C. sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene
tutto... Ci sono ora la fede, la speranza e la C., queste tre cose; ma la C. è
la maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7, 13). La C. è sostanzialmente, per S.
Paolo, il legame che tiene avvinti i membri della comunità cristiana e fa di
questa comunità lo stesso «corpo di Cristo ». In séguito, la filosofia
cristiana ha visto nella C. soprattutto il legame fra l’uomo e Dio. S. Tommaso
definisce la C. come « l’amicizia con Dio» e dice: «Questa società dell’uomo
con Dio, che è quasi una conversazione familiare con Lui, comincia nella vita
presente mediante la grazia e si perfeziona nel futuro mediante la gloria; ed
una cosa e l’altra sono tenute dalla fede e dalla speranza » (S. 7h., II, 1, q.
65, a. 5). Sul concetto dell’amore cristiano, v. AMORE. Nel linguaggio comune
la parola è talvolta adoperata invece di beneficenza, cioè per significare
l’atteggiamento di chi vuole il bene degli altri e si comporta verso di essi
generosamente. Ma anche il linguaggio comune conosce e adopera il retto
significato del termine, come quando si dice che «Occorre un po’ di C.» a chi
giudica troppo severamente del suo prossimo: nel qual caso ovviamente C.
significa amore o comprensione (v. AMORE). CARNE (gr. odpt; lat. Caro; ingl.
Flesh; franc. Chair; ted. Fleisch). Nella terminologia del Nuovo Testamento, e
specialmente di S. Paolo, è qualcosa di differente dal corpo. La C. o carnalità
è infatti l’avversione o la resistenza alla legge di Dio, perciò il peccato o
l’orientamento verso il peccato (per es., S. PaoLO, Ad Rom., VII, 14; VIII, 3,
8, ecc. Cfr. BULTMANN, Theologie des N. T., 1948, pag. 223). Lo stesso senso il
termine ha conservato nel linguaggio comune e nella predicazione moralistica.
In un senso diverso ha usato il termine Merleau-Ponty (Le visible et
l’invisible, 1964), parlando della «+ C. del mondo» come della sostanza viva
che è comune al corpo dell’uomo e alle cose del mondo e costituisce insieme
l’oggetto e il soggetto delle esperienze umane. CARTESIANESIMO. L'insieme dei
capisaldi che sonata e c’è una C. cristiana contro la quale, da Pascal in poi
(Lettere Provinciali, 1657) è stato spesso rivolta l’accusa di moralità
rilassata o accomodante. L’esigenza di una C. morale fu affacciata da Kant che
così chiarì il concetto di essa: « L'etica, per il largo margine che concede ai
doveri imperfetti, conduce inevitabilmente a questioni che spingono il giudizio
a decidere come la massima debba essere applicata nei casi particolari o quale
massima particolare (subordinata) fornisca a sua volta (in questo modo possiamo
sempre chiedere quale sia il principio di applicazione di queste massime secondo
i casi che si presentano); e così l’etica sbocca in una C.». La C. non è nè una
scienza nè parte di scienza, perchè in tal caso sarebbe dogmat5) riportava
l’opinione secondo la quale la fortuna sarebbe una causa superiore e divina,
nascosta all’intelligenza umana. Ad errore o a illusione equiparavano il C. gli
Stoici che ritenevano che tutto accadesse nel mondo per un'assoluta necessità
razionale (P/ac. philos., I, 29). È chiaro che chi ammette una necessità di
questo genere, e dovuta, o (come gli Stoici ritenevano) alla divinità immanente
nel cosmo, o all’ordine meccanico dell’universo, non può ammettere la realtà
degli eventi che si sogliono chiamare accidentali o fortuiti e tanto meno del
caso come principio o categoria di tali eventi; e deve vedere in essi l’azione
necessaria della causa riconosciuta in atto nell’universo, negando come
illusione o errore il loro carattere casuale. È ia contemporanea, Bergson ha
spiegato il C. con lo scambio, puramente soggettivo, tra l’ordine meccanico e
l’ordine vitale o spirituale: « Che il gioco meccanico delle cause che
arrestano la roulette sul numero mi faccia vincere e perciò agisca come avrebbe
fatto un genio benefico cui stessero a cuore i miei interessi; o che la forza
meccanica del vento strappi dal tetto una tegola e me la lanci sulla testa,
cioè agisca come avrebbe fatto un genio malefico che cospirasse contro la mia
persona, in tutti e due i C. io trovo un meccanismo là dove avrei cercato o
dove avrei dovuto incontrare, a quanto sembra, un’intenzione: è questo che si
esprime parlando del C. » (Évol. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 254). 2°
Dall'altro lato, secondo l’interpretazione oggettivistica, il C. non è un
fenomeno soggettivo ma oggettivo e precisamente consiste nell’intersecarsi di
due o più ordini o serie diverse di cause. La più antica delle interpretazioni
del genere è quella di Aristotele. Aristotele comincia col notare che il C. non
si verifica nè nelle cose che accadono sempre allo stesso modo nè in quelle che
accadono per lo più nello stesso modo, ma piuttosto tra quelle che avvengono
per eccezione e fuori di ogni uniformità (Fis., II, 5, 196b 10 e sgg.). In tal
modo egli correttamente assegna il C. alla sfera dell'imprevedibile, cioè di
ciò che accade fuori del necessario (« ciò che accade sempre allo stesso modo
») e dell’uniforme («ciò che accade per lo più allo stesso modo +1). Stando a
ciò, il C. (o la fortuna) è definito da Aristotele come «una causa accidentale
nell’àmbito di quelle cose che non accadono nè in modo assolutamente uniforme
nè frequentemente e che potrebbero accadere in vista di un fine + (/b., 197 a
32). La determinazione del fine è, per Aristotele, essenziale giacchè il C. ha
almeno l’aspetto o l'apparenza della finalità: come nell’esempio di chi si reca
al mercato per tutt’altro motivo e lì incontra un debitore che gli restituisce
la somma dovuta. In quest’esempio si chiama C. (o fortuna) l’evento della
restituzione dovuto ad un incontro che non è stato deliberato o voluto come un
fine, ma che avrebbe potuto essere un fine: mentre in realtà è stato l’effetto
accidentale di cause che agivano in vista di altri fini. La nozione di un
incontro, di un intreccio di serie causali per la spiegazione del C., è stata
ripresa nell'età moderna per opera di filosofi, matematici, economisti, che
hanno riconosciuta l’importanza della nozione di probabilità (v.) per
l’interpretazione della realtà in generale. Così Cournot definì il C. come il
carattere di un avvenimento « dovuto alla combinazione o all’incontro di
fenomeni indipendenti nell'ordine della causalità » (Théorie des chances et des
probabilités, 1843, cap. II) nozione che divenne prevalente nel positivismo,
anche perchè fu accettata da Stuart Mill (Logic, II, 17, $ 2): «Un evento che
avvenga per C. può essere meglio descritto come una coincidenza dalla quale non
abbiamo motivo per inferire un’uniformità... Possiamo dire che due o più
fenomeni sono congiunti al C. o che coesistono o si succedono per C., nel senso
che essi non sono in nessun modo connessi dalla causazione; che non sono nè la
causa o l’effetto l’uno dell’altro nè effetti della stessa causa o di cause tra
le quali sussista una legge di coincidenza nè effetti della stessa collocazione
di cause primarie ». In modo simile Ardigò (Opere, III, pag. 122) riconduceva
il C. alla pluralità e all’intreccio di serie causali distinte. Questa nozione
tuttavia è oggettiva solo in certi limiti o per meglio dire solo in apparenza.
Che il C. consista nell’incontro di due serie causali diverse significa che
esso è un avvenimento causalmente determinato come tutti gli altri ma solo più
difficile a prevedersi appunto perchè il suo accadere non dipende dal corso di
un’unica serie causale. Secondo questa nozione la determi. nazione casuale del
C., è più complessa ma non meno necessitante; e l’imprevedibilità che è la
caratteristica fondamentale del C. è dovuta soltanto a tale complessità e non è
di natura oggettiva. Affinchè CATARSI 113 sia di natura oggettiva, tale
imprevedibilità dev’essere infatti dovuta ad un’indeterminazione effettiva
inerente al funzionamento della causalità stessa. 3° Questa ultima alternativa
costituisce un terzo concetto del C., un concetto che si può far risalire a
Hume. Sembra che Hume voglia ridurre il caso a un fenomeno puramente soggettivo
perchè dice: «Per quanto non vi sia al mondo qualche cosa come il C., tuttavia
la nostra ignoranza della causa reale di ogni avvenimento ha la stessa
influenza sopra l'intelletto e genera una simile sorta di credenza o di
opinione ». Ma in realtà se non esiste il «C.» come nozione o categoria a sè,
non esiste neppure la «causa» nel senso necessario e assoluto del termine; ma
esiste soltanto la « probabilità ». E sulla probabilità è fondato quello che
chiamiamo C.: «Sembra evidente che, quando la mente cerca di prevedere per
scoprire l’evento che può risultare dal gettare quel dado, si considera
l’apparire di ciascun singolo lato come egualmente probabile; e questa è la
vera natura del C., di eguagliare interamente tutti i singoli eventi che
comprende » (Ing. Conc. Underst., VI). È questa di Hume un’idea che nella
filosofia contemporanea doveva rivelarsi estremamente feconda. Che il C.
consista nell’equipollenza di probabilità che non lasciano adito ad una
previsione positiva in un senso o nell’altro è un concetto su cui ha insistito
Peirce, il quale ne ha visto anche l’implicazione filosofica fondamentale:
l’eliminazione del « necessitarismo », cioè della dottrina che tutto nel mondo
avviene per necessità (Chance, Love and Logic, Il, 2; Coll. Pap., 6. 47 e
sgg.). Da questo punto di vista il C. diventa un esempio particolare del
giudizio di probabilità e precisamente quello nel quale la probabilità stessa
non ha sufficiente rilevanza ai fini della prevedibilità di un evento. In tal
senso il C. è stato considerato come una specie di entropia (v.) e il relativo
concetto è comunemente adoperato nel campo della teoria dell’informazione e
della cibernetica (v.). CASUALISMO (ingl. Casualism; franc. Casualisme). La
dottrina che il caso non è soltanto l’espressione dell’ignoranza umana a
proposito delle cause di certi eventi, ma una condizione o situazione oggettiva
di indeterminazione nelle cose stesse. Peirce chiamò questa dottrina tichismo
(Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6. 47 sgg.) da toxn che in realtà
significa fortuna. Un C. radicale è sostenuto da Wittgenstein. « Fuori della
logica tutto è caso », egli dice (Tracr. Logico-Philos., 6. 3). E si deve
ricordare che la logica ha a che fare soltanto con tautologie (v.) le quali non
significano nulla. CATALETTICA, RAPPRESENTAZIONE (gr. pavragia xataAnitixh;
lat. Fantasia comprehensiva; ted. Kataleptische Vorstellung). Il criterio della
verità, secondo gli Stoici. Essi chia8 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia.
marono C., cioè comprensiva, la rappresentazione evidente o che rende evidente
l’oggetto che la produce. Secondo una testimonianza di Cicerone (Acad., II,
144) Zenone poneva il significato della rappresentazione C. nella sua capacità
di afferrare o comprendere l’oggetto: perciò paragonava la mano aperta alla
rappresentazione pura e semplice, la mano che fa l’atto di afferrare
all’assenso; la mano stretta a pugno alla comprensione C.; e le due mani
strette l’una sull'altra alla scienza. Secondo Diogene Laerzio (VII, 46) e
Sesto Empirico (Adv. Math., VII, 248) la rappresentazione C. è invece quella
che viene da un reale sussC. come « quella discriminazione che conserva il
meglio e rigetta il peggio» (Sof., 226 d). Egli inoltre ricorda l’esistenza di
libri di Museo e Orfeo secondo i quali « gli adepti celebrano sacrifici
persuadendo non solo privati ma anche città che ci sono assoluzioni e
purificazioni dagli atti ingiusti per via di sacrifici e di giochi piacevoli,
sia per i vivi che per i morti ». Empedocle chiamò Purificazioni (x49xpuor) uno
dei suoi poemi che per l’appunto s’ispirava all’orfismo. In Platone il termine
ha una portata morale e metafisica. Esso designa in primo luogo la liberazione
dai piaceri (Fed., 67 a, 69c); in secondo luogo la liberazione dell'anima dal
corpo come un separarsi e ritirarsi dell’anima dalle operazioni corporee e
realizzazione, già nella vita, di quella separazione totale che è la morte
(/bid., 67 c). E su quest’ultimo punto insisterà Plotino secondo il quale la
virtù purifica l’anima dai desideri e da tutte le altre emozioni nel senso che
separa l’anima dal corpo e fa in modo che l’anima si raccolga in se stessa e
divenga impassibile (Enz., I, 2, 5). Aristotele adoperò ampiamente il termine
nel suo significato medico negli scritti di storia naturale come purificazione
o purga. Ma per primo lo estese a designare anche un fenomeno estetico, cioè
quella specie di liberazione o di rasserenamento che l’uomo subisce ad opera
della poesia e in par114 ticolare del dramma e della musica. « La tragedia,
egli disse, è imitazione di azione di carattere elevato e completa, di una
certa estensione, in linguaggio abbellito e che ha diverse specie di
abbellimenti distribuite nelle varie parti di essa, imitazione compiuta da
attori e non in forma narrativa e che suscitando il terrore e la pietà perviene
alla purificazione da tali affezioni» (Poet., 1449 b, 24 sgg.). Abbastanza
curiosamente Aristotele, che esamina uno per uno tutti gli elementi della
tragedia, non si ferma invece a spiegare che cos'è la C.: il che vuol dire che
egli adopera qui la parola nel senso generale corrente di rasserenamento e di
calma per quanto non di assenza totale delle emozioni: senso che trova
riscontro in ciò che dice nella Politica a proposito della musica. Qui egli
osserva che quando alcuni, che sono fortemente scossi da emozioni come pietà, paura,
entusiasmo, odono canti sacri che impressionano l’anima «si trovano nelle
condizioni di chi è stato risanato o purificato ». Anche tutte le altre
emozioni possono subire una « purificazione e un piacevole alleggerimento ». E
«le musiche particolarmente adatte a produrre purificazione dànno agli uomini
un’innocente gioia » (Po/., VIII, 7, 1342 a 17). Delle molte interpretazioni
che sono state date della C. estetica la prevalente è stata quella di Goethe
(Nachlese zu Aristot. Poetik, 1826) secondo la quale essa consisterebbe
nell’equilibrio delle emozioni che l’arte tragica induce nello spettatore dopo
averne eccitate le emozioni stesse e perciò nel senso di serenità e di
pacificazione che essa procura. Se pure qualche cosa di simile c’è in
Aristotele, bisogna tuttavia osservare che per lui il significato della C.
estetica non è diversa da quella della C. medica o morale: una specie di cura
delle affezioni (corporee © spirituali) che non le abolisce ma le porta alla
misura in cui esse sono compatibili con la ragione. Nella cultura moderna il
termine C. è stato adoperato quasi esclusivamente nel suo riferimento alla
funzione liberatrice dell’arte. Freud ha talvolta chiamato C. il processo di
sublimazione della /ibido (v. AMORE) per il quale la libido si distacca dal suo
contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli oggetti che vi si
connettono, per concentrarsi su altri oggetti che saranno amati di per se
stessi. A questo processo di C. (di « sublimazione +) sono dovuti, secondo
Freud, tutti i progressi della vita sociale, l’arte, la scienza e la civiltà in
generale, almeno nella misura in cui dipendono da fattori psichici (v.
PSICANALISI). CATASILLOGISMO (lat. Catasyllogismus). Controdimostrazione. Il
termine è adoperato da Giovanni di Salisbury (Meralogicus, IV, 5) in
riferimento al verbo controdimostrare adoperato da Aristotele (An. Pr., II, 19,
66 a 25). CATASILLOGISMO CATASTROPE (ingl. Catastrophe; franc. Catastrophe;
ted. Katastrophe). Ricorre a questa nozione ogni teoria che cerchi di spiegare
lo sviluppo di una realtà qualsiasi mediante rivolgimenti radicali e totali che
avverrebbero periodicamente. Così Cuvier (Discours sur les révolutions du
globe, 1812) spiegava l’estinzione delle specie animali fossili mediaesa dai
primi cristiani) ma basta che essa valga come un « mito ». Cfr. ATTIVISMO;
MITO. CATECHISMO (ingl. Catechism; franc. Catéchisme; ted. Katechismus). Kant
distinse il metodo dell’interrogatorio (o erotematico) in metodo catechetico
per il quale ci si rivolge soltanto alla memoria di chi viene interrogato e in
metodo dialogico o socratico col quale ci si rivolge a ciò che è contenuto
nella ragione dell’interrogato ed è perciò suscettibile di essere reso
esplicito o sviluppato (Mer. der Sitten, II, Intr., $ 18 nota). Egli ritenne tuttavia
indispensabile un C. morale che avrebbe dovuto precedere il C. religioso ed
essere indipendente da esso (/bid., $ 51). Il positivismo ottocentesco mostrò
una certa predilezione per C. filosofici o filosofico-politici. Ne compilò uno
il St.-Simon (C. degli industriali, 1823-24) e uno famoso Augusto Comte (C.
positivista, 1852). Ciò avvenne perchè il positivismo si presentò spesso come
una religione « scientifica » che avrebbe dovuto soppiantare la religione
tradizionale. CATEGOREMATICO (lat. Categoremata; ingl. Categorematic; franc.
Catégorematique; tedesco Kategorematisch). Nella grammatica e nella logica
medievale sono dette così le parti del discorso di per se stesse significanti,
come il soggetto o il predicato, mentre sono dette sincategorematiche (v.) le
altre. L'espressione deriva probabilmente dalla distinzione, fatta dagli
Stoici, tra « discorso perfetto» che è quello di senso compiuto (per es., «
Socrate scrive +) e discorso imperfetto che manca di qualche cosa (per es., «
Scrive» che fa nascer la domanda «Chi?+) (Diog. L., VII, 63). Nella forma che
poi divenne un luogo comune nella CATEGORIA logica medievale, la distinzione si
può vedere per la prima volta nel trattato anonimo del sec. x1I, De generibus
et speciebus, edito da Cousin ((Euvres inédites d’Abélard, pag. 531). Essa è
poi costantemente ripetuta nella logica posteriore (cfr. Pietro Ispano, Summ.
Log., 1.05). CATEGORIA (gr. xamyopla; lat. Praedicamentum; ingl. Category;
franc. Catégorie; ted. Kategorie). In generale, qualsiasi nozione che serva
come regola per l’indagine o per la sua espressione linguistica, in un campo
qualsiasi. Storicamente, il primo significato attribuito alle C. è realistico:
esse sono considerate come determinazioni della realtà e in secondo luogo come
nozioni che servono a indagare e a comprendere la realtà stessa. Così le intese
Platone che le chiamò « generi sommi» ed enumerò cinque di tali generi, cioè
l’essere, il movimento, la quiete, l’identità e l’alterità (Sof., 254
seguenti). Come alcuni di questi generi si legano assieme tra loro ed altri no,
così le parti del discorso, cioè le parole, si legano assieme e quando tale
mescolanza corrisponde a quella reale il discorso è vero, altrimenti è falso
(/bid., 263 seguenti). Questa corrispondenza tra la realtà e il discorso, per
il tramite delle determinazioni categoriali, è anche la base della teoria di
Aristotele. Questi, tuttavia, parte da un punto di vista linguistico: le e
qualche volta il luogo dove sta o il tempo, ne segue che tutti questi sono modi
dell’essere » (Met., V, 7, 1017a 23 sgg.). Questo concetto di C. come di
determinazione appartenente all’essere stesso e di cui il pensiero debba
servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in parole, è durata lungamente; e per
molto tempo le scuole filosofiche o i filosofi furono dissenzienti solo
rispetto al numero e alla distinzione delle categorie. Così gli Stoici le
ridussero a quattro: la sostanza, la qualità, il modo d’essere e la relazione
(StmpL., /n car., f. 16 d). Plotino ritornò ai cinque generi sommi platonici
(Enn., VI, 1, 25). Nel Medicevo, la sola alternativa alla dottrina del
fondamento reale delle C. è il carattere puramente verbale di esse, sostenuto
dal nominalismo. Ockham, afferma recisamente che le C. non sono che segni delle
cose, segni semplici dai quali possono essere costituiti « complessi » sia veri
che falsi (De corpore Christi, 35; In Sent., I, d. 30, q. 2, I). Pertanto la
loro distinzione non implica una pari distinzione tra gli oggetti reali giacchè
non sempre a concetti o a parole distinti corrispondono cose distinte. Le C. di
sostanza, qualità e quantità, per quanto distinte come concetti, significano la
medesima cosa (Quodi., V, q. 23). Questa negazione radicale della realtà delle
C., dipende dalla negazione totale che il nominalismo medievale faceva di ogni
realtà universale. Questo punto di vista equivale a considerare le C. come
semplici nomi che si riferiscono a classi di oggetti. La dottrina di Kant non
ha niente a che fare con questo nominalismo per quanto si sottragga ugualmente al
realismo della concezione classica. Le C. sono per Kant i modi in cui si
manifesta l’attività dell’intelletto, la quale consiste essenzialmente «
nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune »,
cioè nel giudicare. Esse pertanto sono le forme del giudizio, cioè le forme in
cui il giudizio si esplica indipendentemente dal suo contenuto empirico. Per
questo le C. possono essere ricavate dalle classi del giudizio enumerate dalla
logica formale. «In tal modo, dice Kant, sorgono precisamente tanti concetti
puri dell’intelletto, che si applicano a priori agli oggetti dell’intuizione in
generale, quante funzioni lualità, divenire, forza, finalità, personalità) come
determinazioni e specificazioni di essa (Essai de critique générale, I, 1854,
pag. 86 sgg.), E Cohen ha considerato come C. fondamentale quella del sistema,
perchè l’unità dell’oggetto, su cui si fonda l’unità della natura, è un'unità
sistematica (Logik, pag. 339). Ma per quanto non ci sia stato filosofo
d’ispirazione kantiana che non abbia voluto dare la sua tavola delle C., il
concetto kantiano della C. è rimasto immutato per tutta la parte della
filosofia moderna che trae la sua ispirazione da Kant. Tuttavia tale concetto
non è il solo nella filosofia moderna e contemporanea. Quello tradizionale di
C. come «determinazione dell'essere» è stato ripreso dall’idealismo romantico e
in particolare da Hegel. Questi considera le C. come « determinazioni del
pensiero » e fa merito a Fichte di aver affermato l’esigenza della loro « deduzione»
cioè della dimostrazione della loro necessità (Enc., $ 43). Ma in realtà per
Hegel le determinazioni del pensiero sono, nel contempo, le determinazioni
della realtà (per l’identità da lui posta di realtà e ragione); e abitualmente
egli chiama « momenti » più che C., queste determinazioni. L'unica C. che egli
riconosca veramente come tale è la stessa Realtà-pensiero, cioè
l’Autocoscienza, l’Io o la Ragione. Nella Fenomenologia (I, cap. V, $ 2) egli
dice: «L’Io è la sola pura essenzialità dell’ente o la C. semplice. La C., che
altrimenti aveva il significato di essere essenzialità dell’ente, essenzialità
indeterminatamente dell’ente in generale o dell’ente di contro alla coscienza,
è ora essenzialità o semplice unità dell'ente in quanto questo è soltanto
realtà pensante: ossia la C. consiste in ciò che autocoscienza ed essere sono
la medesima essenza ». Il che vuol CATEGORIA dire che la C. dev'essere
considerata non come una determinazione dell’essere in generale, ma come la
coscienza, e quindi la realtà stessa. Questa teoria dell'Io o della Coscienza o
dello Spirito come dell'unica C. è rimasta poi un luogo comune di tutte le
forme dell’idealismo romantico. Simmetrica e opposta a quella di Hegel è la
dottrina di Heidegger, per il quale la C. è la determinazione, non
dell’autocoscienza o dell’Io, ma dell'essere delle cose. Heidegger distingue
infatti gggetti dell’intenzionalità della coscienza. 3° In qualche altra
corrente della filosofia contemporanea, per es., nell’empirismo logico, le C.
vengono invece considerate come le regole convenzionali che presiedono all’uso
dei concetti. Così fa, per es., Ryle che chiama «tipo o categoria logica di un
concetto l’insieme dei modi in cui, per convenzione, è lecito servirsi del
termine rispettivo » (Concept of Mind, Intr.; trad. ital., pag. 4). Questa è
certamente la nozione meno dogmatica e più generale di C., che la filosofia
abbia finora prospettato: contiene tuttavia ancora un certo dogmatismo, perchè
limita le C. a quelle già stabilite dall’uso linguistico comune, negando
implicitamente la validità di ogni nuova proposta. Eppure scienziati e fsi
parla di «errore C.» per indicare lo scambio di una categoria con un’altra (per
es., RyLE, Concept of Mind, I, $ 2) CATEGORICO (gr. xatnyopix6g; ingl.
Categorical; franc. Catéporique; ted. Kategorisch). In generale, una
proposizione o un ragionamento non limitato da condizioni. Si cominciò a
chiamare C. il sillogismo aristotelico (SESTO E., /pot. Pirr., II, 163) dopo
che gli Stoici ebbero elaborato la teoria del ragionamento ipotetico (v.
ANAPODITTICO). Molto probabilmente gli Stoici consideravano assorbita la 117
teoria aristotelica del sillogismo dalla loro teoria dei ragionamenti
ipotetici, come consideravano assorbita nella loro teoria degli assiomi o
proposizioni la teoria aristotelica dell’inzerpretazione (v.). Ma la logica
posteriore (specialmente gli Aristotelici) semplicemente aggiunse le
determinazioni stoiche a quelle aristoteliche, parlando così di una
proposizione C. e di una proposizione ipotetica, di sillogismo C. e di
sillogismo ipotetico. Questa terminologia fu introdotta da Marciano Capella (De
nuptiis, $ 404 seguenti) e da Boezio nella tradizione latina. Dice Boezio: «I
Greci chiamano proposizioni C. quelle che sono pronunziate senza alcuna
condizione mentre sono condizionali quelle del tipo ‘se è giorno, c’è luce’,
che i Greci chiamano ipotetiche ». Corrispondentemente il sillogismo C. o «
predicativo » è quello che è formato da proposizioni C., mentre quello che
consta di proposizioni ipotetiche, si dice ipotetico cioè condizionale (De
syll. hypot., I, in P. L. 64, col. 833). Questa terminologia si è conservata
lungo tutta la tradizione logica dell’occidente e fu accettata da Kant (Crit.
R. Pura, Analitica dei concetti, $ 9). Kant ha a sua volta esteso la distinzione
stessa applicandola agli imperativi, cioè alle massime della volontà. Egli ha
chiamato C. l’imperativo della moralità, che non è sottoposta ad alcuna
condizione e ha quindi una « necessità incondizionata veramente oggettiva » e
che per conseguenza vale per tutti gli esseri ragionevoli quali che siano i
loro desideri (Grundlegung zur Met. der Sitten, 11) (v. IMPERATIVO).
CATENOTEISMO (ingl. Kathenotheism). Termine inventato dallo storico delle
religioni Max Miller per indicare la dottrina che c’è un solo Dio per volta,
cioè il monoteismo dei Veda secondo i quali un Dio solo per volta governa il
mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno. CAUSA ESEMPLARE.
L’idea in Dio delle cose che intende creare (v. IDEA). CAUSALITAÀ (gr. altia,
altiov; lat. Causa; ingl. Causality; franc. Causalité; ted. Causalitàt). Nel
suo significato più generale, la connessione tra due cose, in virtù della quale
la seconda è univocamente prevedibile a partire dalla prima. Storicamente
questa nozione ha assunto due forme fondamentali: 1° la forma di una
connessione razionale, per la quale la causa è la ragione del suo effetto, che
è perciò deducibile da essa. In questa concezione l’azione della causa viene
spesso descritta come quella di una forza che genera o produce immancabilmente
l’effetto; 2° la forma di una connessione empirica o temporale, per la quale
l’effetto non è deducibile dalla causa, ma è tuttavia prevedibile in base ad
essa per la costanza e uniformità del rapporto di successione. Questa
concezione elimina dal rapporto causale l’idea di forza. Ad entrambe queste
forme è comune la nozione della prevedibilità univoca cioè infallibile
dell’effetto, a partire dalla causa, e perciò pure la nozione della necessità
del rapporto causale. 1° La prima forma della nozione di causa può dirsi che
cominci con Platone, il quale considera la causa come il principio per il quale
una cosa è, o diventa, ciò che è. In tal senso egli afferma che la vera causa
di una cosa .è ciò che per la cosa è «il meglio», cioè l’idea o lo stato
perfetto della cosa stessa e, per es., la causa del due è la dualità, di ciò
che è grande la grandezza, di ciò che è bello la bellezza; e in generale il
bene è causa di ciò che c’è di bene nelle cose e delle cose stesse (Fed., 97c
sgg., spec. 101c). Accanto a queste cause «prime » o « divine » Platone ammise
poi le concause che sono le limitazioni che l’opera creativa del demiurgo
incontra e costituiscono gli elementi di necessità del mondo stesso (Tim., 69
a). Ma la prima vera analisi della nozione di causa si trova in Aristotele. Per
primo Aristotele afferma (Fis., I, 1, 184 a 10) che conoscenza e scienza
consistono nel rendersi conto delle cause e non sono nulla fuori di questo. Ma
nello stesso tempo egli nota che, se chiedere la causa significa chiedere il
perchè di una cosa, questo perchè può essere diverso e ci sono quindi varie
specie di cause. In un primo senso, è causa ciò di cui una cosa è fatta e che
rimane nella cosa, per es., il bronzo è causa della statua e l’argento della
coppa. In un secondo senso, la causa è la forma o il modello, cioè l’essenza
necessaria o sostanza, (v.) di una cosa. In questo senso è causa dell’uomo la
natura razionale che lo definisce. In un terzo senso, è causa ciò che dà inizio
al mutamento o alla quiete: e, per es., l’autore di una decisione è la causa di
essa, il padre è causa del figlio e in generale ciò che produce il mutamento è
causa del mutamento. In un quarto senso, la causa è il fine e, per es., la
salute è la causa per cui si passeggia (/bid., II, 3, 194b 16; Met.,, V, 2,
1013 ione di un effetto, come nel caso di due buoi che tirano l’aratro. La
cooperante è infine la causa che arreca una piccola forza in virtù della quale
l’effetto si produce con facilità: come quando a due che portano con fatica un
peso si aggiunge un terzo che aiuta a sostenerlo. Ma la causa per eccellenza è,
per gli Stoici, quella sinettica, e in questo senso Dio è causa e costituisce
il principio attivo del mondo (Diog. L., VII, 134; SENECA, Ep., 65, 2).
CAUSALITÀ La filosofia medievale poco o nulla ha innovato al concetto della
struttura causale (perchè sostanziale) del mondo. Il suo contributo maggiore è
l’elaborazione del concetto di causa prima in un senso diverso da quella
aristotelica, cioè non come tipo di causa fondamentale ma come primo anello
ddel Joro naturalismo. Così Pomponazzi intende riportare anche gli eventi più
straordinari e miracolosi all’ordine necessario della natura; e si avvale, per
farlo, del determinismo astrologico degli Arabi (De incantationibus, 10). La
nozione di un ordine causale del mondo (qualche volta ricondotto a Dio come a
prima causa), secondo il concetto neo-platonico e medievale, forma anche il
presupposto e lo sfondo del primo organizzarsi della scienza con Copernico,
Keplero e Galilei. Questo sfondo viene espresso in termini meccanistici da
Hobbes e in termini teologici da Spinoza, ma rimane lo stesso. Hobbes ritiene
che il rapporto causale si riduce all’azione di un corpo sull’altro e che
perciò la causa sia ciò che genera o distrugge un certo stato di cose in un
corpo (De corp., IX, 1). La causa perfetta, cioè da cui l’effetto
infallibilmente segue è l’aggregato di tutti «gli accidenti attivi» quanti
sono: con essa l’effetto è già dato (Ibid., IX, 3). La concatenazione dei
movimenti costituisce l’ordinamento causale del mondo. Dal suo canto Spinoza,
come vede in Dio la sola sostanza, così vede in lui la sola causa; dalla quale
tutte le cose e gli eventi del mondo (i « modi» della Sostanza) derivano con
necessità geometrica (Er., I, 29). La necessità causale che per Hobbes è una
concatenazione dei movimenti, per Spinoza è una concatenazione di ragioni, cioè
di verità che costituiscono una catena ininterrotta. D'altronde il carattere
meccanico della C. non diminuisce, agli occhi di Hobbes, la natura razionale di
essa: chè anzi Hobbes vede nel meccanismo la sola spiegazione razionale del
mondo, nel corpo e nel movimento i due soli princìpi di spiegazione, e non
riconosce altre realtà fuori di essi. Ciò accade perchè in Hobbes, come in
Spinoza, prevale l’identificazione accettata da Cartesio di causa con ragione.
La causa è ciò che dà ragione dell’effetto, ne dimostra o giustifica
l’esistenza o le determinazioni. Così Cartesio la concepisce quando, definendo
analitico il metodo da lui adoperato, afferma che esso «fa vedere come gli
effetti dipendano dalle cause » (Secondes Réponses). Il che vuol dire che la
causa è ciò che consente di dedurre l’effetto. Che spiegare mediante la causa
significhi « dar ragione » di ciò che esiste, è il significato di chiamava
principio del determinismo assoluto. « Il principio assoluto delle scienze
sperimentali, egli diceva (Introduction, I, 2, 7) è un determinismo necessario
e cosciente nelle condizioni dei fenomeni. Se un fenomeno naturale, quale che
sia, è dato, mai uno sperimentatore potrà ammettere che vi sia una variazione
nell’espressione di quel fenomeno, senza che nello stesso tempo siano
sopravvenute condizioni nuove nella sua manifestazione: in più egli ha la
certezza 4 priori che queste variazioni sono determinate da rapporti rigorosi e
matematici. L'esperienza ci mostra soltanto la forma dei fenomeni; ma il
rapporto di un effetto con una causa determinata è necessario e indipendente
dall’esperienza, e forzatamente matematico e assoluto ». Ma nonostante queste
affermazioni così recise di uno dei maggiori scienziati e metodologi della
scienza dell’800, la scienza stessa seguì un altro corso, rispetto
all’elaborazione e all’uso della nozione di causalità. I progressi del calcolo
delle probabilità, alcune teorie fisiche (specialmente la teoria cinetica dei
gas), poi la meccanica quantistica, fecero un posto sempre maggiore alla
nozione di probabilità e da ultimo, appunto la meccanica quantistica tende a
sostituire l’uso di questa nozione a quella di C. che pareva indispensabile
agli scienziati e ai metodologi dell’800. Si può dire che l’ultima
manifestazione filosofica della teoria classica della C. è la dottrina di
Nicolai Hartmann che, pur considerando la realtà divisa in piani negandolo alle
cose, osservò che l’unico legame accertabile tra le cose è una certa
connessione temporale e che, per es., diciamo che la combustione è causata dal
fuoco unicamente perchè sopravviene insieme col fuoco (AVERROÈ, Destructio
destructionum, I, dub. 3). Con altri inCAUSALITÀ 121 tenti Ockham nel xiv
secolo anticipava la critica di Hume affermando che la conoscenza di una cosa
non porta con sè a nessun titolo la conoscenza di una cosa diversa sicchè « una
proposizione come “il calore riscalda’ in nessun modo si può dimostrare per
sillogismo, ma la conoscenza di essa si può ottenere solo per esperienza;
giacchè se non si esperimenta che alla presenza del calore segue il calore in
un’altra cosa, non si può sapere che il calore produce calore più di quanto si
sappia che la bianchezza produce bianchezza » (Summa Log., III, 2, 38). Qui è
anticipato chiaramente il punto fondamentale della critica di Hume, cioè
l’indeducibilità dell’effetto dalla causa. Hume comincia infatti col negare
proprio che ci sia tra causa ed effetto un tale rapporto. « Noi ci illudiamo,
dice Hume, che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo
sùbito dedurre che una palla di biliardo può comunicare il movimento ad
un’altra ». Ma in realtà «anche supponendo che mi nasca per caso il pensiero
del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei
concepire la possibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es., che
entrambe le palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse indietro
diritta o scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste
supposizioni sono coerenti e concepibili; e quella che l’esperienza dimostra
vera non è più coerente e concepibile delle altre». La conclusione è che «
tutti i nostri ragionamenti @ priori non potranno mostrare alcun diritto a
questa preferenza a; e che «invano pretenderemmo di predire qualche singolo
avvenimento, o inferire qualche causa o effetto, senza l’aiuto
dell’osservazione e dell’esperienza » (/ng. Conc. Underst., IV, 1).
L’osservazione e l’esperienza, tuttavia, con la ripetizione di certi
avvenimenti simili, cioè con le uniformità che rivelano, fanno nascere
l’abitudine a credere che tali uniformità si verificheranno anche nel futuro e
rendono pertanto possibile la previsione su cui è fondata la vita quotidiana.
Ma questa previsione, secondo Hume, non è giustificata da nulla. Anche dopo che
l’esperienza è stata fatta, la connessione tra causa ed effetto rimane
arbitraria (giacchè causa ed effetto rimangono due avvenimenti distinti) sicchè
rimane arbitraria la previsione fondata su quella connessione. «Il pane che
prima mangiavo mi nutriva; cioè un corpo con certe qualità sensibili era dotato
di segrete forze in quel tempo; ma ne segue che un altro pane debba nutrirmi
pure in un altro tempo e che qualità sensibili simili debbano essere sempre
accompagnate da eguali forze segrete? La conseguenza non sembra affatto
necessaria » (/bid., IV, 2). La conclusione di Hume è che il rapporto causale è
ingiustificabile e che la credenza in esso si può spiegare solo con l’istinto,
cioè col bisogno di vivere che la richiede. Quest’analisi di Hume ha proposto
il problema della C. nella forma che esso conserva ancora nella filosofia
contemporanea. Il criterio adoperato da Hume per dimostrare l’insufficienza
della teoria classica è quello della prevedibilità. Il rapporto causale deve
rendere prevedibile l’effetto; ma nessuna deduzione @ priori può rendere
prevedibile un effetto qualsiasi; la deduzione è perciò incapace di fondare il
rapporto causale. La ripetizione empiricamente osservabile di una connessione
tra due eventi è allora l’unico fondamento per asserire un rapporto causale e
il modo in cui essa renda possibile tale asserzione è il problemul primo punto
ci limiteremo a riportare l’opinione di Nietzsche, secondo il quale la nozione di
causa non è che la trascrizione simbolica della volontà di potenza, cioè del
sentimento interno di forza o di espansione gioiosa. « Fisiologicamente, dice
Nietzsche, l’idea di causa è il nostro sentimento di potenza, in ciò che si
chiama volontà; e l’idea dell’effetto è il pregiudizio di credere che il
sentimento di potenza sia la stessa potenza motrice. La condizione che
accompagna un evento e che è già un effetto di quest’evento, è proiettata come
‘ ragion sufficiente ’ di esso ». In realtà per Nietzsche l’intera concezione
meccanica del mondo non è che un linguaggio simbolico per esprimere « la lotta
e la vittoria di certe quantità di volontà» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 296).
Questa connessione della nozione di C. in quanto forza produttiva con l’esperienza
interna dell’uomo e cioè come trascrizione 0 concettualizzazione
antropomorfica, fu sostenuta nell’800 da numerosi filosofi per quanto fosse
stata criticata e rigettata da Hume (Ing. Conc. Underst., VII, 1). Si cercò
perciò di « purificare » la nozione di C. dai suoi riferimenti antropomorfici;
e il più importante tentativo in questo senso fu fatto da Comte. Egli ritenne
che l’idea stessa di causa quale forza produttiva o agente fosse propria di uno
stato sorpassato della scienza, cioè dello stato metafisico; e ritenne invece
propria dello stato positivo la nozione di causa come «relazione invariabile di
successione e di simiglianza tra i fatti ». Tale nozione bastava infatti,
secondo Comte, a rendere possibile il còmpito essenziale della scienza che è
quella di prevedere i fenomeni in vista di poterli utilizzare: il rapporto
costante, una volta riconosciuto e formulato in una /egge, rende possibile
prevedere un fenomeno quando si verifica quello con il quale essa è collegato;
e la previsione rende a sua volta possibile agire sui fenomeni stessi (Cours de
Phil. positive, I, cap. I, $ 2). Questo concetto della previsione come còmpito
fondamentale della scienza, che Comte derivava da Bacone ma ch’egli ha fatto
ampiamente prevalere nell’indagine moderna, doveva diventare dominante come
criterio della validità e dell'efficacia della scienza e quindi anche della
portata e del significato del principio di causalità. E la nozione di C. e
quella di previsione furono da Comte e rimasero, dopo di lui, strettamente
congiunte. Mach che parte da questa congiunzione fra le due nozioni vuole
sostituire al concetto tradizionale di causalità il concetto matematico di
funzione, cioè di « dipendenza dei fenomeni tra loro o più esattamente
dipendenza dei caratteri distintivi dei fenomeni tra loro» (Analyse der
Empfindungen, 9* ed., 1922, pag. 74). Tuttavia nè Comte nè Mach mettono in
dubbio il carattere necessitante della C. e il determinismo rigoroso che essa
comporta nel mondo dei fenomeni naturali. Conseguentemente, essi non mettono in
dubbio la prevedibilità certa e infallibile dei fatti naturali di cui siano
conosciuti i rapporti causali. Soltanto gli sviluppi della scienza
contemporanea hanno messo in dubbio queste due cose e hanno perciò provocato la
crisi definitiva della nozione di causalità. Nella seconda metà dell’800 la
formulazione matematica della teoria cinetica dei gas, dovuta a Maxwell e a
Boltzmann, servì a interpretare statiticamente il secondo principio della
termodinamica, CAUSALITÀ secondo il quale il calore passa soltanto da un corpo
a temperatura più alta ad un corpo a temperatura più bassa. La teoria cinetica
interpretava questo fatto come un caso di probabilità statistica; e per la
prima volta la nozione di probabilità, che era stata fino allora limitata nel
dominio della matematica, veniva utilizzata nel dominio della fisica. Tuttavia
la teoria cinetica dei gas non rappresentava ancora una infrazione al principio
di C. dominante in tutto il resto della fisica. Soltanto con gli sviluppi della
fisica subatomica e con la scoperta dovuta a Heisenberg del principio
d’indeterminazione (1927) il principio di C. subiva un colpo decisivo.
L’impossibilità, stabilita da tale principio, di misurare con precisione una
grandezza senza scapito della precisione nella misura di un’altra grandezza
collegata, rende impossibile predire con certezza il comportamento futuro di
una particella subatomica e autorizza soltanto previsioni probabili, fondate su
accertamenti statistici, del comportamento di tali particelle. In conseguenza
di ciò, la fisica tende oggi a considerare gli stessi rapporti di prevedibilità
nel cao-temporale degli eventi da un lato e la classica legge causale
dall’altro, rappresentano due aspetti complementari, escludentisi a vicenda,
degli avvenimenti fisici (Die physikalischen Prinzipien der Quantumtheorie, IV,
$ 3). Nel 1932 von Neumann così riassumeva lo stato della questione: «In fisica
macroscopica, non c’è alcuna esperienza che provi il principio di C., perchè
l’ordine causale apparente del mondo macroscopico non ha altra origine
all’infuori della legge dei grandi numeri e ciò del tutto indipendentemente dal
fatto che i processi elementari (che sono i veri processi fisici) seguano o
meno leggi di C.... È solo alla scala atomica, nei processi elementari, che la
questione della C. può realmente essere oggetto di discussione; ma, sola
asserzione circa la realtà, la cui validità possa essere asserita con più che
probabilità ». Questi sviluppi della scienza hanno reso inutili le discussioni
dei filosofi circa il fondamento, la portata e i limiti del principio di causa.
Questo principio non viene più adoperato, nè nella sua forma classica nè nella
sua forma moderna: il concetto del sapere o della scienza come « conoscenza
delle cause» è entrato in crisi ed è stato praticamente abbandonato dalla
scienza stessa. Una nuova terminologia si va formando, nella quale i termini di
condizione (v.) e condizionamento (v.), definibili mediante i procedimenti in
uso nelle varie discipline scientifiche, prendono il posto del venerando e
ormai inservibile concetto di causa. CAUSA STRUMENTALE (la divinità è perciò
moderno e collegato con l’orientamento panteistico; come appare chiaro dalla
osservazione di Hegel (/. c.) che C. sui è equivalente a effectus sui. CAVERNA,
IDOLI DELLA. V. Ipoti. CAVERNA, MITO DELLA. Il mito esposto da Platone nel VII
libro della Repubblica, secondo il quale, la condizione degli uomini nel mondo
è simile a quella di schiavi legati in una C. che possono scorgere solo le
ombre, proiettate sul fondo, delle cose e degli esseri che sono al di fuori. La
filosofia è, in primo luogo, l’uscita dalla C. e l’osservazione delle cose
reali e del principio della loro vita e della loro conoscibilità, cioè del Sole
(il bene [v.]); e, in secondo luogo, il ritorno alla C. e la partecipazione
alle opere e ai valori propri del mondo umano (Rep., 519 c-d). CAVILLO (lat.
Cavillatio; ingl. Cavil). Il termine fu proposto da Cicerone come traduzione
della parola greca sophisma che fu in séguito tradotta comunemente con fallacia
(v.) (De Orat., II, 54,
217; cfr. Seneca, Ep., 111; QUINTILIANO, Inst. Or., IX, 1, 15). Il termine veniva ancora ricordato in questo senso
nel sec. xvm (cfr. JUNGIUS, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 1, 16). CELANTES.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il sesto modo della prima
figura del sillogismo e precisamente quello che consiste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una
conclusione universale negativa, come nell’es.: « Nessun animale è pietra, Ogni
uomo è animale, Dunque nessuna pietra è uomo + (Pietro Ispano, Surumul. logic.,
4.08). CELARENT. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il
secondo modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che
consiste di una proposizione universale negativa, di una proposizione
universale affermativa e di una conclusione universale negativa, come, ad es.,
« Nessun animale è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra»
(Pietro IsPaNO, Summul. logic., 4.07). CERTEZZA (gr. BeBawrhg; lat. Certitudo;
inglese Certitude, Certainty; franc. Certitude; tedesco Gewissheit). La parola
ha due significati fondamentali: 1° la sicurezza soggettiva della verità di una
conoscenza; 2° la garanzia che una conoscenza offre della sua verità. La parola
ha avuto, nel suo uso store concetti di C. vengono perciò sempre chiariti
assieme e complementarmente, nella tradizione filosofica. S. Tommaso distingue
due modi di considerare la certezza. Il primo consiste nel considerare la causa
di essa e sotto questo aspetto la fede è più certa della sapienza, della
scienza e dell’intelletto perchè si fonda sulla verità divina, mentre queste
tre cose si fondano sulla ragione umana. Nel secondo modo, la C. si può
considerare dalla parte dell’oggetto (subiectum) e in questo modo è più certo
l’oggetto che più s’adatta all’intelletto umano ed è meno certa la fede (S.
7%., II, 2, q. 4, a. 8). Ovviamente, la C. considerata nella sua causa è la C.
soggettiva cioè la sicurezza soggettiva della verità della credenza mentre la
C. considererto che è costituito dall’insieme delle conoscenze apprestate da
quelli che Vico chiama «filologi», cioè dagli storici, dai critici, dai
grammatici, che si sono occupati dei costumi, delle leggi e dei linguaggi dei
popoli (/bid., degn. 10). Ma in generale l’identificazione tra C. e verità è
rimasta salda nella filosofia moderna. Kant ha chiamato C. la credenza
oggettivamente sufficiente cioè sufficientemente garantita come vera (Crir. R.
Pura, Canone della ragion pura, sez. 3). Egli ha distinto inoltre la C.
empirica, che può essere originaria, cioè connessa con la propria esperienza
storica o derivata da un’esperienza altrui; e la C. razionale che si distingue
da quella empirica per la «coscienza della necessità» e si può quindi chiamare
apodittica (Logik, Intr., $ IX). Hegel stesso ha accettato l’identificazione di
C. e di conoscenza e ha così illustrato i due aspetti, soggettivo e oggettivo,
della C. sensibile: « Nella C. sensibile, un momento è posto come ciò che
semplicemente e immediatamente è, come l’essenza: e questo è l’oggetto. L'altro
momento è posto come l’inessenziale e mediato, che non è in sè ma mediante
qualcosa d’altro: e questo è l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perchè
l’oggetto è, un sapere che può essere o anche non essere » (Phaenomen. des
Geistes, I, A, 1). Analogamente i due significati sono stati distinti e
accettati CHIAREZZA E DISTINZIONE 125 da Husserl che ha considerato il fenomeno
della C. come originario, connesso con lo stesso atteggiamento della Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il primo dei quattro modi del
sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una
conclusione universale negativa come nell’esempio: « Nessuna pietra è animale,
Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPANO, Summul.
logic., 4.11). CESARISMO (ted. Casarismus). Spengler ha così chiamato « quella
specie di governo che, malgrado tutte le forme del diritto pubblico, è ancora
totalmente sprovvisto di forma nella sua natura interna ». Esso si verifica
alla fine di certi periodi quando le istituzioni politiche fondamentali sono
morte, per quanto minuziosamente conservate nelle loro apparenze: in questi periodi
niente ha significato tranne il potere personale esercitato dal Cesare. «È il
ritorno di un mondo, che ha raggiunto la sua forma, al primitivo, a ciò che è
cosmicamente astorico » (Der Untergang des Abendlandes, ll, 4, 2, $ 14).
CHIACCHIERA (ted. Gerede). Secondo Heidegger uno dei modi d’essere dell’uomo
nella vita quotidiana ed anonima (insieme con la curiosità [v.] e l’equivoco
[v.]). La C. non è un termine dispregiativo ma indica un fenomeno positivo che
costituisce uno dei modi (l’inautentico) di comprendere il mondo e di viverci
dentro. La C. rompe il rapporto del linguaggio coi fatti. Sicchè ciò che viene
detto acquista un carattere d’autorità e si implica che «la cosa stia appunto
così come si dice » (Ste questo farsi è la chiarificazione. CHILIASMO (ingl.
Chiliasm; franc. Chiliasme; ted. Chiliasmus). C. o millenarismo si chiama ogni
credenza nell’avvento di un radicale rinnovamento del genere umano e
nell’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione. L°Apocalisse di S.
Giovanni è il maggiore documento di una credenza del genere che fu abbastanza
frequente nei primi tempi del Cristianesimo e si ripresentò spesso anche nel
Medioevo. Gioacchino da Fiore (sec. x) preconizzò l'imminente avvento di una
terza epoca della storia umana, quella dello Spirito Santo (Concordia Novi et
Veteris Testamenti, IV, 35). Kant ha parlato di un C. filosofico « che spera in
uno stato di pace perpetua, fondata in una lega delle nazioni come repubblica
mondiale » (Religion, I, 3). CI (ted. Da). Secondo Heidegger, il ci
dell’Esserci (Dasein) indica non solo il fatto che l’Esserci (= l’uomo) si
trova qua o là, cioè in qualche luogo dello spazio, ma specialmente l’apertura
dell’uomo alla spazialità, cioè al mondo in generale (Sein und Zeit, $ 28). In
altri termini «Esserci» significa essere nel mondo; e l’essere nel mondo è
caratterizzato dalla situazione emotiva e dalla comprensione (v.).
CHIARIFICAZIONE CIBERNETICA (ingl. Cybernetics). La parola significa
propriamente arte del pilota, ma è stata usata dall’americano Wiener per
designare «lo studio dei messaggi, e particolarmente dei messaggi che
effettivamente comandano, ai fini della costruzione delle macchine
calcolatrici» (C., or Control and Communication in the Animal and the Machine,
1947). In senso più generale la C. è intesa oggi come lo studio di «tutte le
possibili macchine », indipendentemente dal fatto che alcune di esse siano o
non siano state prodotte dall'uomo 0 dalla natura. E in questo senso essa offre
lo schema nel quale tutte le macchine individuali possono essere ordinate,
poste in relazione e comprese (cfr. ad es. W. Ross AsHBy, An Introduction to
C., 1957). Le macchine di cui si occupa la C. sono tuttavia gli automi (v.)
cioè quelle capaci di eseguire operazioni che, nel corso della loro esecuzione,
possono essere corrette in modo da rispondere meglio al loro scopo. Questa
correzione si chiama retroazione (feedback). Poichè essa è la caratteristica
fondamentale delle operazioni dell’uomo o di qualsiasi essere intelligente,
tali macchine sono anche dette pensanti o cervelli elettronici perchè il loro
funzionamento è affidato alle proprietà fisiche dell’elettrone. Lo schema del
loro funzionamento si può scorgere nella più semplice operazione di un essere
umano. Se, avendo visto un oggetto in una certa direzione (cioè avendone
ricevuto un messaggio visivo), stendo il braccio per afferrarlo e sbaglio la
direzione o la distanza, subito l’informazione di questo sbaglio rettifica il
movimento del mio braccio e mi consente di dirigerlo esattamente verso l’oggetto:
sia l’operazione, sia la correzione dell’operazione stessa sono in questo caso
guidati da messaggi cioè da informazioni ricevute o trasmesse dal sistema
nervoso che dirige il movimento del braccio. La teoria dell’informazione fa
perciò parte integrante della C. o comunque è strettamente collegata con essa.
Nella C. possono essere distinti gli aspetti seguenti: 1° lo schema generale
dell’informazione; 2° la misura della quantità d’informazione; 3° le condizioni
che rendono possibile l’informazione; 4° gli scopi dell’informazione. 1° Lo
schema di ogni informazione sembra costituito essenzialmente da tre elementi:
il messaggio emesso, la trasmissione, e il messaggio ricevuto. Ma in realtà le
cose sono più complicate perchè il messaggio emesso (per es., una frase
pronunciata in italiano o l’insieme di punti e linee che costituiscono un
messaggio telegrafico) è già l’espressione o la traduzione o, come anche si
dice, la messa in codice di ciò che chi lo emette (l’emittente) intende
trasmettere. Dall'altro lato, il messaggio ricevuto dev’essere compreso cioè
ritradotto o decodificato per essere registrato dal ricevente e guidarne la
condotta. Così il messaggio telegrafico trasmesso mediante combinazioni di
punti e linee dev'essere decodificato o ritradotto in parole o la frase
pronunciata in italiano deve esser compresa secondo le regole e il dizionario
della lingua italiana e non apporterà alcuna informazione a chi non conosce
l’italiano. Già in tutti questi passaggi sono possibili equivoci, errori di
emissioni, di trasmissioni, di codificazione e decodificazione nonchè disturbi
vari dovuti all’interferenza di rumori o di altri fattori meccanici. 2° Proprio
quest’ultima osservazione ha dato l’avvio alla teoria matematica
dell’informazione con un teorema proposto da C. E. Shannon nel 1948 (cfr.
SHANNON e WEAVER, The Mathematical Theory of Communications, 1949) Shannon
osservava che un messaggio inviato attraverso un canale qualsiasi subisce, nel
corso della trasmissione, deformazioni diverse, per cui al suo arrivo una parte
delle informazioni che conteneva è andata perduta. Egli stabili l'analogia tra
questa perdita e l’entropia (v.) che è la funzione matematica esprimente la
degradazione dell’energia che si verifica (in base al secondo principio della
termodinamica) in ogni trasformazione del lavoro meccanico in calore in quanto
la trasformazione inversa (del calore in lavoro meccanico) non è mai completa.
In base a questa analogia la quantità di informazione, trasmessa può essere
calcolata come entropia negativa giacchè, nella trasmissione dei messaggi, come
nella trasformazione dell’energia, l’entropia negativa decresce continuamente
perchè quella positiva (perdita d’informazione o degradazione di energia)
cresce continuamente. Sulla base di questa analogia, il calcolo delle
probabilità, di cui si avvale la termodinamica, può essere adoperato, con
opportuni accorgimenti, per determinare le formule in cui la misura della
quantità di informazione può essere espressa nei singoli casi, che variano a
seconda del numero e della frequenza dei simboli adoperati, della loro
possibilità di combinazione, dell’interferenza dei fattori di disturbo nella
trasmissione dei simboli stessi e così via. In quest’ultimo caso, si prendono
in considerazione i simboli detti ridondanti che hanno lo scopo di prevedere e
correggere gli errori della trasmissione prima che essi si producano, in modo
che il funzionamento della trasmissione sia corretto in anticipo dalla
previsione dei disturbi, col processo della retroazione. In generale si può dire
che più un messaggio è improbabile, maggiore è l’informazione che esso
trasmette. Perciò la quantità minima di informazione si ha quando
l’informazione lascia la scelta soltanto tra due possibilità ugualmente
probabili. Questa quantità minima è stata assunta come unità di misura
dell’informazione ed è stata chiamata bif (abbreviazione dell’espressione
inglese binary digit = cifra binaria). 3° Il concetto e il calcolo
dell’informazione situano l’informazione stessa nel dominio della probabilità
(v.). Questo vuol dire che l’informazione è possibile solo in un mondo che non
è nè necessariamente ordinato, nè necessariamente disordinato. In un mondo
necessariamente ordinato, tutto sarebbe infallibilmente prevedibile e
l’informazione sarebbe inutile. In un mondo necessariamente disordinato, cioè
puro frutto del caso, nessun ordine sarebbe possibile quindi nessuna
informazione trasmissibile. L’informazione trasmette infatti un ordine
determinato di simboli e la misura dell’informazione è la misura di un ordine.
Un messaggio telegrafico consiste, per es., di una certa combinazione di punti
e linee che, se comunica un’informazione, ha un ordine determinato, scelto tra
i moltissimi che sono resi possibili dall’alfabeto Morse. La misura
dell’informazione è data, come si è visto, dall’entropia negativa cioè da una
funzione che esprime la diminuzione dell’entropia che è il disordine (cioè la
distribuzione casuale) degli elementi di un sistema qualsiasi. Pertanto le
condizioni della C., cioè dell’uso teoretico e pratico della teoria
dell’informazione, possono essere ricapitolate nel modo seguente: a) La
negazione di ogni tipo o forma di necessità in tutte le situazioni in cui
l’informazione prende posto. b) La negazione di ogni conoscenza assoluta cioè
totale, definitiva ed eseste condizioni dell’informazione (e quindi della C.
che l’adopera per i più diversi scopi), sono implicitamente o esplicitamente
ammesse da tutti gli scienziati che in qualsiasi campo si avvalgono di questa
disciplina; e costituiscono il fondamento filosofico di essa. Esse sono
riassunte nel passo seguente di F. C. Frick: « Informazione e ignoranza, scelta
previsione e incertezza, sono tutte intimamente correlate... AI confine della
completa conoscenza e della completa ignoranza, sembra intuitivamente ragionevole
parlare di gradi di incertezza. Più vasta è la scelta, più esteso è l’insieme
delle alternative che si aprono davanti a noi, più incerti noi siamo circa come
procedere e di maggiore informazione abbiamo bisogno per prendere la nostra
decisione » (Information Theory, in Psychology: A Study of a Science, 22 ediz.,
Sigmund Koch, 1959, pag. 614-15). 4° Il quarto aspetto della C. è costituito
dagli usi e dagli scopi che essa può avere nei più diversi campi dell’attività
umana: a) In primo luogo la C. è un potente strumento per la spiegazione e la
previsione dei fenomeni. Uno dei suoi successi più clamorosi si è avuto nel
campo della generica (v.), dove ha reso possibile spiegare la trasmissione dei
caratteri ereditari mediante le varie combinazioni degli elementi di un
alfabeto genetico, costituito dagli acidi desossiribonucleici, costituenti la
doppia elica del DNA (Watson e Crick, 1953). La teoria dell’evoluzione (v.),
sull’impianto darwiniano, considera l’evoluzione stessa come un processo di
variazione a caso e di sopravvivenza selettiva: due concetti che sono (come si
è visto) quelli fondamentali della teoria dell’informazione. Nella psicologia,
nell’antropologia, nella sociologia tali concetti sono adoperati a spiegare
ogni forma di organizzazione e sono ora generalizzati in una teoria dei
sistemi, applicabile a tutti questi campi (cfr., ad es., W. BUCKLEY, Sociology
and Modern Systems Theory, 1967, e relativa bibl.). b) In secondo luogo la C. è
utilizzata per la costruzione di macchine sempre più complesse, alle quali sono
affidate operazioni e compiti, ritenuti, sino a poco tempo fa, propri
dell’uomo. Sui limiti e le possibilità di queste macchine, i pareri di
scienziati e filosofi sono discordi. C'è chi ritiene che, in un futuro più o
meno prossimo, esse possano sostituirsi all'uomo nella soluzione di tutti i
suoi problemi e anche nelle scelte decisive che concernono l’avvenire o la
sopravvivenza del genere umano. Altri avanzano dubbi su questa possibilità
illimitata, che sembra fra l’altro contraddetta dal teorema di Gédel (v.
MATEMATICA) che tra le sue implicazioni, ha anche quella che non è possibile
costruire una macchina che risolva ogni problema. Si insiste, inoltre, sulla
differenza tra l’uomo e la macchina dovuta alla presenza nell’uomo del fattore
coscienza (v.). Raymond Ruyer ha, per es., affermato che « senza coscienza non
c’è informazione » e che perciò se il mondo fisico è quello delle macchine
fossero abbandonati a se stessi, « tutto sponCICLO DEL MONDO taneamente
diverrebbe disordine e ci sarebbe la prova che non c’è mai stato ordine vero,
ordine consistente o, in altri termini che non c'è mai stata informazione» (La
cybernétique et l’origine de l’information, 1954). Si insiste, anche da più
parti, su fondamenti vari (spesso di natura metafisica o morale) sulla
differenza fra l’uomo e la macchina, ma in generale viene riconosciuto che le
macchine hanno gli stessi limiti dell’uomo, seppure a un grado inferiore, e che
si distinguono dall’uomo per l’enorme « complessità » del cervello umano e per
la capacità di quest’ultimo di prevedere in misura, corrispondentemente
maggiore, gli avvenimenti futuri. Wiener ha insistito sull’esigenza di una
simbiosi fra l’uomo e la macchina, per la quale è necessario, da parte
dell’uomo, avere una chiara idea degli scopi che deve prefiggersi nella
programmazione e nell’uso delle macchine. Una macchina infatti può, eseguendo
il suo programma, mettere in atto operazioni che, per l’insorgere di
circostanze impreviste, possono rivolgersi contro gli interessi e la vita
stessa dell’uomo. Anche una macchina che può imparare e prendere decisioni
sulla base di una conoscenza acquisita, ha osservato Wiener, non sarà obbligata
a decidere nel senso in cui avremmo deciso noi stessi o almeno in modo per noi
accettabile: « Per colui che non ha coscienza di ciò, addossare il problema
della propria responsabilità alla macchina (sia che questa possa apprendere o
no) vorrà dire affidare la propria responsabilità al vento e vedersela tornare
indietro tra i turbini della tempesta » (7he Human Use of Human Beings, 1950,
cap. XI; cfr. pure God et Golem, Inc., 1964). I problemi della C. si collegano
così strettamente, oltre che a quelli dell’ontologia e della gnoseologia, anche
a quelli dell’etica. CICLO DEL MONDO (gr. xixdog; ingl. Cosmic Cycle; franc.
Cycle cosmique; ted. Kosmic Cyklus). La dottrina secondo la quale il mondo
ritorna, dopo un certo numero di anni, al caos primitivo dal quale uscirà di
nuovo per ricominciare il suo corso sempre uguale. La dottrina è suggerita ai
più antichi filosofi dalle vicende cicliche constatabili: l’alternarsi del
giorno e della notte, delle stagioni, delle generazioni animali, ecc. La
nozione del C. cosmico si trova nell’orfismo, nel pitagorismo, in Anassimandro
(HyP., Refut. omn. haeres., I, 6, 1), in Empedocle (Fr. 17, Diels), in Eraclito
(Fr. 5, Diels); ed inoltre negli Stoici secondo i quali: «Quando nel loro moto
gli astri siano tornati allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in
cui ciascuno era al principio, accade, nel C. dei tempi, una conflagrazione e
distruzione totale; poi di nuovo si ritorna dal principio allo stesso ordine
cosmico e di nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto
nel precedente C. torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di
nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi
amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi,
ed ogni città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno
universale si effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito »
(NEMESIO, De nat. hom., 38). Nella filosofia moderna questa dottrina è stata
ripresa da Federico Nietzsche: per il quale l'eterno ritorno è il sì che il
mondo dice a se stesso, la volontà cosmica di riaffermarsi e di essere se
stessa, quindi l’espressione cosmica di quello spirito dionisiaco che esalta e
benedice la vita. «Il mondo, dice Nietzsche, si afferma da sè, anche nella sua
uniformità che rimane la stessa nel corso degli anni, si benedice da sè, perchè
è ciò che deve eternamente ritornare, perchè è il divenire che non conosce
sazietà nè disgusto nè fatica» (Wille zur Macht, ed. e fuoco) che compongono i
corpi sublunari; sicchè il C. che si muove di movimento circolare, che non ha
l’opposto, è incorruttibile e ingenerabile (De cael., Il, 1 sgg.). La dottrina
dell’incorruttibilità dei C. ha dominato tutta la fisica antica e medie9 —
ABDAGNANO, Dizionario di filosofia, vale. Nell’antichità fu forse messa in
dubbio da Teofrasto (cfr. STEINMETZ, Die Physik des Theophrast, 1964, pag. 158
sgg.). Nel Medioevo il primo a metterla in dubbio fu Ockham nel sec. xiv, il
quale nega la diversità tra la materia che compone i corpi celesti e la materia
che compone i corpi sublunari e ammette come sola differenza tra questi e
quelli il fatto che la materia dei corpi celesti non può essere trasformata per
l’azione di alcun agente creai e senza entrare a far parte dell’esistenza
soggettiva (PAi/., III, pag. 137). Una cosa, una persona, una dottrina, una
poesia possono valere come simboli o C. della trascendenza; simboli e C. sono
anche le siruazioni-limite (v.). CINEMATOGRAFICO, MECCANISMO (franc. Mécanisme
cinématographique). Così Bergson chiamò il procedimento del pensiero nei
riguardi del movimento: il pensiero prenderebbe sul movimento istantanee
immobili alle quali aggiungerebbe un movimento artificiale esterno. Su questo
procedimento sarebbe fondata «l'illusione meccanistica » (Évol. Créatr., cap.
IV). CINICA, FILOSOFIA (ingl. Cynicism; francese Cynisme; ted. Cynismus). La
dottrina di una delle scuole socratiche e precisamente di quella fondata da
Antistene di Atene (sec. rv a. C.) nel Ginnasio Cinosarge. Proprio da questo
Ginnasio i Cinici probabilmente derivarono il loro nome; oppure, come altri
dicono, lo derivarono dal loro ideale di vita conforme alla semplicità (e alla
sfacciataggine) della vita canina. La tesi fondamentale del cinismo è che
l’unico fine dell’uomo è la felicità e la felicità consiste nella virtù. Fuori
della virtù non esistono beni sicchè fu proprio dei Cinici il disprezzo per le
comodità, gli agi e i piaceri e l’ostentazione del più radicale disprezzo per
le convenzioni umane e in generale per tutto ciò che allontana l’uomo dalla
semplicità naturale di cui gli animali dànno l’esempio. La parola « cinismo » è
rimasta nel linguaggio comune per l’appunto a designare una certa
sfacciataggine. 130 CIRCOLO (gr. xixdo, Sdandoc bro; lat. Circulus; ingl.
Circle; franc. Cercle; ted. Zirkelbeweiss). La dimostrazione in circolo o
reciproca è, secondo Aristotele, quella che consiste nel dedurre dalla
conclusione e da una delle due premesse di un sillogismo (quest’ultima assunta
nel rapporto di predicazione inverso) l’altra conclusione del sillogismo stesso
(An. Pr., II, 5, 57b sgg.). Aristotele ammette la piena validità di questo
procedimento e ne stabilisce i limiti e le condizioni a proposito di ciascuna
figura del sillogismo. Esso pertanto non ha niente a che fare col « C. vizioso
+ o «petizione di principio », da lui enumerata fra i sofismi extra dictionem (cioè
non dipendenti dall’espressione linguistica) e che consiste nell’asgismo è un
diallele perchè in esso la premessa maggiore, per es., «Tutti gli uomini sono
mortali » presuppone accertata la conclusione « Socrate è mortale » (/pot.
Pirr., II, 195 seguenti). Questa critica trascura un punto fondamentale della
logica di Aristotele e cioè che le premesse del sillogismo non sono stabilite
per induzione ma esprimono la causa o sostanza necessaria delle cose. Per es.,
quando si dice « Tutti gli uomini sono mortali» non si esprime l’osservazione
che Tizio, Caio, Sempronio sono mortali, bensì un carattere che appartiene alla
sostanza o essenza necessaria dell'uomo ed è perciò la causa o ragion d’essere
della conclusione. Il C. viene solitamente assunto come segno della incapacità
di dimostrare. Hegel osservò tuttavia che « La filosofia forma un C. +: perchè
essa, in ognuna delle sue parti, deve prendere le mosse da qualcosa di
indimostrato, che è invece il risultato di qualche altra sua parte (Fi/. de/
dir., $ 2, Zusatz). A sua volta Rosmini (Logica, 1854, pag. 274 n) parlò di un
«C. solido» per cui la conoscenza della parte suppone quella del tutto e
reciprocamente. E Gentile rifacendosi a tali esempi a sua volta ritenne che il
diallele o C., quale Sesto Empirico l’ha mostrato in atto nel sillogismo, è la
CIRCOLO caratteristica propria del « pensiero pensato », cioè del pensiero come
oggetto di se stesso. « Questo diallelo, egli disse, che è stato sempre lo
spauracchio del pensiero, sarà, anzi è, la morte del pensiero pensante; ma è la
vita, la stessa legge fondamentale del burgo (1559-73), metodo che consisteva
prevalentemente nello spiegare ogni singolo passo mediante il senso totale
della Scrittura. CLASSIFICAZIONE CLAVIS UNIVERSALIS. Questo termine fu usato
tra il °500 e il ”600 per indicare la tecnica della memoria e dell’invenzione,
che ha il suo precedente più illustre nell’ Ars magna di Lullo e il suo sbocco
più importante nella Caratteristica universale di Leibniz (cfr. PaoLo Rossi,
Clavis universalis, 1960) (v. CARATTERISTICA; COMBINATORIA; MNEMONICA).
CLINAMEN. V. DECLINAZIONE. COCCODRILLO, DILEMMA DEL. Vedi DILEMMA. COERENZA
(ingl. Coherence; franc. Cohérence; ted. Zusammenhang). 1. L'ordine, la
connessione, l'armonia di un sistema di conoscenza. In questo senso Kant
attribuiva alle conoscenze a priori il còmpito di mettere ordine e C. nelle
rappresentazioni sensibili (Crit. R. Pura, 1* ediz., Intr., $ 1). E in tal
senso la C. è stata assunta da alcuni idealisti inglesi come criterio della
verità. Secondo Bradley, ad es., la realtà è una Coscienza assoluta che
abbraccia, nella forma di una C. armoniosa, tutto il molteplice disperso e
contraddittorio dell’apparenza sensibile (Appearance and Reality, 2* ediz.,
1902, pag. 143 sgg.). La C. in questo senso è assai più della semplice
compatibilità (v.) fra gli elementi di un sistema: implica, infatti, non solo
l'assenza della contraddizione, ma la presenza di connessioni positive che
stabiliscano armonia tra gli elementi del sistema. In questa accezione il
termine non ha significato logico. 2. Lo stesso che compatibilità. Questo
significato è assunto frequentemente dal termine italiano e da quello francese,
giacchè in queste lingue il termine compatibilità non si presta a esprimere il
carattere del sistema che è privo di contraddizione, ma designa piuttosto il
carattere di non contraddittorietà reciproca degli enunciati. COESISTENZA
(ingl. Coexistence; fr. Coexistence; ted. Mitsein o Mitdasein).
Nell’esistenzialismo contemporaneo s’intende con questo termine il modo
specifico in cui l’uomo è con gli altri uomini nel mondo: modo che è diverso da
quello in cui egli si trova ad essere, nel mondo, con le altre cose. Questo
significato specifico del termine è dovuto a Heidegger che ha distinto la
presenza delle cose come mezzi o strumenti utilizzabili dal con-esserci
(Mifdasein), o C. degli altri con l’Io. La stretta connessione della C. con
l’esistenza fa sì che non vi possa essere comprensione di sè senza la
comprensione degli altri. « Nella comprensione dell’essere propria
dell’Esserci, dice Heidegger, è implicita la comprensione degli altri, e ciò
perchè l’essere dell’Esserci è coesistenza » (Sein und Zeit, $ 26). COGITO. Si
abbrevia in questa parola l’espressione cartesiana « Cogito ergo sum (Discours,
IV; Méd., II, 6 che esprime l’autoevidenza esistenziale del soggetto pensante,
cioè la certezza che il soggetto pensante ha della sua esistenza in quanto
tale. Si tratta di un movimento di pensiero che è stato ripresentato varie
volte nella storia, sia pure per fini diversi. S. Agostino si avvalse di esso
per confutare lo scetticismo accademico, cioè per dimostrare che non si può
rimaner fermi al dubbio o alla sospensione dell’assenso. Chi dubita della
verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di pensare; consegue dunque nel
dubbio stesso la certezza che lo rapporta alla verità (Contra Acad., III, 11;
De Trin., X, 10; Solil., II, 1). Da S. Agostino lo stesso atteggiamento di
pensiero passa in alcuni Scolastici; per es., in S. Tommaso: « Nessuno, egli
dice, può pensare con assenso [cioè credere] di non essere; giacchè, in quanto
pensa qualcosa, percepisce di essere» (De ver., q. 10, a. 12, ad. 7).
Contemporaneamente a Cartesio il principio è ripreso da Campanella (Mer., I, 2,
1). Per quanto questo movimento di pensiero sia stato fatto servire a fini
diversi (S. Agostino lo utilizza per dimostrare la trascendenza della Verità
[che è Dio stesso] e la presenza di essa all’anima umana; Campanella lo
utilizza per dimostrare la priorità di una « nozione innata di sè » su ogni altra
specie di conoscenza; e Cartesio per giustificare il suo metodo dell’evidenza)
e il suo preciso significato sia quindi diverso da un filosofo all’altro, poche
volte si è tuttavia dubitato della sua validità generale. Ad ogni filosofia che
faccia appello alla coscienza (v.) come allo strumento della ricerca
filosofica, il C. deve apparire indubitabile perchè in realtà esso non è che la
formulazione del postulato metodologico di una tale filosofia. Ma anche
filosofie che non riconoscono tale postulato fanno uso del C. e lo riconoscono
valido. Così fa, per es., Locke che vede in esso « il più alto grado di
certezza + (Saggio, IV, 9, 3). E così fa Kant che vede in esso la stessa
appercezione pura (v.) o coscienza riflessiva. Nella filosofia contemporanea, Husserl
assume esplicitamente il C. come punto di partenza della sua filosofia (/deen,
I, $ 46; Méd. cart.,8 1) e ricorre ad esso continuamente nel corso delle sue
analisi, considerandolo come la struttura stessa dell’esperienza vissuta
(Erlebniss) o coscienza. Heidegger stesso non mette in dubbio la validità del
C. per quanto rimproveri a Kant di aver ristretto con esso l’io a un «soggetto
logico», isolato, «soggetto che accompagna le rappresentazioni in un modo
ontologicamente del tutto indeterminato» (.Sein und Zeit, $ 64). Di fronte a
una così ampia accettazione, le critiche sono state assai scarse. Si può
pensare alla critica di Vico; ma è facile vedere che questa non è veramente una
critica del Cogito. Vico nega che la «coscienza» del proprio essere possa
costituire la «scienza » di esso 0 almeno il principio di questa scienza. La
scienza infatti è conoscenza di causa e il C. cartesiano sarebbe principio di
scienza solo nel caso che la coscienza fosse la causa dell’esistenza (De
antiquissima Italorum sapientia, I, 3). Ma con ciò Vico non nega che il C.
costituisca una certezza valida, anzi si preoccupa di correggerlo affermando
che Cartesio avrebbe dovuto dire non «io penso dunque sono + ma * Io penso
dunque esisto » (Prima risposta al Giornale dei letterati,83). La critica di
Kierkegaard si rivolge alla portata, più che alla validità, del C. cartesiano:
«Il principio di Cartesio ‘io penso, dunque sono’ è, al lume di logica, un
gioco di parole; poichè quell’ io sono * non significa altro, logicamente, se non
‘io sono pensante’ ovvero ‘io penso» (Diario, V, A, 30). In altri termini,
secondo Kierkegaard, la proposizione cartesiana è puramente tautologica,
giacchè il suo presupposto è l’identità dell’esistenza con il pensiero. Una
tautologia però è ancora una proposizione valida. Nel 1868 Peirce rispondeva
negativamente alla questione «se abbiamo una autocoscienza intuitiva », nella
quale la parola autocoscienza stava per conoscenza della propria esistenza.
Peirce non affrontava la validità del C. ma con prove psicologiche e storiche
credeva di poter concludere che +« non c'è necessità di supporre
un’autocoscienza intuitiva, dal momento che l’autocoscienza può facilmente
essere il risultato di un’inferenza + (Coll. Pap., 5.263). Neppur questa è
così, propriamente parlando, una critica del cogito. Pertanto la più semplice e
decisiva critica a questa nozione si può ritenere quella di Nietzsche: « ‘Si
pensa, dunque c’è qualcosa che pensa ’: a questo si riduce l’argomentazione di
Cartesio. Ma questo significa soltanto ritenere come vera a priori la nostra
credenza nell’idea di sostanza. Dire che, quando si pensa, bisogna che ci sia
qualcosa ‘che pensi * è semplicemente la formulazione dell’abitudine
grammaticale che all’azione aggiunge un attore. In breve qui non si fa altro
che formulare un postulato logico-metafisico, in luogo di contentarsi di
constatarlo... Se si riduce la proposizione a questo: ‘Si pensa, dunque ci sono
pensieri” ne risulta una semplice tautologia e la ‘realtà del pensiero’ rimane
fuori questione sicchè, in questa forma, si è portati a riconoscere l’
‘apparenza’ del pensiero. Ma Cartesio voleva che il pensiero non fosse una
realtà apparente, ma fosse un in sè» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 260). Queste
considerazioni di Nietzsche costituiscono una critica, che molti filosofi
contemporanei accetterebbero, del principio del cogito. Ad essa infatti fa
esplicito riferimento Carnap che sostanzialmente la ripete. « L'esistenza
dell’io, egli dice, non è un originario stato di fatto del dato. Dal C. non segue
il sum; da ‘Io sono cosciente’ non segue che io sono ma soltanto che vi è
un’esperienza cosciente (Er/ebniss). L’io non 136 COINCIDENTIA appartiene
all’espressione delle fondamentali esperienze vissute, ma viene costituito più
tardi, essenzialmente allo scopo di delimitare il suo àmbito da quello
dell'altro... Al posto dell’espressione di Descartes bisognerebbe porre
quest'altra: ‘Questa esperienza cosciente; quindi c’è un’esperienza cosciente
’; ma questa sarebbe certamente una pura tautologia » (Der /ogische Aufbau der
Welt, 1928, $ 163). Questa critica è però ben lungi dall’essere condivisa anche
dagli stessi empiristi logici e Ayer, per es., riconferma sostanzialmente la
validità del principio cartesiano come verità logica, pur limitandone la
portata. « Se qualcuno pretende di sapere che egli esiste o che è conscio, la
sua pretesa deve essere valida semplicemente perchè il suo essere valida è una
condizione del suo essere fatta » (Problem of Knowledge, 1956, pag. 53). La
posizione di Nietzsche su questo punto era più radicale e, probabilmente, più
corretta (v. COSCIENZA). COINCIDENTIA OPPOSITORUM. Espressione adoperata per la
prima volta da Niccolò Cusano per esprimere la trascendenza e l’infinità di
Dio: il quale sarebbe C. del massimo e del minimo, del tutto e del nulla, del
creare e del creato, della complicazione e dell’esplicazione, in un senso che
non può essere inteso ed afferrato dall’uomo (De docta ignor., I, 4; De
coniecturis, II, 1). Nello stesso senso si servirono dell’espressione Reuchlin
(De arte cabalistica, 1517) e Giordano Bruno che se ne avvale per definire
l’universo ch'egli identifica con Dio. L’universo « comprende tutte contrarietà
di nell’esser suo in unità e convenienza» (Della causa [v.}). COLLETTIVISMO
(ingl. Collectivism; francese Collectivisme; ted. Kollektivismus). 1. Questo
termine è stato coniato nella seconda metà dell’800 per indicare il socialismo
non statalista di fronte a quello statalista. Furono collettivisti in questo
senso il socialismo riformista d’anteguerra ed è collettivista il laburismo
inglese in quanto vuole una società senza squilibri di classe, quindi
collettivizzata; ma non controllata con la forza da una élite privilegiata che
goda di un livello di vita radicalmente diverso da quello della popolazione. 2.
In senso più vasto, s'intende per C. ogni dottrina politica che si opponga
all’individualismo e che in particolare sostenga l’abolizione della proprietà
privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. In questo senso sono
collettivistici sia il socialismo che il comunismo, in tutte le loro forme.
COLLIGAZIONE (ingl. Colligation; franc. Colligation; ted. Kolligation).
Operazione descrittiva invocata da Whewell (Novum organum renovatum, 1840, II,
cap. 1 e 4) per spiegare il modo in cui si possono raccogliere un certo numero
di dettagli in una sola proposizione. Stuart Mill (Logic, III, 2, 4) riprese
questa nozione collegandola a quella di induzione. « L’asserzione che i pianeti
si muovono in ellissi fu un modo di rappresentare fatti osservati, quindi una C.;
l’asserzione che essi sono attratti verso il Sole è l’asserzione di un nuovo
fatto, inferito per induzione ». La parola è caduta in disuso nella logica
contemporanea. COLPA (lat. Culpa; ingl. Guilt; franc. Culpabilité; ted.
Schuld). Originariamente, termine giuridico per indicare l’infrazione di una
norma compiuta « involontariamente », cioè senza averla progettata; in
contrapposto al delitto (dolus) che è la trasgressione progettata. Ecco come
Kant esprime la cosa: « Una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama
colpa; una trasgressione volontaria (cioè unita con la coscienza che si tratta
proprio di trasgressione) si chiama delitto » (Mer. der Sitten, I, Intr., $ 4).
Per Heidegger la colpa è «un modo d’essere dell’Esserci » cioè una determinazione
essenziale dell’esistenza umana in quanto tale. Egli distingue due significati
di esser colpevole (corrispondentemente ai due significati del tedesco Schw/d
che significa debito e colpa): l’essere in debito verso qualcuno e l’esser
causa, autore od occasione di qualche cosa. « In questa forma di ‘ aver C. * in
qualcosa si può ‘esser colpevole ’ senza ‘ essere in debito” con qualcuno o
essergli debitore. E, rovesciando si può dovere qualcosa a qualcuno senza
averne la C. (esserne la causa)» (Sein und Zeit, $ 58). In un senso analogo,
Jaspers ha posto la C. tra le situazioni-limiti dell’esistenza umana, cioè tra
quelle situazioni alle quali l’uomo non può sfuggire (Phil., II, pag. 246
sgg.). COMBINATORIA, ARTE (lat. Ars combinatoria). Con il nome di ars combinatoria
Leibniz designa il progetto, o meglio l’ideale, di una scienza che, partendo da
una characteristica universalis (vedi CARATTERISTICA), ossia da un linguaggio
simbolico che assegnasse un segno ad ogni idea primitiva, combinasse in tutti i
modi possibili questi segni primitivi, ottenendo così tutte le possibili idee.
Il progetto, derivante in parte dalle idee esposte da R. Lullo nella Ars Magna,
aveva già sedotto molti pensatori del *500 e °600 (tra gli altri, Agrippa di
Nettesheim, A. Kircher, P. Gassendi, G. Dalgarno) e venne parzialmente
coltivato anche da continuatori di Leibniz, come Wolff e Lambert. G. P. COME SE
(ted. A/s ob). Espressione che ricorre frequentemente nelle opere di Kant per
indicare il carattere ipotetico o semplicemente regolarivo di certe
affermazioni. Per es., le cose in sè possono essere pensate per analogia «come
se fossero sostanze, cause, ecc. + (Crit. R. Pura, Dialettica, V, d).
L’imperativo categorico ordina di agire « come se l’essere razionale fosse un
membro legislatore nel regno dei fini » (Grundlegung zur Met. der Sitten, II).
Noi dobbiamo trattare le massime della libertà «come se fossero leggi della
natura » (/bid., III). La facoltà del giudizio considera gli oggetti naturali «
come se la finalità della natura fosse intenzionale » (Critica del Giud., $
68). Il come se kantiano non è una mera finzione: è semplicemente
l’interpretazione, in termini di operazioni o di comportamenti, di proposizioni
il cui senso letterale e metafisico appare al di là della confutazione e della
conferma, perciò inesistente. Come finzione interpretò invece il come se Hans
Vaihinger nella sua Filosofia del come se (1911); la cui tesi è che tutti i
concetti e le categorie, i principi e le ipotesi di cui si avvalgono le scienze
e la filosofia, sono finzioni (v.) prive di validità teoretica, spesso
intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto
utili. Un altro kantiano Paolo Natorp, aveva ristretto il come se al dominio
dell’arte, la quale rappresenterebbe le cose come se ciò che è dovesse ancora
essere o come se ciò che deve essere fosse anche in realtà (Die Religion
innerhalb der Grenzen der Humanitàt, 1894). COMICO (gr. yedotoy; lat. Comicus;
ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch). Ciò che fa ridere, o la possibilità
di far ridere, mediante la risoluzione impreveduta di una tensione o di un
contrasto. La più antica definizione del C. è quella di Aristotele, che lo
considerò come « qualcosa di sbagliato e di brutto che non procura nè dolore nè
danno » (Poet., 5, 1449a 32 sgg.). Lo «sbagliato» come carattere del C.
significa il carattere imprevisto, perchè non ragionevole, della soluzione, che
il C. presenta, di un contrasto o di una situazione di tensione. Queste
notazioni sono rimaste sostanzialmente le stesse nella storia della filosofia.
Hobbes ha insistito sul carattere inaspettato del C., e lo ha connesso con la
coscienza della propria superiorità (De homine, XII, $ 7). Alla tensione e
quindi alla soluzione inaspettata di essa riduce il C. Kant: «In tutto ciò che
è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di
assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare
alcun piacere). Il riso è un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la
quale d'un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo
non ha niente di rallegrante per l'intelletto, indirettamente rallegra per un
istante con molta vivacità » (Crif. del Giud., $ 54). L’Illuminismo vide nel
C., e nel riso che lo esprime, un correttivo contro il fanatismo e la
manifestazione di quel « buon umore » che Shaftesbury considerava come il
miglior correttivo del fanatismo stesso (Letter on Enthusiasm, II). Hegel
invece lo considerava come l'espressione di un possesso sodisfatto della
verità, della sicurezza che si prova di sentirsi al di sopra delle
contraddizioni e di non essere in una situazione crudele o disgraziata. Lo
identificava, in altri termini, con una felicità sicura di sè, che può perciò
sopportare anche lo scacco dei suoi progetti. E in ciò egli lo distingueva dal
semplice risibile, in cui vedeva «la contraddizione per la quale l’azione si
distrugge da sè e lo scopo si annulla realizzandosi » (Vorlesungen liber
Aesthetik, ed. Glockner, III, p. 534). Questa nozione hegeliana del C. è tuttavia
un’idealizzazione romantica del fenomeno, più che un’analisi di esso; è
l’esagerazione di quel sentimento di superiorità che già Aristotele notò
trovarsi nel C. quando considerò la commedia come «imitazione di uomini
ignobili» (Poer., 5, 1448, 32). La nozione tradizionale del C. esce
riconfermata dall’analisi che ne ha fatto Bergson (Le rire, 1900), la quale
rimane fino ad oggi la più ricca e precisa. Egli nota che il C. si ha quando un
corpo umano fa pensare a un semplice meccanismo; o quando il corpo prende il
sopravvento sull’anima o la forma sorpassa la sostanza e la lettera lo spirito;
o quando la persona ci dà l’impressione di una cosa; tutti casi, questi, nei
quali il C. è posto in un’aspettativa che viene delusa con una soluzione
imprevista e, come avrebbe detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C.
delle situazioni o delle espressioni che si ha quando una situazione può
interpretarsi in due modi differenti o per l’equivocità delle espressioni
verbali; è perciò sempre uno sbaglio, una soluzione irragionevole data ad una
aspettativa di soluzione. Al C., Bergson attribuisce anche un potere educativo
e correttivo. « Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione
all'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vivente, la distrazione in
opposizione alla previsione, infine l’automatismo in opposizione all’attività
libera, ecco ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere » (/bid., cap.
II, in fine). COMINCIAMENTO (lat. Inceptio; ingl. Beginning; franc. Début; ted.
Anfang). Propriamente, l’inizio di una cosa nel tempo: che può coincidere o no
col principio (v.) o con l’origine (v.) della cosa stessa. Questa distinzione è
importante in taluni casi: per es., secondo S. Tommaso la creazione, come C.
del mondo nel tempo, è materia di fede, ma non lo è come produzione dal nulla
da parte di Dio (S. 7h., I, q. 46, a. 2). Hegel ha affermato che il C. della
filosofia è relativo, nel senso che ciò che appare come C. è, da un altro punto
di vista, risultato (Fil. del dir, $ 2, Zusatz). Comunque, l’Assoluto si trova,
secondo Hegel, piuttosto nel risultato che nel C. perchè questo « come dapprima
e immediatamente vien pronunziato, è solo l’universale », e l’universale in
questo senso è solo l’astratto che non può valere come concretezza e totalità;
per es., le parole «tutti gli animali» che esprimono l’universale di cui si
occupa la zoologia, non possono valere come l’intera zoologia (Phaenom. des
Geistes, Intr., II, 1). Con tutto ciò, la filosofia ha spesso cercato il C.
assoluto da far coincidere con lo stesso « principio » di essa: di qui la
ricerca del « primo principio » del filosofare. COMMUTATIVO (lat. Commutativus;
inglese Commutative; franc. Commutatif; ted. 1° Ausgleichend; 2° Kommutativ).
1. Gli Scolastici hanno chiamato C. perchè ha luogo negli scambi
(commufationes) la specie di giustizia che Aristotele chiamava « correttiva »
(vò Stopfwrwxdy Sixatov): la quale, a differenza della giustizia distributiva,
che dà a ciascuno secondo i suoi meriti, serve a pareggiare i vantaggi e gli
svantaggi in tutti i rapporti scambievoli tra gli uomini, sia volontari che
involontari (Et. Nic., V, 4, 1131 b 25) (v. GIUSTIZIA). 2. Proprietà C. o legge
C. si dice l’assioma (0 postulato) per il quale x o y = y o x. Questa legge è a
fondamento dell’addizione e della moltiplicazione nell’aritmetica e della
teoria dei numeri reali. Algebra « non C.» è stata chiamata la teoria delle
matrici dovuta all’inglese Arturo Cayley (1821-95) che è stata utilizzata dalla
meccanica dei quanti; perchè essa non obbedisce alla legge C. considerando come
unità schiere di numeri (quali sarebbero, per es., quelli scritti sui quadrati
di una scacchiera). COMPARATIVO (ingl. Comparative; francese Comparé; ted.
Vergleichend). Questione C. chiamano i logici tradizionali quella nella quale
si domanda se qualcosa sia minore o maggiore, migliore o peggiore, ecc., di
un’altra; per es.: « Se la giustizia sia da preferirsi alla fortezza »
(JuNGIUS, Logica, V, 2, 42). La Logica di Porto Reale chiamò C. le proposizioni
che istituiscono un confronto del genere (ARNAULD, Logique, II, 10, 3): e
questa espressione rimane nella logica tradizionale (confronta B. ERDMANN,
Logik, I, $ 40, 229). COMPASSIONE (gr. &xeoc; lat. Commiseratio; ingl.
Pity; franc. Compassion; ted. Mileid). La partecipazione alla sofferenza altrui
in quanto è qualcosa di diverso da questa stessa sofferenza. Quest'ultima
limitazione è importante perchè la C. non consiste nel provare la stessa
sofferenza che la suscita. L'emozione suscitata dal dolore di un’altra persona
si può chiamare C. solo se è il sentimento di una solidarietà più o meno
attiva, ma che non ha niente a che fare con un’identità di stati emotivi tra
chi ha C. e chi è compassionato. Aristotele definì la C. come «il dolore
causato dalla vista di qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che
non lo merita e che possiamo aspettarci possa colpire noi stessi o qualche
nostro caro + (Ret., II, 8, 1385 b). Definizione che viene ripetuta quasi alla
lettera da Hobbes (Leviazh., I, 6), Cartesio (Passions de l’dme, III, $ 185),
Spinoza (Er., III, 22 scol.). La C. è, secondo Adamo Smith, un caso tipico
della simpatia che costituisce la struttura di tutti i sentimenti morali
(Theory of Moral Sentiments, III, 1). Per Schopenhauer, la C. è l'essenza
stessa di ogni amore e solidarietà fra gli uomini, perchè amore e solidarietà
si spiegano soltanto sulla base del carattere essenzialmente doloroso della
vita (Die Welt, I, $ 66-67). Di fronte a questa tradizione, ce n°è un’altra,
che vede nella C. un elemento negativo della vita morale. Questa seconda
tradizione s’inizia dagli Stoici (StoBEO, Ec/., II, 6, 180), passa attraverso
Spinoza. Questi ritiene che «nell'uomo che vive secondo ragione la C. è per se
stessa cattiva ed inutile », perchè non è altro che dolore: onde «l’uomo che
vive secondo ragione si sforza per quanto può di non essere toccato dalla C.»
come neppure dall’odio, dal riso o dal disprezzo, perchè sa che tutto deriva
dalla necessità della natura divina (Ef., IV, 50, corol. schol.). Questa
valutazione trova la sua estrema espressione nell’invettiva di Nietzsche contro
la C.: «Questo istinto depressivo e contagioso indebolisce gli altri istinti
che vogliono conservare ed aumentare il valore della vita; esso è una specie di
moltiplicatore e di conservatore di tutte le miserie, perciò uno degli
strumenti principali della decadenza dell’uomo » (Anticristo, Ap. 7). Il tratto
comune di queste condanne della C. è di considerarla come in se stessa miseria
o dolore, anzi, secondo l’espressione di Nietzsche, come qualcosa che conserva
o moltiplica miseria e dolore. Scheler ha mostrato l’equivoco di questo
presupposto che in realtà confonde la C. (che è simpatia e partecipazione
emotiva) con il contagio emotivo. Al contrario, nota Scheler, «la C. è assente
tutte le volte che c’è contagio della sofferenza, giacchè allora la sofferenza
non è più quella di un altro ma la mia, ed io credo di potermici sottrarre
evitando il quadro o l’aspetto della sofferenza in generale» (Sympathie, cap.
II, $ 3). Per l’appunto quest’avvertenza fondamentale si è tenuta presente nel
caratterizzare la C. al principio di questo articolo. COMPATIBILITÀ (ingl.
Consistency; francese Compatibilité; ted. Widerspruchslosigkeit). L'assenza di
contraddizione come condizione di validità dei sistemi deduttivi. «Ogni verità,
diceva Aristotele, dev'essere in accordo con se stessa sotto tutti i rapporti »
(An. Pr., I, 32, 47 a 8). Tuttavia soltanto nella matematica moderna, da
Hilbert in poi, la C. interna di un sistema deduttivo è diventata l’unico
criterio di validità del sistema stesso. Da questo punto di vista si dice che
c’è C. in un sistema nel quale non vi è nessun teorema la cui negazione sia un
teorema; o nel quale non ogni enunciato sia un teorema. Questa seconda formula
è ancora più generale (cfr. A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic,
1956, $ 17). La dimostrazione della C. diventa, da questo punto di vista, la
dimostrazione stessa della validità di un sistema nonchè dell’esistenza (v.)
delle entità cui esso fa riferimento. E la dimostrazione della C. dovrebbe, nel
pensiero di Hilbert, non fare riferimento a un infinito numero di proprietà
strutturali delle formule o a un infinito numero di operazioni conformi. La
dimostrazione dovrebbe essere, in questo senso, finitistica perchè solo in
questo caso sarebbe assoluta. Ma appunto la non possibilità di una assoluta
dimostrazione della C. dei sistemi deduttivi fu provata dal teorema di Gédel
(1931). Il teorema di Gédel non esclude che si possa provare la C. di un
sistema deduttivo assumendo la C. di un altro sistema deduttivo, preso come
modello; ma a sua volta la validità del modello non potrà essere dimostrata. La
C. « assoluta » è pertanto stata espulsa dal dominio delle matematiche ad opera
del teorema di Gédel, che stabilisce per ciò stesso i limiti del cosiddetto
formalismo. Nessun sistema formalistico infatti può offrire la garanzia della
propria assoluta compatibilità. Cfr. W. V. O. QuINE, Methods of Logic, 1950; J. LADRIÈRE,
Les limitations internes des formalismes, 1957; B. NagEL-J. R. NEWMANN, Godel’s Proof, 1958 (v. MATEMATICA,
PROVA). COMPITO (gr. tpyov; lat. Officium; ingl. Task; franc. Téche; ted.
Aufgabe). La limitazione della attività propria di una persona o di una cosa,
tale da garantire il risultato migliore dell’attività stessa. In questo senso,
Platone intendeva per C. di una cosa «ciò che soltanto la cosa stessa sa fare o
almeno sa fare meglio di ogni altra» (Rep., I, 353 a): e si serviva di questa
nozione per definire la virtù (v.). Nello stesso senso e per lo stesso fine si
avvaleva della nozione Aristotele quando, per definire che cosa è la felicità,
si domandava qual è «il C. dell’uomo »; e rispondeva che il C. dell’uomo è
l’attività dell'anima conforme a ragione o non indipendente dalla ragione (Et.
Nic.,I, 6,1098 a 7). Il concetto ritorna frequentemente, con lo stesso
significato, nella filosofia contemporanea (v. FunZIONE; OPERAZIONE).
COMPLEMENTARITÀ (ingl. Complementarity; franc. Complémentarité; ted.
Komplementdrheit). Con espressione desunta dalla geometria (si chiamano
complementari due angoli la cui somma è uguale ad un angolo retto) si dicono
complementari due concetti opposti che però si correggono reciprocamente e si
integrano nella descrizione di un fenomeno. Così si sono, per es., chiamati
complementari i concetti di onda e di corpuscolo per la descrizione dei
fenomeni ottici, nella moderna meccanica quantistica. Il principio di C.
formulato da Bohr esprime poi l’incompatibilità della meccanica quantistica con
la concezione classica della causalità (v.). Esso viene espresso così: « Una
descrizione spazio-temporale rigorosa e una sequenza causale rigorosa di
processi individuali non possono essere realizzate simultaneamente, o l’una o
l’altra deve essere sacrificata » (D’ABrO, New Physics, pag. 951). COMPLESSO
(gr. cvurerdeyutvov; lat. Complexum; ingl. Complex; franc. Complexe; tedesco
Komplex). Gli Stoici, che introdussero il termine, intesero per esso le
proposizioni composte cioè costituite o da una sola proposizione presa due
volte (ad es., «se è giorno, è giorno +) o da proposizioni diverse legate
assieme da uno o più connettivi (ad es.: «È giorno e c’è luce», «Se c’è giorno,
c’è luce», ecc.) (Sesto E., Adv. Math., VIII, 93; Dioc. L., VII, 72). Nella
logica medievale il termine veniva generalizzato e s’intese per esso o un
termine composto da voci diverse come « uomo bianco », «animale ragionevole »,
ecc., o la proposizione semplice composta dal nome e dal verbo (per es., «
l’uomo corre », ecc.). In tal caso l’opposto di complesso, indicato con il
termine incomplexum (cioè «semplice +) è o il termine isolato o qualsiasi
termine della proposizione anche se composto da due o più termini (come, ad
es., il soggetto « uomo bianco + nella proposizione « l’uomo bianco corre +)
(OckHAM, Expositio super artem veterem, fol. 40 b). Queste nozioni ricorrono in
forma poco diversa in Vincenzo di Beauvais (Speculum doctrinale, 4) ed in
Armando di Beauvoir (De declaratione difficilium terminorum, I, 1). Cfr.
TomMaso, S. Th., II, 2, q. 1, 4.2. COMPLICAZIONE, ESPLICAZIONE (latino
Complicatio, Explicatio). Termini adoperati da Cusano per indicare il rapporto
tra l’essere e le sue manifestazioni, in quanto tali manifestazioni sono
contenute nell’essere e l’essere si spiega o manifesta in esse. Cusano dice che
l’unità infinita è « la C. di tutte le cose »; che il movimento è «
l’esplicazione della quiete +; e che Dio «è la C. e l’esplicazione di tutte le
cose e, in quanto è la C. di esse, tutte le cose sono in lui mentre, in quanto
è l’esplicazione, egli stesso è in tutte le cose ciò che esse sono » (De Docta
Ign., II, 3). COMPORTAMENTISMO (ingl. Behaviorism; franc. Comportamentisme;
ted. Behaviorismus). L’indirizzo della psicologia contemporanea che ténde a
restringere la psicologia stessa allo studio del comportamento (v.) eliminando
ogni riferimento alla « coscienza », allo « spirito » e in generale è ciò che
non può essere osservato e descritto in termini oggettivi. Il fondatore di
questo indirizzo si può scorgere in Ivan Pavlov, l’autore della teoria dei
riflessi condizionati, che, per la prima volta, ha impiantato ricerche
psicologiche che prescindevano da qualsiasi riferimento agli «stati soggettivi»
o « stati interni ». « Dobbiamo noi forse, si domandava Pavlov nel 1903, per
comprendere i nuovi 140 fenomeni, penetrare nell’essere interiore dell'animale,
rappresentarci a modo nostro le sue sensazioni, i suoi sentimenti e desideri?
Per lo sperimentatore scientifico, la risposta a quest’ultima domanda può
essere, a me sembra, una sola: un mo categorico » (I riflessi condizionati, 1950;
trad. ital., pag. 17). Nel laboratorio di Pavlov (come egli stesso racconta
Ubid., pag. 129)) fu vietato, perfino con multe, di servirsi di espressioni
psicologiche come «il cane indovinava, voleva, desiderava, ecc. +; e Pavlov non
esita a definire « disperata » da un punto di vista scientifico la situazione
della psicologia come scienza degli stati soggettivi (/bid., pag. 97). Tuttavia
il primo che enunciò chiaramente il programma del C. fu J. B. Watson in un
libro intitolato // comportamento, introduzione alla psicologia comparata
pubblicato nel 1914. Da Watson questo indirizzo ricevette anche il nome
(Behaviorismo) e la pretesa fondamentale di limitare l’indagine psicologica
alle reazioni oggettivamente osservabili. La forza del C. consiste appunto nell’esigenza
metodologica che esso ha fatto valere: esigenza per la quale non si può
scientificamente parlare di ciò che sfugge a ogni possibilità di osservazione
oggettiva e di controllo. Il C. è stato spesso interpretato, da un punto di
vista polemico, come la negazione della « coscienza » o dello « spirito » o
degli « stati interni », ecc. In realtà esso è semplicemente la negazione
dell'introspezione come legittimo strumento d’indagine: una negazione che era
già stata fatta da Comte (v. INTROSPEZIONE). Esso è, in più, il deliberato
riconoscimento del comportamento come oggetto proprio dell’indagine
psicologica. Nelle sue prime manifestazioni il C. rimase legato all’indirizzo
meccanistico, per il quale lo stimolo esterno è la causa del comportamento, nel
senso che io rende infallibilmente prevedibile; Pavlov stesso sottolineava
questa infallibilità (/bid., pag. 133). Ma questo presupposto, di natura
ideologica, è stato oggi abbandonato dal C., che ha permeato profondamente di
sè l'indagine antropologica moderna (psicologia, sociologia, ecc.) (v.
PSICOLOGIA). COMPORTAMENTO (ingl. Behavior; francese Comportement; ted.
Verhalten). Ogni risposta di un organismo vivente ad uno stimolo, che sia: 1°
oggettivamente osservabile con un mezzo qual. siasi; 2° uniforme. Il termine C.
è stato introdotto da Watson verso il 1914 ed è ormai diventato di uso corrente
nel significato ora esposto. Originariamente esso servì a sottolineare
polemicamente l’esigenza che la psicologia e in generale ogni considerazione
scientifica delle attività umane o animali assumesse a suo proprio oggetto
elementi osservabili oggettivamente, cioè non accessibili solo alla «intuizione
interna» o alla «coscienza». Attualmente il termine è diventato di uso
generale. Esso va tenuto distinto: 1° da azione, perchè a differenza di questa
il C.: a) è una manifestazione non di un particolare principio, per es., della
volontà o dell’attività pratica, ma dell’intero organismo animale; 5) è
costituito unicamente da elementi osservabili e descrivibili in termini
oggettivi; c) è uniforme, cioè costituisce la reazione abituale e costante
dell'organismo a una situazione determinata; 2° da atteggiamento, che è il C.
specificamente umano includente quindi elementi anticipatori e normativi
(progetto, previsione, scelta, ecc.); 3° da condotta, che può mancare del
carattere di uniformità. COMPOSIZIONE (ingl. Composition; francese Composition;
ted. Komposition). Nei logici medievali (per es., Pietro Ispano, Summul. Log.,
7.25) compositio designa il paralogismo o fallacia (v.) derivante da un uso
sintattico che rende ambigua la frase. È quindi una specie di anfibolia (v.).
G. P. COMPOSSIBILE (franc. Compossible; tedesco Kompossibel). Leibniz ha
chiamato con questo termine il possibile che si accorda con le condizioni di
esistenza dell’universo reale cioè la possibilità reale. Il possibile è ciò che
è concepibile in quanto privo di contraddizione, il C. è ciò che può essere
reale. « È vero che ciò che non è, non è stato e non sarà, non è affatto
possibile, se possibile è preso per compossibile... Può darsi che Diodoro,
Abelardo, Wicleff e Hobbes abbiano avuto questa idea in testa senza ben
chiarirla » (Op., ed. Erdmann, pag. 719). V. PossiBILE. COMPRENDERE (lat.
/ntelligere; ingl. Understanding; franc. Comprendre; ted. Verstehen). La
nozione del C. come attività conoscitiva specifica, diversa dalla conoscenza
razionale e dalle sue tecniche esplicative, può essere considerata in due fasi
storiche distinte, la prima nella filosofia medievale o nella scolastica in
generale, la seconda nella filosofia contemporanea. 1. L’intera Scolastica
s’impernia sul problema di « C. » la verità rivelata. Ma sul valore di questo
C. gli stessi scolastici non sono stati d’accordo. Alcuni hanno identificato il
C. con la conoscenza razionale e con la sua tecnica dimostrativa; e la
comprensibilità dei dogmi è apparsa da questo punto di vista come la
possibilità di dimostrarli, cioè di equipararli a verità razionali. Anselmo e
Abelardo sembrano d’accordo nell’intendere così l'intelligere che essi ritengono
indispensabile alla fede stessa. È ovvio che in questo caso l’intelligere non è
affatto un C. nel senso specifico del termine. Una sfera specifica
dell’intelligere come comprendere, nella sua diversità dalla conoscenza
dimostrativa fu delineata invece da S. Tommaso nel suo tentativo di determinare
il còmpito della ragione di fronte alla fede. Questo còmpito consiste: 1° nel
dimostrare i preamboli della fede; 2° nel chiarire, mediante similitudini, le
verità della fede; 3° nel controbattere le obiezioni che si fanno contro tali
verità (In Boer. De Trin., a. 3). Ovviamente la seconda e la terza parte di
questo còmpito, che non sono di natura dimostrativa, costituiscono la sfera del
comprendere. E difatti, secondo S. Tommaso, le fondamentali verità di fede, la
Trinità, l’Incarnazione, la Creazione, sono comprensibili in questo senso: non
sono dimostrabili (nel quali caso sarebbero verità di ragione) ma possono
essere chiarite con analogie e, specialmente, sostenute contro le obiezioni.
Questa posizione tomistica costituisce la migliore e più diffusa soluzione di
quel problema del C. nato sul piano della Scolastica. Essa veniva ancora difesa
nel sec. xvm da Leibniz contro le obiezioni di Bayle e di Toland. Secondo
Leibniz, il dogma è « incomprensibile » solo nel senso che non si può
dimostrare; ma si può dire che esso s'accorda con la ragione nel senso «che si
può mostrare al bisogno che non c’è contraddizione tra il dogma e la ragione,
confutando le obiezioni di coloro che pretendono che il dogma stesso è un’assurdità
» (Théod., $ 60). 2. Nella filosofia contemporanea, la distinzione della sfera
del C., da quella del conoscere razionale, è nata dall’esigenza di distinguere
il procedimento esplicativo delle scienze morali o storiche da quello delle
scienze naturali. Tale esigenza nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica
causale, propria della scienza naturale dell’800, al dominio degli eventi
umani, quali sono i fatti storici, e in generale all'uomo ed ai rapporti
interumani. In base a quella tecnica, si ritiene come « razionalmente spiegato
» ciò di cui si può mostrare la genesi causale necessaria, cioè di cui si può
mostrare che accade in modo necessario o infallibilmente prevedibile quando ne
è data la causa (v.). Il carattere necessario della genesi causale, in quanto
conforme a una legge immutabile, e il carattere di uniformità meccanica che gli
eventi causalmente spiegabili assumono per effetto di tale legge, rendono assai
difficile trasferire questo tipo di spiegazione al mondo dell’uomo; e rendono difficile
spiegare i fatti storici e in genere ogni fatto che consista in un rapporto con
l’uomo. L'applicazione della tecnica causale a tali fatti implicherebbe la loro
riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione di leggi
necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. xIx le scienze
storiche, o, come allora si diceva, le « scienze dello spirito », che avevano
ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande ricchezza di
risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e cercarono di
chiarirlo criticamente, apparve chiara l’esigenza di agganciare questo metodo a
tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze naturali. In tal
senso il « C.» come procedura propria delle scienze dello spirito, fu
contrapposto allo « spiegare », fondato sulla causalità e proprio delle scienze
naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distinzione fu Dilthey nella
sua /nsroduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey osservò che i
nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri
rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico
sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo
rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al
contrario, è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze
dello spirito, che hanno appunto per oggetto la realtà umana, il soggetto non
si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui
che indaga e uomo colui che viene indagato. «Il C., dice Dilthey, è un
ritrovamento dell’io nel tu... Il soggetto del sapere è qui identico con il suo
oggetto e questo è il medesimo in tutti i gradi della sua oggettivazione »
(Gesammelte Schriften, VII, pag. 191). Da questo punto di vista Dilthey additò
come strumento proprio del C. l’Erlebnis, cioè l'esperienza vissuta o rivivente
che permette di cogliere la realtà storica nella sua individualità vivente e
nei suoi caratteri specifici. Dopo Dilthey, nella corrente dello storicismo
tedesco che continua l’opera sua, il C. rimane l’organo della conoscenza
storica e in generale della conoscenza interpersonale, in quanto non
suscettibile di spiegazione causale. Tuttavia sulla natura stessa del C. non
c’è accordo. Rickert intende per C. l’afferrare « il senso di un oggetto, cioè
il rapporto dell’oggetto stesso con un valore determinato » (Die Grenzen
der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 18961902). Simmel considera
il C. come diretto a riprodurre la vita psichica di un’altra personalità e
quindi come l’atto di proiezione mediante il quale il soggetto conoscente
attribuisce un suo stato rappresentativo, o volitivo, ad un'altra personalità
(Die Probleme der Geschichtsphilosophie, 1892, pagina 17). A sua volta Max
Weber, pur insistendo sulla diversità della spiegazione storica e della
spiegazione causale, volle colmare o diminuire l’abisso che si stava formando
tra i due procedimenti, affermando che la spiegazione storica è essa stessa una
spiegazione causale; ma una spiegazione causale specifica, che mira a
riconoscere il nesso particolare e singolare fra determinati fenomeni e non la
loro dipendenza da una legge universale. «Il nostro bisogno causale, egli
scrive, può trovare nell’analisi dell’atteggiamento umano una sodisfazione
qualitativamente diversa, che implica al tempo stesso un'intonazione
qualitativamente diversa del concetto di razionalità. Per la sua
interpretazione noi possiamo proporci lo scopo, almeno fondamentalmente, non
solo di rendere l’atteggiamento stesso penetrabile come possibile in rapporto
al nostro sapere nomologico, ma anche di comprenderlo, cioè di scoprire un
motivo concreto che possa venire rivissuto internamente e che noi accertiamo
con un diverso grado di precisione, secondo il materiale delle fonti »
(Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschaftslehre, 1951, pag. 67). Tuttavia, il
concetto di causalità individuale, sul quale Weber insisteva, è poco solido
giacchè la causa, come ciò che rende infallibilmente prevedibile l’effetto, ha
con l’effetto stesso un rapporto necessario e costante, perciò essenzialmente
uniforme, e universale. L'esigenza prospettata da Weber di eliminare o
diminuire il contrasto tra la spiegazione scientifica e la comprensione storica
o inter-umana, potè trovare sodisfazione solo dopo che la scienza stessa ebbe
abbandonato il concetto classico di causalità. Frattanto, l’esigenza d’una
tecnica conoscitiva che fosse diversa dalla tecnica esplicativa causale veniva
frequentemente riconosciuta in sociologia. Znaniecki invocava un « coefficiente
umanistico » nella ricerca sociologica e sottolineava l’importanza della
esperienza vicariante come fonte di dati sociologici (Method of Sociology,
1934, pag. 167). Sorokin riteneva inapplicabile il metodo causale
all’interpretazione dei fenomeni culturali (Socia/ and Cultural Dynamic, 1937,
pag. 26). E Maclver a sua volta riconosceva l’inapplicabilità della formula
causale della meccanica classica alla condotta umana (Socia! Causation, 1942,
pag. 263). I filosofi a loro volta, non trovando posto per il comprendere tra
le attività razionali che sembravano monopolizzate dalle tecniche della
spiegazione causale, avevano finito col connetterlo con la vita emotiva. Così
fecero, principalmente, Scheler e Heidegger, ai quali si devono tuttavia le più
importanti determinazioni della nozione del comprendere. A Scheler, tale
nozione serve per fondare i rapporti umani — che sono poi quelli per cui l'io
riconosce l’altro io — non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia
delle proprie esperienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni
espressivi. Così Scheler afferma che «l’esistenza delle esperienze interne, dei
sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè
ne acquistiamo la conoscenza non in séguito a un ragionamento, ma in modo
immediato, mediante una ‘ percezione * originaria e primitiva. Noi percepiamo
il pudore di qualcuno ne/ suo rossore, la gioia re/ suo riso » (Sympathie, I,
cap. II). Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo
e che solo a partire da esso inferiamo l’esistenza di altri spiriti. Soltanto
il medico e il naturalista conoscono soltanto il corpo perchè fanno
artificialmente astrazione dai fenomeni di espressione che sono la
manifestazione primaria e immediata degli altri spiriti: ma proprio tali
fenomeni sono alla base della comprensione emotiva. Questa dev'essere, secondo
Scheler, distinta dalla fusione emotiva perchè implica l’alterità dei
sentimenti. Per es., la sofferenza del mio vicino e la mia comprensione
simpatetica di essa, sono due fatti differenti, e questa differenza appunto
stabilisce la possibilità della comprensione: mentre non ba niente a che fare
con questa il fatto che io e il mio vicino soffriamo della stessa sofferenza.
Le analisi di Scheler hanno contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il C.
non implica l’identità delle persone tra cui intercede o l'identità dei loro
stati d’animo o sentimenti; implica piuttosto l’a/terità fra le persone e tra i
loro stati rispettivi; 2° la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che
esiste tra le esperienze interne e la loro espressione: rapporto che
costituisce una specie di « grammatica universale », valevole per tutti i
linguaggi espressivi, la quale fornisce il criterio ultimo della comprensione
inter-umana. Come Scheler, Heidegger connette il fenomeno della comprensione
soprattutto alla sfera emotiva; ma aggiunge all’analisi di questo fenomeno una
notazione d’importanza fondamentale, connettendolo con la nozione di
possibilità. Heidegger, difatti, considera la comprensione come essenziale
all’esistenza umana (all’Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è
essenzialmente possibilità di essere, esistenza possibile. « Usiamo sovente
l’espressione ‘C. qualcosa’ nel senso di ‘essere in grado di far fronte a
qualcosa ’, ‘ esser capace di’, ‘poter qualcosa ’... Nella comprensione è
riposto essenzialmente il modo d'essere dell’Esserci in quanto poter essere.
L’Esserci non è una semplice presenza che, aggiuntivamente, possegga il
requisito di potere qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere
possibile ». Pertanto « la comprensione ha in sè la struttura esistenziale che
noi chiamiamo progetto » (Sein und Zeit, $ 31). Come possibilità e progetto
l’esistenza umana possiede una trasparenza a se stessa che Heidegger chiama
visione e che è la prima manifestazione della comprensione. L’intuizione e il
pensiero sono invece due lontani derivati della comprensione stessa (/bid., $
31). È abbastanza chiaro che il riferimento del C. alla vita emozionale,
effettuato da Scheler e Heidegger, era motivato dal fatto che la vita razionale
sembrava ad essi occupata da tecniche che poco o nulla avevano a che fare col
comprendere. I risultati ottenuti da Scheler e Heidegger, tuttavia, sono molto
importanti: i primi negativamente, consentendo di sottrarre il C. alla sfera
dell’immediato e dell’inesprimibile, e i secondi positivamente perchè
connettono il C. stesso con la nozione di possibilità. Nell’analisi di
Heidegger, il C. non solo è stato generalizzato, perchè è stato reso
applicabile alle cose oltrecchè alle persone; ma anche, con ciò stesso, ha
cessato di essere antagonista col concetto di spiegazione. Comprensione e
spiegazione possono infatti essere identificate dalla nozione di possibilità ed
essere entrambe intese come dichiarazione della 4 possibilità di... »: dove ciò
che è lasciato in sospeso può essere riempito, nei diversi campi d’indagine, da
diverse specie di progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento tra
spiegazione e comprensione e questa loro unificazione nel concetto di «
possibilità di... » venivano sanciti dagli stessi sviluppi delle scienze della
natura, che abbandonavano la nozione classica di causalità e pertanto si
disancoravano dalla tecnica esplicativa causale. La fisica relativistica e la
teoria dei quanti compivano il passo decisivo verso l’eliminazione
dell’antitesi tra spiegazione e comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica
quantica « C. un’espressione, un enunciato, una teoria, significa la capacità
di usarla per la descrizione di fatti noti o per la previsione di fatti nuovi»
(Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 25). La « capacità di» è dunque
ciò che esprime il significato della comprensione nella fisica stessa. Ma la
possibilità della previsione probabile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la
spiegazione scientifica (vedi SPIEGAZIONE). In tal modo la differenza radicale
che sembrava stabilita saldamente dalla metodologia scientifica dell’800 tra
scienza dello spirito e scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che
questi due gruppi di discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti
rispettivi, è fondamentalmente la stessa cosa: determinare le possibilità di
descrizione o di anticipazione (progettazione, uso, fruizione) che i loro
oggetti comportano. COMPRENSIONE (ingl. Understanding; francese Compréhension;
ted. Verstehen). L'atto o la capacità di comprendere (v.). COMPRENSIONE (ingl.
Comprehension; francese Compréhension; ted. Inhalt). 1. La logica di Porto
Reale introdusse la distinzione tra C. ed estensione del concetto: distinzione
grosso modo identica a quella che verrà espressa da Stuart Mill con la coppia
connotazione-denotazione o dalla logica moderna con la coppia
intensione-estensione. Diceva infatti Arnauld: « Nelle idee universali è importante
distinguere bene due cose, la C. e l’estensione. Chiamo C. dell’idea gli
attributi che essa include in sè e che non possono essere tolti senza
distruggerla; così la C. dell’idea di triangolo contiene estensione, figura,
tre linee, tre angoli e l'eguaglianza di questi tre angoli con due retti, ecc.
Chiamo estensione dell’idea i soggetti ai quali quest'idea conviene; quelli che
si chiamano anche gli inferiori di un termine generale che, nei rispetti di
essi, è chiamato superiore; così l’idea del triangolo in generale si estende a
tutte le diverse specie dei triangoli » (Logique, I, 6). Questa distinzione
trovava qualche precedente nella logica medievale ma era stata
approssimativamente espressa solo a partire dal sec. xvi (per es., da
CAJETANUS, /n Porphyrii Praed., ed. 1579, I, 2, pag. 37; cfr. HAMILTON,
Lectures on Logic, I, 1866, pag. 141). Alla distinzione stessa era connessa la
determinazione del rapporto inverso che c'è tra C. ed estensione così definite:
a misura che la C. s’impoverisce, cioè diventa più generale, l’estensione si
arricchisce, cioè il concetto si applica a più cose; e reciprocamente. Queste
distinzioni e notazioni riprese dalla logica, specialmente tedesca, dell’800
(cfr., per es., LoTzE, Logik, 1843, $ 15) rimasero costanti e furono talora,
specialmente da scrittori inglesi, espresse mediante la coppia sinonima
connotazione-denotazione. A parte il tentativo di distinguere la C. dalla
connotazione (v.) come la sfera di tutte le note possibili, oltre quelle
espressamente connotate dalla definizione, la nozione di C. è rimasta costante
nella logica dell’800. 2. Talvolta nella logica contemporanea la C. è assunta
come analoga della denotazione o estensione, invece che della connotazione o
intensione. Così Lewis definisce la C. di un termine come: «la classificazione
di tutte le cose consistentemente pensabili alle quali il termine correttamente
si applichi » dove per «consistentemente pensabile » si intende ogni cosa
l’asserzione della cui esistenza non implichi, esplicitamente o implicitamente,
una contraddizione. In questo significato, il termine si distinguerebbe da
denotazione o estensione perchè questa è la classe di tutte le cose reali o
esistenti alle quali il termine correttamente si applica. La denotazione
sarebbe perciò inclusa nella C.; ma non viceversa. La C. di « quadrato »
include non solo i quadrati esistenti (che sono denotati) ma tutti i quadrati
possibili o imaginabili, salvo quelli rotondi (AnaIysis of Knowledge and
Valuation, 1950, pag. 39-41). COMUNE, SENSO. V. SENSO COMUNE. COMUNI, NOZIONI
(gr. xoîvar two; lat. Notiones communes). Gli Stoici chiamarono con
quest’espressione i concetti universali o anticipazioni (v.) che si formano
nell’uomo naturalmente, cioè non come prodotti di un'istruzione specifica
(Aezio, P/ac., IV, 11). L'espressione fu adoperata negli E/ementi di Euclide,
per designare i princìpi evidenti, che in séguito furono detti assiomi (v.
ASSIOMA). COMUNICAZIONE (ingl. Communication; franc. Communication; ted.
Kommunikation). Filosofi e sociologi si servono oggi di questo termine per
designare il carattere specifico dei rapporti umani in quanto sono, o possono
essere, rapporti di partecipazione reciproca o di comprensione. Per144 tanto il
termine viene ad essere sinonimo di « coesistenza » o di « vita con gli altri »
e indica l’insieme dei modi specifici in cui la coesistenza umana può
atteggiarsi; purchè si tratti di modi « umani », cioè nei quali una certa
possibilità di partecipazione e di comprensione sia salva. In questo senso, la
C. non ha niente a che fare con la coordinazione e con l’unità. Le parti di una
macchina, ha osservato Dewey, sono strettamente coordinate e formano un'unità
ma non formano una comunità. Gli uomini formano una comunità perchè comunicano,
cioè perchè possono reciprocamente partecipare dei loro modi d'essere, che così
acquistano nuovi e imprevedibili significati. Questa partecipazione dice che un
rapporto di C. non è un semplice contatto fisico o uno scontro di forze. Il
rapporto tra il predatore e la sua preda, per es., non è un rapporto di C.,
anche se talora può intercorrere fra gli uomini. La comunicazione in quanto
caratteristica specifica dei rapporti umani, delimita la sfera di tali rapporti
a quelli nei quali un certo grado di libera partecipazione può essere presente.
Il rilievo del concetto di C. nella filosofia contemporanea è dovuto: 1°
all’avvenuto abbandono, da parte di essa, della nozione romantica di
Autocoscienza infinita, Spirito Assoluto o Superanima: nozione che implicando
l’identità di tutti gli uomini rende ovviamente inutile il concetto stesso di
C. interumana; 2° al riconoscimento che i rapporti interumani implicano
l’alterità tra gli uomini stessi e sono rapporti possibili; 3° al
riconoscimento che tali rapporti non si aggiungono in un secondo momento alla realtà
già costituita delle persone, ma entrano a costituirla come tale. In questi
termini il concetto di C. entra in filosofie disparate. Secondo Heidegger il
concetto di C. deve essere inteso «in un senso ontologicamente largo », cioè
come «C. esistenziale ». «In quest’ultima si costituisce l’articolazione
dell’essere insieme comprendente. Essa realizza la partecipazione della
situazione emotiva comune e della comprensione propria dell’essere insieme. La
C. non è il trasferimento di esperienze vissute (quali possono essere, ad es.,
opinioni e desideri) dall’intimo di un soggetto all’intimo di un altro.
L’'esserci insieme è già essenzialmente rivelato nella situazione emotiva
comune e nella comune comprensione » (Sein und Zeit, $ 34). In altri termini,
per Heidegger, C. è già coesistenza perchè la compartecipazione emotiva e la
comprensione degli uomini tra di loro entrano a costituire la realtà stessa
dell’uomo, l'essere dell’Esserci. Jaspers, che è sostanzialmente d’accordo con
Heidegger, da questo punto polemizza contro le scienze empiriche (psicologia,
antropologia, sociologia) che pretendono di analizzare i rapporti di
comunicazione. Il loro difetto è, secondo Jaspers, che esse debbono limitarsi a
considerare i rapporti umani, non quelli possibili; mentre la C. è per
l’appunto possibilità di rapporti. In questo senso essa può essere chiarita
soltanto dalla filosofia (Phil., II, cap. III). Al contrario Dewey, che
condivide con Heidegger e Jaspers la veduta che la C. costituisce
essenzialmente la realtà umana, la considera come una forma speciale
dell’azione reciproca della natura e ritiene pertanto che possa e debba essere
studiata dall’indagine empirica (Experience and Nature, cap. V). Se la
filosofia dell’800, per il prevalere delle concezioni assolutistiche (lo stesso
positivismo parlava dell’Umanità come di un tutto) climinava la nozione di C.,
la filosofia del ’600 e del *700 aveva elaborato la nozione, ma per rispondere
ad un diverso problema. Il problema era quello della « C. delle sostanze +,
cioè della sostanza anima con la sostanza corpo, e reciprocamente, problema
nato col cartesianesimo, che aveva distinto per la prima volta in modo netto le
due specie di sostanze. Lo stesso Cartesio aveva ammesso come valida la nozione
corrente di un’azione reciproca fra le due sostanze, che egli riteneva si
toccassero nella glandola pineale (Passions de l’ame, I, 32). Dall’altro lato
gli Occasionalisti avevano ritenuto impossibile l’azione di una sostanza finita
sull’altra, perchè nessuna sostanza finita può agire cioè esser causa; ed
avevano pertanto ritenuto che Dio stesso interviene a stabilire il rapporto tra
l’anima e il corpo, o tra i vari corpi, o tra le varie anime, servendosi
dell’occasione offertagli dal mutamento avvenuto in una sostanza per produrre mutamenti
nelle altre sostanze. Era questa la teoria delle cause occasionali sostenuta,
fra gli altri, da Malebranche (Recherche de la vérité, III, II, 3). Leibniz
ritenne la prima teoria impossibile, la seconda miracolosa, intese la C. come
armonia prestabilita (v.) e la estese a intendere il rapporto fra tutte le
parti dell’universo, cioè fra tutte le monadi che lo compongono: l'armonia è
prestabilita da Dio in modo tale che a ogni stato di una monade corrisponde uno
stato delle altre monadi (Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 500501). Ovviamente la
dottrina di Leibniz non è una soluzione del problema della C.; essa, anzi, ha
lo scopo di rendere la C. stessa inutile, garantendo il rapporto preordinato
delle monadi fra di loro. Leibniz stesso nota che la sua dottrina fa dell'anima
una specie di macchina immateriale (/bid., pag. 548). Questo tratto rivela
quanto la sua dottrina sia lontana dalla nozione contemporanea di C.: la quale,
come si è detto, non è mai automatica e non può sussistere tra gli automi o tra
le parti di un automa. COMUNISMO (ingl. Communism; franc. Communisme; ted.
Kommunismus). L'ideologia politica che trova il suo programma nel Manifesto dei
coCONATO munisti pubblicato da Marx ed Engels nel 1847; come è stato sviluppato
nelle opere di Marx ed Engels nonchè di Lenin e Stalin. Tale ideologia può
essere riassunta nei capisaldi seguenti: 1° la dipendenza della personalità
umana dalla società storicamente determinata cui essa appartiene, dipendenza
per la quale essa è nulla fuori e indipendentemente dalla società stessa; 2° la
dipendenza della struttura di una società storicamente determinata dai rapporti
di produzione e di lavoro che sono propri di tale società e che determinano
tutte le manifestazioni di essa: moralità, religione, filosofia, ecc., oltrecchè
le forme della sua organizzazione politica. Questi due punti costituiscono la
dottrina del materialismo storico (v.); 3° il carattere permanente e necessario
della lotta di classe in ogni e qualsiasi società capitalistica, cioè in ogni
società nella quale i mezzi di produzione siano proprietà di privati; 4° il
necessario, inevitabile trapasso dalla società capitalistica, dopo che essa ha
raggiunto il suo maximum di concentrazione della ricchezza in poche mani e di
immiserimento e livellamento di tutti i lavoratori, nella società socialista
che possiede ed esercita direttamente i mezzi di produzione, ed è perciò senza
classi; 5° l’esistenza di un periodo di trapasso tra la società capitalistica e
la società comunistica durante il quale il proletariato s’impadronirà del
potere dello Stato e lo eserciterà, come aveva fatto il capitalismo, nel
proprio interesse. Questo sarà il periodo della dittatura del proletariato. Di
questi capisaldi il C. russo ha soprattutto sottolineato l’ultimo che, nelle
opere di Marx ed Engels, rimaneva secondario. E l’ha sottolineato
trasformandolo, nel senso d'intendere la dittatura del proletariato come
dittatura del partito comunista, e affidando al partito stesso la funzione di
avanguardia del proletariato. Il partito diviene in tal modo lo strumento
fondamentale per la realizzazione della società nuova e pretende di subordinare
a sè, controllare e dirigere, ogni azione diretta a questo scopo. Tale
preminenza del partito, già teorizzata da Lenin, fu portata agli estremi da
Stalin, con l’affermazione della necessaria « partiticità » della scienza,
dell’arte, della filosofia e in generale di ogni attività intellettuale:
partiticità che non significa altro se non la subordinazione di tali attività
agli interessi del partito, quali si trovino ad essere interpretati o stabiliti
dai dirigenti di esso. COMUNITÀ (ingl. Community; franc. Communauté; ted.
Gemeinschaft). 1. Kant aveva chiamato con questo termine la terza categoria
della relazione e precisamente quella dell’azione reciproca, nonchè la
corrispondente terza analogia dell’esperienza (o principio della C.) così
espressa: «Tutte le sostanze, in quanto possono essere per10 — AuHnagnano,
Dizionario di filosofia. 14cepite nello spazio come simultanee, sono tra loro
in un'azione reciproca universale ». Egli annotava a questo proposito: « La
parola Gemeinschaft ha un doppio significato che può indicare tanto communio
quanto anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo senso, come
comunione dinamica senza la quale anche quella spaziale (communio spatiî) non
potrebbe mai essere conosciuta empiricamente » (Crit. R. Pura, Analitica dei
principi, 33 analogia). In quest’applicazione il termine non ha avuto fortuna.
2. Esso invece è stato adoperato dal Romanticismo, a partire da Schleiermacher,
per indicare la forma di vita sociale caratterizzata da un organico,
intrinseco, perfetto legame tra i suoi membri. In tal senso la C. è stata
contrapposta alla società in un’opera di FERDINANDO TONNIES, C. e Società,
pubblicata nel 1887. «Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente esclusivamente
insieme, diceva Tònnies, è compreso come la vita in comunità. La società è ciò
che è pubblico, è il mondo; al contrario ci si trova in C. con i propri cari
sin dalla nascita, legati ad essi nel bene e nel male. Nella società si entra
come in una terra estranea. Si mette l’adolescenza in guardia contro la cattiva
società, ma l’espressione ‘cattiva C.’ suona come una contraddizione»
(Gemeinschaft und Gesellschaft,1, 1). Così espresso questo concetto contiene ovvie
connotazioni valutative per le quali si presta poco ad un uso oggettivo:
giacchè è abbastanza chiaro che non esiste nessuna pura C. e nessuna pura
società e che il bisogno di operare una distinzione in questo senso è suggerito
non dall’osservazione ma dall'aspirazione a un ideale. Pertanto nell’uso dei
sociologi posteriori (tra i quali Simmel, Cooley, Weber, Durkheim, e altri)
questo significato si è venuto trasformando sino ad assumere quello corrente
nella sociologia contemporanea di distinzione fra relazioni sociali di tipo
/ocalistico e relazioni di tipo cosmopolitico: che è una distinzione puramente
descrittiva fra comportamenti legati alla C. ristretta in cui si vive e
comportamenti orientati o aperti verso una più larga società (R. K. MERTON, Social
Theory and Social Structure, 1957, pag. 393 sgg.). CONATO (lat. Conatus). Si
indicò con questo nome nel Rinascimento l’ormé stoica (Dioc. L., VII, 85) cioè
l’isrinto (v.) o la tendenza di ogni essere alla propria conservazione. Questo
concetto trovò la sua forma classica in Spinoza, secondo il quale « lo sforzo
di conservarsi è la stessa essenza della cosa» (£f., IV, 22, cor.). Esso «si
chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando si riferisce insieme
alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò è l’essenza stessa
dell’uomo » (Ibid., III, 9, Scol.). Nello stesso senso adoperava la parola
Vico: «La matura cominciò ad esistere per un atto di C.; in altri termini, il
C. è la natura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in procinto di giungere
all’esistenza» (De antiquissima Italorum sapientia, 4, $ 1). Hobbes dette un
nuovo concetto del termine: intese per C. il movimento istantaneo cioè «il
movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio o tempo dato » (De corp.,
15, $ 2). Leibniz in un primo tempo ha inteso il C. nello stesso senso: « Il
conatus, egli disse, sta al movimento come il punto allo spazio, cioè come
l’unità all’infinito: è l’inizio o la fine del movimento » (Hypothesis Physica
Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 229). Ma in sèguito identificò il C.
con la forza attiva cioè con l'energia cui egli ridusse la materia stessa: « La
forza attiva, che si suole anche dire senz'altro forza, non è da concepirsi
come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come una ricettività di
azione, ma implica un conatus, cioè una tendenza all’azione, cosicchè, se non
c’è impedimento, ne deriva l’azione » (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt,
VI, pag. 100). Lo stesso concetto si trova in Wolff (Cosm., $ 149) (v. SFORZO).
CONCAUSA (gr. avvartia). Platone indicò con questo termine la causa naturale
che concorre con quella ideale alla formazione delle cose del mondo (Tim., 68
e). CONCETTO (gr. x6y06;
lat. Conceptus; inglese Concept; franc. Concept; ted. Begriff). In generale, ogni procedimento che renda
possibile la descrizione, la classificazione e la previsione degli oggetti
conoscibili. Così inteso, il termine ha significato generalissimo e può
includere ogni specie di segno o procedura semantica, quale che sia l’oggetto
cui si riferisce, astratto o concreto, vicino o lontano, universale o
individuale, ecc. Si può avere un C. del tavolo come del numero 3, dell’uomo
come di Dio, del genere e della specie (i cosiddetti universali [v.]) come di
una realtà individuale, per es., di un periodo storico o di una istituzione
storica (il « Rinascimento » o il « Feudalesimo +). Per quanto il C. sia
normalmente indicato da un nome, esso non è il nome, giacchè differenti nomi
possono esprimere lo stesso C. o differenti C. possono essere indicati, per
equivocazione, dallo stesso nome. Il C. inoltre non è un elemento semplice o
indivisibile ma può essere costituito da un insieme di tecniche simboliche
estremamente complesse; come è il caso delle teorie scientifiche che possono
anche essere chiamate C. (il C. della relatività, il C. di evoluzione, ecc.).
Il C. non si riferisce neppure necessariamente a cose o fatti reali giacchè ci
possono essere C. di cose inesistenti o passate o la cui esistenza non è
verificabile o ha un senso specifico. Infine, l’allegato carattere di
universalità soggettiva o validità intersoggettiva del C. è in realtà
semplicemente la sua comunicabilità di segno linguistico: la funzione prima e
fondamentale del C. essendo quella stessa del linguaggio cioè la comunicazione.
La nozione di C. dà origine a due problemi fondamentali: quello circa la natura
del C. e quello circa la funzione del C. stesso. Questi due problemi possono
coincidere ma non coincidono necessariamente. A) ll problema della natura del
C. ha avuto due soluzioni fondamentali: 1° per la prima il C. è l'essenza delle
cose e precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere
in modo diverso da ciò che sono; 2° per la seconda soluzione il C. è un segno.
1° La concezione del C. come essenza è quella del periodo classico della
filosofia greca: nel quale il C. è assunto come ciò che si sottrae alla
diversità o al mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perchè si
riferisce a quei tratti che, essendo costitutivi dell’oggetto stesso, non vengono
alterati da un mutamento di prospettiva. Nei primordi della filosofia greca, il
C. è apparso come il termine conclusivo di una ricerca, che prescinde, per
quanto è possibile, dalla mutevolezza delle apparenze, per puntare a ciò che
l'oggetto è «realmente», cioè nella sua «sostanza » o «essenza ». Questa
ricerca è apparsa ai Greci come il còmpito proprio dell’uomo quale animale
ragionevole, cioè come il còmpito proprio della ragione; e infatti C. e ragione
vengono designati dai Greci con lo stesso termine, /ogos. Aristotele
attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto « il ragionamento induttivo e
la definizione dell’universale, due cose che entrambe riguardano il principio
della scienza » (Mer., XIII, 4, 1078 b). Lo stesso merito viene a Socrate riconosciuto
da Senofonte (Mem., IV, 6, 1): Socrate ha mostrato come il ragionamento
induttivo porti alla definizione del C.; e il C. esprime l’essenza o la natura
di una cosa; ciò che la cosa veramente è. Platone fa dell’universale socratico
la realtà stessa. Il bello, il bene, il giusto sono sostanze cioè realtà, anzi
realtà nel senso forte del termine, realtà assolute. Platone adopera gli stessi
termini (sostanza, specie, forma o semplicemente enti) per indicare le realtà
ultime come sono «in se stesse» e come sono «in noi» (cioè come C.). La mente
umana contiene «la verità degli enti » (Men., 86 a-b); essa trova già come sue
le sostanze che costituiscono la struttura fondamentale della realtà (Fed., 76
d-e). Aristotele non fa su questo punto che riprodurre, e articolare in una
dottrina assai più complessa, il punto di vista platonico. Il C. (Jogos) è ciò
che circoscrive o definisce la sostanza o l’essenza necessaria di una cosa (De
an., II, 1, 412 b 16): perciò esso è indipendente dal generarsi e corrompersi delle
cose e non può esser prodotto o distrutto da tali processi (Met., VII, 15, 1039
b 23). In altri termini, il C. è per Aristotele identico con la sostanza, che è
la struttura necessaria dell’essere, ciò per cui ogni essere non può essere
diverso da ciò che è (vedi SOSTANZA). Queste determinazioni sono rimaste
tipiche della concezione del C. come essenza. Rispetto ad esse, il carattere
dell’universalità appare secondario e derivato: per universale, dice
Aristotele, intendo «ciò che inerisce al soggetto in ogni caso e per sè e in
quanto un soggetto è quello che è » (An. post., I, 4, 73 b 25 sgg.). Ora, «ciò
che inerisce al soggetto in ogni caso e di per sè, ecc.» non è altro che
l’essenza necessaria del soggetto stesso, quel che esso non può non essere: sicchè
l’universalità è per Aristotele la sostanzialità o necessità del concetto.
Perciò Aristotele dice che ci può essere C. anche dell’individuo (del « sinolo
» o composto di materia e forma) per quanto non dell’individuo considerato
nella sua materia che è indeterminata, quindi indefinibile, e che, per es., il
C. di un uomo è l’anima (Mer., VII, 11, 1037 a 26); distingue C. comuni e C.
propri (De an., II, 3, 414 b 25); e parla di « C. materiali », quali sono le
emozioni le quali sono definite mediante i movimenti del corpo che le suscitano
(/bid., I, 1, 403 a 25). Nell’àmbito di quest’identificazione del C. con
l'essenza, non costituisce innovazione decisiva il far derivare, come fa
Epicuro, il C. stesso dalle sensazioni; giacchè questa derivazione, per il carattere
necessariamente veridico delle sensazioni, garantisce la realtà del C. (Drogo.
L., X, 32). Dall’altro lato la disputa medievale sugli universali (v.) — con la
quale parola s'intendono i C. di genere e di specie — è in realtà la disputa
tra le due concezioni fondamentali del C., quella platonico-aristotelica e
quella stoica: il realismo rappresenta la prima di tali concezioni, il
nominalismo la seconda. Non fa meraviglia che la Scolastica la quale è nata e
si è sviluppata, dal punto di vista logico e gnoseologico, sotto il segno del
neo-platonismo agostiniano e dell’aristotelismo, abbia scelto prevalentemente
la soluzione realistica del problema degli universali, affermando la realtà del
C. come elemento costitutivo o essenziale della realtà stessa. S. Tommaso dice:
« Poichè ogni conoscenza è perfetta nella misura in cui c’è simiglianza tra il
conoscente e il conosciuto, occorre che nel senso ci sia la simiglianza della
cosa sensibile quanto agli accidenti di essa, ma nell’intelletto ci sia la simiglianza
della cosa intesa quanto all'essenza di essa » (Contra gent., IV, 11). Il C. «
penetra nell'interno della cosa » (/bid., IV, 11) coglie l’essenza o la
sostanza di essa giacchè non è altro che questa sostanza asrrarta dalla cosa
stessa. Attraverso l’interpretazione della sostanza aristotelica, come es-senza
necessaria, Duns Scoto riafferma la stessa tesi: il C. ha per oggetto una «
natura comune» che è il quod quid erat esse di Aristotele. Essa «non è così
universale come il C., nè così individuale come la cosa, ma è a fondamento
dell’uno e dell’altra » (Op. Ox., II, d. 3, q. 1, n. 7). Questo realismo non
subisce mutamenti importanti neppure nella filosofia moderna. L’identità di C.
e realtà, forse presupposta da Cartesio, è resa esplicita da Spinoza: «Il
circolo esistente nella natura e l’idea del circolo esistente, la quale è anche
in Dio, sono una sola e medesima cosa, che si manifesta per diversi attributi »
(Er., II, 7, Scol.). Un realismo del C., limitato tuttavia alla realtà
fenomenica (che è poi la sola accessibile all'uomo) è la stessa dottrina di
Kant. Difatti se i C. empirici si riferiscono alle cose solo per il tramite di
una sensazione, i C. puri o caregorie entrano a costituire le cose stesse in
quanto percepite, cioè apparenti nell’esperienza. I C. puri o categorie sono
infatti, nello stesso tempo, «forme dell’intelletto » e «condizione degli
oggetti fenomenici ». Essi cioè entrano a costituire gli stessi oggetti
fenomenici, cioè gli oggetti di ogni esperienza possibile (Critica R. Pura, Analitica
dei concetti, $ 10). La dottrina fondamentale del kantismo è per l’appunto il
carattere costitutivo dei C. puri, carattere sul quale si fonda lo stesso
carattere rappresentativo dei C. empirici (Zbid., $ 16, nota). Indubbiamente,
per Kant il C. non è tutta la realtà e non è creativo della realtà stessa:
costituisce l’ordine necessario, per cui la realtà si rivela all’indagine
scientifica come sottoposta a leggi immutabili. Ma appunto per ciò costituisce
la struttura ossea, o l’ossatura necessaria, della realtà empirica, cioè della
sola realtà che l'uomo possa indagare e conoscere. Da questo punto di vista,
l’intero armamentario del criticismo sembra sia diretto a riconfermare la tesi
classica, platonico-aristotelica, sulla natura del C.: la sua identità con la
sostanza necessaria della realtà. E questa stessa tesi, senza le limitazioni
del fenomenismo kantiano, si trova nell’Idealismo romantico: che però accentua
la funzione creativa del C. e identifica il C. stesso col Principio razionale
infinito, creatore e organizzatore della realtà stessa. È un luogo comune della
filosofia hegeliana che il C. non è una pura rappresentazione soggettiva ma è
l’essenza stessa delle cose, il loro «in sè ». «La natura di ciò che è, è di
essere, nel proprio essere, il proprio C., dice Hegel; e in ciò sta, in
generale, la necessità logica » (Phénom. des Geistes, Pref., $ 3). L’Idea
assoluta o infinita, la Ragione autocosciente che è la sostanza del mondo, non
è altro che « il C. come C.» (Enc., $ 213). «Il C., dice ancora Hegel — non ciò
che si ode spesso chiamare in tal modo ed è soltanto un’astratta determinazione
148 intellettualistica — è unicamente ciò che ha realtà, in maniera cioè da
darsi esso stesso la realtà» (Fil. del Dir., $ 1). Nella concezione hegeliana,
la struttura necessaria della realtà è divenire e progresso e si è posta come
Ragione infinita e creatrice. Per quanto grande la distanza possa apparire tra
questa e la concezione classica, essa non lo è dal punto di vista della teoria
del C.; per Hegel, come per Aristotele, il C. è l’essenza necessaria della
realtà, ciò che fa sì che essa non possa esser diversa da quella che è. Nella
filosofia contemporanea l’idealismo ha ripreso l’interpretazione hegeliana del
C. come realtà necessaria o necessità reale. Croce, per es., l'intende come
sviluppo, divenire e sistema, attività razionale e concreta, spirito o ragione
(Logica come scienza del C. puro, 1908). Un ritorno alla forma classica che
l’interpretazione del C. aveva assunto in Aristotele si può invece considerare
la fenomenologia di Husserl. Husserl condivide la polemica del logicismo
moderno contro lo psicologismo che vede nel C. una formazione psichica (v.
PsicoLoGIsMo). Formazione psichica è, per es., la rappresentazione di numero
che varia da momento a momento e da un individuo a un altro; ma il C. di numero
è sempre quello, ed è un’entità intermporale. I C. devono perciò essere
ritenuti identici con le essenze ed è anzi meglio parlare, anzichè di C., di
essenze (che sono oggetti) e, dal lato soggettivo, di « visione delle essenze »
come atto analogo al percepire sensibile (Ideen, I, $$ 22-23). Così in quella
che è l’ultima formulazione storica dell’interpretazione del C. come realtà
necessaria, il termine stesso di C. viene abbandonato come improprio, analogamente
a quanto accade negli sviluppi della seconda interpretazione del concetto. 2°
Per tale seconda interpretazione, il C. è un segno dell’oggetto (quale che sia)
e si trova con esso in rapporto di significazione. Per questa interpretazione,
che si presenta per la prima volta negli Stoici, la dottrina del C. diventa una
teoria dei segni. Non ci può essere segno, secondo gli Stoici, nè delle cose
evidenti nè delle cose assolutamente oscure; ci può essere soltanto delle cose
oscure per il momento od oscure per loro natura. A queste due specie di cose
corrispondono due specie di segni: 1° i segni rammemorativi che si riferiscono
alle cose oscure per il momento; 2° i segni indicativi che si riferiscono alle
cose oscure per natura. Un segno rammemorativo si ha, per es., quando si dice
«Se c’è fumo, c’è fuoco»? non vedendo ancora fuoco. Un segno indicativo è, per
es., un movimento del corpo, in quanto esprima uno stato dell'anima. Per segno
s’intende poi «una proposizione che, essendo antecedente in una connessione
vera, è discopritrice del conseguente ». In CONCETTO altri termini si ha un
segno, se si ha una proposizione condizionale del tipo «Se... allora», la quale
soddisfi a due condizioni: 1° deve cominciare dal vero e finire nel vero, cioè
sia l’antecedente che il conseguente devono essere veri; 2° deve essere
discopritiva, cioè deve dire qualcosa non immediatamente evidente. Ad es., «Se
è giorno, c’è luce », detto quando è giorno, non è ancora un segno; mentre è un
segno la proposizione: «Se questa ha latte, allora ha partorito» dove
l’antecedente è discopritore del conseguente (/por. Pirr., II, 97 sgg.; Adv.
Dogm., II, 141 sgg.). Questa dottrina stoica dei segni (sulla quale v.
SIGNIFICATO) è rimasta il modello della seconda alternativa fondamentale che la
dottrina del C. ha storicamente trovato. Trasmessa da Boezio alla Scolastica
latina, essa trova la sua prossima tappa nella logica di Abelardo (x secolo) il
quale accentuando il carattere predicativo del C., negò che esso potesse essere
considerato sia come una cosa (res) sia come un nome (vox) — giacchè nè la cosa
nè il nome (che è pure una cosa) possono essere predicati di un’altra cosa — e
considerò il C. stesso come un sermo (discorso). A differenza della vox, il
sermo implica il riferimento semantico ad una realtà significata, riferimento
che la Scolastica posteriore chiamerà suppositio. La realtà significata non è,
secondo Abelardo, nè una sostanza universale nè una classe di cose singole ma
lo sraro comune in cui convengono un gruppo di cose. In questo senso Abelardo
dice che «la causa comune» dell’universale «uomo» è lo status di uomo che non è
nè una cosa nè una sostanza ma piuttosto ciò in cui tutti gli uomini convengono
in quanto tali (Philosophische Schriften, ed. Geyer, pag. 19-20). La dottrina fu
poi ripresa dalla logica terministica che trovò Ia sua formulazione scolastica
nelle Summulae Logicales di Pietro Ispano (verso la metà del 1200). Nelle
Summu/ae la funzione del termine, sia universale sia particolare, viene
definita mediante la nozione di supposizione (v.) per la quale i termini stanno
in luogo della cosa supposta, sicchè, per es., nella proposizione « l’uomo
corre», il termine « uomo » sta per Socrate, Platone, e così via (Sumunulae
Log., 6.03). La Scolastica del ’300 segna il definitivo abbandono del realismo
o formalismo che era prevalso in S. Tommaso e Duns Scoto, e un ritorno della
teoria stoica del concetto. Questo è chiamato intfentio animae come ogni altro
atto o elemento di conoscenza (giacchè la conoscenza si riferisce sempre a
qualcosa d’altro da sè) ed è definito come «segno predicabile di più cose».
Secondo Ockham, il C. possiede inoltre un altro carattere fondamentale: è un
segno naturale. Egli dice: «L’universale è duplice. Uno è l’universale naturale
che è un segno predicabile di più cose; al modo in cui il fumo naturalmente
significa il fuoco, il gemito dell’infermo il dolore, e il riso l’interna
gioia. Tale universale è solo un’intenzione dell’anima, giacchè nessuna
sostanza fuori dell’anima e nessun accidente fuori dell’anima è un universale
siffatto... L'altro è l’universale istituito ad arbitrio (per voluntariam
institutionem); e in questo senso la voce profferita, che tuttavia è una
qualità numericamente una, è universale perchè è un segno istituito
arbitrariamente per significare più cose» (Summa Log., I, 14). La funzione
logica del C. è quella della supposizione, per la quale il C. stesso, in tutti
i complessi in cui entra, sta per le cose significate; quanto alla realtà che
il C. stesso possiede nell'anima come infentio animae, Ockham non si mostra
interessato a decidere; e sembra anzi inclinare alla dottrina estrema che il C.
non ha nell’anima alcuna realtà ma esiste soltanto in essa obiective cioè a
titolo di rappresentazione o di immagine (In Sent., I, d. 2,q.8E). La dottrina
di Ockham è tipica della posizione empiristica rispetto alla natura del C.,
posizione che ha costantemente due capisaldi: 1° la natura segnica del C.; 2°
la sua connessione causale con le cose, delle quali sarebbe il naturale
prodotto nell’uomo. Questa dottrina si ritrova infatti in Locke (Saggio, III,
3, $$ 6-9), in Berkeley (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12 sgg.) e in
Hume (7rearise, I, 1, 7). Hume invoca l’abitudine per spiegare la genesi
psicologica del C. (/bid., I, 1, 7); James Mill invoca la legge
dell’associazione psicologica (Analysis of the Phenomena of the Human Mind, 2*
ed., 1869, I, pagina 78 sgg.) e così fa pure Stuart Mill (Examination of Phil.
of Hamilton, pag. 393). È proprio dell’empirismo assumere la spiegazione psicologica
della genesi del C. come giustificazione della sua validità: cioè ritenere
dimostrata la validità del C. e la legittimità del suo uso per aver mostrato il
modo in cui esso viene a formarsi nell'uomo con l’azione dell’astrazione (come
riteneva Locke) o della associazione psicologica, come ritengono gli Empiristi
della prima metà dell’800. Ma già Kant aveva insistito sulla differenza tra le
due cose distinguendo la « derivazione fisiologica » dei C. tentata da Locke,
dalla « deduzione » dei C. stessi, cioè dalla dimostrazione della loro validità
(Crir. R. Pura, $ 13). La distinzione tra validità logica e realtà psicologica
dei C. si mantiene in tutte le scuole del neo-criticismo tedesco contemporaneo
(e soprattutto dalla Scuola di Marburgo cui appartengono Cohen, Natorp e
Cassirer) ed era stata riaffermata come indispensabile alle formulazioni del
pensiero matematico e in generale del pensiero scientifico, da Bolzano nella
sua Dottrina della scienza (1837). L’elabora149 zione matematica della logica
portava ad insistere sulla natura oggettiva, non psicologica, del C., come
sulla sua natura simbolica. Questi due aspetti del C. vengono sottolineati da
Frege. In uno scritto del 1890 egli asseriva che « il C. è qualcosa di
oggettivo, che non viene costruito per opera nostra »; e che pertanto una
proposizione come «Il numero 3 è un numero primo +» è « qualcosa di
completamente indipendente dalla circostanza che noi vegliamo, o dormiamo,
viviamo 0 no; qualcosa che vale e varrà oggettivamente sempre, non importando
se esistano o esisteranno esseri che riconoscano 0 no questa verità » (Ueber
das Tràgheitsgesetz, 1890, in Aritmetica e logica, ed. Geymonat, pag. 211-12).
Da questo punto di vista, Frege definiva il C. come «il significato di un
predicato » (Ueber Begriff und Gegenstand, 1892, $ 2; ed. Geymonat, pag. 199);
e definiva il significato stesso come l’oggetto designato dal segno
distinguendo il significato dal senso che denota « il modo in cui l’oggetto ci
vien dato» (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1, ed. Geymonat, pag. 216 sgg.).
Queste notazioni di Frege sono molto importanti perchè segnano l’inizio della
risoluzione, avvenuta in buona parte della filosofia contemporanea, della
nozione di C. nella nozione di significato. Già Husserl (che tuttavia sosteneva
un realismo concettualistico) considerava i C. come significati (Bedeutungen:
cfr. Ideen, I, $ 10). «Termini o significati » chiama i C. Dewey che sotto
questo titolo procede a classificarli (Logic, cap. XVIID. E R. Carnap
identificando, nello stesso senso di Frege, il C. con l'oggetto intendeva per
esso « tutto ciò su cui possono formularsi proposizioni » (Der logische Aufbau
der Welt, 1928, $ 5). Dell’avvenuta identificazione tra C. e significato dava
atto nel 1942 Susan K. Langer mostrando la convergenza di molte correnti della
filosofia contemporanea verso il riconoscimento del simbolismo nella scienza,
nell’arte, nella filosofia e in generale in tutte le forme culturali umane
(Philosophy in a New Key, 1942, cap. III). Quine ha indicato esattamente il
punto critico della trasformazione delia nozione di C. quando ha detto « il
significato è ciò che l’essenza diventa quando ha fatto divorzio dall’oggetto
di riferimento e si è sposata con la parola » (From a Logical Point of View,
II, 1). È tuttavia da notare che il termine C. o significato viene più
frequentemente riferito a indicare la connotazione che la denotazione. Così
Carnap negli ultimi scritti ha inteso per concetto la proprietà o l'attributo o
la funzione (Introduction to Semantics, 1942; 2» ediz., 1959, $ 37). Ciò
costituisce una eccezione alla terminologia proposta da Frege, eccezione
tuttavia che è raccomandata dai logici (confronta A. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, $ 01, e n. 17). V. SIGNIFICATO. B) La funzione del C. può
essere concepita in due maniere fondamentali diverse, cioè come finale e come
strumentale. Funzione finale attribuisce al C. l’interpretazione di esso come
essenza: giacchè per questa interpretazione il C. non ha altra funzione se non
di esprimere o rivelare la sostanza delle cose. La funzione si identifica da
questo punto di vista con la natura stessa del concetto. Quando invece si
ammetta la teoria simbolica del C., si ammette con ciò anche la strumentalità
di esso; e questa strumentalità può essere chiarita e descritta nei suoi
molteplici aspetti. Gli aspetti principali sono i seguenti: 1° La prima
funzione attribuita al C. è quella di descrivere gli oggetti dell'esperienza
per consentirne il riconoscimento. Era questa la funzione principale che
Epicurei e Stoici attribuivano alle anticipazioni (o prolessi). Secondo gli
Epicurei, l’anticipazione è « una comprensione o retta opinione o pensiero o
nozione universale insita in noi come memoria di ciò che ci è spesso apparso
fuori di noi» (Dioc. L., X, 33). Questa funzione descrittiva o riconoscitiva
del C. viene spesso sottaciuta in quanto è la più ovvia. Recentemente G.
Bergmann ha chiamato I C. parole-caratteri (CharacterWords) per indicare la
loro funzione descrittiva o referenziale (Philosophy of Science, 1957, pag.
13). 2° La seconda funzione attribuita al C. è quella economica. A questa
funzione si lega il carattere classificatorio del C. stesso. «La varietà delle
reazioni biologicamente importanti, ha detto E. Mach, è molto minore della
varietà degli oggetti esistenti. Perciò l’uomo è stato condotto a classificare
i fatti nei concetti. Lo stesso procedimento si riproduce quando, in una
professione, si affrontano fatti che non offrono più interessi biologici
immediati » (Erkenniniss und Irrtum, 1905, cap. VIII; trad. franc., pag. 136).
Sotto questo aspetto, i C. sono «segni riassuntivi e indicativi delle reazioni
possibili dell'organismo umano nei confronti dei fatti » (Mechanik, 1883, pag.
510). È questo il carattere su cui hanno fatto leva alcuni filosofi per negare
il carattere teoretico dei C. scientifici a vantaggio di una forma superiore o
privilegiata di conoscenza. Così Bergson ha contrapposto al C., semplice schema
economico ai fini dell'azione, l'intuizione (Évolution Créatrice, 88 ediz.,
1911, pag. 247 sgg.). Croce ha chiamato per questo motivo i C. scientifici
pseudo-concetti riservando il nome di C. alla Ragione stessa (Logica, cap. II).
3° La terza funzione del C. è quella di organizzare i dati dell’esperienza in
modo tale da stabilire tra essi connessioni di natura logica. Un C.,
soprattutto un C. scientifico, non si limita, di regola a descrivere e
classificare i dati empirici ma rende possibile la loro derivazione deduttiva
CONCETTO-CLASSE (DuHEM, La théorie physique, pag. 163 sgg.). È questo l’aspetto
per cui la formulazione concettuale delle teorie scientifiche ténde
all’assiomatizzazione: la generalizzazione e il rigore dell’assiomatizzazione
tendono a portare al limite il carattere logicamente organizzativo del
concetto. 4° La quarta funzione del C., ritenuta oggi quella fondamentale nelle
scienze fisiche, è la previsione. Come già riconoscevano gli Stoici, lo scopo
di un segno è in generale quello di prevedere; e il nome di anticipazione, che
Epicurei e Stoici davano al C., esprime appunto questa funzione. Per essa, il
C. è un mezzo o procedimento anticipatorio o progettante. Per Dewey, esso
anticipa o progetta la soluzione di un problema esattamente formulato (Logic,
XX, $ 1; trad, ital, pag. 516; cfr. XXIII, $ 1; pag. 599). Per altri la
funzione anticipatoria del C. è lo strumento di cui la scienza si serve « per
predire l’esperienza futura alla luce dell'esperienza passata » (Quine, From a
Logical Point of View, II, 6). Alle funzioni della organizzazione e della
previsione adempiono oggi i tipi fondamentali dei C. scientifici che non sono
nè descrittivi nè classificatori: cioè i modelli, i C. matematici e i
costrutti. I modelli costituiscono semplificazioni o idealizzazioni
dell’esperienza e si ottengono portando al limite caratteri o attributi propri
degli oggetti empirici. Sono modelli in questo senso i C. di velocità
istantanea, di sistema isolato, di gas perfetti e in generale i modelli
meccanici. I C. matematici sono semplicemente occasioni per introdurre speciali
procedimenti di calcolo e in questo senso sono strumenti di previsione. Il C.
di «onda di probabilità », proprio della meccanica quantistica, appartiene a
questa specie: come appartengono a questa specie quelli di «campo tensoriale »,
« spazio CUTvo ?, ecc. Infine i costrutti (v.) sono C. di entità che non sono
date nell'esperienza e non somigliano neppure ad oggetti dati, e la cui
esistenza consiste semplicemente nella possibilità di essere usate come
strumenti di previsione nel contesto di una teoria. Sono esempi di costrutti i
C. di campo, di elettrone, di etere, ecc. (P. W. BRIDGMANN, The Logic of Modern Physics, 1927,
cap. II; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957, IV, 2). CONCETTO-CLASSE (ingl. Class-Concept). Termine
introdotto nella Logica da Russell (The Principles of Mathematics): designa il
C. mediante cui si definisce una c/asse (v.), o, più esattamente, la funzione
proposizionale « Fx» le cui radici formano la classe, in modo che condizione
necessaria e sufficiente perchè un individuo a sia un elemento di una classe («
appartenga alla classe +) definita mediante una funzione «Fx+è che la
proposizione « Fa» sia vera. G.P. CONCETTUALISMO (ingl. Conceptualism; franc.
Conceptualisme; ted. Conceptualismus). Nome che gli storici ottocenteschi della
filosofia medievale hanno dato a quella corrente della Scolastica medievale che
gli Scolastici stessi chiamavano nominalismo (v.); ciò allo scopo di
distinguere il nominalismo estremo di Roscellino, per il quale il concetto
universale è una semplice vox o ffatus vocis dal nominalismo di Abelardo, per
cui l’universale stesso è un discorso (sermo) predicabile di più cose e dal
nominalismo posteriore che s’ispira ad Abelardo (v. NOMINALISMO; UNIVERSALI).
CONCEZIONE (ingl. Conception; franc. Conception; ted. Konzeption). Questo
termine designa (come quelli corrispondenti di percezione e di imaginazione),
sia l’atto del concepire, sia l'oggetto concepito; ma, a preferenza, l’atto di
concepire anzichè l’oggetto, per il quale va riservato il termine concetto
(v.). Hamilton faceva già questa osservazione (Lectures on Logic, I, pag. 41)
che talora è ripetuta nella filosofia contemporanea: «Appena un concetto è
simbolizzato per noi la nostra imaginazione lo riveste di una C. privata e
personale, che possiamo distinguere solo per un processo di astrazione dal
concetto pubblico e comunicabile + (Susan K. LAnGER, Philosophy in a New Key,
cap. IID. CONCLUSIONE (lat. Conclusio; ingl. Conclusion; franc. Conclusion;
ted. Schluss). Mentre in Apuleio e Boezio conclusio è il termine mediante il
quale si designa la totalità di un discorso dimostrativo, nei Logici medievali
esso è usato come traduzione del ovurépacpa aristotelico e della trupopà
stoica, cioè per indicare la proposizione terminale del discorso dimostrativo
stesso (cfr. PIETRO ISPANO: « Est enim conclusio argumento vel argumentis
approbata propositio »; Summul. Log., 5.02). Nella filosofia moderna e
contemporanea ha mantenuto lo stesso senso. Solo nei filosofi tedeschi Sck/uss
è spesso usato per indicare l’intero sillogismo. G. P. CONCOMITANZA (ingl.
Concomitance; francese Concomitance; ted. Konkomitanz). Uno dei quattro metodi
della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e precisamente quello detto
delle « variazioni concomitanti » espresso con la seguente regola: « Un
fenomeno che vari in qualche maniera ogni volta che un altro fenomeno vari in
qualche particolare maniera è la causa o l’effetto di questo fenomeno o è
connesso con esso da qualche fatto di causazione » (Logic, III, 8, $ 6). A
questo metodo Mach ridusse tutti i procedimenti della scienza. «Il metodo delle
variazioni, egli disse, consiste nello studiare per ciascun elemento la
variazione che si trova legata alla variazione di ciascuno degli altri
elementi. Importa poco che tali variazioni si producano da sè o che noi le
provochiamo volontariamente; le relazioni saranno scoperte dall’osservazione o
dall’esperimento» (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc., pag. 28-29)
(v. ConCORDANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCORDANZA, METODO DELLA (inglese
Method of Agreement; franc. Méthode de concordance; ted. Methode der
Uebereinstimmung). Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enumerati
da Stuart Mill e precisamente quello espresso dalla regola seguente: « Se due o
più casi del fenomeno che si sta investigando hanno un’unica circostanza in
comune, la circostanza nella quale sola tutti i casi concordano è la causa, o
l’effetto, del fenomeno dato » (Logic, III, 8, $ 1). Un caso del metodo della
C. è la combinazione di esso con quello di differenza, combinazione che è retta
dalla seguente regola: «Se due o più casi nei quali il fenomeno ha luogo hanno
solo una circostanza in comune, mentre due o più casi nei quali esso non ha
luogo non hanno in comune se non l’assenza della circostanza, la circostanza
nella quale sola i due insieme di casi differiscono, è l’effetto o la causa, o
una parte indispensabile della causa del fenomeno + (/bid., $ 4) (v.
CONCOMITANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCRESCENZA (ingl. Concrescence).
Whitehead ha visto nell’evoluzione emergente (o creatrice) un « processo di C.
+ al quale contribuiscono egualmente l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale,
indissolubilmente uniti ed entrambi attivi (Process and Reality, pag. 151).
CONCRETO (ingl. Concrete; franc. Concret; ted. Konkret). Il contrario di
astratto (v.). I filosofi designano abitualmente col termine elogiativo di C.
ciò che s’adegua al loro criterio di realtà. Perciò C. non è sempre
l’individuale, il singolo, la cosa o l’essere esistente, come si potrebbe
credere e come è, forse, l’uso comune del termine. Per Hegel il C. è
l’Universale, la Ragione, l’Infinito, mentre l’astratto è appunto l'individuo,
l’oggetto singolo, ecc. « L’astratto è il finito, il C. è la Verità, l’Oggetto
infinito », dice Hegel (Philosophie der Religion, ed. Glockner, II, pag. 226; cfr.
Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 52 sgg.). Così Croce ha
parlato di un «universale C.» e Gentile del « pensiero C. ». Per Bergson il C.
è la durata reale, cioè la vita della coscienza nella sua immediatezza. Si può
dire che il termine non ha altra funzione che quella di qualificare
onorificamente la realtà, vera o supposta, che si intende privilegiare.
CONCREZIONE (ingl. Concrezion). Parola coniata da G. Santayana per indicare la
crescita dovuta all’unificazione di più cose. Così le C. formate da
un’associazione per simiglianza sono idee o essenze 0 «C. di discorso»; mentre
le C. costituite dall’associazione per contiguità sono cose. (Cfr. specialmente
Reason in Common Sense, 1905, pag. 161 sgg.). CONCUPISCENZA (lat.
Concupiscientia; inglese Concupiscence; franc. Concupiscence; ted. Geliste). È,
secondo S. Tommaso (che rinvia alla definizione aristotelica del piacere, Rer.,
I, 11, 1369 b 33) il desiderio del piacere (delectatio). Il piacere si può
provare sia per un bene spirituale, sia per un bene sensibile, e il primo
appartiene solo all’anima, il secondo all’anima e al corpo insieme: la C.
designa il desiderio di questa seconda specie di piacere, cioè il desiderio
sensibile (S. 7h., II, 1, q. 30, a. 1). CONCUPISCIBILE. Una delle parti dell’anima,
secondo Platone (v. FACOLTÀ). CONCURSUS DEI. Si designò con questa espressione,
negli ultimi tempi della Scolastica, la parte dovuta a Dio nella produzione e
nel comportamento delle sostanze finite. La dottrina dominante nella Scolastica
è quella esposta da S. Tommaso: che la causa prima, cioè Dio, è più efficiente
delle cause seconde che derivano il loro potere solo da essa (S. 7A., II, 1,
q.19,a. 4). Ma nell’ultima fase della Scolastica e precisamente ai principi del
sec. xIv, si cercò di limitare la portata della causalità divina, per evitare
che si attribuissero a Dio stesso le imperfezioni e i mali del mondo. Così
Durando di St.-Pourgains e Pietro Aureolo ritennero che il concorso di Dio con
la creatura è solo generale e mediato; che Dio crea le sostanze e dà loro la
forza di cui hanno bisogno, ma dopo ciò le lascia fare e si limita a
conservarle nel loro essere, senza aiutarle nelle loro azioni. Nell’età
post-cartesiana, sia gli occasionalisti, sia Spinoza, sia Leibniz ritornarono
alla nozione tradizionale dell’intera e piena causalità divina nel mondo.
Leibniz, in particolare, riespose a suo modo la dottrina del concorso divino,
distinguendo, oltre il concorso straordinario o miracoloso, un concorso
immediato e un concorso speciale: il primo che consiste nel fatto che l’effetto
non solo dipende da Dio ma che Dio concorre a produrlo non meno della causa
seconda di esso; e il secondo che è diretto non soltanto all’esistenza della
cosa ma anche al suo modo di esistere e alle sue qualità, giacchè ciò che nella
cosa c’è di perfetto non può dipendere che da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 653).
CONDILLACHISMO. V. Sensismo. CONDIZIONALE (gr. cvwupévoy délwpa; lat.
Propositio hypothetica; ingl. Conditional; francese Conditionnel; ted.
Bedingt). Una relazione tra due stati di cose o due proposizioni, indicata dal
connettivo se... allora. Questa relazione fu studiata per la prima volta nella
scuola di Megara e interpretata in due modi diversi da Filone e da Diodoro
Crono. Filone affermava che la relazione è vera quando non comincia dal vero e
finisce nel falso. Diodoro affermava invece che essa è vera quando non comincia
dal vero nè finisce nel falso. La condizione posta da Diodoro per la validità
del C. era perciò assai più ristretta di quella posta da Filone giacchè per
quest’ultimo una proposizione vera segue da ogni cosa (anche dal falso). Per
es., la relazione «Se è notte, è giorno », posto che sia giorno, è vera secondo
Filone perchè comincia dal falso (cioè ha l’antecedente falso) «è notte», ma
finisce nel vero (cioè ha il conseguente vero) « è giorno ». Secondo Diodoro,
invece, è falsa perchè ammette di cominciare dal vero, posto che sopraggiunga
la notte, e di finire nel falso «è giorno » (Sesto EMPIRICO, Adv. Math., VIII,
113117; Cicer., Acad., IV, 143). Le interpretazioni di Filone e di Diodoro
corrispondono perciò rispettivamente a quelle che oggi si chiamano implicazione
materiale e implicazione formale (v. IMPLICAZIONE): giacchè Filone interpretava
il C. «se è giorno, c'è luce » come se dicesse «0 non è giorno o c’è luce »,
mentre Diodoro l’interpretava come se dicesse «ora c’è giorno, dunque ci
dev'essere luce », ammettendo una connessione causale tra l’antecedente e il
conseguente. E difatti Filone ammetteva una tavola di verità che è identica a
quella dell’implicazione materiale. Il C. è vero in tre casi e falso in un
caso. È vero se comincia dal vero e finisce nel vero: « Se è giorno, c’è luce
»; è vero se comincia dal falso e finisce nel falso: «Se la terra vola, la
terra ha le ali». È vera se comincia dal falso e finisce nel vero: «Se la terra
vola, la terra esiste». È falsa solo quando comincia dal vero e finisce nel
falso: « Se è giorno, è notte», posto che sia giorno. E così la relazione: «Se
è giorno, io discorro », è vera secondo Filone, posto che io discorra, ma falsa
secondo Diodoro. La dottrina di Filone fu sostanzialmente accettata dagli
Stoici (Dio. L., VII, 73) e fu discussa nella logica medievale (che utilizzò la
trascrizione che ne aveva fatta Boezio) come dottrina della conseguenza (v.).
Nella logica moderna, la dottrina è stata ripresa da Frege (a partire dal
Begriffsschrift, 1879) e da Peirce a partire dal 1885; secondo il quale, il
principale vantaggio dell’interpretazione di Filone è quello che essa consente
di esprimere le proposizioni categoriche e le proposizioni condizionali nella
stessa forma. Così, per es., la proposizione « Ogni uomo è ragionevole» si può
esprimere dicendo: « Per ogni oggetto x qualsiasi, è vero che o x non è un uomo
o x è ragionevole » (PEIRCE, Coll. Pap., 3. 43945). Il concetto di C. è oggi il
più delle volte considerato equivalente a quello di implicazione (v.). Quine ha
tuttavia proposto una distinzione opportuna tra i due concetti: l’implicazione
dovrebbe essere intesa come relazione tra proposizioni e il C. come relazione
tra oggetti o stati di fatto. Così si dovrebbe dire « ‘Se piove” implica ‘la
terra si bagna ’ », mentre il C. sarebbe « Se piove, la terra si bagna »
(Methods of Logic, 1952, $ 7). CONDIZIONATO (ingl. Conditioned; francese
Conditionné; ted. Bedingt). Ciò la cui possibilità dipende da altro. Riflesso
C. ha chiamato Pavlov il riflesso prodotto da uno stimolo artificiale (v.
AZIONE RIFLESSA). Kant nella discussione delle antinomie della ragion pura
(Crif. R. Pura, Dialettica trascendentale, cap. II) ha usato la parola come
sinonimo di causato. Hamilton (Lectures on Metaphysics, 18591860) ha inteso per
C. il relativo; e in questo senso ha detto che « pensare è condizionare »
perchè ciò che si pensa o si conosce è quello che è rispetto alle facoltà
umane, non assolutamente. Lo stesso significato è attribuito alla parola da
Mansel (Phil. of the Conditioned, 1866). CONDIZIONE (ingl. Condition; franc.
Condition; ted. Bedingung). In generale, ciò che rende possibile la previsione
probabile di un evento. La nozione si è formata nell’età moderna, dapprima
attraverso il tentativo di liberare la nozione di causa dalle sue implicazioni
antropomorfiche, poi attraverso l’esigenza di liberarla dal suo carattere
necessitante. Claude Bernard, che tuttavia credeva nel carattere necessitante
della causa (v. CausaLITÀ), diceva: «L’oscura nozione di causa deve essere
confinata all’origine delle cose: non ha senso che quando si parla della causa
prima o causa finale. Nella scienza, deve far posto alla nozione di rapporto o
di condizione » (Lecons sur les phénoménes de la vie, II, pag. 396 sgg.).
Dall'altro lato, Stuart Mill, osservando che la successione invariabile in cui
la causalità consiste, raramente si trova tra un conseguente e un singolo
antecedente ma c’è il più delle volte tra un conseguente e la somma di diversi
antecedenti, che sono tutti richiesti « a produrre il conseguente, cioè
affinchè siano certamente seguiti da esso», aggiungeva: «In tali casi è cosa
assai comune mettere in evidenza uno solo degli antecedenti sotto la
denominazione di causa, chiamando gli altri soltanto condizioni» (Logic, III,
10, 3). La C. sarebbe così ciò che per suo conto non basta a produrre
l’effetto, cioè: non rende certo il verificarsi dell’effetto. Il che
corrisponde all’uso della parola C. nell'espressione (di origine giuridica)
conditio sine qua non, nella quale la C. significa una clausola o riserva da
cui dipende l’intera validità dell'atto giuridico, sebbene indubbiamente non
sia la causa di esso. Alla parola è pertanto connesso il significato di una
limitazione di possibilità tale che ciò che cade fuori delle possibilità così
limitate elimini o renda non-possibile l’oggetto condizionato. In riferimento a
questo significato, la parola viene usata da Kant. Per quanto l'opera di Kant
sia diretta a difendere il principio di causalità necessaria come forma o
struttura oggettiva della natura, essa fa un uso frequente della nozione di C.
in un significato che non è riconducibile a quello di causa e che Kant non si è
fermato di proposito a delucidare. L’uso kantiano è indicato da espressioni
come le seguenti, che s’incontrano frequentemente nella Critica della Ragion
Pura: « C. della possibilità dei fenomeni », « C. soggettiva della sensibilità
», « C. della possibilità di ogni esperienza », «C. formale di tutti i fenomeni
in generale» (il tempo), «C. soggettive del pensare » (le categorie), « C. a
priori per cui è possibile l’esperienza » (le categorie), ecc. In queste e
simili espressioni ciò che vi è di importante è la connessione tra « C.» e «
possibilità ». Kant qualche volta dice semplicemente « C.+, qualche volta dice
« C. della possibilità »; e le due espressioni s’equivalgono. Il che vuol dire
che, secondo Kant, dire che «x è la C. di y» o dire che «x rende possibile y »
significa la stessa cosa. Ciò che rende possibile qualcosa (per es., la
conoscenza o l’esperienza o il fenomeno) è la C. di questo qualcosa. Questa
definizione, certamente non data mai esplicitamente ma neppure soltanto
implicita, della nozione nell’opera di Kant, costituisce il punto decisivo
della elaborazione filosofica di essa. Un passo ulteriore nello stesso senso è
stato effettuato da Max Weber nella sua ricerca sul significato del principio
di causalità per le scienze storiche (1905). Per quanto Weber adoperi di
preferenza la parola causa e parli di spiegazione causale, ciò che egli dice si
riferisce più precisamente alla nozione di C.; e serve a collegare questa
nozione con quella di « possibilità oggettiva » (v. PossiBILITÀ) che è
indispensabile, secondo Weber, alla conoscenza storica. «Il giudizio sulla
possibilità oggettiva, dice Weber, ammette per sua essenza gradazioni; e si può
raffigurare la relazione logica in esso implicita con l’aiuto dei princìpi che
sono applicati nell’analisi del calcolo delle probabilità. Le componenti
causali, al cui ‘possibile’ effetto si riferisce il giudizio, possono
concepirsi isolate rispetto a tutte le C. che si possono in genere concepire
con esse cooperanti. Ci si può chiedere allora come il complesso di queste C.,
insieme alle quali le componenti isolate erano prevedibilmente adatte a
produrre la conseguenza possibile, si comporta rispetto a quelle altre C.,
insieme alle quali non l'avrebbero ‘ prevedibilmente * prodotta » Xritische
Studien auf dem Gebiet der Kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; trad. ingl. in Methodology of
Social Science, pag. 181-82). Ciò che qui Weber chiama « componente causale »
che sarebbe concettualmente isolata per formulare un giudizio di possibilità
oggettiva, cioè un giudizio sul corso che gli eventi avrebbero potuto prendere
se, per l’appunto, quella componente causale fosse intervenuta, non è altro che
una C. di possibilità, nel senso kantiano del termine. Aggiunge Weber: « Noi
possiamo enunciare giudizi generalmente validi intorno al fatto che una maniera
di reagire identica, in certe caratteristiche da parte di persone che
affrontano determinate situazioni, è favorita a un grado maggiore o minore e
possiamo stimare il grado al quale un certo effetto è favorito da certe C. »
(/bid., pag. 183). In queste parole il concetto della C. come limitazione di
possibilità oggettive e quindi prevedibilità probabile dell’evento, è
chiaramente espresso. Gli sviluppi della fisica che hanno segnato il tracollo
della nozione di causa (v. CAUSALITÀ) esigono la sostituzione del determinismo
condizionale al determinismo causale classico. Nel campo biologico, è facile
osservare come solo il concetto di C. è in grado di esprimere i rapporti
funzionali considerati da tale scienza; e, per es., quello tra stimolo e
risposta, che oggi non può più essere tradotto in termini di causalità, cioè di
previsione infallibile, e può essere invece espresso in termini di
condizionalità, cioè di previsione probabile (v. AZIONE RIFLESSA). Il concetto
di C. è inoltre largamente usato nella sociologia, nella teoria
dell’informazione, nella cibernetica e in generale nella teoria
dell’organizzazione o dei sistemi, perchè consente di conciliare la nozione
dell’ordine con un certo grado di contingenza o di casualità nelle relazioni fra
gli elementi che entrano a comporlo. Così Wiener ha scritto: « Un’idea
significante di organizzazione non può essere ottenuta in un mondo nel quale
ogni cosa è necessaria e niente è contingente » (/ am a Mathematician, New
York, 1956, pag. 322). W. Ross Ashby, ha ritenuto sotto questo aspetto
essenziale l’idea di condizionalità secondo la quale nello spazio di
possibilità di interazione, dato da un insieme di elementi, ogni organizzazione
reale degli elementi è costretta a qualche subinsieme di interazioni. Il
converso dell’organizzazione è l'indipendenza degli elementi (in Principles of
Self-Organization, ed. H. von Foerster e
G. W. Zopf, New York, 1962, pag. 217). Un
certo grado di libertà nella relazione reciproca delle parti è essenziale ad
ogni organizzazione o sistema; e dove non si fosse scelta fra un insieme di
alternative non ci sarebbe neppure un’organizzazione qualsiasi (J. ROTHSTEIN,
Communication, Organization and Science, 1958, pag. 35). Il concetto di C. sta
così prendendo il posto, nelle discipline più disparate, di quello di causa.
CONDOTTA (ingl. Conduct; franc. Conduite; ted. Berragen). Ogni risposta
dell’organismo vivente ad uno stimolo, che sia oggettivamente osservabile,
anche se non abbia carattere di uniformità: nel senso che vari o possa variare
nei confronti di una situazione determinata. Per questa mancanza di uniformità,
la C. si differenzia dal comportamento (v.); e l’uso del termine diventa utile,
giacchè altrimenti non si distingue da comportamento. CONFERMABILITÀ. V. TESrABILITÀ;
VERIFICABILITÀ. CONFESSIONE (lat. Confessio; ingl. Confession; franc.
Confession; ted. Beichte). La parola significa in generale: riconoscere una
cosa per quella che è (corrispondentemente al significato del verbo greco
éfoporoyetv usato nella traduzione greca della Bibbia). Pertanto essa viene
adoperata S. Agostino sia a indicare il riconoscimento di Dio come Dio (della
verità come verità) sia il riconoscimento dei propri peccati come tali. S.
Agostino dice: « Mi comandi di lodarti e di confessarti » rivolgendosi a Dio
(Conf., I, 6, 9-10); e dice pure: « Ha (la casa dell’anima mia) cose che
offendono i tuoi occhi, lo confesso, lo so» (Ibid. I, 5, 6). Il significato
indicato comprende i due usi del termine distinti dagli studiosi (cfr. M.
PELLEaRINO, Le C. di S. Agostino, Roma, 1956, pag. 9-10). Esso consente inoltre
di spiegare: 1° la composizione delle Confessioni le quali solo in parte
contengono l’esposizione delle vicende biografiche di S. Agostino, ma che dal X
Libro in poi sono puramente teoretiche, cioè sono dedicate al riconoscimento
della Verità come tale attraverso la soluzione dei dubbi e delle difficoltà che
si frappongono al riconoscimento stesso; 2° la coincidenza dell’atteggiamento
di chi si confessa, cioè riconosce in se stesso la verità, con l’atteggiamento
del ritorno a sè e del ripiegamento dell’uomo su se stesso che è proprio della
ricerca agostiniana, come di quella neo-platonica (v. COSCIENZA).
CONFIGURAZIONISMO (ingl. Configurationism). Lo stesso che Gestaltismo (v.
PERCEZIONE; PSICOLOGIA, C). CONFLAGRAZIONE (gr. èxmipoore; lat. Conffagratio;
ingl. Conflagration; franc. Conflagration; ted. Weltbrand). Secondo Eraclito
(Dioc. L., IX, 1, 8) e gli Stoici (Sroseo, Ec/., I, 304), la catastrofe finale
che chiude un ciclo del mondo con la distruzione totale di esso ad opera del
fuoco. CONFLITTO (ingl. Conflict; franc. Conflit; ted. Wiederstreit).
Contraddizione, opposizione o lotta di principi, proposizioni o atteggiamenti.
Kant chiamò « C. di tesi » le anrinomie (v.). Hume aveva parlato di un C. tra
la ragione e l'istinto: l’istinto che porta a credere, la ragione che mette in
dubbio ciò che si crede (Treatise, I, Introduzione). CONFUSIONE. V.
DIsTINZIONE. CONFUTAZIONE (gr. &eyxos; lat. Confutatio; ingl. Confutation;
franc. Réfutation; ted. Widerlegung). Il metodo adoperato da Socrate che
consiste nel porre in luce ia contraddizione a cui CONNOTAZIONE 155 conduce
l’asserzione dell’interlocutore e, perciò consente di liberare l'interlocutore
stesso dalla presunzione di sapere. Questo procedimento fu sempre ritenuto da
Platone come la propedeutica indispensabile della ricerca scientifica (Apol.,
21a sgg.; Men., 84a-c; Sof., 230b sgg.). Aristotele definì la C. come «la
dimostrazione del contraddittorio » (El. Sof., I, 165a 2): cioè come il sillogismo
che ha come conclusione la proposizione che nega un’altra conclusione (la quale
così è « confutata »). Le C. (elenchi) sofistiche non sono, secondo Aristotele,
vere C.; e le due classi di esse (quelle che utilizzano il modo di esprimersi e
quelle che ne prescindono) sono non già dimostrazioni negative, ma artifici o
trucchi verbali che hanno lo scopo di ridurre al silenzio l’avversario e di
aver la meglio su di lui. CONGETTURA (gr. elxaola.; lat. Conjectura; ingl. Conjecture;
franc. Conjecture; ted. Conjectur).
Secondo Platone, il più basso grado del conoscere sensibile, quello che ha per
oggetto le ombre e le imagini delle cose; al modo in cui l’opinione, nello
stesso grado sensibile, ha per oggetti le cose stesse (Rep., VI, 510a Slle).
Niccolò Cusano riprese la parola per indicare la natura di tutta la conoscenza
umana: la quale, come C., sarebbe una conoscenza per alterità, cioè che rinvia
a ciò che è altro da sè, la verità come tale, e solo per tale rinvio è in
rapporto con la verità e partecipa di essa. «La C. è un’asserzione positiva che
partecipa per alterità alla verità in quanto tale » (De Conjecturis, I, 13).
Nell’uso moderno questo termine è sinonimo di /potesi (v.). CONGIUNZIONE (lat.
Conjunctio; ingl. Conjunction; franc. Conjonction; ted. Konjunktion). Nella
Logica scolastica è una propositio hypothetica formata da due categorie unite
dal segno «et» (« Socrates currit et Plato sedet v). Nella Logica contemporanea
è una proposizione molecolare formata da due (o più) atomiche unite dal segno 4
v + 0 «4.» (tp.Q?). In entrambe le Logiche, condizione necessaria e sufficiente
per la verità di una C. è che entrambe le proposizioni componenti siano vere.
G. P. CONGRUENZA (lat. Congruentia; ingl. Congruence; franc. Congruence; ted.
Uebereinstimmung). Adeguazione. Per es., « ricompensa congrua » cioè adeguata
al lavoro o al merito. In geometria, la C. è la coincidenza delle figure per
sovrapposizione sullo stesso piano. La definizione della C. è fondamentale per
la scelta di una geometria. Dice Reichenbach: « La scelta di una geometria è
arbitraria solo finchè non si è specificata la definizione della congruenza.
Una volta stabilita tale definizione, diventa una questione empirica il
problema di quale geometria si adatta allo spazio fisico » (cfr. A. Einsteîn;
Philosopher-Scientist, a cura di P. A. Schilpp, 1949, pag. 295). Whitehead ha
generalizzato questo concetto: « La C., egli ha detto, è un esempio particolare
del fatto fondamentale del riconoscimento nella percezione. Noi riconosciamo:
non semplicemente nel senso di paragonare un fattore naturale offerto dalla
memoria con un fattore rivelato dalla sensazione immediata, bensì nel senso che
il riconoscimento prende posto nel presente, senza alcun intervento della pura
memoria » (The Concept of Nature, 1920, cap. VI; trad. ital., pag. 113).
CONGRUISMO. È la dottrina controriformistica della grazia efficace, cioè
adeguata al merito. CONNATURA (ingl. Connature). Sostantivo creato da Spencer
per analogia con gli aggettivi « connaturato » o « connaturale ». Secondo
Spencer (Psychology, II, $ 289) una delle tre idee (insieme con la coestensione
e la coesistenza), implicita nel ragionamento quantitativo e precisamente
quella della identità delle cose quanto alle loro specie; mentre la
coestensione significa l’identità nella quantità di spazio occupata e la
coesistenza l’identità nel tempo di presentazione alla coscienza. CONNETTITVI
(ingl. Connectives; franc. Connectifs). Nella logica contemporanea, si chiamano
così i simboli impropri (o sincategorematici [v.])) che, combinati con uno o
più costanti, formano o producono una nuova costante. Le costanti o forme unite
dai C. si chiamano operandi. Un C. si chiama singolare, binario, ternario,
ecc., a seconda del numero dei suoi operandi. I C. sono quelli espressi dalle parole
e, 0, non, se... allora. Si adopera comunemente la giustapposizione degli
operandi per denotare la congiunzione: così «‘p.qg’* significa « p e g*. Si
adopera il segno v per denotare la disgiunzione inclusiva; così « p v g»
significa «p 09 o entrambi ». Si adopera il segno + per denotare la
disgiunzione esclusiva; così «p + g » significa « p o g ma non entrambi». Si
adopera il segno — per indicare la negazione: così « — p+ significa « non p».
Per il C. se... allora, v. ConDIZIONALE, IMPLICAZIONE. Le notazioni citate sono
le più comuni, ma non sono le sole. Per altri sistemi di simboli vedi le note
al $ 05 della Introduction to Mathematical Logic, 1956, di CHURCH. CONNOTAZIONE
(lat. Connotatio; inglese Connotation; franc. Connotation). L'aggettivo connotativus
compare nella logica della tarda Scolastica a proposito di una distinzione dei
nomi in assoluti e connotativi. Secondo Ockham, sono assoluti i nomi che non
significano qualche cosa principalmente e qualche altra cosa secondariamente,
per es., il nome « animale ». Sono invece connotativi i nomi che significano
qualche cosa in linea primaria e qualche cosa in linea secondaria: per es., i
nomi relativi, quelli che appartengono al genere della quantità e anche nomi
come «uno», «bene», « vero », « intelletto », « potenza », ecc. (Summa Log., I,
10). Questa distinzione divenne abituale nella logica posteriore. Nell’età
moderna la distinzione fu ripresa da James Mill nella sua Analisi dei fenomeni
dello spirito umano (1829) che usava la parola «connotare » in ogni caso in cui
il nome, che indica direttamente una cosa (la quale costituisce perciò il suo
significato) include anche un riferimento a qualche altra cosa. L’uso della
parola fu radicalmente mutato da Stuart Mill, il quale adoperò la parola per
esprimere «il modo in cui un nome concreto generale serve a designare gli
attributi che sono impliciti nel suo significato ». Conseguentemente Mill
distinse la C. dalla denotazione: «Ogni volta che i nomi dati agli oggetti
apportano qualche informazione, cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno
un significato, il significato risiede non in ciò che essi denotano, ma in ciò
che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non connotano niente sono i nomi
propri; e questi, strettamente parlando, non hanno significato » (Logic, I, 2,
$ 5). In questo senso i nomi degli attributi sono connotativi, perchè la parola
« bianco » non denota tutti gli oggetti bianchi, ma connota l’attributo della
bianchezza. Nomi connotativi sono anche « il primo imperatore di Roma » o « l’autore
dell’Iliade +, ecc. Questo concetto di C. corrispondeva a quello che la Logica
di Porto Reale aveva designato col termine di comprensione (v.). Alla coppia
comprensione-estensione della Logica di Porto Reale corrisponde perciò la
coppia C.-denorazione della Logica di Stuart Mill e quella
intensione-estensione (v.) della logica leibniziana e contemporanea. Qualche
volta, tuttavia, è stato fatto il tentativo di distinguere C. da comprensione,
adottando entrambi i termini. Così J. N. Keynes (Forma! Logic, I, 2) e Goblot
(Traité de logique, $ 72) dettero a «C.» il significato più ristretto di ciò
che è compreso nella definizione convenzionale di un termine, e a «
comprensione » il significato più ampio di comprensione totale che includa
tutte le determinazioni non escluse dalla definizione stessa. Questa
distinzione tuttavia non è stata seguita e il termine moderno di intensione
comprende entrambi i significati proposti per comprensione e connotazione.
CONOSCENZA (gr. visow; lat. Cognitio; ingl. Knowledge; franc. Connaissance;
ted. Erkenntniss), In generale, una tecnica per l’accertamento di un oggetto
qualsiasi, o la disponibilità o il possesso di una tecnica siffatta. Per
tecnica di accertamento va intesa una qualsiasi procedura che renda possibile
la descrizione, il calcolo o la previsione controllabile di un oggetto; e per
oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto, cosa, realtà o proprietà, che possa
essere sottoposto a una tale procedura. Tecnica in questo senso è l’uso
normaledi un organo di senso come la messa in opera di complicati strumenti di
calcolo: entrambi questi procedimenti consentono infatti accertamenti
controllabili. Non è da presumersi che tali accertamenti siano infallibili ed
esaurienti: cioè che sussista una tecnica di accertamento tale che, una volta
adoperata nei confronti di una C. x, renda inutile il suo ulteriore impiego nei
confronti della stessa C., senza che questa perda nulla della sua validità. La
controllabilità delle procedure di accertamento, grossolane o raffinate che siano,
significa la ripetibilità delle loro applicazioni, sicchè una C. « accertabile
» o più semplicemente una «C.+ rimane tale solo finchè sussiste la possibilità
dell’accertamento. Le tecniche di accertamento possono avere, tuttavia, i più
diversi gradi di efficacia e possono, al limite, avere efficacia minima o
nulla: in questo caso, decadono di diritto dal rango di conoscenze. « La C. di
x» significa infatti una procedura che è in grado di fornire qualche
informazione controllabile intorno a x cioè che consenta di descriverlo,
calcolarlo o prevederlo in certi limiti. La disponibilità o il possesso di una
tecnica conoscitiva designa la partecipazione personale a questa tecnica. «Io
conosco x» significa (salvo limitazioni) che sono in grado di porre in opera
una procedura che rende possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di
x. Il significato personale o soggettivo di C. è perciò da ritenersi secondario
e derivato: il significato primario è quello oggettivo e impersonale su
esposto. Questo significato primario consente pure di distinguere agevolmente
la credenza dalla C.: la credenza (v.) è l’impegno alla verità di una nozione
qualsiasi, anche non accertabile; la C. è una procedura di accertamento o la
partecipazione possibile ad una tale procedura. Come procedura di accertamento,
ogni operazione conoscitiva è diretta ad un oggetto e ténde a instaurare con
l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di
esso. Pertanto le interpretazioni della C. che sono state date nel corso della
storia della filosofia si possono considerare come interpretazioni di questo
rapporto e come tale ricondurre a due alternative fondamentali: 1° per la prima
di esse, quel rapporto è una identità o simiglianza (intendendosi per
simiglianza un’identità debole o parziale) e l'operazione conoscitiva è una
procedura di identificazione con l'oggetto o di riproduzione di esso; 2° per la
seconda alternativa, il rapporto conoscitivo è una presentazione dell’oggetto e
l’operazione conoscitiva una procedura di trascendenza. 1° La prima
interpretazione è quella più comunemente ricorrente nella filosofia
occidentale. Essa si può a sua volta dividere in due fasi diCONOSCENZA 157
verse: A) nella prima di esse, l’identità o la simiglianza con l’oggetto viene
intesa come identità o simiglianza degli elementi della C. con gli elementi
dell’oggetto: per es., dei concetti o delle rappresentazioni con le cose; 8)
nella seconda fase, invece, l’identità o la simiglianza viene ristretta
all’ordine dei rispettivi elementi: nel qual caso l’operazione del conoscere
consiste nel riprodurre, non già l’oggetto, ma i rapporti costitutivi
dell’oggetto stesso cioè l’ordine dei suoi elementi. Nella prima fase la C. è
considerata come un’immagine o ritratto dell'oggetto; nella seconda fase, sta
con l’oggetto nello stesso rapporto in cui una carta geografica sta col
paesaggio che rappresenta. A) La prima fase costituisce la forma nella quale la
dottrina della C. come identificazione è apparsa nel mondo antico. I
presocratici la espressero col principio che « il simile conosce il simile »,
per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra, l’acqua con
l’acqua, ecc. (Fr. 105, Diels). Varianti di questo principio possono essere
considerati sia l’affermazione di Eraclito « ciò che si muove conosce ciò che
si muove » (ARIST., De an., I, 2, 405 a 27) sia quella di Anassagora secondo la
quale «l’anima conosce il contrario col contrario » (TEOFR., De sens., 27).
Quest'ultima infatti sembra alludere più ad una condizione della C. — che
presuppone la diversità, come dirà Aristotele (De an., II, 5, 417a 16) — che
allo stesso atto conoscitivo, come ìndica la giustificazione che gli viene
data: «il simile infatti non può subire l’azione del simile ». Ma furono
Platone e Aristotele che stabilirono su solide basi questa interpretazione
della conoscenza. L’incontro del simile col simile, l'omogeneità, sono i
concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi conoscitivi (7im., 45
c, 90c-d): conoscere significa rendere simile il pensante al pensato. Di
conseguenza, i gradi di C. si modellano sui gradi dell'essere: non si può
conoscere con certezza cioè con « saldezza » ciò che non è saldo perchè la C.
non fa che riprodurre l’oggetto; sicchè « ciò che assolutamente è, è
assolutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun modo
è conoscibile» (Rep., 477 a). In tal modo all'essere, Platone fece
corrispondere la scienza, che è la C. vera; al non essere l’ignoranza e al
divenire, che sta in mezzo tra l'essere e il non essere, l’opinione che sta in
mezzo tra la C. e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della C.: 1° la
supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose
sensibili; 2° l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto le cose naturali,
gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; 3° la ragione scientifica
che procede per via d’ipotesi ed ha per oggetto gli enti matematici; 4°
l'intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per oggetto il
mondo dell’essere (Zbid., VI, 509-10). Ognuno di questi gradi di C. è la copia
esatta del suo oggetto rispettivo: sicchè non c’è dubbio che conoscere sia per
Platone stabilire in ogni caso con l'oggetto un rapporto d’identità o che si
avvicini quanto più possibile all’identità. In forma ancora più rigorosa questo
punto di vista veniva realizzato da Aristotele. Secondo Aristotele, la C. in
atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa forma sensibile
dell’oggetto, se si tratta di C. sensibile; è la stessa forma intelligibile (o
sostanza) dell’oggetto se si tratta di C. intelligibile (De an., II, 5, 417 a).
La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono, s’intende, semplici
possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si realizzano, per
l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intelletto attivo la
seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es., l’udire un suono
(sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come l’intendere una
sostanza s’identifica con la sostanza stessa. Aristotele può affermare perciò
in generale che «la scienza in atto è identica col suo oggetto » (De an., III,
7, 431 a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare come la forma
tipica dell’interpretazione della C. come identità con l’oggetto. Tale
interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulteriore della
filosofia greca. Per Epicuro il flusso dei simulacri (eidola) che si staccano
dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la simiglianza
delle immagini con le cose (Ep. @ Erod., 51). E Plotino si avvale dello stesso
concetto per chiarire la natura della conoscenza. La C. si ha quando la parte
dell'anima con cui si conosce si unifica e fa tutt'uno con l'oggetto
conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’oggetto rimane esterno
all’anima stessa e la conoscenza di esso rimane inoperante. Solo l'unità dei
due termini costituisce la conoscenza vera (Enn., III, 8, 6). Nella filosofia
cristiana la stessa interpretazione prevale, ed è anzi il fondamento delle più
caratteristiche speculazioni teologiche e antropologiche. Secondo S. Agostino,
l’uomo può conoscere Dio in quanto egli stesso è immagine di Dio. Memoria,
intelligenza e volontà, nella loro unità e distinzione reciproca, riproducono
nell’uomo la trinità divina di Essere, Verità e Amore (De Trin., X, 18). Questa
nozione, pur variando nei particolari dominò l’intera teologia medievale e fu
anche il fondamento dell’antropologia. Ma da essa derivava una conseguenza
importante per la C. che l’uomo ha delle cose inferiori a Dio. Il
riconoscimento dell’origine divina dei poteri umani (in quanto immagini dei
poteri divini) rende i poteri umani relativamente indipendenti dagli altri
oggetti conoscibili e accentua l’importanza del soggetto conoscente. Per Aristotele,
la facoltà sensibile e l’intelletto potenziale non sono che i loro stessi
oggetti «in potenza»: non hanno nessuna indipendenza di fronte a questi
oggetti. Ma S. Agostino afferma invece che «ogni C. (noritia) deriva insieme
dal conoscente e dal conosciuto» (/bid., XIX, 12), mettendo così sullo stesso
piano l’oggetto conosciuto e il soggetto conoscente come condizione della
conoscenza. S. Tommaso, pur sanzionando esplicitamente il principio che ogni C.
avviene per assimilationem (Contra Gent., II, 77) o per unionem (In Sent., I,
3, 1) della cosa conosciuta e dell’oggetto conoscente, afferma che «l’oggetto
conosciuto è nel conoscente secondo la natura del conoscente stesso » (De Ver.,
q. 2, a.1; S. Th., I, q. 83, a. 1); e così il peso del soggetto viene a
bilanciare nel conoscere il peso dell’oggetto. Questo punto di vista porta a
temperare la tesi aristotelica secondo la quale la C. in atto è l’oggetto
stesso. S. Tommaso, commentando l’affermazione aristotelica che « l’anima è
tutte le cose » (De an., III, 8, 431 b 20) la attenua nel senso che l’anima non
è le cose ma le specie delle cose. Ma la specie non è altro che la forma della
cosa: C. è quindi astrazione: astrazione della forma dalla materia individuale,
dell’universale dal particolare. La specie delimita così, per S. Tommaso, il
confine dell'identità tra il conoscente e il conosciuto;ma il conoscere rimane
identità. A sua volta, S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio
agostiniano di un lumen directivum che l’uomo attinge direttamente da Dio e da
cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della C. è costituito
da specie che sono immagini, similitudini 0 « quasi pitture » delle cose stesse
(/n Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Se l’ultima scolastica segna il prevalere di
una diversa interpretazione del conoscere (v. oltre), il Rinascimento conserva
in generale l’interpretazione della C. come identità o simiglianza. Cusano dice
esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a ciò che deve
intendere (De mente, 3; De lglobi, 1; De venatione sapientiae, 29) e Ficino
dice che la C. è l’unione spirituale con qualche forma spirituale (Theol.
Plat., III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno riprende
il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e Campanella
afferma « noi conosciamo ciò che è, perchè ci rendiamo simili ad esso » (Mer.,
I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza, Leonardo,
Copernico, Keplero, Galilei, ha un presupposto analogo: il procedimento
matematico della scienza si giustifica perchè la natura stessa ha struttura
matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è scritto il
libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, pag. 232).
CONOSCENZA Nella filosofia moderna, la dottrina che il conoscere è
un’operazione di identificazione assume tre forme principali, a seconda che
tale operazione si ritiene effettuata mediante: a) la creazione che il soggetto
fa dell'oggetto; 5) la coscienza; c) il linguaggio. a) L’idealismo romantico e
le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che conoscere
significa porre, cioè produrre o creare, l’oggetto: tesi la quale consente di
riconoscere nell’oggetto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto.
Questa tesi fu per la prima volta affermata da Fichte. « La rappresentazione in
generale, egli disse, è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’Io non
può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perchè l’Io è quel che esso
si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da lui. Quindi quello stesso
Non-io dev'essere un effetto dell’Io, anzi dell'Io assoluto e così non abbiamo
un’azione sull’Io dal di fuori ma solo una azione dell’Io su se stesso»
(Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, D. Da questo punto di vista il Non-io,
cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso cioè il soggetto: l’identità con
l’oggetto è così garantita dalla stessa definizione della conoscenza. La quale,
ovviamente, è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla riuscita o
meno degli effettivi atti di C. e non serve perciò nè a dirigere nè a chiarire
questi atti. Il principio affermato da Fichte fu tuttavia tra quelli che
costituirono i pilastri del movimento romantico (v. ROMANTICISMO); e uno dei
luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, quello del «potere creativo dello
spirito », trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che
chiarire il significato quando affermava: « Nello stesso fatto del sapere —
quando io so — l’oggettivo e il soggettivo sono così uniti che non si può dire
a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo: sono
entrambi contemporanei e costituiscono un tutto unico » (System des
transzendentalen Idealismus, Intr., $ 1). Il concetto del conoscere come
processo di unificazione domina da un capo all’altro la filosofia di Hegel. La
protagonista di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza,
gradualmente e necessariamente, come unità con l’oggetto. Dice Hegel: « L'Idea
è in primo luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che
ha come scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è
il limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici
nell’essere l’Idea. L’unità loro è in primo luogo quella del concetto che nell’uno
di essi è soltanto per sè, nell’altro soltanto in sè; in secondo luogo, la
realtà è astratta nell’uno, mentre nell’altro è nella sua esteriorità completa.
Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere » (WissenCONOSCENZA schaft
der Logik, III, 3, cap. II; trad. ital., pag. 282). Il conoscere è così il
processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo oggettivo; o meglio che
porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte le forme dell’idealismo
contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la introduce chiamando
«concreto» il concetto: per il qual carattere si dovrebbe escludere che esso
sia « universale e vuoto», « universale e inesistente» ed ammettere che esso
comprende in sè « l'atto logico universale » e il « pensamento della realtà »
che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ediz., 1920, pag. 29). Gentile
affermava: « Conoscere è identificare, superare l’alterità come tale » (Teoria
generale dello Spirito, 2, $ 4). A sua volta Bradley, più criticamente,
considerava questa identificazione come un ideale-limite irrealizzabile in noi,
ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale C. ed essere, verità e
realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). 5) Lo spiritualismo
moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere come un rapporto
interno della coscienza cioè come un rapporto della coscienza con se stessa.
Questa interpretazione garantisce l’identità del conoscere con l’oggetto:
giacchè l’oggetto, da questo punto di vista, non è che la coscienza stessa o almeno
un suo prodotto o una sua manifestazione. Schopenhauer così esprimeva questa
dottrina: « Nessuno può mai uscire da sè per identificarsi immediatamente con
cose diverse da sè: tutto ciò di cui egli ha C. sicura, quindi immediata, si
trova dentro la sua coscienza » (Die Welt, II, cap. I). Coscienza, senso
intimo, introspezione, intùito, intuizione, sono i termini che la filosofia
moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per indicare la C. caratterizzata
dall’identità con il suo oggetto, perciò privilegiata nella sua certezza. La
considerazione di base è qui che, se il soggetto non può conoscere ciò che è
altro da sè, la sola C. vera e originaria è quella che esso ha di se stesso. Su
questa base Maine de Biran vedeva nel « senso intimo » la sola C. possibile e
ne interpretava le testimonianze come verità metafisiche (Essais sur les
fondements de la psychologie, 1812). Altre volte, la coscienza, anche detta
intùito o intuizione, è interpretata come la rivelazione che Dio fa all'uomo o
di un suo attributo fondamentale (per es., dell'essere, come afferma ROSMINI,
Nuovo saggio, $ 473) o del suo stesso processo creativo, come fa Gioberti
(Znrr. allo studio della fil., II, pag. 183). In modo analogo, l’intuizione di
cui parla Bergson come « visione diretta dello spirito da parte dello spirito »
(La Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata di C., nella
quale il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando Husserl ha
voluto chiarire il modo d’essere privilegiato della coscienza, ha chiamato «
percezione immanente » quella che la coscienza ha delle proprie esperienze
vissute: perchè l’oggetto di essa appartiene alla stessa corrente di coscienza
a cui appartiene la percezione (/deen, I, $ 38). La percezione immanente, cioè
la coscienza è, su questa base, considerata da Husserl assoluta e necessaria:
in essa «non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità di essere altra
cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione + (/bid., $ 46). La
esemplificazione fin qui data può bastare per questo punto di vista, che è
molto diffuso nella filosofia contemporanea ma, nonostante la varietà delle sue
espressioni, altrettanto uniforme. c) Il positivismo logico ha paradossalmente
trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria operazione
conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa operazione.
Wittgenstein afferma che «la proposizione può essere vera o falsa solo in
quanto è una imagine (Bild) della realtà » (Tractatus, 4.06). Che la
proposizione sia un’imagine della realtà, Wittgenstein lo prova così: «Io
infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la
proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga
spiegato » (/bid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, «non sembra che la
proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta, sia una imagine della
realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista
una imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a lettere) sembra
un’imagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si dimostrano,
anche nel senso ordinario del termine, come imagini di ciò che rappresentano»
(/bid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di imagine indica chiaramente che
Wittgenstein condivide la vecchia interpretazione del conoscere come operazione
di identificazione. Egli infatti dice: « Ci deveessere qualcosa di identico
nell’imagine e nel-l’oggetto raffigurato affinchè quella possa essere l’imagine
di questo » (/bid., 2.161). Ma questo qualcosa di identico è « la forma di
raffigurazione » (Ibid., 2.17). E la forma di raffigurazione è «la possibilità
che le cose stiano l’una rispetto all’altra come stanno tra loro gli elementi
dell’imagine » (Ibid., 2.151). E questo sembra rinviare alla interpretazione 8)
del rapporto identificatorio. B) La seconda fase della dottrina della C. come
identificazione nasce con la filosofia moderna e precisamente con Cartesio. Il
principio cartesiano che l’idea è il solo oggetto immediato della C. e che
perciò l’esistenza dell’idea nel pensiero non dice nulla sull’esistenza
dell’oggetto rappresentato, metteva ovviamente in crisi la dottrina del
conoscere come identificazione con l'oggetto: l’oggetto è infatti, in questo
caso, chiaramente irraggiungibile. Cartesio aveva continuato a concepire l’idea
come «quadro» o «imagine» della cosa (Méd., TIM); ma già in lui compare la
tendenza (cfr. Regulae, V) a scorgere nella C., più che l'assimilazione o
l’identità dell’idea coll’oggetto conosciuto, l’assimilazione e l’identità
dell’ordine delle idee con l’ordine degli oggetti conosciuti. Malebranche, il
quale ammette che l’uomo vede direttamente in Dio le idee delle cose e
considera perciò fortemente problematica la realtà delle cose stesse, ammette
tuttavia questa realtà come fondamento dell’ordine e della successione delle
idee nell’uomo; ordine e successione non avrebbero senso, egli pensa, se non
coincidessero con l’ordine e la successione delle cose cui le idee si
riferiscono (Entretien sur la Métaphysique, I, 6-7). Spinoza che ammette tre
generi di C. (la percezione sensibile e l’imaginazione; la ragione con le sue
nozioni comuni e universali; la scienza intuitiva) ritiene che solo i due
ultimi consentano di distinguere il vero dal falso perchè tolgono l’idea dal
suo isolamento e la collegano con le altre idee, situandola nell’ordine
necessario che è la stessa Sostanza divina (Er., II, 44). Locke che definisce
la C. come « la percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo e del
contrasto delle idee tra di loro » (Saggio, IV, 1, 2) esige, affinchè essa sia
reale, che « le idee rispondano ai loro archetipi » (Zbid., IV, 4, 8) e perciò
definisce la verità come «l’unione o separazione di segni, secondo che le cose
significate da esse concordino o discordino tra di loro» (/bid., IV, 5, 2).
Locke ritiene che questo riferimento ad oggetti reali non sia indispensabile
alla C. matematica e a quella morale, mentre lo è alla « C. reale » che ha per
oggetto sostanze (/bid., IV, 4, 12). Per Leibniz, accanto alla C. @ priori,
fondata sui princìpi costitutivi dell’intelletto c'è una C. rappresentativa la
quale consiste nella simiglianza delle rappresentazioni con la cosa (Nouv.
Ess., IV, 1, 1). Ma l’una e l’altra C. fanno dell'anima «uno specchio vivente,
perpetuo dell’universo » perchè entrambe sono fondate sul legame che tutte le
cose create hanno tra loro sì che « ciascuna sostanza semplice ha rapporti che
esprimono tutti gli altri » (Monad., 56). In tutte queste notazioni, sebbene
non venga negato il carattere di simiglianza o di imagine degli elementi
conoscitivi, la C. viene intesa propriamente come identità con l’ordine
oggettivo. L'oggetto di essa è propriamente quest'ordine e il conoscere è
l’operazione che ténde a identificare o identificarsi con esso e non già con
gli elementi singoli tra i quali intercede. A questo proposito la « rivoluzione
copernicana » di Kant non consiste nell’innovare radicalmente questo concetto
di C., quanto nell’ammettere che l’ordine oggettivo delle cose si modella
CONOSCENZA sulle condizioni della C. e non viceversa. Le categorie sono infatti
considerate da Kant come « concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni
e perciò alia natura come insieme di tutti i fenomeni » (Crit. R. Pura, $ 26).
I fenomeni non essendo « cose in se stesse » ma « rappresentazioni di cose »
devono per essere tali esser pensati e così sottostare alle condizioni del
pensiero che sono appunto le categorie. L’ordine oggettivo della natura non è
quindi altro, secondo Kant, che l’ordine stesso dei procedimenti formali del
conoscere in quanto quest'ordine si è incorporato in un contenuto oggettivo che
è il materiale sensibile dell’intuizione. Da questo punto di vista il conoscere
non è un’operazione di assimilazione o di identificazione, ma di sintesi; e
come tale va considerato sotto l’altra rubrica, della C. come trascendenza.
Tutta questa fase della dottrina della C. come assimilazione, per cui l’oggetto
dell’assimilazione è l'ordine, si può considerare come situata fra la prima e
la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione
del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del conoscere come
trascendenza. 2° Per la seconda interpretazione fondamentale, la C. è
un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa
venire in presenza dell’oggetto, puntare su di esso 0, col termine preferito
dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La C. è allora
l'operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per
così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o
descrivibile o prevedibile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna
assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del
conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del conoscere.
Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a stabilire le
condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono di
prevederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza, ecco
la funzione effettiva della C., secondo questa interpretazione. Per la prima
volta, tale interpretazione compare negli Stoici. Essi chiamavano evidenti le
cose che «vengono di per se stesse alla nostra C.+ come, per es., l’esser
giorno; e chiamavano « oscure » quelle che sfuggono solitamente alla C. umana.
Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non cadono
mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma evidenti per
natura (per es., la città di Atene a chi non vi risiede). Queste due ultime
specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni indicativi le
cose oscure per natura (come, per es., il sudore si assume come segno degli
invisibili pori) CONOSCENZA e mediante segni rammemorativi le cose evidenti per
natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del fuoco) (SESTO
EMP., Adv. Dogm., II, 141; /pot. Pirr., II, 97-102). Sono riconoscibili in
questa impostazione due tesi fondamentali, e cioè: 1° la C. evidente consiste
nella presenza della cosa, per cui la cosa «si manifesta da sè» o «si comprende
da sè » cioè si comprende come cosa, quindi come altro da chi la comprende; 2°
la C. non evidente avviene per mezzo di segni che rinViano alla cosa stessa
senza avere una qualsiasi identità o simiglianza con essa. Questa dottrina
degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come una possibilità che
la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a riaffacciarsi soltanto
nella Scolastica del ’300, coi pensatori che criticano la dottrina della
species come intermediaria della conoscenza. La species, come si è visto, è una
tesi tipica della dottrina dell’assimilazione: essa è infatti insieme l’atto
della C. e l'atto dell’oggetto (come forma o sostanza di quest’ultimo). Ma Duns
Scoto aveva distinto una C. «che astrae dall’esistenza attuale della cosa » e
che chiamava astrattiva, e una « C. della cosa in quanto esiste ed è presente
nella sua esistenza attuale » che aveva chiamata inzuitiva (Op. Ox., II, d. 3,
q. 9, n. 6). Ora la C. intuitiva (che è da un latoquella sensibile, dall’altro
quella intellettuale che ha per oggetto la sostanza o natura comune, per es.,
la natura umana) non ha bisogno di specie perchè ad essa è direttamente
presente la cosa in persona. Solo la C. astrattiva, cioè la C. intellettuale
del-l'universale, ha bisogno di specie (/bid., I, d. 3, q. 7, n. 2). A questa
dottrina fa riferimento la Scolastica del ’300. Durando di St.-Pourgains
afferma che la specie è inutile perchè l’oggetto stesso è presente al senso, e,
attraverso il senso, anche all'intelletto (Zr Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10); e
che pertanto la C. universale non è che C. confusa, nel senso che chi ha la C.
universale, per es., della rosa, conosce confusamente ciò che è intuito
distintamente da chi vede la rosa che gli è presente (Ibid., IV, d. 49, q. 2,
n. 8). Per Pietro Aureolo l'oggetto della C. è la stessa cosa esterna che
assume, per opera dell’intelletto, un essere intenzionale od obiettivo che non
è diverso dalla stessa realtà individuale della cosa (In Sent., I, d. 9, a. 1).
Ockham a sua volta trasforma la teoria scotistica della C. intuitiva in una
teoria dell’esperienza ed afferma l’immediata presenza della cosa alla C.
intuitiva. «In nessuna C. intuitiva, nè sensibile nè intellettiva, egli dice,
la cosa si costituisce in un essere intermedio tra la cosa stessa e l’atto di
conoscere; ma la cosa medesima immediatamente e senza intermediario tra sè e
l’atto, è vista ed appresa » (In Sent., I, d. 27, q. 3, I). La C. intuitiva 11
— ABBAGNANO, Disionario di filosofia. perfetta, che ha per oggetto una realtà
attuale o presente, è l’esperienza (/bid., II, q. 15, H); quella imperfetta,
che concerne un oggetto passato, deriva sempre da un’esperienza (/bid., IV, q.
12, Q). A sua volta, la C. astrattiva, che prescinde dalla realtà o irrealtà
dell’oggetto deriva da quella intuitiva ed è una intentio o signum. Ockham
riproduce così l’interpretazione degli Stoici: quando la realtà non è presente
alla C. «in persona», si annuncia o si manifesta nel segno. La validità del
segno concettuale, che a differenza di quello linguistico non è arbitrario o
convenzionale ma naturale, deriva dal fatto che esso è prodotto naturalmente,
cioè causalmente, dall’oggetto stesso, sicchè la sua capacità di rappresentare
l'oggetto non è altro che questa sua connessione causale con esso (Quodi., IV,
q. 3). Ockham si avvale poi per illustrare la funzione logica del segno di quel
concetto della suppositio che era stato elaborato dalla logica del ’200 (v.
SEGNO; SUPPOSIZIONE). Nel sec. xv i capisaldi di questa dottrina venivano
riprodotti da Hobbes: per il quale la sensazione, che è il fondamento di ogni
C., è il manifestarsi della cosa attraverso il movimento da essa impresso
all’organo di senso (Leviath., I, 1; De Corp., 25,82). Alla causalità della
cosa esterna, cui questi filosofi attribuiscono la C., Berkeley sostituiva la
causalità di Dio: la teoria che le cose conosciute sono segni mediante i quali
Dio parla ai sensi o all’intelligenza dell’uomo per istruirlo su ciò che deve
fare (Principles of Knowledge, $ 108-09) è una trascrizione teologica di questa
dottrina della conoscenza. Nel frattempo, con il cartesianesimo e specialmente
con Locke, si era venuto formando il concetto della C. come operazione
unificatrice: unificatrice di idee, cioè di stati che cadono dentro la
coscienza, ma ilcui collegamento corrisponde o deve corrispondere a quello
delie cose [v. 1° B)]. Eliminata da Berkeley la sostanza materiale e da Hume
ogni specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva ad esaurire la
funzione dell’attività conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni operazione
conoscitiva sia un'operazione di connessione fra le idee: operazione di
connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee
hanno tra loro, indipendentemente dalla loro esistenza reale; operazione di
connessione tra le idee è la C. della realtà di fatto. Nel primo caso la
connessione è certa perchè non dipende da nessuna condizione di fatto; nel
secondo caso si fonda sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione
non ha altro fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e
l'abitudine che tale ripetizione determina nell’uomo (/ng. Conc. Underst., IV,
1). Questo concetto della C. come operazione di connessione o di collegamento,
che non ha più niente a che fare con l’identificazione o l’assimilazione con
l'oggetto, è detta da Kant operazione di sintesi. La sintesi è in generale «
l’atto di riunire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità
in una C.» (Crit. R. Pura, $ 10). Ma la sintesi conoscitiva non è solo, per
Kant, una operazione di collegamento tra rappresentazioni: è anche
un’operazione di collegamento con l’oggetto di queste rappresentazioni per il
tramite dell’intuizione. «Se una C. deve avere una realtà oggettiva, dice Kant,
cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto
deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato. Senza di questo, i concetti sono
vuoti, e se anche con essi si pensa, in fatto questo pensiero non conosce nulla
ma soltanto gioca con le rappresentazioni. Dare un oggetto, se questo a sua
volta non deve essere opinato indirettamente ma rappresentato immediatamente
nell’intuizione, non è altro che connettere la sua rappresentazione con
l’esperienza (sia questa reale o possibile) » (Ibid, Analitica dei princìpi,
cap. II, sez. ID. Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non sono dunque la
stessa cosa. «La C. comprende due punti: in primo luogo un concetto per cui in
generale un oggetto è pensato (la categoria) e in secondo luogo l’intuizione
con cui esso è dato +» (/bid., $ 22). L’intuizione ha questo privilegio: che
essa si riferisce immediatamente all’oggetto e che per mezzo di essa l'oggetto
è dato (/bid., $ 1). Sicchè non c’è dubbio che l’operazione del conoscere ténda
a rendere presente l’oggetto nella sua realtà: un oggetto, s'intende, che è
fenomeno, giacchè la « cosa in sè » è, per definizione, estranea a ogni
rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione relativistica, che a Kant, come
a tutta la filosofia illuministica, era suggerita dall’impostazione
cartesiano-lockiana della analisi della C., il concetto della C. come
dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con l’oggetto e perciò pure del
processo per cui l’oggetto si offre o si presenta in persona, diventa, nella
filosofia contemporanea, proprio della fenomenologia e delle correnti che ad
essa fanno capo. « Ad ogni scienza, dice Husserl, corrisponde un campo
oggettivo come dominio delle sue indagini e a tutte le sue C., cioè ai suoi
corretti enunciati, corrispondono determinate intuizioni che ne costituiscono
il fondamento di legittimità; in quanto in esse gli oggetti del campo si
presentano in datità personale e, almeno parzialmente, in datità originaria »
(/Zdeen, I, $ 1). Così l’esperienza, che abbraccia tutta la C. naturale, è un'operazione
intuitiva attraverso la quale unoggetto specifico, la cosa, è data nella sua
realtà originaria. L’esperienza è in questo senso un atto fondante, non
sostituibile da un semplice immaginare. Dall’altro lato, la C. geometrica, che
non CONOSCENZA ricerca realtà ma possibilità ideali, ha come suo atto fondante
la visione dell’essenza: tale visione, esattamente come la percezione empirica,
rende attuale e presenta in persona un oggetto: che però non è la cosa
dell’esperienza ma l’essenza (/bid., $ 8). Considerando la C. da un punto di
vista più generale si può dire che «ogni specie di essere ha per essenza i suoi
modi di darsi e quindi il suo metodo di C. » (/bid., $ 79); e la ricerca
fenomenologica è, nel progetto di Husserl, l’analisi di questi modi d’essere
come « modi di datità ». In modo analogo, per N. Hartmann la conoscenza è un
processo di trascendenza che ha il suo termine nell’essere «in sé » (Metaphysik
der Erkenntnis, 1921, 48 ediz., 1949, pag. 43 sgg.). In questa impostazione la
contrapposizionetraartività e passività nellaconoscenza (contrapposizione che,
nata da Kant, era stata assunta come motivo polemico dal Romanticismo a
cominciare da Fichte) ha perduto ogni significato. Non è più questione di
distinguere nel conoscere l’aspetto attivo, che Kant chiamava « spontaneità
intellettuale » dall'aspetto passivo che per Kant era quello della sensibilità.
Non si tratta neppure di ridurre l’intera C. alla attività dell'io come ha
fatto Fichte e con lui la intera filosofia romantica, che ha considerato come «
infinita » cioè senza limiti e quindi creatrice questa attività e come tale
l’ha esaltata. La prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto
prevalere, del contrasto fra la concezione « classica » cioè antica e medievale
per la quale l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di
fronte a cui l’oggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica per la
quale la C. sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere
creatore, questa prospettiva stessa appare ora fittizia. Si tratta infatti di
una prospettiva interna al Romanticismo e di un contrasto che esso ha
teorizzato come motivo polemico. Nè la filosofia antica nè le moderne
concezioni oggettivistiche pretendono stabilire o presuppongono la « passività »
del soggetto conoscente. Al soggetto conoscente appartiene certamente
l'iniziativa del conoscere, anzi questa iniziativa definisce per l’appunto la
sua soggettività. Ma questo non implica nè attività nè passività nel senso
stabilito da Fichte. L'iniziativa del soggetto è invece diretta proprio a
rendere presente o manifesto l’oggetto, a rendere evidente la realtà stessa, a
far parlare i fatti. Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è
un insieme di operazioni, talora molto diverse tra loro, che, in campi diversi
mirano a far emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi oggetti
specifici. Da questo punto di vista lo stesso « problema della C. + come sl è
venuto configurando nella seconda metà dell’800, sulla base dell’impostazione
romantica o della polemica contro di essa, come problema CONOSCENZA
dell’attività o della passività dello spirito o dei caratteri di quella sua
«categoria eterna» che sarebbe l’attività teoretica, è un problema che si è
dissolto sotto l’azione della fenomenologia da un lato e della filosofia della
scienza e del pragmatismo dall'altro lato. Nell’àmbito della fenomenologia,
Heidegger parla infatti di un annullamento del problema della conoscenza. Il
conoscere non può essere inteso come ciò per cui l’Esserci (cioè l’uomo) « va
da un dentro a un fuori della sua sfera interiore, sfera in cui sarebbe in un
primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci, conformemente al suo modo
d'essere fondamentale è già sempre fuori, presso l’ente che gli viene incontro
in un mondo già sempre scoperto » (Sein und Zeit, $ 13). Secondo Heidegger, il
conoscere è un modo d’essere dell’essere-nel-mondo cioè del trascendere del
soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un vedere o un contemplare.
Dice Heidegger: «L'essere nel mondo, in quanto prendersi cura, è penetrato e
stordito dal mondo di cui si prende cura » (/bid., $ 13). Il conoscere è in
primo luogo la sospensione del prendersi cura cioè delle attività comuni della
vita di ogni giorno come il manipolare, il commerciare, ecc. Questa sospensione
rende possibile il semplice « osservare che è di volta in volta il soffermarsi
presso un ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è presente, che è
qui». In questo fermarsi di ogni commercio e utilizzazione, si realizza la percezione
della semplice presenza. Il percepire si concretizza nelle forme
dell’interpellare e del discutere intorno a qualcosa in quanto qualcosa. Sul
fondamento di questo interpretare in senso larghissimo, il percepire si fa un
determinare. Il percepito o il determinato può essere espresso in proposizioni,
nonchè ritenuto e conservato in quanto asserito. Questo ritenimento percettivo
d’una asserzione intorno a... è una aniera di essere nel mondo e non può essere
considerato come un procedimento in virtù del quale un soggetto riceverebbe
immagini da qualche cosa, immagini che sarebbero di conseguenza sperimentate
come «interne» sì da far sorgere il problema della loro concordanza con la
realtà «esterna » (/bid., $ 13). Il « problema della C. » e il « problema della
realtà » (v. REALTÀ) come formulati dalla filosofia dell'’800 sono quindi
eliminati da Heidegger. Tutte le manifestazioni o i gradi del conoscere:
l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare, il discutere, il
negare e l’asserire, presuppongono il rapporto dell’uomo con il mondo e sono
possibili solo sulla base di questo rapporto. Questa convinzione è oggi
condivisa da filosofi di provenienza diversa, per quanto venga spesso rivestita
da terminologie differenti. Il fondamento che la suggerisce è sempre lo stesso:
l’abbandono del presupposto che gli « stati interni » (idee, rappresentazioni,
ecc.) siano gli oggetti primari di conoscenza e che solo a partire da essi
possano essere (se mai) inferiti oggetti di altra natura. La rinuncia a questo
presupposto è, per es., esplicita nel pragmatismo di Dewey, per il quale la C.
è semplicemente il risultato di un’operazione di ricerca o più precisamente è
l’asserzione valida cui tale operazione mette capo. Da questo punto di vista,
l’oggetto della C. non è un’entità esterna da raggiungere o da inferire ma è
«quel gruppo di distinzioni o caratteristiche connesse che emerge come
costituente definito di una situazione risolta ed è confermato nella continuità
dell’indagine » (Logic, cap. XXV, II; trad. ital., pag. 666). Poichè
frequentemente vengono usati, in una certa indagine, oggetti costituiti in
indagini precedenti, questi ultimi sono talora intesi come oggetti esistenti o
reali indipendentemente dall’indagine stessa. In realtà sono indipendenti dall’indagine
in cui ora entrano, ma sono oggetti solo in virtù di un’altra indagine di cui
sono il risultato. Eppure, questo semplice equivoco è, secondo Dewey, la base
della concezione «rappresentativa» della conoscenza. «L'atto di riferirsi a un
oggetto, che è un oggetto conosciutosolo in virtù di operazioni affatto
indipendenti dall’atto stesso di riferimento, è considerato ai fini di una
teoria della C. come costituente per se medesimun caso di C. rappresentativa »
(Logic, pag. 667). Queste idee hanno agito e continuano ad agire potentemente
nella filosofia contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del
problema della C. che è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di
questo problema si è operata in favore da un lato della logica, dall’altro
della metodologia delle scienze. Quest'ultima specialmente è l’erede, nella
filosofia contemporanea, di quanto rimane di valido in problemi che venivano
solitamente trattati dalla teoria della conoscenza. Il tratto fondamentale che
forma l’oggetto della metodologia delle scienze è oggi il carattere operativo e
anticipatorio dei procedimenti della scienza. Accenneremo qui soltanto ai primi
riconoscimenti storici di questi caratteri rinviando la loro trattazione più
dettagliata alla voce MeroDoLOGIA. Essi sono riconosciuti dalla scienza solo
nella misura in cui si riconosce che lo scopo fondamentale di essa non è la
descrizione ma la previsione. Questo fine aveva riconosciuto alla scienza già
Francesco Bacone; e nella filosofia moderna esso viene riaffermato da Augusto
Comte. Tuttavia solo più tardi gli scienziati stessi lo riconoscono ed assumono
esplicitamente. Ciò cominciò a verificarsi quando Mach riprese la tesi che
l’oggetto della C. è un gruppo di sensazioni. « Un colore, dice Mach, è un
oggetto fisico fintanto che noi consideriamo, per es., la sua dipendenza dalle
fonti luminose (altri colori, calore, spazio, ecc.); ma se lo consideriamo
nella sua dipendenza dalla retina, esso è un oggetto psicologico, una
sensazione. Non la sostanza, ma la direzione della ricerca è diversa nei due
campi» (Analyse der Empfindungen, 1900; 9° ed. 1922, pag. 14). Da questo punto
di vista non sono i corpi che generano le sensazioni ma piuttosto i complessi
di sensazioni che formano i corpi: questi infatti non sono che simboli per
indicare tali complessi. Con questo sembrerebbe che Mach inclini verso una
teoria rappresentativa della conoscenza. Ma in realtà, nella sua teoria del
concetto, il carattere operativo della C. viene chiaramente riconosciuto. Il
concetto scientifico è difatti, secondo Mach, un segno riassuntivo delle
reazioni possibili dell’organismo umano a un complesso di fatti. Una legge
naturale è, per es., una restrizione delle possibilità di aspettazione cioè una
determinazione della previsione (Erkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XXIII. Gli
stessi concetti erano stati presentati da Hertz nei suoi Principi della
meccanica (1894), pur senza l’abbandono totale della concezione pittorica della
conoscenza. « Il più diretto e in un certo sensoil più importante problema che
la nostra C. della natura deve renderci capace di risolvere, diceva Hertz, è
l’anticipazione degli eventi futuri in modo che possiamo disporre le nostre
faccende presenti in accordo con questa anticipazione. Come base per la
soluzione di questo problema, noi facciamo uso della nostra C. degli eventi già
accaduti, ottenuta attraverso l’osservazione causale e l’esperimento
preordinato. Nell’effettuare così inferenze dal passato al futuro adottiamo
costantemente il procedimento seguente: ci formiamo imagini o simboli degli
oggetti esterni e la forma che diamo a tali simboli è che le necessarie
conseguenze della immagine pensata sono sempre le immagini delle necessarie
conseguenze nella natura delle cose rappresentate » (Prinzipien der Mechanik,
Intr.). Lo sviluppo ulteriore della scienza ha eliminato il residuo di
concezione rappresentativa che ancora rimaneva nelle dottrine di Mach e di
Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori della meccanica quantistica, Dirac,
poteva affermare: «Il solo oggetto della fisica teorica è di calcolare
risultati che possono essere messi a confronto con l’esperimento ed è affatto
inutile che sia data una descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del
fenomeno +» (7he Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). A questo punto
la teoria della C. si è completamente risolta nella metodologia delle scienze.
Questo significa che, mentre il problema della C. come problema di un oggetto «
esterno » da raggiungere a partire da un qualche dato « interno » si è andato
dissolvendo, si è proposto in sua vece il problema della validità delle
procedure effettive dirette all’accertamento e al controllo degli oggetti nei
campi diversi di indagine. CONOSCENZA DI SÈ. Il sapere obiettivo, cioè non
immediato nè privilegiato, che l’uomo può acquisire intorno a se stesso. Il
termine ha quindi un significato diverso da autocoscienza (v.) che è la
coscienza assoluta o infinita, e anche da coscienza (v.) che implica sempre un
rapporto immediato e privilegiato dell’uomo con se stesso, perciò una C. diretta
e infallibile, per quanto incomunicabile, di sè. Come invito a una tale C. di
sè (e non alla coscienza) Platone interpreta il socratico motto «Conosci te
stesso +: nel Carmide difatti, esso è interpretato come invito al «saper di
sapere +, cioè alla determinazione e all’inventario di ciò che si sa. « Nè noi
stessi ci mettiamo a fare quello che non sappiamo, ma cerchiamo le persone
competenti e ci affidiamo ad esse; nè permettiamo a quelli che dipendono da noi
di far altro da quello che possono far bene e di cui abbiano scienza + (Carm.,
171 c). Kant affermò che noi possiamo conoscere noi stessi solo allo stesso
titolo in cui conosciamo le altre cose, cioè solo come fenomeni; difatti la C.
di sè richiede, secondo Kant, come ogni altra specie di C., due condizioni e
cioè: 1° un elemento unificatore a priori che in questo caso è l’io penso o
appercezione pura (v.); 2° un molteplice empirico dato che è quello del senso
interno (Crif. R. Pura, $ 24). Coloro che negano la realtà della coscienza
riconoscono che la C. di sè non si diversifica per modalità e certezza dalla C.
degli altri o delle altre cose (RyLE, Concept of Mind, cap. VI). CONOSCENZA,
TEORIA DELLA (inglese Epistemology, rar. Gnoseology; franc. Gnoséologie, rar.
Épistémologie; ted. Erkenntnistheorie, rar. Gnoseologie). La teoria della C. è
detta pure, in italiano, gnoseologia o, più raramente, epistemologia. In
tedesco il termine Groseologie, coniato dal wolffiano Baumgarten ha avuto poca
fortuna mentre il termine Erkenntnistheorie usato dal kantiano Reinhold
(Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermògens, 1789) fu
comunemente accettato. In inglese il termine Epistemology fu introdotto da J.
F. Ferrier (/nstitutes of Metaphysics, 1854) ed è il solo comunemente
adoperato; Gnoseology è assai raro. In francese, si adopera comunemente
Gnoséologie, più raramente Épistémologie. Tutti questi nomi hanno lo stesso
significato: non indicano, come spesso ingenuamente si crede, una disciplina
filosofica generale, come la logica o l’etica o l’estetica, ma piuttosto la
trattazione di un problema che nasce da un presupposto filosofico specifico
cioè nell’àmbito di un determinato indirizzo filosofico. Tale indirizzo è
quello dell’idealismo (nel senso 1°, v. IpeALISMO); e il problema la cui trattazione
è il tema specifico della teoria della C. è quello della realtà delle cose o in
generale del «mondo esterno ». La teoria della C. poggia su due presupposti: 1°
che la C. sia una « categoria » dello spirito, una « forma » dell’attività
umana o del «soggetto », che possa essere indagata in universale e in astratto
cioè prescindendo dai particolari procedimenti conoscitivi di cui l'uomo
dispone fuori e dentro la scienza; 2° che l’oggetto immediato del conoscere
sia, come aveva ritenuto Cartesio, soltanto l’idea o rappresentazione; e che
l’idea sia un’entità mentale, esista cioè solo « dentro » la coscienza o il
soggetto che la pensa. Si tratta quindi di vedere: 1° se a questa idea
corrisponde una qualsiasi cosa o entità «esterna» cioè esistente « al di fuori
» della coscienza; 2° se, nel caso che a tale domanda si risponda
negativamente, ci sia una differenza, e quale, tra idee irreali o fantastiche e
idee reali. Sono i problemi che aveva già dibattuto Berkeley, che sono ripresi
da Fichte nella Dottrina della scienza (1794) e che costituiscono il tema
dominante di una ricca letteratura filosofica, specialmente tedesca, dalla
seconda metà dell’800 ai primi decenni del ’900. Per la sua stessa origine e
impostazione, la teoria della C. è idealistica. Anche le soluzioni cosiddette «
realistiche » sono in realtà forme di idealismo in quanto le entità che esse
riconoscono come « reali » sono, assai spesso, coscienze o contenuti di
coscienze. La cosiddetta Scuola di Marburgo (Ermanno Cohen, 18421918; Paolo
Natorp, 1854-1924) identificava la teoria della C. con la logica e riduceva a
tre le discipline filosofiche fondamentali: logica, etica, ed estetica. Il
Problema della C. nella filosofia e nella scienza dell’epoca moderna (4 voll.,
1906-50) di Ernesto Cassirer (1874-1945) è la più importante opera dedicata al
problema della C. in questo significato tradizionale. La teoria della C. ha
perduto il suo primato e anche il suo significato dacchè si è cominciato a
dubitare della validità di uno dei suoi presupposti: cioè che il dato primitivo
della C. sia « interno » alla coscienza o al soggetto e che pertanto la
coscienza o il soggetto debbano saltar fuori di sè (il che è per principio
impossibile) per afferrare l'oggetto. Di questo presupposto Kant, nella «
Confutazione dell’idealismo » aggiunta alla seconda edizione della Critica
della Ragion Pura (1787) aveva già mostrato l'infondatezza. Gli analisti
contemporanei, rigettano anche il primo presupposto della teoria della C. e
cioè che la C. sia una forma o categoria universale che possa essere indagata
come tale: essi infatti assumono come oggetto d’indagine i procedimenti
effettivi o il linguaggio della scienza, non già la «C.» in generale. Pertanto
la teoria della C. è venuta a perdere il suo signi-ficato nella filosofia
contemporanea ed è stata sostituita da un’altra disciplina, la metodologia
(v.), che è l’analisi delle condizioni e dei limiti di validità dei
procedimenti di indagine e degli strumenti linguistici del sapere scientifico.
CONSAPEVOLEZZA (ingl. Awareness). In generale, la possibilità di fare
attenzione ai propri modi d'essere e alle proprie operazioni e di esprimerli
col linguaggio. Tale possibilità è la sola base di fatto su cui è stata
edificata la nozione filosofica di coscienza. Nell’antichità Platone e
Aristotele, che non ebbero il concetto di coscienza, conobbero e descrissero la
C. (v. COSCIENZA). CONSEGUENTE (ingl. Consequent; francese Conséquent; ted.
Konsequent). In Logica, il secondo termine di una conseguenza (v.). CONSEGUENZA
(gr. dxo)ovdla; lat. Corsequentia; ingl. Consequence; franc. Conséquence; ted.
Konsequenz). Per quanto Aristotele si avvalga del verbo corrispondente a questo
sostantivo per significare che la conclusione segue dalle premesse del
sillogismo (v.), il termine stesso fu introdotto dagli Stoici per indicare la
proposizione condizionale (v. ConpizionaLe). Il latino conseguentia fu
introdotto da Boezio come sinonimo di « proposizione ipotetica »
(condizionale). La C. può essere, secondo Boezio o accidentale come quando si
dice «Quando il fuoco è caldo, il cielo è rotondo »; o naturale, come quando si
dice « Quando c’è un uomo, c'è un animale» o «Se la Terra sarà dal lato
opposto, ci sarà l’eclisse di Luna». In quest’ultimo esempio, la C. poggia
sulla « posizione dei termini » nel senso che l’essere la Terra all’opposizione
è la causa dell’eclissi di Luna (De Syllogismis Hypotheticis, P. L., 64°, 835
B). Abelardo riserva il termine C. alle connessioni necessarie che sono vere ab
aeterno come « Se è uomo, è animale » (Dialectica, ed. De Rijk, 19707, pag.
160). Ockham distinse dalla C. intesa in questo senso, che egli chiamava
formale e che esprime una connessione necessaria o intrinseca dalla C.
materiale che connette estrinsecamente due proposizioni, come quando si dice «
Un uomo corre, dunque Dio esiste », che è valida perchè il conseguente è
necessario; o « Un uomo è un asino, quindi Dio non esiste», che è valida perchè
l’antecedente è impossibile (Sum. Log., III, HI, 1). Il termine venne usato in
significati simili o analoghi a questi nei trattati dei logici nei secoli
successivi; ma la sua trattazione è stata spesso intrecciata (o confusa) con
quella di proposizione ipotetica (v.) o di condizionale (v.). Nella logica
contemporanea l’ha usato Carnap (Logical Syntax of Language, $ 14) per indicare
una relazione più estesa di quella di derivabilità, della quale, in un secondo
momento, l’ha considerato sinonimo (/ntroduction to Semantics, $ 37). Ma, come
« condizionale », il termine è oggi confluito in quello di implicazione (v.).
CONSENSO UNIVERSALE (lat. Consensus gentium). Aristotele fa nella sua opera
spesso riferimento all’* opinione di tutti» come prova o controprova della
verità; e nell’Etica Nicomachea (X, 2, 1172b 36) esplicitamente dice «Ciò a cui
tutti consentono, noi diciamo che è così: giacchè rigettare una credenza
siffatta significa rinunziare a ciò che è più degno di fede ». Gli Stoici a
loro volta insistettero sul valore del C. universale: onde l’importanza che
ebbero per loro le « nozioni comuni » appunto per il fatto che si formano
ugualmente in tutti gli uomini, o naturalmente o per effetto dell'educazione
(Diog. L., VII, 51). Tuttavia solo gli Eclettici fecero del C. comune il
criterio della verità; e Cicerone esprimeva appunto il loro punto di vista
quando affermava: «In ogni argomento, il C. di tutte le genti è da ritenersi
come legge di natura » (Tuscu/., I, 13, 30). La filosofia moderna che prende le
mosse da Cartesio ha inteso instaurare una critica radicale del sapere comune
ed ha perciò smesso di vedere, nel comune C. che sorregge questo sapere, una
garanzia o un valore di verità. Solo raramente pertanto essa fa appello al
consensus gentium. Un appello ad esso, è tuttavia la scuola scozzese del Senso
Comune che fa capo a Tommaso Reid (1710-96). Essa è soprattutto in polemica
contro lo scetticismo di Hume, e per superarlo ricorre al C. universale che
appoggerebbe le idee, criticate da Hume, di sostanza, causa, ecc. (Ricerca
sullo spirito umano secondo i principi del senso comune, 1764) (v. Senso
COMUNE). L'appello al consenso comune ha spesso costituito una prova
dell’esistenza di Dio (v. Dro, Prove DI). Dall'altro lato esso è servito anche
da fondamento alla nozione di diritto naturale (v. Diritto). Ma questi e altri
usi eventuali non modificano la sostanza della nozione,che è il tentativo di
mettere al riparo dalla critica conoscenze o pregiudizi che si ritengono
assolutamente validi ma di cui sarebbe sempre oltremodo difficile provare
l'effettiva universalità. CONSEQUENTIS (FALLACIA). È la fa/lacia (v.),
consistente nel supporre indebitamente che una consequentia (v.) o implicazione
sia reciprocabile, il che normalmente non accade: «se da A segue 2, allora da 2
segue A». (ARISTOTELE, E/. Sof., 5, 167 b 1; Prerro Ispano, Summul. Log., 7.
58; ecc.). G. P. CONSERVAZIONE. V. Conato. CONSIGNIFICANTE (lat.
Consignificans). Lo stesso che sincategorematico (v.). CONSPECIE (ingl.
Conspecies). Termine adoperato da Hamilton per indicare le specie coordinate
dello stesso genere che sono differenti ma non CONSENSO UNIVERSALE contraddittorie
e quindi costituiscono nozioni discrete o disgiunte talvolta dette anche
disparate (v.) (Lectures on
Logic, I, pag. 209). CONSUETUDINE (ingl. Custom; franc. Coutume; ted. Gewohnheit). 1. Lo stesso che abitudine (v.). 2. Nel
senso sociologico, qualsiasi atteggiamento o schema o progetto di comportamento
che sia partecipato da più membri di un gruppo. In questo senso adoperava la
parola Vico: « È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la
C. è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere della consuetudine
ragionevole e della legge non animata da ragion naturale » (Scienza Nuova,
1744, degnità, 104). Nel linguaggio contemporaneo si intendono per C. le usanze
(folkways), le convenzioni e i costumi (mores) che si differenziano tra di loro
per la diversa intensità delle sanzioni che li rafforzano. CONSUSTANZIAZIONE
(lat. Consubstantiatio; ingl. Consubstantiation; franc. Consubstantiation; ted.
Konsubstantiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nell’ammettere
che la sostanza del pane e del vino rimane insieme con quella del corpo e del
sangue di Cristo, come soggetto dei suoi accidenti. Tale dottrina, che fu
sempre combattuta dalla Chiesa, fu difesa ai princìpi del sec. xrv da Ockham in
due scritti intitolati De Sacramento Altaris e De Corpore Christi e veniva
accettata da Lutero. CONTEMPLATIVA, VITA (gr. Bewpnrwds Bloc; lat. Vira
contemplativa; ingl. Theoretical life; franc. Vie théorétique; ted.
Theoretisches Leben). L’ideale di una vita dedicata esclusivamente alla
conoscenza. W. Jaeger (Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita,
1928, in Aristotele, trad. ital., pag. 363 sgg.) ha sostenuto che
l’attribuzione di una vita puramente C. ai filosofi presocratici mediante
aneddoti e fatterelli (come quello di Talete che camminando con gli occhi alle
stelle cade nel pozzo mentre la servetta di Tracia ride di lui) è la proiezione
nel passato del punto di vista platonico-aristotelico che esaltò la vita C. al
disopra di quella pratica e la riconobbe come sola degna del filosofo, e in
generale dell’uomo. Si può dubitare dell’esattezza di questa tesi per ciò che
concerne la filosofia platonica: che--difficilmente potrebbe dirsi una
filosofia contemplativa, avendo un dichiarato intento politico. Ma essa è
certamente esatta per ciò che riguarda Aristotele (v. FILOSOFIA; SAPIENZA). Una
conseguenza dell’ideale contemplativo della vita fu il disprezzo per la
banausia (v.), cioè per il lavoro manuale; un’altra conseguenza fu la
riconosciuta superiorità delle scienze cosiddette teoretiche su quelle
cosiddette pratiche e in generale dell’attività teoretica. « Quest’attività,
dice Aristotele, è di per se stessa la più alta: giacchè l’intelliCONTESTO
genza è la cosa più alta che è in noi; e, fra le cose conoscibili, le più alte
sono quelle di cui l’intelligenza si occupa ». Pertanto la vita teoretica è una
vita superiore all’umana. « L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in
quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi,
per quanto è possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è
in lui di più alto: se pure ciò è poco di quantità, supera per potenza e valore
tutte le altre cose» (Er. Nic., X, 7, 1177 b 31). Aristotele esplicitamente
contrapponeva nel capitolo citato dell’Erica la vita teoretica e quella del
politico e del guerriero che, tuttavia, secondo gli antichi, erano le più alte.
Su questa nozione doveva imperniarsi l’intera filosofia post-aristotelica,
dagli Epicurei ai Neo-platonici, intenta ad esaltare la figura del «saggio?,
cioè appunto dell'uomo la cui vita si compendia o si esaurisce nella
contemplazione. La filosofia medievale continua questa tradizione. Se il
Misticismo (v.) vede nella vita C. il fine dell’uomo e nella via per arrivarci
l’unica attività che abbia un valore, l’intera Scolastica ritiene, con S.
Tommaso (S. 7h., II, 1, q. 3, a. 5), che la vita C. è non solo la beatitudine
ultima e perfetta che si otterrà nell’altra vita, ma anche la minore e
imperfetta beatitudine che si può attingere in questa. Una delle
caratteristiche dell’Umanesimo e del Rinascimento è la rottura di questa
tradizione e il riconoscimento del valore della vita pratica o attiva, del
lavoro e dell’attività mondana. E la Riforma, almeno su questo punto, coincide col
Rinascimento. Bacone affermava, su questa linea, il carattere pratico e attivo
della stessa conoscenza (scire est posse, Nov. org., I, 3) nel senso che essa è
diretta a stabilire il dominio dell’uomo sulla natura. Le analisi degli
Empiristi inglesi nel *6-700 mostravano la connessione tra la conoscenza e
l’esperienza vissuta dell’uomo e, con Hume, la subordinazione della prima alla
seconda. Il "700, secolo dell’Illuminismo vede nella conoscenza
essenzialmente uno strumento d’azione, un mezzo per agire sul mondo e per
migliorarlo: l’ideale della vita C. sembra abbandonato. Esso tuttavia ritorna a
prevalere nel Romanticismo; per il quale la conoscenza è il punto finale di
arrivo; e la vita C. è perciò il culmine del processo cosmico, quello nel quale
tale processo raggiunge, con la consapevolezza, la sua realtà ultima. Hegel
chiudeva la sua Enciclopedia delle scienze filosofiche con la frase: « L’Idea,
eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se stessa eternamente, come
Spirito assoluto »; e aggiungeva, come suggello alla sua opera, il passo di
Aristotele (Mer., XI, 7) in cui si parla della vita divina come « pensiero del
pensiero ». Questa rinascita dello spirito C., che si è manifestato in tutte le
direzioni in cui il Romanticismo ha agito, ha trovato tuttavia, dalla metà
dell’800 ad oggi, dure smentite. Marx ha contrapposto alla filosofia C., la
non-filosofia della prassi, impegnata a trasformare, più che a conoscere, la
realtà stessa (Tesi su Feuerbach, 1845, $ 3, 11). Nietzsche ha insistito sul
carattere di rinunzia e di indebolimento vitale della vita C. e del
disinteresse teoretico (Die froeliche Wissenschaft, $ 345). Le filosofie
dell’azione e il pragmatismo hanno insistito su la subordinazione della
conoscenza stessa all’azione e alle sue esigenze. Infine l’esistenzialismo ha
visto nelle stesse situazioni dette conoscitive, modi d’essere dell’uomo nel
mondo, rendendo priva di senso la stessa distinzione tra vita C. e vita
pratica. Il riconoscimento dell’illegittimità di questa distinzione è forse il
tratto più caratteristico della filosofia contemporanea. Da un lato infatti il
conoscere, in tutti i suoi gradi e forme, implica la messa in opera di metodi,
tecniche o strumenti che sono inerenti alla situazione umana nel mondo e
possono perciò dirsi di natura pratica. Dall'altro, la stessa vita C. non è che
una delimitazione dei propri interessi alla sfera di certi problemi anzicchè a
certi altri; ed è perciò un pratico, scelto e deliberato, indirizzo di vita. Da
questo punto di vista, l’esaltazione della vita teoretica appare piuttosto come
una deformazione professionale del filosofo, che privilegia la propria attività
come più alta fra tutte. CONTENUTO. V. COMPRENSIONE. CONTESTO (ingl. Context;
franc. Contexte; ted. Kontext). L'insieme degli elementi che condizionano, in
un modo qualsiasi, il significato di un enunciato. Il C. è definito nel modo
seguente da Ogden e Richards: « Un C. è l’insieme di entità (cose od eventi)
correlate in un certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che
altri insiemi di entità possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi
dalla stessa relazione; ricorrono quasi uniformemente » (The Meaning of
Meaning, 108 ediz., 1952, pag. 58). Questa definizione sembra alquanto
macchinosa ma è resa più chiara dalla spiegazione che segue: « Un C. /etterario
è un gruppo di parole, incidenti, idee, ecc., che in una data occasione
accompagna o circonda ciò che si dice che abbia un C., laddove un C.
determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma è tale che
uno almeno dei suoi membri è determinato, dati gli altri » (/bid., pag. 58, n.
1). Da altri autori C. è chiamato Kinsieme delle presupposizioni che rendono
possibile afferrare il senso di un enunciato. Dice S. K. Langer: « Il nome di
una persona, come tutti sappiamo, porta alla mente un certo numero di eventi
nei quali essa figura. In altri termini, una parola mnemonica stabilisce un C.
nel quale essa si presenta a noi; e in uno stato di innocenza noi la usiamo
aspettandoci che sarà compresa con il suo C.» (Philosophy in a New Key, ed. Penguin Books, cap. V,
pag. 110). In ogni caso, esso è l'insieme
linguistico di cui l’enunciato fa parte e che condiziona (in modi e gradi che
no essere diversissimi) il suo significato. CONTESTUALISMO (ingl.
Contextualism). La corrente del pragmatismo che accentua la mobilità temporale degli
eventi e li considera perciò in stretto rapporto con gli altri eventi che
insieme appartengono allo stesso contesto. (Cfr. S. C. PEPPER, Aesthetic Quality: A
Contextualistic Theory of Beauty, New York, 1938; L.E. HAHN, A Contextualistic
Theory of Perception, Berkeley and Los Angeles, 1942). CONTIGUITÀ, ASSOCIAZIONE PER (inglese Association by
Contiguity; franc. Association par contiguité; ted. Berùhrungs-Association).
Una delle forme dell’associazione delle idee, note già ad Aristotele (De
memoria, 2, 451 b 20) (v. AssociaZIONE DELLE IDEE). CONTINGENTE (lat.
Contingens; ingl. Contingent; franc. Contingent; ted. Kontingent). 1. Gli
Scolastici latini tradussero con questo termine il termine aristotelico
èvSey6pevov (De int., 12, 20 b 35). Boezio, al quale si deve la determinazione
di buona parte della terminologia filosofica latina, già osservava che
possibile e contingens significano la stessa cosa salvo forse per il fatto che
non esiste il privativo di contingens, che dovrebbe essere incontingens, come
invece esiste il privativo di possibile che è impossibile (De interpretatione,
{II}, V; P. L., 64°, col. 582-83). Tuttavia nella tradizione scolastica, e
soprattutto per influsso della filosofia araba, il termine C. è venuto ad
assumere un significato specifico, diverso da ciò che si intende sotto
possibile; e precisamente è venuto a significare ciò che pur essendo possibile
«in sè», cioè nel suo concetto, può invece esser necessario rispetto ad altro,
vale a dire a ciò che lo fa essere. Per es., un evento qualsiasi del mondo è C.
nel senso che: 1° considerato di per sè, potrebbe verificarsi o non
verificarsi; 2° si verifica necessariamente per la sua causa. Da questo punto
di vista, mentre il possibile, non solo non è necessario in sè, ma neppure è
necessariamente determinato ad essere, il C. è invece il possibile che può
essere necessariamente determinato e perciò può essere necessario. La nozione
di C. è pertanto ambigua e poco coerente: tuttavia l’uso di essa nella
filosofia antica e moderna è abbastanza esteso. Questo uso è stato introdotto
dal necessitarismo arabo e specialmente da Avicenna. « Se una cosa non è
necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possibile
in rapporto a se stessa ma necessaria in rapporto a una cosa diversa » (Mer.,
II, 1, 2). Ciò che è possibile rimane sempre possibile in rapporto a se stesso,
ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una cosa diversa
da sè (/bid., II, 2, 3). In tal modo tutto ciò che è o esiste, da Dio
all’infima cosa naturale, esiste necessariamente, secondo Avicenna. Ma mentre
Dio e le realtà prime sono necessarie in sè, le cose finite sono necessarie «
per altro », giacchè in se stesse sono possibili; e in questo senso sono
contingenti. Questa nozione è rimasta sostanzialmente immutata in tutta la
filosofia Scolastica e anche nella filosofia moderna che però si avvale di essa
molto più limitatamente. S. Tommaso che definisce il C. come possibile, vale a
dire come «ciò che può essere o non essere + riconosce che già in esso si
possono trovare elementi di necessità (S. 74., I, q. 86, a. 3). Duns Scoto
riproduce la nozione di Avicenna del C. difendendola dalla accusa di
contraddizione (Op. Ox., 1, d. 8, q. 5, a. 2, n. 7). L’intera nozione ricompare
con tutta la chiarezza desiderabile nella dottrina di Spinoza: secondo il quale
una cosa non può dirsi C. se non per un difetto della nostra conoscenza (Er.,
I, 33, scol. 1) giacchè in realtà non c’è nulla di C. e ogni cosa è determinata
dalla natura divina ad essere e ad operare in un certo modo (/bid., I, 29). La
Scolastica parlava anche di «verità C.+ che sono quelle che si riferiscono a
eventi C. (per es., OckHam, In Sent., prol., q. 1, Z). Di tali verità C. Leibniz
diceva che esse si distinguono dalle verità necessarie come i numeri
incommensurabili dai commensurabili: cioè nel senso che come nei numeri
incommensurabili si può ottenere la loro risoluzione alla comune misura, così
nelle verità necessarie si può ottenere la loro riduzione a verità identiche.
La cosa invece richiederebbe un progresso infinito per le verità C. (o di
fatto), progresso che può essere solo effettuato da Dio (Op., ed. Erdmann, pag.
83). In un senso analogo si parla oggi di « contingenza logica +, nel senso che
le proposizioni empiriche non possono essere certificate vere o false da un
qualsiasi carattere logico di esse: così fa C. I. Lewis (Analysis of Knowledge
and Valuation, pag. 340). Nello stesso senso usa il termine Carnap (Meaning and
Necessity, $ 39) (v. MODALITÀ; POSSIBILE). 2. Nella filosofia contemporanea,
soprattutto in quella francese a partire dall'opera di Boutroux, La contingenza
delle leggi di natura (1874), il termine C. è diventato sinonimo di «
non-determinato » cioè di libero e imprevedibile; e designa specialmente ciò
che di libero in questo senso si trova o agisce nel mondo naturale. In questo
senso adopera il termine Bergson. «La parte della contingenza, egli dice, è
grande nell’evoluzione. C., il più delle volte, sono le forme adottate, o
piuttosto inventate. C., relativamente ad ostacoli incontrati in tal luogo e in
tal momento, la dissociazione della tendenza primordiale in diverse tendenze
complementari che producono linee divergenti di evoluzione. C. gli arresti e i
ritorni » (Év. créatr., 115 edizione, 1911, pag. 277). In questo senso
contingenza si identifica con libertà ed entrambe si oppongono a necessità;
mentre la possibilità è secondo Bergson soltanto l’immagine che la realtà,
nella sua autocreazione C. cioè «imprevedibile e nuova, proietta di se stessa
nel suo proprio passato » (La Pensée et le Mouvant, pag. 128). L'uso del
termine « contingenza » in questo significato caratterizza le correnti del
cosiddetto indererminismo (v.) contemporaneo: le dottrine filosofiche che
interpretano la natura in termini di libertà e di finalità cioè in termini di
spirito. A questo significato si riconduce anche l’uso che del termine ha fatto
Sartre, intendendo per contingenza il fatto che la libertà « non può non
esistere ». La contingenza è perciò la libertà nel rapporto dell’uomo con il
mondo (L’érre et le néant, pag. 567). CONTINGENTISMO. La parola non ha
riferimento al significato tradizionale o classico di contingenza, ma al
significato contemporaneo di questo termine in quanto è sinonimo di libertà (in
senso infinito o incondizionato). Pertanto il termine si riferisce soprattutto
alle varie forme dello spiritualismo (v.) che affermano la presenza e l’azione,
nello stesso mondo della natura, di un Principio libero (divino). CONTINGENZA
(lat. Contingentia). Una delle prove dell’esistenza di Dio è quella detta a
contingentia mundi (v. Dio, PROVE DI). CONTINUO (gr. ouveyés; lat. Continuum; ingl. Continuous;
franc. Continu; ted. Sterig). La
nozione di C. è di natura schiettamente matematica, per quanto i filosofi
abbiano contribuito ad elaborarla e se ne siano spesso serviti. La prima
definizione esplicita del C. è quella data da Aristotele (che forse riprende un
concetto di Anassagora, Fr. 3, Diels) secondo il quale esso è «ciò che è
divisibile in parti sempre divisibili » (Fis., VI, 2, 232b 24) e che perciò non
può risultare di elementi indivisibili, cioè di atomi (/bid., VI, 1, 231 a 24).
Con questo concetto si alterna però in Aristotele l’altro, più intuitivo e meno
matematico, secondo il quale il C. è una specie del «contiguo », nel senso che
sono continue le cose i cui limiti si toccano e dal cui contatto scaturisce una
certa unità (Mer., XI, 12, 1069 a 5 sgg.). Quest’ultimo concetto si trovava in
Parmenide (Fr., 8, 24, Diels): e non viene utilizzato dal pensiero moderno.
L'unico a richiamarlo è Peirce che esplicitamente si rifà ad Aristotele
dichiarando non del tutto soddisfacente la definizione del C. data da Cantor
(Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap. 4, 121 sgg.). La prima definizione è
quella che ha dominato la tradizione della matematica sino a Leibniz. Leibniz
ha sottolineato per primo l’importanza filosofica della «legge di continuità »
e ha di nuovo definito il continuo. Secondo la legge di continuità, il riposo
può essere considerato come un movimento che svanisce dopo essere stato
continuamente diminuito. Analogamente l’eguaglianza come una ineguaglianza che
svanisce, come accadrebbe nel caso di una diminuzione continua del maggiore di
due corpi disuguali, di cui il minore conservasse la sua grandezza (7héod., II,
$ 348). La legge di continuità consiglia inoltre di ammettere infiniti gradi
nella costituzione e nell’azione delle sostanze che compongono l’universo. «
Ciascuna di queste sostanze, dice Leibniz, contiene nella sua natura una legge
di continuità della serie delle sue operazioni » (Op., ed. Erdmann, pag. 107).
La legge di continuità vale ugualmente nel mondo delle rappresentazioni, nel
quale « le percezioni notevoli vengono per gradi da quelle che sono troppo
piccole per essere notate» (Nouv. Ess., Introduzione). Quanto al C. stesso,
Leibniz lo definì nel senso che in esso «la differenza di due casi può essere
diminuita al di sotto di ogni grandezza data» (Mathematische Schriften, ed.
Gerhardt, VI, pagina 129). È questo il concetto a cui si rifà Kant: «La
proprietà delle quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia la più
piccola possibile (cioè una parte semplice) si dice la continuità di esse »
(Crit. R. Pura, Anticipazioni della percezione). Nella matematica moderna due
tappe importanti nella definizione del C. sono quelle costituite dai postulati
di Dedekind (Conrinuità e numeri razionali, 1872) e di Cantor (nei
Mathematische Annalen, dal 1878 al 1883). Il postulato di Dedekind suona così:
« Divisi tutti i punti di una retta in due classi, in modo tale che ogni punto
della prima preceda ogni punto della seconda, esiste un punto e un punto solo
che segna la divisione di tutti i punti in due classi e della retta in due
segmenti». Il postulato di Cantor è invece più ristretto: « Date su una retta r
due classi C e C’ di punti tali che: 1° ogni punto di C sia a sinistra di ogni
punto di C‘; 2° preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento
minore di y di cui un estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C°;
esiste allora sulla retta r un punto di separazione delle due classi ». Russell
ha espresso lo stesso concetto nei riguardi del movimento, affermando: «
L'intervallo tra due istanti qualsiasi o due posizioni qualsiasi è sempre finito,
ma la continuità del movimento nasce dal fatto che, per quanto vicine siano le
due posizioni considerate, o i due istanti, c’è un’infinità di posizioni ancora
| più vicine, occupate a istanti che sono egualmente ' più vicini » (Scientific
Method in Philosophy, 1926, V; trad. franc., pag. 111). Queste definizioni del
C. hanno tuttavia un carattere paradossale in quanto sembra che vogliano far
nascere il C. dall’imagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di
istanti o di punti o di posizioni. Negli ultimi tempi esso ha fatto nascere
accese discussioni tra i matematici, alcuni dei quali sono propensi a ritornare
ad una nozione « intuitiva» del C., assunto talora come concetto originario. Il
Brouwer (1954), vede il C. in una « approssimazione che procede più o meno
liberamente » (cfr. From Frege to Gòdel, ed. by J. van Heijenoort, 1967, pag.
342). L’uso filosofico della nozione di C. ha tuttavia poco o nulla a che fare
con queste speculazioni matematiche. Tra i pensatori moderni, uno di quelli che
più utilizza la nozione è Mach che la chiarisce nel modo seguente: «Se un
intelletto investigante si è abituato a collegare nel pensiero due fatti, a e
b, cercherà, per quanto è possibile, di tener ferma questa abitudine anche in
circostanze alquanto diverse: in generale ogni volta che si presenti a, verrà
pensato anche 5. Questo principio che ha la sua radice nella tendenza
all’economia e che si presenta particolarmente chiaro ai grandi pensatori, noi
lo chiamiamo principio della continuità » (Analyse der Empfindungen, IV, $ 1;
trad. ital., pag. 71). Come si vede, la continuità è qui ricondotta al
principio humiano dell’abitudine, non chiarita concettualmente. Dall’altro lato
Dewey, che considera la legge di continuità come « il postulato fondamentale di
una teoria naturalistica della logica » determina la nozione di continuità più
negativamente e per immagini che in modo rigoroso. Dice infatti che essa
«significa comunque esclusione della completa rottura da un lato e della
semplice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità del ‘più alto’
al ‘più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il crescere e
svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il
significato della parola » (Logic., cap. Il; trad. ital., pag. 59). Qui, come
si vede, oltre al ricorso all’imagine dell’organismo vivente, non ci sono che
due determinazioni negative, cioè l’esclusione: 1° della divisione; 2°
dell’unità, tra le parti del continuo. In senso ancora più impreciso la parola
è usata quando si parla della continuità dell’evoluzione, dello sviluppo, del
progresso, o della storia. A proposito di quest’ultima, in particolare, la
continuità sembra assunta, il più delle volte, a significare la permanenza di
certi elementi o motivi o fattori, e quindi una certa unità o somiglianza tra
le varie fasi di essa. La «continuità della storia della filosofia », per es.,
viene intesa, il più delle volte, come la permanenza, attraverso di essa, di
certe nozioni, o direttive, o princìpi generali. Dall'altro lato, se si
riflette che quello che Dewey chiama «il postulato naturalistico della
continuità » tra biologia e logica è l’azione condizionatrice che le situazioni
biologiche esercitano sull’impostazione e lo sviluppo delle indagini, si vede
sùbito come la nozione di permanenza non sia adatta a definire un concetto
sufficientemente generalizzato della continuità. Sotto questo rispetto, e
limitatamente all’uso che la parola ha nel linguaggio filosofico e comune
odierno, si può dire che in generale sì parla di continuità tra due cose ogni
qualvolta è possibile riconoscere tra queste due cose una relazione qualsiasi.
Pertanto relazioni di causalità o di condizionamento, di contiguità o di
somiglianza possono essere assunte come segni o prove o manifestazioni di
continuità; come dall’altro lato possono essere assunte come tali anche
relazioni di opposizione o di contrarietà o di contrasto o di lotta, dal
momento che neanche tali forme di relazione implicano un taglio netto tra le
cose che oppongono, e cioè la mancanza di una relazione qualsiasi.
CONTRADDIZIONE (gr. &vripaas; lat. Contradictio; ingl. Contradiction;
franc. Contradiction; ted. Widerspruch). Aristotele (Anal. Post., I, 2, 72 a
12-14) la definisce come un" opposizione che di per sè esclude una via di
mezzo +»; in Anal. Pr., I, 5, 27a 29, detto rapporto è precisato come rapporto
tra proposizione universale negativa e particolare affermativa, universale
affermativa e particolare negativa. Queste infatti (40, E/) sono le coppie
delle propositiones contradictoriae nel cosiddetto «quadrato di Psello » dei
testi medievali di Logica. Essenziale alle coppie di contraddittorie è che non
possono essere nè entrambe vere ( principio di C.) nè entrambe false (principio
di terzo escluso). G.P. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI (gr. dElwpa tic
dviiphoewe; lat. Principium
contradictionis; ingl. Principle of Contradiction; francese Principe de
contradiction; ted. Satz der
Widerspruchs). Nato come principio ontologico, il principio di C. passò nel
campo della logica solo nel sec. XVIII, per divenire, in questo stesso secolo,
una delle « leggi fondamentali del pensiero ». Come principio ontologico, esso
fu esplicitamente ammesso per la prima volta da Aristotele che lo assunse a
fondamento della « filosofia prima » o metafisica. Secondo Aristotele, tale
principio serve in primo luogo a delimitare il dominio proprio di questa
scienza, permettendo di astrarre il suo oggetto, l’essere come tale, da tutte
le determinazioni con le quali è congiunto, in modo analogo a quello in cui gli
assiomi della matematica e della fisica consentono di astrarre i loro oggetti
(rispettivamente la quantità e il movimento) dalle altre determinazioni con cui
vanno congiunti (Mer., IV, 3). Aristotele tuttavia dà costantemente del
principio una duplice formulazione. Una è quella strettamente ‘ontologica che
egli esprime dicendo: « Niente simultaneamente può essere e non essere +
(/bid., III, 2, 996 b 30; IV, 2, 1005 b 24); l’altro è quello CONTRADDIZIONE,
PRINCIPIO DI che si potrebbe chiamare logica e che si esprime dicendo: « È
impossibile per la stessa cosa e nello stesso tempo inerire e non inerire ad
una stessa cosa nello stesso rispetto » (/bid., IV, 2, 1005 b 20); oppure
dicendo: « È necessario che ogni asserzione sia o affermativa o negativa » (/bid.,
III, 2, 996 b 29). Aristotele ritiene che il principio sia indimostrabile, ma
che esso possa essere difeso polemicamente contro i suoi negatori, tra i quali
considera i Megarici, i Cinici, i Sofisti e gli Eraclitei, mostrando che, se
essi affermano qualcosa di determinato, negano la negazione di questo qualcosa
e così si avvalgono del principio (/bid., IV, 4). Il valore del principio
pertanto è da Aristotele stabilito nei confronti di ciò che è determinato (réde
ti). « Se la verità, dice Aristotele, ha un significato, necessariamente chi
dice uomo dice animale bipede: giacchè questo significa uomo. Ma se questo è
necessario, non è possibile che l’uomo non sia animale bipede: la necessità
significa infatti proprio questo, che è impossibile che l’essere non sia »
(/bid., IV, 4, 1006 b 28). Così il principio di C., riferendosi all’essere
determinato, consente di astrarre da questo essere ciò che c’è di necessario:
la sostanza o l'essenza sostanziale: nell’esempio dell’uomo, l’animale bipede
che è appunto la sostanza o l’essenza sostanziale o la definizione dell’uomo
stesso. In tal modo, il principio di C. porta a fare della filosofia prima, che
è la scienza dell'essere in quanto essere, la teoria della sostanza Dice
Aristotele: « Ciò che da tempo e anche ora, e sempre abbiamo cercato, ciò che
sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che
cosa è la sostanza?» (/bid., VII, 1, 1028 b 2). Il significato che il principio
di C. ha nella metafisica di Aristotele è perciò realizzato nelle nozioni
fondamentali di questa metafisica, che sono quelle di sostanza (v.), di essenza
necessaria (v. ESssENZA) e di causa (v. CAUSALITÀ). Ma il principio possiede
anche, per lo stesso Aristotele una portata logica. Aristotele dice che, per
quanto il principio di C. non sia assunto espressamente da nessuna
dimostrazione, esso è a fondamento del sillogismo in quanto, sia che si ponga
la nozione di uomo, sia che si ponga la nozione di non-uomo, purchè si ammetta
che l'uomo è animale, risulterà sempre vero affermare che Callia è animale e
non non-animale; e afferma pure che esso è a fondamento della riduzione
all’assurdo (An. Post., I, 1I, 77 a 10). La struttura sillogistica è così
sorretta, sia nella sua forma positiva sia in quella negativa, dal principio di
C.: il che non fa meraviglia, dato che per Aristotele la struttura sillogistica
riproduce la struttura sostanziale dell’essere (v. SILLOGISMO). Nella forma
datagli da Aristotele, il principio è rimasto lungamente a fondamento della
metafisica classica. Le discussioni del sec. xi intorno al modo di esprimerlo
più semplice ed economico portarono alla formulazione della massima che in
séguito si chiamò principio di identità (v.) ma non scossero la supremazia del
principio di contraddizione. Cartesio (Princ. Philos., I, 49) e Locke (Saggio,
I, 1, 4) ancora lo ammettevano come verità indubitabile; ma già ignoravano
completamente il suo valore ontologico, che per Aristotele era primario. Ma
colui che fa passare definitivamente il principio di C. nella sfera della
logica è Leibniz: che lo considerò esclusivamente come il fondamento delle
verità di ragione, mentre riteneva che le verità di fatto fossero fondate sul
principio di ragion sufficiente (Monad., $$ 31-32). Questi due princìpi erano,
secondo Leibniz, a fondamento di tutte le verità e quindi di tutto l’edificio
della conoscenza umana (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Wolff ancora includeva il
principio di C. nell’ontologia; ma lo considerava tuttavia come un principio
naturale della mente umana (Onr., 8 27). E Baumgarten trovava per esso la
formula classica: A + non-A = O e lo chiamava il principio assolutamente primo,
ponendolo a capo della sua ontologia (Mer., 8 7). Kant preferiva esprimerlo, in
uno dei suoi primi scritti, con la formula: «Ciò di cui l’opposto è falso, è
vero » (Principiorum Primorum Cognitionis Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755,
I, prop. II, scol.). Più tardi nella Critica della Ragion Pura lo esprimeva
dicendo: « A_ nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica » e lo
considerava come « principio generale pienamente sufficiente di ogni conoscenza
analitica », eliminando tuttavia da esso la determinazione temporale che era
contenuta nell’espressione aristotelica; perchè, egli diceva, «in quanto
principio semplicemente logico non deve limitare le sue espressioni ai rapporti
di tempo » (Crit. R. Pura, Analitica dei Princìpi, cap. II, sez. I). Questo era
sostanzialmente lo stesso punto di vista di Leibniz. Dopo di Kant il principio
di C. fu considerato come una delle «leggi fondamentali del pensiero» (KRuG,
Logik, 1832, pag. 45; FRIES, System der Logik, 1837, pag. 121; HAMILTON,
Lectures on Logic, I, pag. 72): una qualifica onorifica, con la quale i
principi logici sono stati a lungo contrassegnati e che ancora viene talvolta
adoperata. Un ritorno all’uso metafisico del principio di C. fu dovuto a Fichte
e a Hegel. Si trattava, ora, della metafisica soggettivistica dell’idealismo,
per la quale nulla c’è fuori dell’Autocoscienza razionale. Fichte chiamava il
principio di C. « principio dell’opposizione »; lo esprimeva con la formula «—P
A non= A+ (che si legge « non-A non uguale ad 4 ») e riteneva che esprimesse
l’atto con cui l’Io oppone a se stesso un non-Io cioè una realtà o una cosa
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 2). Hegel considerava il principio di C., con
quello di identità, «la legge dell’intelletto astratto » (Enc., $ 115). E
contrapponeva ad esso la legge della «ragione speculativa » che sarebbe «Ogni
cosa si contraddice in se stessa ». Questa legge sarebbe la radice di ogni
movimento e di ogni vita e il fondamento stesso della dialettica (Wissenschaft
der Logik, ed. Glockner, I, pag. 545-46). Ma dall’altro lato la dialettica (v.)
è l'identità degli opposti: sicchè la C., se è la radice della dialettica (cioè
del movimento e della vita) non è tutta la dialettica la quale anzi procede
continuamente conciliando e risolvendo le C. e stabilendo al di là di esse ciò
che Hegel stesso chiama identità o unità (cfr. Wissenschaft der Logik, I, pag.
100). Nello stesso senso Gentile parlava del principio di identità come della «
legge fondamentale del pensiero» nel campo della «logica dell’astratto »
(Sistema di logica, 1922, II,,$89; mentre parlava della unità dello Spirito con
se stesso o con la realtà. Queste e simili critiche del principio di C. (come
degli altri princìpi logici) sono inconcludenti. Da un lato esse mirano a un
uso assai più dogmatico e metafisico dei princìpi stessi, di quello che
criticano: giacchè tendono ad avvalersi di essi per spiegare «il movimento e la
vita » della realtà intera. Dall'altro, esse prendono a bersaglio mulini a
vento; giacchè quando Leibniz e Kant affermavano che il principio di C. è il
fondamento delle verità identiche o analitiche non intendevano dire che esso è
il fondamento di verità del genere « un pianeta è un pianeta », « il magnetismo
è il magnetismo », « lo spirito è lo spirito », come Hegel riteneva (Enc., $
115), ma alludevano alle verità matematiche e logiche in quanto riducibili a
tautologie. La rinuncia a considerare i principi logici come princìpi della
logica o addirittura come « leggi fondamentali del pensiero» si ha invece
veramente nella logica matematica moderna. Già nell’opera di G. Boole (Laws of
Thought, 1854), i princìpi logici sono spariti come assiomi della logica e
sostituiti, in questa loro funzione, dalla definizione delle operazioni logiche
fondamentali, modellate sulle operazioni dell’aritmetica. Lo stesso principio
di C. era considerato da Boole come un teorema derivato da una più fondamentale
espressione logica (/bid., cap. III, prop. IV, ed. Dover, pag. 49). Da Boole in
poi i princìpi che si assumono a fondamento della logica sono semplicemente le
definizioni delle funzioni, delle costanti e variabili logiche, dei connettivi
e degli operatori. I cosiddetti princìpi logici che ancora sono onorati
talvolta del nome di « leggi» sono ridotti o a tautologie nel calcolo delle
proposizioni (cfr., per es., REICHENBACH, The Theory of Probability, $ 4), o a
teoremi dello stesso calcolo (cfr., per es., A. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, $ 26. 13). CONTRAPPASSO Questo non vuol dire che la
consistenza formale di un discorso, la compatibilità reciproca delle asserzioni
che lo costituiscono, è diventata meno importante. Ma vuol dire soltanto che
tale compatibilità è definita, per ogni sistema linguistico, dalle regole di
trasformazione o di inferenza, di implicazione o di sinonimia che sono
esplicitamente assunte nel sistema stesso o a cui esso fa tacito riferimento.
Il principio di rolleranza (v.) nella forma che gli ha dato Carnap afferma: «
Non è affar nostro stabilire proibizioni ma solo arrivare a convenzioni ».
Questo significa che «in logica non c'è morale e che ognuno è libero di
costruirsi la sua propria logica, cioè la sua forma di linguaggio, come
desidera. Tutto ciò che deve fare, se egli vuol discuterne, è dichiarare
chiaramente i suoi metodi e dare, invece di argomenti filosofici, le regole
sintattiche del suo discorso » (CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 17).
CONTRAPPASSO. V. TAGLIONE. CONTRAPPOSIZIONE (gr. dvri0eow; latino
Contrapositio; ingl. Contraposition; franc. Contraposition; ted.
Kontraposition)i. Una delle forme della conversione (v.) delle proposizioni e
precisamente quella che consiste nel negare il contrario della proposizione
convertita sì da avere, ad es., da «ogni uomo è animale », « ogni non-animale è
non-uomo » (cfr. ARIST., Top., II, 8, 113 b sgg.). CONTRARIETÀ (gr. èvavriétns;
lat. Contrarietas; ingl. Contrariety; franc. Contrariété; tedesco
Kontrarietàt). 1. Una delle quattro forme dell'opposizione (v.) e precisamente
quella che intercede tra «quei termini che dentro lo stesso genere distano
massimamente tra loro » (ARIST., Car., 6, 6a 17). Sono in opposizione contraria
il vero e il falso, il bene e il male, il caldo e il freddo, ecc. Aristotele
osserva che i contrari si escludono assolutamente e che non esiste tra essi
nozione intermedia, quando almeno uno di essi deve appartenere all’oggetto: per
es., non c’è termine intermedio tra malattia o sanità perchè l’organismo
animale deve essere necessariamente o sano o malato. C'è invece termine
intermedio tra il bianco e il nero tra ciò che eccelle e ciò che è dappoco,
ecc., perchè nessuno di tali caratteri deve necessariamente appartenere ad un
oggetto (/bid., 10, 11 b 32 sgg.). Cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 3.32. 2.
In quanto distinta dalla sub-contrarietà (v.), la C. è la relazione tra la
proposizione universale affermativa (s ogni uomo corre +) e la proposizione
universale negativa (« nessun uomo corre +). Confronta ARISTOTELE, De Int., 7,
17b 4; Pierro Ispano, Sumunul. Logic., 1.13. CONTRATTUALISMO (ingl.
Contractualism; franc. Contractualisme; ted. Kontraktualismus). La dottrina che
riconosce come origine o fondamento CONTRATTUALISMO dello Stato (o in generale
della comunità civile) una convenzione o stipulazione (contratto) fra i suoi
membri. Questa dottrina è assai antica, e, molto probabilmente, i suoi primi
sostenitori furono i Sofisti. Aristotele attribuisce al Sofista Licofrone
(scolaro di Gorgia) la dottrina che «la legge è una mera convenzione (synsheke)
e una garanzia dei mutui diritti »: alla quale dottrina Aristotele oppone che
in questo caso essa «non sarebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini
» (Pol., III, 9, 1280b 12). Questa dottrina fu ripresa da Epicuro, secondo il
quale lo Stato e la legge sono risultato di un contratto che ha il solo scopo
di facilitare i rapporti fra gli uomini. « Tutto ciò che nella convenzione
della legge si dimostra vantaggioso rispetto alle necessità che derivano dai
rapporti reciproci, è giusto per sua natura, sia o non sia per tutto lo stesso.
Nel caso che sia fatta una legge che si dimostri non rispondente ai bisogni dei
rapporti reciproci, essa allora non è giusta » (Mass. cap., 37). Ad una
concezione simile si rifaceva Carneade nel famoso discorso sulla giustizia che
tenne a Roma. «Per qual ragione si sarebbero costituiti svariati e differenti
diritti secondo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per
se stessa ciò che ritenne vantaggioso per sè?» (Cicer., Rep., III, 20). Eclissato
nell’età medievale dalla dottrina della origine divina dello Stato e in
generale della comunità civile, il C. risorge nell’età moderna e diventa,
insieme col giusnaturalismo, un potente strumento di lotta per la
rivendicazione dei diritti umani. Le Vindiciae contra tyrannos pubblicate dai
Calvinisti a Ginevra nel 1579 riprendono la dottrina del contratto per
rivendicare il diritto del popolo di ribellarsi al re, quando egli venga meno
ali impegni del contratto originario. Nello stesso spirito Giovanni Altusio
generalizzò la dottrina del contratto adoprandola a spiegare ogni forma di
associazione umana. Il contratto non è soltanto contratto di governo che regola
le relazioni fra un reggitore e il suo popolo, ma è anche contratto sociale in
senso più ampio come tacito accordo che è a fondamento di ogni comunità
(consociatio) e che fa che gli individui diventino conviventi, cioè partecipi
dei beni, dei servizi, e delle leggi valide nella comunità (Politica methodice
digesta, 1603). Alla difesa del potere assoluto fecero servire la dottrina del
contratto Hobbes e Spinoza. Così Hobbes enunciava la formula base del
contratto: «Io trasmetto il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a
quest’assemblea, solo a patto che tu ceda il tuo diritto alla stessa maniera»
(Leviath., II, 17). Questa, dice Hobbes, è « l’origine di quel grande
Leviathano o, per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale al quale
dobbiamo, dopo che al Dio immortale, la nostra pace e difesa: poichè, per
quest’autorità conferitagli dai singoli componenti lo Stato ha tanta forza e
potere, che può disciplinare la volontà di tutti per la conquista della pace
interna e per l’aiuto scambievole contro i nemici esterni» (/bid., II, 17). A
sua volta Spinoza ritiene che lo Stato costituito dal consenso comune abbia un
diritto che è limitato soltanto dalla sua forza, la quale è la stessa « potenza
della moltitudine » (Tractatus politicus, 2, 17). Più frequentemente, tuttavia,
il C. viene adoperato a dimostrare la tesi che il potere politico è necessariamente
limitato. In questo senso l’intesero Grozio e Pufendorf, e specialmente Locke
che l'usòa difendere la rivoluzione liberale inglese del 1688. Diceva
Pufendorf: «Se prendiamo a considerare una moltitudine di individui che godono
di libertà e di uguaglianza naturale e vogliono procedere alla istituzione di
uno Stato, è necessario prima di tutto che questi futuri cittadini contraggano
tra loro singolarmente un patto col quale manifestino la volontà di unirsi in
associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e ordini comuni alla
propria salvezza e sicurezza. Questo patto può essere o semplice o
condizionato: il primo si ha quando uno si obbliga a partecipare
all’associazione qualunque sia la forma di governo approvata dalla maggioranza;
il secondo quando aggiunge la condizione che la forma di governo sia da lui
stesso approvata » (De iure naturae, 1672, VII, 2, 6. A sua volta Locke parla
del contratto come dell’accordo degli uomini « di unirsi in una società
politica » e perciò lo definisce come « il patto che esiste o deve
necessariamente esistere tra individui che si associano o fondano uno
Stato»(Two Treatises of Government, 1690,1I,899). Criticato da Hume il C.trovò
in Rousseau un’interpretazione che equivalse sostanzialmente alla sua negazione.
Difatti il C. presuppone che gli individui come tali abbiano « diritti naturali
» a cui rinunziano, per acquistarne altri, col contratto sociale. Rousseau
ritiene che gli individui come tali siano assolutamente privi di diritti e che
essi abbiano diritti solo come cittadini di uno Stato. Gli uomini, dice
Rousseau, diventano uguali « per convenzione e diritto legale +; perciò « il
diritto di ciascun individuo al suo stato particolare è sempre subordinato al
diritto supremo della comunità » (Contrat social, 1762 I, 9). Già a Rousseau il
contratto originario appariva più come un mezzo per rendere « legittimo » il
vincolo sociale che come una realtà (/bid., I, 1); la stessa cosa venne
chiaramente affermata da Kant: «L’atto col quale il popolo stesso si costituisce
in uno Stato o piuttosto la semplice idea di questo atto che sola permette di
concepirne la legittimità è il contratto originario, secondo il quale tutti
(omnes ef singuli) nel popolo depongono la loro libertà esterna per riprenderla
di nuovo sùbito come membri di un corpo comune » (Met. der Sitten, I, $ 47).
Difficilmente, oggi l’idea fondamentale del C., così com'è stata elaborata
dagli scrittori del ’700, può essere assunta come un valido strumento per
comprendere il fondamento dello Stato e in generale della comunità civile.
Tuttavia, tra il xvi e il xvin secolo l’idea contrattualistica ha avuto una
forza di liberazione notevole nei confronti della consuetudine e della
tradizione, nel campo politico. Solamente oggi, con l’uso che le scienze e la
filosofia fanno di concetti come convenzione, stipulazione e impegno, la
nozione di contratto potrebbe forse essere ripresa per un’analisi della
struttura delle comunità umane imperniata sulla nozione delle reciprocità degli
impegni e del carattere condizionale delle stipulazioni da cui traggono origine
diritti e doveri. CONTRAZIONE (lat. Contractio; ingl. Contraction; franc.
Contraction; ted. Kontraction). Termine adoperato da Duns Scoto per indicare il
determinarsi e il restringersi della « natura comune » (per es., la natura
umana) a un individuo determinato, ad esse hanc rem (Op. Ox., II, d. 3, q. 5,
n. 1). Utilizzando nello stesso senso (cfr. De docta ignor., II, 4: «La C. si
dice rispetto a qualcosa, per es., ad essere questo o quello +) l’espressione scolastica,
Cusano ha chiamato il mondo un « Dio contratto » nel senso che esso è, come
Dio, il mas-simo, l’unità, l’infinità, ma contratte cioè determinate e
individualizzate in un molteplice di cose singole (/bid., II, 4). Nella tarda
Scolastica, certo per influenza dello scotismo, la parola fu talora adoperata
ad indicare il determinarsi del genere nelle specie e della specie negli
individui. CONVENIENZA. V. Accorpo.CONVENZIONALISMO (ingl. Conventionalism;
franc. Conventionalisme; ted. Konventionalismus). Ogni dottrina secondo la
quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta
all’accordo comune o alla stipulazione (tacita o espressa) di coloro che si
servono delle proposizioni stesse. L’antitesi tra ciò che è valido «per convenzione
» e ciò che è valido « per natura» fu familiare ai Greci. Democrito dice: «Il
dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, il colore, sono tali per convenzione; solo
gli atomi e il vuoto sono tali in verità » (Fr. 125, Diels). E il contrasto
stesso, limitato al campo politico, fu uno dei temi soliti dei Sofisti,
soprattutto di quelli dell’ultima generazione, che trovano la loro voce nei
Dialoghi di Platone. Polo nel Gorgia, Trasimaco nella Repubblica, sostengono
che le leggi umane sono pure convenzioni dirette a impedire ai più forti di
avvalersi del diritto naturale che è connesso alla loro forza. È secondo natura
che il più forte domini CONTRAZIONE il più debole; e questo accade di fatto
quando un uomo dotato di natura idonea spezza le catene della convenzione e da
servo diventa padrone (Gorg., 484 A). Che la legge morale e giuridica fosse
convenzione, fu dottrina sostenuta dagli Scettici (Sesto E., /pot. Pirr., I,
146). Il contrattualismo del xv e xviu secolo ha resa familiare l’idea che lo
Stato, e in generale la comunità civile, come pure le norme e i valori che da
essa traggono origine, sono i prodotti di una convenzione o stipulazione
originaria. Accennando appunto a questa dottrina, Hume notava che la
convenzione in questo senso deve essere intesa, non come una promessa formale,
ma come «un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore »
(/ng. Conc. Morals, App. 3); e aggiungeva « Così due uomini muovono le vele di
una barca con comune accordo per il comune interesse, senza alcuna promessa o
contratto; così l'oro e l'argento sono fatti misure dello scambio; così il
discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo
umano » (/bid., App. 3). Con queste parole, forse per la prima volta, il
concetto di convenzione veniva adoperato fuori del campo politico. Ma
un'estensione del C. al dominio conoscitivo si verifica solo nella seconda metà
dell’800 quando, con la scoperta delle geometrie non euclidee, il carattere di
verità evidente degli assiomi geometrici è venuto a cadere. Dice Poincaré: «
Gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici @ priori nè fatti
sperimentali. Sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni
possibili è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è limitata
soltanto dalla necessità di evitare la contraddizione » (La science et
l’hypothèse, II, cap. III). Lo stesso Poincaré si rifiutava tuttavia di
riconoscere a tutta la scienza il carattere convenzionale e difese
polemicamente, contro Le Roy, tale estensionedel C. (La valeur de la science,
1905). Lo sviluppo ulteriore della matematica ha tuttavia consentito di
estendere il punto di vista di Poincaré a tutta la matematica. L'opera di
Hilbert portava a vedere nelle matematiche sistemi ipotetico-deduttivi nei
quali si deducono le conseguenze implicite in certe proposizioni originarie o
assiomi, secondo regole che gli assiomi stessi implicitamente o esplicitamente
definiscono. Poteva così essere formulata la tesi fondamentale del C. moderno:
le proposizioni originarie, da cui muove qualsiasi sistema deduttivo, sono
convenzioni. Il che vuol dire: 1° non possono dirsi nè vere nè false; 2°
possono essere scelte in base a determinati criteri che lasciano tuttavia una
certa latitudine alla scelta stessa. Per opera del Circolo di Vienna (v.) e
dell’empirismo logico, il C. assumeva la forma, che COPERNICANA, RIVOLUZIONE ha
attualmente, di una tesi generale sulla struttura logica del linguaggio. La
Costruzione logica del mondo (1928) di Rudolf Carnap costituisce la prima
presentazione di questa tesi che era stata tuttavia preparata dal Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein. «La logica, dice Carnap, compresa in essa
la matematica, consiste di stipulazioni convenzionali sull’uso dei segni e di
tautologie che si fondano su queste stipulazioni » (Logische Aufbau der Welt, $
107). A questa tesi Carnap ha dato successivamente il nome di « principio di
tolleranza delle sintassi » perchè si tratta di un principio che, mentre rende
inoperanti tutti i divieti, consiglia di stabilire distinzioni convenzionali.
«In logica, dice Carnap, non c'è morale. Ciascuno può costruire come vuole la
sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi deve
solo indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche invece di
argomenti filosofici » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 17). Questa tesi
si può dire oggi largamente accettata, anche fuori dell’empirismo logico. La
seconda opera di Wittgenstein, /nvestigazioni filosofiche (1953) l’ha portato
all’estremo, affermando che ogni linguaggio è una specie di « giuoco » che
parte da determinati presupposti di natura convenzionale; e riconoscendo la
fondamentale equivalenza dei giochi linguistici. Prescindendo da quest’ultima
tesi e assumendo il C. nella limitazione in cui viene solitamente mantenuto,
cioè relativa al campo della struttura logica del linguaggio, occorre
sottolineare il fatto che esso non implica per niente, come talora si crede, la
perfetta arbitrarietà delle convenzioni linguistiche. Si possono riassumere
come segue i capisaldi del C. contemporaneo: 1° la scelta delle proposizioni
iniziali di un sistema deduttivo (assiomi [v.] o postulati [v.]) deve ubbidire
a criteri limitativi, che hanno lo scopo di garantire la riproponibilità della
scelta stessa ai fini dello sviluppo deduttivo; 2° la determinazione delle
regole di deduzione, delle operazioni, delle procedure è egualmente soggetta ad
una scelta limitata, sempre in vista della riproponibilità di tali regole,
procedure od operazioni; 3° le scelte di cui ai n. 1° e 2° costituiscono: a)
oggettivamente, il campo d’indagine comune su cui i ricercatori si possono
muovere; b) soggettivamente, l'impegno comune degli stessi ricercatori.
CONVENZIONE. V. CoNVENZIONALISMO. CONVERGENZA, LEGGE DI (ingl. Convergency
law). Così Whitehead ha chiamato il criterio usato dal senso comune e dalla
scienza per ottenere generalizzazioni fondate sull’osservazione. «Se A e B sono
due eventi ed A’ è parte di A, B' è parte di 8, allora sotto molti aspetti le
relazioni tra le parti A’ e 8’ saranno più semplici che le relazioni fra A e 8.
Questo principio regola tutti gli sforzi per raggiungere un’esatta osservazione
» (Organization of Thought, 1917, pag. 146 seguenti; The Concept of Nature,
1920; trad. ital., pag. 73). CONVERSIONE (gr. dvriotpopi; lat. Conversio; ingl.
Conversion; franc. Conversion; tedesco Umkehriing). In Aristotele (Anal. Pr.,
I, 1, 2) e nei trattati successivi di Logica classica (aristotelica), è
l’operazione con la quale da un enunciato se ne ricava un altro (considerato
equivalente, ma la cosa è assai problematica) mediante scambio delle posizioni
rispettive dei termini (soggetto e predicato). Naturalmente ciò non è sempre
possibile, e a volte si può fare solo introducendo un mutamento nel
quantificatore (« tutto » e « qualche »). Precisamente: la proposizione
universale affermativa (per es., «tutti gli uomini sono mortali +) si converte,
per accidens, in una particolare affermativa («qualche mortale è uomo +); la
particolare affermativa e l’universale negativa si convertono simpliciter,
ossia mediante semplice scambio dei termini; la particolare negativa non può
convertirsi. O. P. CONVINZIONE (ingl. Conviction; francese Conviction; ted.
Ueberzeugung). Termine di origine giuridica che designa un insieme di prove
sufficiente a «convincere» il reo, cioè a farlo ri-conoscere come tale.
Nell’uso comune il termine significa una credenza che ha sufficiente base
oggettiva per essere ammessa da chiunque. In questo senso è definita da Kant:
«Quando una credenza è valida per ognuno, solo a patto che sia dotato di
ragione, il fondamento di questa credenza è oggettivamente sufficiente ed essa
si chiama C.» (Crit. R. Pura, Canone della R. Pura, sez. III). Il carattere
oggettivo della C. contrasta col carattere soggettivo della persuasione (v.). Cfr.
PERELMANN e OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argumentation, 1958, $ 6.
COORDINAZIONE (ingl. Coordination; francese Coordination; ted. Koordination).
Il rapporto tra oggetti che sono situati nello stesso ordine o rango in un
sistema di classificazione; per es., due generi o due specie sono tra loro
coordinati ma non sono coordinati un genere e una specie. Coordinate si dicono
gli insiemi ordinati di numeri che servono a designare entità geometriche
(punti, linee, ecc.): oppure le caratteristiche che si utilizzano per
distinguere od ordinare varie classi di oggetti. COPERNICANA, RIVOLUZIONE
(inglese Copernican Revolution; franc. Révolution copernicienne; ted.
Kopernikanische Revolution). Si suole chiamare con questo nome il mutamento di
prospettiva realizzato da Kant: il quale invece di supporre che le strutture
mentali dell’uomo si modellinosulla natura, suppose che l’ordine della natura
si modella sulle strutture mentali. Il riferimento a Copernico fu fatto da Kant
stesso nella Prefazione alla seconda edizione (1787) della Critica della Ragion
Pura. Dewey ha osservato a questo proposito che quella di Kant è stata
piuttosto una rivoluzione tolemaica perchè ha fatto della conoscenza umana la
misura della realtà. La rivoluzione C. dovrebbe consistere nel riconoscere che
lo scopo della filosofia non è quello di essere o di descrivere la totalità del
reale, ma quello più modesto di ricercare i valori che possono essere
assicurati e divisi da tutti, perchè connessi con i fondamenti della vita
sociale (The Quest for Certainty, 1930, pag. 295). COPULA (ingl. Copula; franc.
Copule; ted. Kopula). L’uso predicativo dell’essere (v.). CORAGGIO (gr.
avBpsta; lat. Fortitudo; inglese Courage; franc. Courage; ted. Muth). Una delle
quattro virtù enumerate da Platone e che furono poi dette cardinali (v.) e una
delle virtù etiche (v.) di Aristotele. Platone la definisce come «l’opinione
retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere»
(Rep., IV, 430 b). Aristotele la definisce come il giusto mezzo tra la paura e
la temerarietà (Et. Nic., III, 6, 1115a 4). Ma come virtù che costituisce la
saldezza della deliberazione, il C. viene in qualche modo privilegiato e
considerato una delle virtù principali. Così fece Aristotele (/bid., III, 7).
Cicerone affermava: « Virtù deriva da vir (uomo) ed è soprattutto virile, cioè
proprio dell’uomo, il coraggio, di cui due sono i principali attributi:
disprezzo della morte e disprezzo del dolore » (Tusc., II, 18, 43). La stessa
cosa è ripetuta da S. Tommaso (S. 7A., II, II, q. 123, a. 2). In senso
biologicofilosofico il coraggio è stato definito da K. Goldstein: «Il C., nella
sua forma più profonda è unsì detto alla lacerazione dell’esistenza accettata
come una necessità affinchè si possa portare a compimento la realizzazione
dell’essere che ci è proprio ». In questo senso il C. è il contrario
déll’angoscia (v.) ed è un atteggiamento orientato verso il possibile non
ancora realizzato nel presente (Der Aufbau des Organismus, 1934, pag. 198).
CORNUTO, ARGOMENTO (gr. xeparivng; lat. Cornutus). Così è chiamato il sofisma
di Eubulide: «Ciò che non hai perduto, lo hai: manon hai perduto le corna,
dunque le hai» (Diog. L., VII, 187). COROLLARIO (gr. nspwopa; lat. Corollarium;
ingl. Corollary; franc. Corollaire; ted. Korollar).Ciò che si deduce da una
dimostrazione precedente, come una specie di sovrappiù o guadagno extra
(EucLIDE, E/., III, 1); oppure una specie di propo-sizione intermediaria tra il
teorema e il problema (PaPPO, 648, 18 sgg.; ProcLo, /n Eucl., pag. 301 F). Il
termine fu esteso al linguaggio filosofico da Boezio (Phil. Cons., III, 10).
Nel primo senso il C. fu talora chiamato consectarium (JuNGIUS, Logica
hamburgensis, IV, 11, 13). La differenza tra teorema e C. è trascurata dalla
logica contemporanea. CORPO (gr. oòua;
lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Kòrper). L’oggetto naturale in generale, cioè:
qualsiasi oggetto possibile della scienza naturale. Come già notava Aristotele
(De cael., I, 1, 268 a 1) tutto ciò che appartiene alla natura è costituito da
C. e grandezze o da cose che hanno C. e grandezza o dai princìpi delle cose che
li hanno. La più antica e famosa definizione di C. è quella data dallo stesso
Aristotele: « C. è ciò che ha estensione in ogni direzione» (Fis., III, 5, 204
b 20); e che «in ogni direzione è divisibile » (De cael., I, 1, 268a 7). Per
«ogni direzione » Aristotele intende l’altezza, la larghezza e la profondità:
il C. che possiede tutte e tre queste dimensioni è perfetto nell’ordine delle
grandezze (Ibid., I, 1, 268a 20). Questa definizione è rimasta costante per
molti secoli. Essa venne accettata dagli Stoici (Diog. L., VII, 1, 135) che
aggiungevano ad essa la solidità; e da Epicuro che aggiungeva ad essa
l’impenetra-bilità (Sesto E., /por. Pirr., III, 39 sgg.). La tradi. zione scolastica
la riproduce egualmente (per es., S. Tommaso, S. Th., I, q. 18, a. 2). E
Cartesio non fa che riassumere questa tradizione con la sua definizione del C.
come sostanza estesa. Egli dice: «La natura della materia o del C. in generale
non consiste nell’essere dura o pesante o colorata o qualsiasi altra cosa che
affetti i nostri sensi ma soltanto nell’essere una sostanza estesa in
lunghezza, larghezza e profondità» (Princ. Phil., II, 4). Questa definizione
non contiene nulla di nuovo rispetto a quella tradizionale; e non contengono
nulla di nuovo la definizione spinoziana che la riproduce (Spinoza, £r., I, 15,
schol.), nè quella di Hobbes (De Corp., VIII, $ 1). Un’innovazione al concetto
di C. è apportata solo da Leibniz. Questi distingue il « C. matematico » che è
lo spazio e che contiene solo le tre dimensioni, dal « C. fisico » che è la
materia e che contiene, oltre l’estensione, « la resistenza, la densità, la
capacità di riempire lo spazio e l’impenetrabilità: la quale ultima consiste in
ciò che un C. è costretto, da un altro C. sopravveniente, a cedere o a
fermarsi» (Op., ed. Erdmann, pag. 53). Da questa nozione di C. Leibniz è
portato a negare che il C. sia «sostanza»: ciò che in esso c’è di reale è
soltanto la capacità (vis) di agire e di subire un’azione (/bid., ed. Erdmann,
pag. 445). Quest’ultima è forse la ripresa di una vecchia definiCORPO zione
(Sesto Empirico l’attribuisce a Pitagora, Adv. Math., IX, 366). Ma, nel
significato che Leibniz le conferisce, essa aprì la via all'elaborazione del
concetto scientifico di C. come «massa», quale si ebbe nella fisica newtoniana:
la massa essendo il rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa, è
interamente esprimibile in termini di « capacità di agire e di subire un’azione
+, secondo la definizione di Leibniz. Lungo questa linea di sviluppo che da
Leibniz muove alla fisica classica e dalla fisica classica alla fisica della
relatività, la nozione di C., attraverso quella di massa, conduce alla nozione
di campo (v.). Per la fisica contemporanea un C. è soltanto una « certa
intensità del campo» (EinsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III;
traduzione ital., pag. 253). La filosofia, tuttavia, non ha seguito da vicino
questo sviluppo che la nozione ha subito nel dominio della fisica. Nel mondo
moderno e contemporaneo, essa ci offre, a proposito della nozione di C., le
alternative seguenti: 1° L'alternativa idealistica per la quale i C. sono «
rappresentazioni », O « percezioni +, o «idee +, o complessi di tali cose.
Quest’alternativa introdotta da Berkeley e accettata da Hume, è stata la più
diffusa nella filosofia moderna e domina tuttora la filosofia contemporanea.
Per quanto grande sia la sua importanza in tali filosofie, quest’alternativa
non è importante dal punto di vista della nozione di C. perchè essa implica,
semplicemente, che i C. non esistono e perciò ne elimina il problema. 2°
L’alternativa che consiste nel ritenere i C. come utensili o strumenti o mezzi
di cui si avvale l’uomo nel mondo e perciò nel caratterizzarli mediante le
possibilità di azione e reazione che essi offrono all’uomo. Quest'alternativa è
propria della filosofia contemporanea, nella quale essa è stata introdotta
dall’esistenzialismo e dallo strumentalismo americano. In questo significato
però la nozione di C. si identifica con quella di cosa, sotto il qual termine
essa viene più comunemente designata. Per esso si può quindi vedere la voce
Cosa. CORPO (gr. oiwsua; lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Leib). La
più antica e diffusa concezione del C. è quella che lo considera lo strumento
dell’anima. Ora, ogni strumento può essere o positivamente apprezzato per la
funzione che compie e perciò elogiato od esaltato; o criticato perchè non
risponde bene al suo scopo o perchè implica limitazioni e condizioni. L’una e
l’altra vicenda è toccata al C. nella storia della filosofia; la quale ci offre
sia la condanna totale del C. come tomba o prigione dell’anima, secondo la
dottrina degli Orfici e di Platone (Fed., 66 b seguenti), sia l’esaltazione del
C. fatta da Nietzsche (« Colui che è desto e cosciente, dice: sono tutto C. 12
177 e nulla all’infuori di esso», A/so sprach Zarathustra, I, Gli odiatori del
C.). Nella prima direzione, il mito, esposto nel Fedro platonico, della caduta
dell'anima nel C., viene ripreso dalla Patristica orientale e specialmente da
Origene (De princ., II, 9, 2). Scoto Eriugena, ai princìpi della Scolastica, lo
riproduceva (De divis. nat., II, 25). Anche questa concezione presuppone la
nozione della strumentalità del C.: nello stato di caduta, dovuto al peccato, l’anima
ha bisogno del C. e le è indispensabile valersi dei suoi servizi. Ma ovviamente
la più compiuta e tipica formulazione della dottrina della strumentalità è
quella di Aristotele, per il quale il C. è «un certo strumento naturale»
dell'anima come la scure lo è del tagliare; sebbene il C. non sia simile alla
scure in quanto « ha in se stesso il principio del movimento e della quiete»
(De an., II, 1, 412 b 16). Il materialismo, come non implica necessariamente la
negazione della sostanzialità dell’anima (v.), così non implica neppure la
negazione della strumentalità del C.; anche se l’anima è corporea, il C. può
avere, rispetto ad essa, una funzione strumentale. Così riteneva Epicuro che
attribuiva al C. la funzione di preparare l’anima ad esser causa della
sensazione (Ep. a Erod., 63 seguenti); e così ritenevano gli Stoici per i quali
l'anima è ciò che domina o in vari modi utilizza l'organismo corporeo (AEzio,
Plac., IV, 21). Nè è diversa la concezione del C. nel materialismo di Hobbes,
il quale affermando che «lo spirito non è altro che un movimento in certe parti
del C. organico » (Z7/ Objections contre les Méd. cartésiennes, 4) riconosce
con ciò stesso la strumentalità del C. rispetto a quel « movimento » che è
l’anima. Nè il più grossolano materialismo dell’800 per cui l'anima sarebbe un
prodotto del cervello come la bile del fegato o l’urina dei reni, obbedisce a
uno schema interpretativo diverso: il cervello, come il fegato e i reni, è pur
sempre uno strumento per la produzione di qualcosa. Dall'altro lato lo
spiritualismo, quello, per es., dei Neoplatonici, ammette ugualmente la
dottrina della strumentalità: «Se l’anima è sostanza, dice Plotino, essa sarà
una forma separata dal C. o, come meglio si direbbe, ciò che si serve del C.»
(Enn., I, 1, 4). La dottrina «della strumentalità domina l’intera filosofia
medievale. Dice S. Tommaso: «Il fine prossimo del C. umano è l’anima razionale
e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli strumenti
ci sono in vista delle azioni dell’agente + (S. 7h., I, q. 91, a. 3).
Un’eccezione a questa dottrina è costituita dalla teoria della « forma di
corporeità » che fu propria dell’agostinismo (v.) medievale e che consisteva
nel riconoscere al C. organico una sua forma o sostanza indipendente. Ma
l’abbandono definitivo del concetto della strumentalità 178 del C. si ha
soltanto con il dualismo cartesiano. Si crede comunemente che la separazione
istituita da Cartesio tra anima e C. come tra due sostanze diverse abbia avuto
come conseguenza di stabilire l'indipendenza dell’anima rispetto al corpo. In
realtà, la sua prima conseguenza è stata quella di stabilire l'indipendenza del
C. rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di Cartesio, non si era mai
presentato. Difatti la strumentalità del C. suppone che il C. non possa far
nulla senza l’anima, al modo in cui la scure non serve a nulla se non è
impugnata da qualcuno. Ma il riconoscimento che l’anima e il C. sono due
sostanze indipendenti, implica, come dice Cartesio, che «tutto il calore e tutti
i movimenti che sono in noi appartengono solo al C., in quanto non dipendono
dal pensiero affatto » (Passions de l’éme, I, 4). Da questo nuovo punto di
vista, il C. appare come una macchina, una macchina che cammina da sè. «Il C.
di un uomo vivente, dice Cartesio, differisce da quello di un morto proprio
come un orologio o un altro automa (per es., una macchina che si muove da sè)
quando è caricato e contiene in se stesso il principio corporeo dei movimenti
per i quali è stato progettato insieme con tutti i requisiti per agire,
differisce dallo stesso orologio o dalla stessa macchina quando è rotta o
quando il principio del suo movimento cessa di agire» (/bid., $ 6).
Quest’affermazione della realtà indipendente del C. come automa non è tanto una
tesi metafisica, quanto una tesi metodologica che prescrive la direzione e gli
strumenti delle indagini dirette alla realtà del «C.». E proprio in questo
senso ha agito storicamente la tesi cartesiana, che ha fornito per lungo tempo
il presupposto teorico delle indagini scientifiche sui corpi viventi. Dal
puntodi vista filosofico, tuttavia, il dualismo cartesiano aveva lo svantaggio
di dar luogo ad un problema che era sconosciuto alla classica concezione del C.
come strumento: cioè al problema del rapporto tra anima e corpo. La concezione
classica, infatti, già con la definizione del C. come strumento dell’anima e
dell'anima come forma o ragion d’essere del corpo, risolveva a suo modo tale
problema giacchè in realtà queste definizioni non sono che soluzioni postulate
del problema stesso. Ma col dualismo di anima e C. il problema emergeva alla
luce in tutta la sua crudezza. Come e perchè le due sostanze indipendenti si
combinano a formare l’uomo? E come l’uomo che è, sotto un certo aspetto, una
realtà unica, può risultare dalla combinazione di due realtà indipendenti? La
filosofia moderna e contemporanea ha apprestato quattro soluzioni di questo
problema. 18 La prima di esse consiste nel negare la diversità delle sostanze e
nel ridurre la sostanza corCORPO porea alla sostanza spirituale. Così ha fatto
Leibniz che ha concepito il C. vivente come un insieme di monadi, cioè di
sostanze spirituali, raggruppate intorno ad una «entelechia dominante» che è
l’anima dell’animale (Monad., $ 70). Da questo punto di vista «Il C. è un
aggregato di sostanze e non è una sostanza esso stesso » (Op., ed. Erdmann,
pag. 107). Sostanza è soltanto l’anima. Questa soluzione di Leibniz è il
modello di numerose altre che sono state date nel corso della filosofia moderna
e contemporanea, soprattutto dalle correnti dello spiritualismo (v.).
L'espressione classica di questo punto di vista si può trovare nel Mficrocosmo
di Lotze. Varianti di questa stessa soluzione possono essere considerate le
dottrine di Schopenhauer e Bergson. Schopenhauer identifica il C. con la
volontà cioè con quella che egli ritiene il noumeno o la sostanza del mondo, di
cui la rappresentazione è il fenomeno. Egli dice: «Il mio C. e la mia volontà
sono tutt'uno. Oppure: ciò che io chiamo mio C. come rappresentazione
intuitiva, lo chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto
diversa, non paragonabile ad alcun’altra. Oppure: il mio C. è l’oggettività
della mia volontà. Oppure: prescindendo dal fatto che il mio C. è
rappresentazione, esso non è altro che volontà» (Die Welt, I, $ 18). A sua
volta Bergson, riprendendo parzialmente la vecchia tesi, afferma che «il nostro
C. è uno strumento d’azione e di azione solamente +». Esso non contribuisce
direttamente alla rappresentazione e in generale alla vita della coscienza:
serve solo a selezionare imagini in vista dell’azione, cioè a rendere possibile
la percezione che consiste appunto in tale selezione. Ma la coscienza, che è
memoria, è indipendente da esso (Matiére et Mémoire, spec. Résumé et
Conclusion; ed. di Genève, pag. 232 sgg.). Ovviamente l’ultimo risultato di
quest’analisi di Bergson è la riduzione del C. alla percezione (come della
coscienza alla memoria): cioè la negazione di ogni realtà propria del C.
stesso. 2 La seconda soluzione, assai prossima alla prima, considera il C. come
un segno dell’anima. Questa è veramente dottrina assai antica che Platone
(Crat., 400 b) attribuisce agli Orfici: ma la sua prevalenza si ha nel
Romanticismo. Dice Hegel: «L’anima nella sua corporalità, del tutto formata e
resa sua propria, sta come soggetto singolo per sè; e la corporalità è per tal
modo l’esteriorità in quanto predicato nel quale il soggetto si riconosce solo
a sè. Questa esteriorità non rappresenta sè ma l’anima; ed è il segno di questa
» (Enc., $ 411). Da questo punto di vista il C. è la « manifestazione esterna »
o la «realizzazione esterna » dell’anima: esprime cioè l’anima nella forma di
un'esteriorità che non è come tale reale ma soltanto « simbolica ». Residui di
questa concezione si possono trovare in tutte le dottrine le quali vedono nel
C. un complesso di fenomeni espressivi. 3% La terza soluzione consiste nel
negare la diversità delle sostanze ma non quella tra anima e C. e perciò nel
considerare l’anima e il C. come due manifestazioni di una stessa sostanza.
Spinoza ha dato a questa soluzione la sua forma tipica considerando l’anima e
il C. come modi o manifestazioni dei due attributi fondamentali dell’unica
Sostanza divina, il pensiero e l’estensione. «Intendo per C., egli ha detto, un
modo che in una certa, determinata guisa esprime l’essenza di Dio in quanto è
considerato come cosa estesa +? (£r., II, def. 1). Pertanto «l’idea del C. e il
C., ossia la mente e il C., formano un solo e medesimo individuo che viene
concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto l’attributo
dell’estensione » (Ibid., \I, 21, schol.). Questa dottrina ovviamente implica
che l’ordine e la connessione dei fenomeni corporei corrispondano perfettamente
all’ordine e alla connessione dei fenomeni mentali e che pertanto si possa,
ricostruendo l’ordine e la connessione degli uni, rendersi conto dell’ordine e
della connessione degli altri. Per questo vantaggio che l’ipotesi spinoziana
sembra offrire nonchè per il fatto che essa esclude la possibilità di mescolare
e confondere le due serie di fenomeni assumendo per es., come causa di un
fenomeno corporeo un fenomeno mentale o viceversa, la dottrina di Spinoza ha
fornito il modello di quella dottrina del parallelismo psico-fisico (v.) che ha
presieduto alla formazione della psicologia scientifica moderna cd è servita
come ipotesi di lavoro per la psicologia stessa sino ad alcuni decenni fa. 48
La quarta soluzione consiste nel considerare il C. come una forma di esperienza
o come un modo d’essere vissuto, che abbia tuttavia un carattere specifico
accanto ad altre esperienze o modi d’essere. I precedenti di questa soluzione
sono le dottrine, cui si è accennato a proposito della soluzione 18, di
Schopenhauer e Bergson. Ma mentre tali dottrine hanno ancora risonanze
idealistiche e implicano la riduzione del C. a spirito, l’ipotesi di cui ora ci
occupiamo non ha signifi cato idealistico ed evita tale riduzione. Questa
soluzione ha trovato la sua forma tipica nella fenomenologia di Husserl;
secondo il quale il C. è l’esperienza che viene isolata o individuata dopo
successivi atti di riduzione fenomenologica. « Nella sfera di ciò che mi
appartiene (dalla quale si è eliminato tutto ciò che rinvia ad una soggettività
estranea) ciò che chiamiamo natura pura e semplice, non possiede più il
carattere di essere oggettivo e perciò non dev’essere confuso con uno strato
astratto dal mondo stesso o dal suo significato immanente. Fra i C. di questa
natura ridotta a ‘ ciò che mi appartiene * io trovo il mio proprio C. che si
distingue da tutti gli altri per una particolarità unica: è il solo C. che non
è soltanto un C. ma il mio C.; è il solo C. all’interno dello strato astratto,
ritagliato da me nel mondo al quale, conformemente all’esperienza, io coordino,
in modi diversi, campi di sensazione; è il solo C. di cui dispongo in modo
immediato come dispongo dei suoi organi » (Méd. Cart., $ 44). In tal modo il C.
viene considerato come un’esperienza vivente, connesso con possibilità umane
ben determinate. In modo analogo il fisiologo Kurt Goldstein ha distinto spirito,
anima e C. come processi diversi ma connessi, i quali prendono significato e
rilievo solo nella loro connessione. Tali processi sono in realtà comportamenti
diversi dell’organismo vivente. In particolare il C. è « un’imagine fisica
determinata e multiforme » che si può descrivere come un fenomeno di
espressione o come un insieme di atteggiamenti o come fenomeni che fanno capo a
tutti gli organi possibili. Se lo spirito è l’essere dell’organismo e
precisamente il suo essere nel mondo, il complesso degli atteggiamenti vissuti,
l’anima è il suo avere, cioè la sua capacità conoscitiva; e il C. è il
divenire, che non abbiamo e non siamo, ma che accade in noi. Questo divenire è
sostanzialmente un «dibattito col mondo» attraverso il quale l’uomo accumula le
sue esperienze e forma le sue capacità (Der Aufbau des Organismus, 1927, pag.
206 sgg.). Da questo punto di vista il C. non è che un comportamento o meglio
un elemento o una condizione del comportamento umano. Affine a questa
concezione è la dottrina di Sartre per la quale il C. è l’esperienza di ciò che
è « oltrepassato » e « passato ». « In ciascun progetto del Per-sè [cioè della
coscienza], in ciascuna percezione, il C. è là: esso è il passato immediato in
quanto affiora ancora nel presente che lo fugge. Questo significa che esso è,
ad un tempo, punto di vista e punto di partenza: un punto di vista, un punto di
partenza che io sono e che insieme oltrepasso verso ciò che ho da essere »
(L’étre et le néant, 1945, pag. 391-92). Merleau-Ponty ha messo in luce con
tutta chiarezza le tesi implicite in questo punto di vista. Il C. non è un
oggetto, una cosa. « Sia che si tratti del C. altrui, sia che si tratti del
mio, non ho altro modo di conoscere il C. umano che viverlo, cioè assumere sul
mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso ». Ma
quest'esperienza vissuta dal proprio C. non ha nulla a che fare col « pensiero
del C.» o con «l’idea del C.» che ci formiamo per riflessione attraverso la
distinzione del soggetto e dell'oggetto. Quell’esperienza ci rivela un modo di
esistenza «ambiguo»: se cerchiamo di pensare il C. come un fascio di processi
in terza persona (per es., come «visione», «mobilità », « sessualità ») ci
accorgiamo che queste funzioni non sono legate fra loro e col mondo esterno da
un rapporto di causalità, ma sono tutte fuse e confuse in un unico dramma.
Descartes, d’altronde, nota MerleauPonty, aveva già distinto il C. quale è
concepito per gli usi della vita dal C. che è concepito dall’intelletto
(Phénoménologie de la perception, pag. 231; cfr. CARTESIO, Opera, III, pag.
690). È da osservare che questa riduzione, così caratteristica della filosofia
contemporanea, del C. a un comportamento, o a un modo d'essere vissuto, non ha
alcun significato idealistico: non implica la negazione della realtà oggettiva
del C. stesso o la sua riduzione a spirito, o a idea, o a rappresentazione. Al
contrario, questa interpretazione della nozione di C. ba accentuato
l’oggettività della sfera di fenomeni in cui il C. consiste: sfera di fenomeni
che essa ha cercato di definire in termini di possibilità di esperienza o di
accertamento, secondo un orientamento fondamentale della filosofia
contemporanea nei confronti della realtà in generale (v. REALTÀ). CORPOREITÀ,
FORMA DI (lat. Forma corporeitatis). Secondo la tradizione agostiniana della
Scolastica (v. AGOSTINISMO), è quella realtà che il corpo possiede come corpo
organico, indipendentemente dalla sua unione con l’anima e che lo predispone a
tale unione. Così la nozione è definita da Duns Scoto (Op. Ox., IV, d. 11, q.
3; Rep. Par., IV, d. 11, q. 3). Si tratta di una nozione caratteristica
dell’agostinismo e usata come arma polemica contro l’aristotelismo per il quale
il corpo, come materia, è potenza e pertanto non ha sostanzialità o forma.
CORRELAZIONE (gr. tà rmpéc ti dvrelgeva; lat. Korrelatio; ingl. Correlation;
franc. Corrélation; ted. Correlationi. Una delle quattro forme di opposizione
enumerate da Aristotele e precisamente quella che intercorre tra termini
correlativi, come la metà e il doppio. Gli opposti correlativi non si escludono
a vicenda perchè anzi si richiamano l’uno con l’altro nel senso che il doppio
si dice della metà e la metà del doppio. Sono termini correlativi anche lo
scibile e la scienza che si dicono l’uno in rapporto all’altro (Car., 10, l1lb
23 sgg.). Nella logica scolastica questo rapporto fu espresso dicendo che in
esso il soggetto e il termine possono scambiarsi: sicchè, ad es., Davide è il
soggetto della relazione di paternità mentre è il termine della relazione di
filiazione, che ha in Salomone il suo soggetto; e reciprocamente Salomone è il
termine della paternità che è in Davide (cfr., ad es., JunGIUS, Logica, I, 8,
6). Hamelin, intendeva sostituire, nella dialettica hegeliana, la C. alla
contraddizione: gli opposti di questa dialettica sono per lui opposti
correlativi, non opposti contraddittori (Essai sur les Éléments principaux de
la Représentation, 1907, pag. 35). CORRETTIVA, GIUSTIZIA. V.
ComMutaCORRISPONDENZA (lat. Adaeguatio; inglese Correspondence; franc. Correspondance;
ted. Ùbereinstimmung o Korrespondenz). La dottrina secondo la quale la verità
consiste nell’adeguazione o nell'accordo o nella C. di termine a termine, tra
il pensiero o la conoscenza o le proposizioni linguistiche da un lato, la
realtà o i fatti dall'altra. È questo il criterio di verità presupposto dalla
filosofia classica ed espresso dalla definizione scolastica di verità come
adeguazione dell’intelletto e della cosa (v. VERITÀ). CORRUZIONE (gr. pBopà;
lat. Corruptrio; ingl. Corruption; franc. Corruption; ted. Vergehen). Secondo
Aristotele costituisce, insieme col suo opposto, la generazione, l'attualità di
una delle quattro specie di movimento e precisamente del movimento sostanziale,
in virtù del quale la sostanza si genera o si distrugge. «La corruzione, dice
Aristotele, è un mutamento che va da qualcosa al non essere di questo qualcosa,
ed è assoluta quando va dalla sostanza al non essere della sostanza, specifica
quando va verso la specificazione opposta + (Fis., V, 1, 225a 17). Per la
dottrina della C. dell’uomo v. CADUTA; PECCATO ORIGINALE. CORSO DELLE NAZIONI.
Così chiamò Vico la «costante uniformità » dimostrata, pur nella varietà dei
costumi, dalla storia dei diversi popoli in quanto si lascia dividere nelle
«tre età che dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli
dèi, degli eroi e degli uomini» (Scienza nuova, IV) (v. RICORSI). COSA (gr. mpéyua; lat. Res;
ingl. Thing; francese Chose; ted. Ding).
Questo termine ha, nel discorso comune, come in quello filosofico, due
significati fondamentali: 1° quello generico per cui designa qualsiasi oggetto
o termine, reale o irreale, mentale o fisico, ecc., con cui, in un modo
qualsiasi, si abbia a che fare; 2° quello specifico per cui denota gli oggetti
naturali in quanto tali. 1° Nel primo significato, la parola è uno dei termini
più frequenti del linguaggio comune e viene anche abbondantemente adoperata dai
filosofi. « C. » può essere il termine di un atto di pensiero o di conoscenza
oppure d’imaginazione o di volontà; di costruzione o di distruzione, ecc. Si
può parlare di una C. che è nella realtà come pure di una C. che è
nell’imaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicchè si può dire che in
questo significato C. significa un termine qualsiasi di un qualsiasi atto umano
o, più esattamente, un qualsiasi oggetto con cui in un modo qualunque si abbia
a che fare. Questo è il significato racchiuso nella parola greca pragma. 2° Nel
suo più ristretto significato, la C. è l'oggetto naturale che è detto anche
«corpo» o «sostanza corporea ». L’uso del termine in questo secondo significato
è piuttosto recente. Si può forse far risalire a Cartesio che però accanto
all’espressione « C. corporee» (choses corporelles) adopera anche « C. che
pensa » (chose qui pense) mostrando così d'intendere la parola nel significato
che è tradizionalmente proprio di sostanza (Méd., II, passim). Locke preferì la
parola « sostanza » (« Le idee delle sostanze sono quelle combinazioni di idee
semplici di cui si assume che rappresentino C. particolari e distinte, sussistenti
di per se stesse », Saggio, II, 12, $ 6). E solo con Berkeley si può dire che
il termine C. ha soppiantato definitivamente quello di sostanza: « Le idee
impresse nei sensi dall’autore della natura, egli dice, sono chiamate C. reali
e quelle eccitate dall’imaginazione, essendo meno regolari, vivide e costanti,
sono più propriamente chiamate idee o imagini delle C. che esse copiano o
rappresentano » (Principles, I, $ 33). Da questo punto in poi il termine C.
diviene assai frequente per indicare il corpo o l'oggetto naturale in generale.
Kant lo estende ancora di più, distinguendo le cose quali appariscono a noi,
cioè sottoposte alle condizioni della nostra sensibilità (spazio e tempo), e le
C. in generale o C. in sé (v.) (Critica R. Pura, $ 8). Ma egli fissa anche il
significato del termine nella sua trattazione dello schematismo trascendentale,
dove fa della cosalità o realtà (Sachheit, Realitàt) lo schema fondamentale
della categoria di qualità, nel senso che «C. in generale è ciò che corrisponde
ad una sensazione in generale » {Ibid., Schematismo dei concetti puri). Da
questo punto in poi, la storia della nozione di C. si può dividere in due
filoni fondamentali a seconda che. a tale nozione venga riconosciuto o negato
un suo significato specifico. Possiamo perciò distinguere: a) L'indirizzo per
il quale l’essere della C. viene risolto nell’essere in generale. Così, per
l’idealismo empirico per il quale l’essere è rappresentazione o idea, la C. è
rappresentazione o idea o un complesso di rappresentazioni o di idee. Questa
dottrina, che è quella di Berkeley, è stata innumerevoli volte riprodotta nella
filosofia moderna e contemporanea. Per l’idealismo assoluto o romantico, per il
quale la realtà è la ragione stessa, la C. è un concetto della ragione; e infatti
Hegel la considera come una categoria logica (Enc., $ 125 sgg.; Wissenschaft
der Logik, ed. Glockner, I, pag. 602 sgg.). Il significato autonomo della
nozione non è salvato dalla modificazione, proposta da Stuart Mill, della tesi
dell’empirismo classico. Secondo Stuart Mill, le C. sono « possibilità di
sensazioni» (Examination of Hamilton’s Phil., pag. 190 sgg.); ma ciò non
delimita specificamente il modo d'essere delle cose. Nè lo delimità la
concezione di Mach, che definisce le C. come complessi di sensazioni (Analyse
der Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 14); anche se le « sensazioni » di cui
parla Mach non sono determinazioni soggettive, ma elementi neutri che entrano a
comporre sia le C. sia la mente. Questo punto di vista è stato riprodotto da Russell
secondo il quale « una C. è un séguito determinato di apparenze, in un legame
continuo le une con le altre secondo certe leggi causali» (Scientific Method in
Phil., 1926, IV; trad. franc. pag. 86). La connessione del modo d°’essere delle
C. con l’azione umana, connessione sulla quale, come vedremo sùbito, si fonda
la nozione positiva di C., è messa in luce da Bergson, ma è utilizzata da lui
solo allo scopo di negare la realtà delle cose. « Non ci sono C., ci sono
soltanto azioni », egli ha detto (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 270). Le
C. sono creazioni dell’intelligenza in quanto funzione pratica, che solidifica
il divenire sostituendo la stabilità fittizia di « C.» o di «stati» alla
continuità e fluidità della coscienza (/bid., pag. 269 sgg.; 296). In questa
dottrina le C. si riducono ad azioni e l’azione alla durata reale della
coscienza; si ha cioè, sia pure con una certa consapevolezza dei problemi
inerenti, la solita riduzione della C. ad uno stato soggettivo. E il
significato di tale riduzione della C. a elementi soggettivi comunque
qualificati (sensazioni, rappresentazioni, idee, azioni, ecc.) è semplicemente
questo: che non esistono cose. b) L’indirizzo per il quale l’essere della C. ha
un significato specifico. Su tale significato ha insistito, dal punto di vista
fenomenologico, Husserl affermando che esiste « una diversità fondamentale tra
l’essere come esperienza vissuta e l’essere come C. »; e che pertanto « una C.
non può essere data in nessuna possibile percezione o altra modalità di coscienza
in generale » (/deen, I, $ 42). Il modo d'essere specifico della C., consiste
nel fatto che essa è data in un numero indefinito di apparizioni ma rimane
trascendente come un’unità che è al di là di queste apparizioni, e che tuttavia
si manifesta in un nòcciolo di elementi ben determinati, circondati da un
orizzonte di altri elementi più indeterminati (/bid., $ 44). L’essere della C.
si contrappone così a quello delle esperienze vissute o della coscienza (v.).
Questa contrapposizione è presupposta da tutti i tentativi della filosofia
contemporanea di determinare in modo specifico l’essere della cosa. Fd è
significativo che tali tentativi siano partitda due punti di vista indipendenti
e apparentemente contrastanti, quello del naturalismo strumentalistico da un
lato, e quello della filosofia esistenziale dall'altro. Mead ha mostrato il
collegamento della nozione di C. col « mondo dell’azione ». Le C. s’inseriscono
in una fase ben determinata di tale mondo cioè in quella che intercede tra
l’inizio di un’azione e la sua consumazione finale. In altri termini è nella
fase della manipolazione che compare o si costituisce la C. fisica; la quale
tuttavia è universale nel senso che appartiene all’esperienza di tutti (Mind,
Self and Society, pag. 184-85). Dewey a sua volta ha mostrato la stretta
connessione del modo d’essere delle C. con l'indagine. « Le C., egli ha detto,
esistono come oggetti per noi soltanto in quanto siano state preliminarmente
determinate quali risultati d’indagini. Quando vengono usate nell’avviare nuove
ricerche su muove situazioni problematiche, esse sono conosciute come oggetti
solo in virtù di indagini anteriori che giustificano la loro asseribilità.
Nella nuova situazione gli oggetti sono mezzi per attingere la conoscenza di
qualche altra C.» (Logic, VI; trad. ital., pag. 175). Dewey ha affermato
recisamente il carattere strumentale delle C. ed in generale di tutti gli
oggetti di conoscenza. Sia le « C. immediate » sia gli oggetti della scienza
fisica « costituiti da un ordine matematicomeccanico » sono «mezzi per
assicurarci o per evitare determinati oggetti immediati » (Experience and
Nature, pag. 141). Queste determinazioni di Mead e Dewey sono presentate come
risultati di analisi empiriche. Heidegger presenta le sue determinazioni come
risultati di un'analisi esistenziale: la nozione di C. viene da lui chiarita
come un eleche la scoperta della natura». Si può certamente cercare di vedere
che C. sia la natura a prescindere dall’utilizzabilità delle cose. Ma in questo
caso la natura rimane incomprensibile « come COSA IN SÈ ciò che muove e ténde,
ciò che ci assale e ci imprigiona » (Sein und Zeit, $ 15). Indubbiamente
Heidegger è riuscito a determinare anche meglio dello strumentalismo americano
il modo d’essere strumentale delle cose, la categoria dell’utilizzabilità che
lo definisce. A sua volta Lewis ha messo in luce le implicazioni logiche che un
simile concetto della C. porta con sè. « Ascrivere una qualità oggettiva a una
C., egli ha detto, significa implicitamente la predizione che se agisco in
certi modi, una certa esperienza specificabile avrà luogo: se io addento questa
mela, il suo gusto sarà dolce; se la mangio, sarà digerita e non mi avvelenerà,
ecc. Queste e altrettali proposizioni ipotetiche costituiscono la mia
conoscenza della mela che ho in mano » (Mind and the World-Order, cap. V, ed.
Dover, pag. 140). Le espressioni della forma Se... allora si riferiscono a
possibilità che trascendono l’esperienza attuale e che sono proprie dell’uomo
come essere attivo. e Il significato della conoscenza, ha detto ancora Lewis a
questo proposito, dipende dal significato di una possibilità che non è attuale.
Possibilità e impossibilità, quindi necessità e contingenza, compatibilità e
incompatibilità, e varie altre nozioni fondamentali, richiedono che vi devono
essere proposizioni ‘Se... allora ’, proposizioni la cui verità o falsità è
indipendente dalla condizione affermata nella loro clausola antecedente »
(/bid., pag. 142 n) (v. IMPLICAZIONE). L’orizzonte logico del concetto di C.
elaborato dalla filosofia contemporanea è pertanto quello della possibilità,
che è espresso dalle proposizioni condizionali. Ciò è confermato dai risultati
delle ricerche sperimentali effettuate dalla psicologia transazionale, che
conducono a vedere nella C. una certa « classe di possibilità » che costituisce
una prognosi generalizzata, sulla base dell’esperienza passata, degli usi o dei
comportamenti possibili di un oggetto (Exp/orations in Transactional
Psychology, a cura di F. P. Kilpatrick, 1961, cap. 21; trad. ital., pag.
495-96). COSA IN SÈ (ingl.
Thing in itself; franc. Chose en soi; ted. Ding an sich). Ciò che la C. è indipendentemente dal
suo rapporto con l’uomo, per il quale è un oggetto di conoscenza. Nè
l’espressione nè la nozione sono proprie ed originarie di Kant come comunemente
si crede; ma rappresentano «la convinzione dominante di tutta la filosofia del
sec. xvIm+ (CassiRER, Erkennrnissproblem, VII, 3; trad. ital., II, pag. 470
sgg.). L’origine della nozione può tuttavia esser fatta risalire a Cartesio che
nei Principi di filosofia (II, 3) così si esprime: «Sarà sufficiente osservare
che le percezioni dei sensi si riferiscono soltanto all’unione del corpo umano
con lo spirito e che mentre ordinariamente ci mostrano quello che dei corpi
esterni ci possa nuocere o giovare, non ci insegnano affatto, se non
occasionalmente e accidentalmente, che C. tali corpi siano in se stessi ».
Questa distinzione tra le «C. in se stesse» e le «C. rispetto a noi?, cioè come
oggetti delle nostre facoltà sensibili, diventa un luogo comune nella filosofia
dell'Illuminismo. D’Alembert (É/ém. de Phil., $ 19), Condillac (Logique, 5),
Bonnet (Essai analytique, $ 242), la ripetono quasi con le stesse parole, e
Maupertuis (Lettres, IV) la esprime in termini che a Schopenhauer dettero
l’idea che Kant lo avesse plagiato. « Una volta che si è convinti, dice
Maupertuis, che tra le nostre percezioni e gli oggetti esterni non sussiste
alcuna somiglianza nè alcuna relazione necessaria, si dovrà concedere anche che
tali percezioni non sono altro che semplice apparenza. L'estensione, che siamo
soliti considerare come il fondamento di tutte le altre proprietà, ec che pare
costituire la loro intima verità, è in se stessa null’altro che fenomeno ».
(Cfr. SCHOPENHAUER, Die Welt, II, pag. 57). Su questo punto, come su molti
altri, Kant non ha fatto che ispirarsi all’indirizzo generale dell’Illuminismo.
Tuttavia il suo concetto della C. in sè non rimane nella sua dottrina, com’è
nel resto dell’Illuminismo, un semplice memento della limitazione della conoscenza
umana e un monito per distogliere l’uomo dalle indagini metafisiche. Si
chiarisce invece, più precisamente, come uno strumento tecnico per
circoscrivere i limiti della conoscenza umana. Da un capo all’altro della
Critica della Ragion Pura Kant ripete che la conoscenza umana è conoscenza di
fenomeni, non di C. in sè, giacchè essa si fonda non già su di una intuizione
intellettuale (per la quale aver presenti le C. significherebbe crearfe) ma su
una inzuizione sensibile, alla quale le C. sono date sotto certe condizioni
(spazio e tempo). In accordo con questo indirizzo fondamentale, Kant, dopo aver
stabilito la possibilità del concetto di C. in sè (o noumeno), passa a
distinguere una dottrina positiva e una dottrina negativa dei noumeni. « Il
concetto di un noumeno, egli dice, cioè di una C. che dev’essere pensata non
come oggetto dei sensi ma come cosa in sè (unicamente per l’intelletto puro),
non è per niente contraddittorio; giacchè non si può, della sensibilità,
asserire che sia l’unico modo di intuizione ». Posto ciò, se s'intende per
noumeno « l’oggetto di una intuizione non sensibile », cioè creatrice o divina,
si ha il concetto di noumeno in senso positivo. Ma in realtà questo concetto
rimane vuoto; perchè il nostro intelletto non può estendersi al di là
dell’esperienza se non problematicamente, cioè non con l’intuizione nè col
concetto di una intuizione possibile. Pertanto, «il concetto di noumeno è solo
un concetto limite (Grenzbegriff) per circoscrivere le pretese della
sensibilità e di uso perciò puramente negativo » (Crif. R. Pura, Analitica dei
principi, cap. III). Questa funzione puramente negativa della C. in sè è
rimasta un caposaldo della dottrina kantiana della conoscenza: perchè è rimasta
a garantire, in tale dottrina, il carattere finito (cioè non creativo) della
conoscenza umana. Tuttavia la filosofia post-kantiana segna una rapida
liquidazione di questo concetto. Già le Lerzere sulla filosofia kantiana
(1786-87) di Reinhold, che davano del criticismo un’esposizione sulla quale si
è per lungo tempo modellata l’interpretazione del criticismo stesso, riducendo
il fenomeno a rappresentazione, rendevano dubbia o problematica la funzione
della C. in sè; la quale veniva poi recisamente negata, in base alla sua
inconoscibilità, da Schulze e Maimon. Ma colui che cominciò a trarre le
conseguenze di questa negazione fu Fichte: il quale vide che, eliminata la
condizione limitativa costituita dalla C. in sè, la conoscenza umana diveniva
creatrice non solo della forma ma anche del contenuto della realtà che ne
costituisce l'oggetto; e si trasformava in quella « intuizione intellettuale »
che Kant attribuiva solamente a Dio, facendo del soggetto di essa, cioè
dell’Io, un principio infinito (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4). Queste
trasformazioni segnano il passaggio dal criticismo, che è filosofia di stampo
illuministico, al romanticismo (v.) che è una filosofia dell’infinito. Il
romanticismo segnava il tramonto definitivo della dottrina della C. in sè, che
era stata l’insegna dell’illuminismo perchè ad esso era servita ad esprimere la
limitazione fondamentale della conoscenza umana. La nozione di /nconoscibile
(v.) che il positivismo evoluzionistico paragonò talvolta alla C. in sè, è in
realtà completamente diversa. In primo luogo, difatti, ha una funzione opposta
a quella della C. in sè: serve a offrire alla metafisica e alla religione un
loro dominio di competenza specifica piuttosto che a restringere le pretese
della conoscenza scientifica. In secondo luogo, conseguentemente,
l’Inconoscibile viene definito positivamente dalla sfera di quei problemi che
la scienza lascia insoluti, più che negativamente dai limiti intrinseci della
scienza stessa. Quanto alla filosofia contemporanea che ha ripristinato o viene
ripristinando la dottrina del limite della conoscenza, questo limite è inteso
da essa come garantito dalla portata dei metodi o dei criteri che presiedono
alla validità della conoscenza; essa perciò non ha più bisogno
dell’illuministica « C. in sè» per imporre moderazione alle pretese conoscitive
dell’uomo. COSALE, ENUNCIATO (ingl. 7hing-sentence). Nella semiotica
contemporanea, un enunciato che non designa segni ma cose. Lingua C.: una
lingua costituita interamente di enunciati C. (Morris, Foundations of the
Theory of Signs, 1938, $ 5). Predicati C.: termini che designano proprietà
osservabili cioè tali che possono essere determinate dalla osservazione diretta
(CarNAP, Testability and Meaning, 1936-37, in Readines in the Phil. of Science,
1953, pag. 69 sgg.). COSCIENTE (lat. Conscius; ingl. Conscious; franc.
Conscient; ted. Bewusst). Questo aggettivo viene comunemente adoperato nel
senso della consapevolezza (v.); l’uso filosofico di esso corrisponde tuttavia
a quello del termine « coscienza »: onde, per es., «spirito cosciente»
significherà l’atteggiamento dell’autoriflessione o della ricerca interiore.
COSCIENZA (gr. cuveldnow; lat. Conscientia; ingl. Conscioussness = C. teorica,
Conscience = C. morale; franc. Conscience; ted. Bewusstsein = C. teorica,
Gewissen = C. morale). L’uso filosofico di questo termine ha poco o nulla a che
fare col significato comune di esso come consapevolezza (v.) che l’uomo ha dei
propri stati, percezioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc., consapevolezza per
la quale diciamo che un uomo che designa
il rapporto tra una classe e un’altra classe; e si distinguono queste specie di
copule dall’operatore (o quantificatore) esistenziale (v. OPERATORE). Comunque,
la caratteristica fondamentale di questa concezione dell’E. predicativo è la
sua massima generalità: le altreinterpretazioni della copula possono infatti
essere considerate come casi speciali di relazione e come tali analizzati.
Altri casi possono inoltre sempre essere presi in considerazione. Proprio
questa dottrina della copula rende possibile la dottrina della proposizione
come funzione: per essa infatti il predicato diventa la funzione e il soggetto
la variabile della funzione stessa (v. FUNZIONE). 2° Il significato
esistenziale. — Il secondo significato fondamentale di E., cioè quello
esistenziale va a sua volta distinto in due significati subordinati e cioè: I,
come esistenza in generale; II, come esistenza privilegiata. I. L’E. può
significare in primo luogo l’esistenza nel significato 1° cioè nel significato
generale e indeterminato ma specificabile o definibile in base a un criterio
qualsiasi. Proprio in questo senso Aristotele dice che «l’E. si dice in molti
modi » (Mer., VI, 2, 1026a 32) e che si può perfino dire che il non E. è
(/bid., VII, 4, 1030 a 23). Ma assunto in questo senso il significato di E.
coincide con quello di esistenza (nel senso 1°): e la sua trattazione si
troverà sotto questa voce. II. In secondo luogo l’E. può significare la
esistenza privilegiata o primaria: cioè l’esistenza nella sua modalità primaria
e fondamentale, dalla quale dipendono tutte le sue manifestazioni
determinabili. Il precedente significato di E. (2°, I) è assunto il più delle
volte come preparazione ed annuncio di questo secondo significato. L’E. si dice
in molti modi, ma uno solo è il suo significato primario e fondamentale. Questo
è il punto di vista di Aristotele (Mer., VII, 4, 1030 a 21). E appunto dal
rapporto tra i significati molteplici di cui l’E. appare a prima vista
rivestito e il significato unico e fondamentale a cui essi devono essere
ricondotti nasce il cosiddetto « problema dell’E.». Questo è il problema del
significato primario dell’E.: cioè di quel significato unico e semplice che si
presume VE. abbia ma che rimane più o meno nascosto nella molteplicità dei suoi
aspetti apparenti. La ricerca metafisica, nella sua impostazione classica,
s’impernia intorno a questo problema. Si tratta di vedere se c’è un significato
primario dell’E.: primario in primo luogo nel senso che esprima meglio degli
altri l’esistenzialità dell’E. e in secondo luogo nel senso che gli altri
significati possano essere ricondotti ad esso come al loro fondamento o
principio. L’indagine sul problema dell’E. muove verso la determinazione di un
significato che risponda a questi due requisiti. Ma la disputa cui essa dà
luogo non è paragonabile alla « battaglia di giganti » di cui parlava Platone
(Sof., 246); nella quale di fronte ai giganti, o « figli della terra » che
affermano che ogni realtà è corpo, stanno gli dèi, che affermano l’incorporeità
dell’E. e lo riducono alle forme ideali. Un significato dell’E. non è difatti
sufficientemente stabilito dal carattere di corporeità o dalla negazione di
questo carattere: giacchè un essere che si ritenga corporeo può avere gli
stessi caratteri ESSERE formali di un E. che si ritenga incorporeo: come era appunto
il caso dell’E. di cui parlavano le due schiere protagoniste della «battaglia
dei giganti». È ben vero che i caratteri formali dell’E., quelli che si mettono
in evidenza come soluzione del problema dell’E. cioè come determinazione del
significato primario dell’E., sono costantemente ricavati dalla considerazione
di una sfera particolare dell’E. o almeno di un gruppo di enti o di un ente che
in qualche modo si privilegia e si pone come esemplare. Ma è pur vero che in
ogni caso si può ottenere una risposta al problema dell’E. solo se tra i
caratteri della sfera o del gruppo o dell’ente considerato, si sceglie quello
suscettibile di generalizzazione cioè adatto ad essere riferito anche alle
altre sfere o gruppi o enti. In questo senso Platone obiettava ai materialisti
che essi devono dire che cosa c’è di comune fra le cose corporee e quelle
incorporee, posto che si dica che entrambe sono (Ibid., 247 d). Ma se nel
problema dell’E. si scorge la ricerca di un significato primario formale — cioè
generalizzabile — dell’E. stesso, si può dire che ogni soluzione del problema
non fa che privilegiare, cioè assumere come primaria e fondamentale, una
modalità determinata dell’essere. Ora poichè le modalità con cui Il’E. può
essere enunciato o asserito sono tre cioè la necessità, la possibilità e
l’assertorietà tre pure sono in teoria le possibili soluzioni del problema
dell’essere. Ma poichè (come vedremo) l’assertorietà si riduce alla necessità,
si possono storicamente riscontrare due soluzioni fondamentali che risultano
abbastanza evidenti dietro la apparente molteplicità e disparità delle
soluzioni proposte. Per la prima di queste soluzioni, che indicheremo con «
l’E. primario è la necessità; per la seconda, che indicheremo con f l°E.
primario è la possibilità. La soluzione a corrisponde a quella che nel
significato predicativo è l’interpretazione A; la soluzione f corrisponde alle
interpretazioni B e C. Un ulteriore carattere distintivo delle due soluzioni,
che però dev'essere considerato secondario, perchè non sempre è presente, è il
seguente. La prima di esse non prende in considerazione, nella ricerca del
significato dell’E., il fatto stesso di questa ricerca. La seconda di essa può
prendere in considerazione questo fatto e ritenerlo importante per la
determinazione del significato dell’essere. Così fanno Platone e gli
esistenzialisti. a) L’interpretazione dell’E. secondo la modalità della
necessità è quella prevalente nella metafisica classica. La tesi famosa di
Parmenide « L’E. è e non può non essere» (Fr. 4, Diels) stabilisce come
significato fondamentale dell’E. la necessità, il non poter non essere: la
quale rispetto al tempo è eternità (cioè contemporaneità, fotum simul),
rispetto al molteplice è unità, rispetto al divenire(cioè al nascere e perire)
è immutabilità (Fr. 8, 2-4, Diels). Di questi caratteri, anche Aristotele
privilegia quello della necessità. Il principio di contraddizione, da lui posto
a fondamento della « filosofia prima » cioè della scienza dell’E. in quanto E.,
è da lui inteso come il principio che postula la necessità dell’E., che si
realizza nella sostanza. Dice Aristotele: « Se la verità ha un significato,
necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo significa
uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia animale
bipede: la necessità significa infatti proprio questo che è impossibile che
l’E. non sia» (Mer., IV, 4, 1006 b 30). L’aspetto per cui è necessario che un
E. sia (che è il solo aspetto per cui l’E. è oggetto di scienza giacchè dell’E.
accidentale non c'è scienza, /bid., VI, 2, 1027 a) è la sostanza dell’essere. «
Uno solo, dice Aristotele, è il significato dell’E. e questo è la sostanza di
esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’E. proprio di
essa » (/bid., IV, 4, 1007 a 26). La sostanza è pertanto, secondo Aristotele,
il senso primario dell’E.; ed è pure il senso fondamentale, quello a cui gli
altri significati dell'E. possono essere ricondotti; giacchè appunto come
aspetto o manifestazione della sostanza Aristotele considera ogni distinta o
distinguibile determinazione dell’E. (4bid., VII, 17) (v. SOSTANZA). Questo
punto di vista aristotelico è rimasto decisivo per lo sviluppo ulteriore del
problema dell’essere. Il significato primario e fondamentale dell’E. è rimasto,
e ancora rimane per una larga zona della filosofia, quello della necessità, con
gli attributi, che reca seco, della immutabilità, eternità, unità, ecc. Anche
quando questi attributi sono stati riferiti (come dal neoplatonismo antico e
arabo e dall’aristotelismo medievale) non più alla struttura formale dell'’E.
ma ad un ente privilegiato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più
alta cioè a Dio, la derivazione delle altre sostanze da questa o la loro
partecipazione ad essa è stata intesa come derivazione e partecipazione della
necessità e dei suoi attributi. Così, secondo S. Tommaso, la partecipazione
delle cose create all'E. di Dio è partecipazione alla perfezione e
all’immutabilità di Lui (S. 7h., I, q. 65, a. 1). Ma il concetto che ha dominato
la metafisica medievale e, attraverso di essa, quella moderna e contemporanea,
è quello esposto da Avicenna nel sec. xi: la necessità dell’E. come tale. Tutto
l’E. in quanto tale è necessario. « Se una cosa non è necessaria in rapporto a
se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa,
ma necessaria rispetto a una cosa diversa » (Mer., II, 1, 2). La proprietà
essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: aver bisogno di un’altra
cosa che lo faccia esistere in atto. Ma appunto per questo ciò che esiste in
atto, esiste sempre necessariamente: soltanto che la necessità gli deriva
talvolta da altro (4bid., II, 2, 3). Gli stessi concetti venivano espressi da
Algazel (Mer., I, I, 8) e divennero la base della scolastica giudaica e
cristiana. Nel mondo moderno, il concetto dell’E. come necessità ha trovato le
sue riaffermazioni principali in Spinoza e Hegel. Spinoza ha visto l’E. di Dio
nella necessità e lE. delle cose nella necessità con cui derivano dalla
sostanza divina (Er., I, 8, scol. II). Ed Hegel ha espresso lo stesso concetto
nel suo aforisma famoso che è la base dell’intera sua filosofia: « Ciò che è
razionale è reale; e ciò che è reale è razionale ». La razionalità del reale è
la sua necessità per la quale esso, nelle sue determinazioni fondamentali, non
può essere che quello che è. Perciò Hegel dice che « intendere ciò che è, è il
còmpito della filosofia poichè ciò che è, è la ragione » (Fil. del dir.,
Pref.). Perciò, ancora, nonc’è un dover E., un ideale, una perfezione che sia
diversa dall’E. e nel cui nome si sia autorizzati a criticare o a dar lezioni
all’E. stesso. « Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente e la
ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa e in
questa non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,
che non si è liberata e non si è fatta concetto » (Zbid., Pref.). In altre
parole solo per una falsa astrazione si distingue ciò che dovrebbe essere da
ciò che è, la razionalità dall’E. reale: il che vuol dire che l’E. reale è
tutto quel che deve essere e che la sua modalità, il suo senso primario, è
questa necessità. D'altronde l’intera filosofia di Hegel è diretta appunto a
mostrare la necessità delle determinazioni dell’E.: cioè a mostrare come l’E.
è, nella sua realtà, tutto ciò che dev'essere (Enc., $ 1). La necessità rimane
il carattere primario dell’E. in concezioni filosofiche disparate. Quando
Fichte dice che l’E. e l’attività dell’io sono la medesima cosa, egli riconosce
come carattere essenziale di questa attività la necessità con cui essa pone se
stessa e il non io (Wissenschaftslehre, 1798, $ 1). Che l’E. si concepisca come
«Coscienza » o come « Materia », non fa differenza: le determinazioni
qualitative non influiscono sulla sua determinazione formale primaria.
L’Assoluto degli idealisti (Green, Bradley, ecc.) come la materia dei
materialisti sono, l’uno e l’altro, E. necessari. Necessaria è la Storia di cui
parla Croce, come necessario è l’Atto puro di cui parla Gentile. «La necessità dell’E.
coincide con la libertà dello spirito » (Teoria generale, XII, $ 20), diceva
Gentile. Lo stesso Rosmini che aveva posto l’idea dell’E., intesa come «E.
possibile», a fondamento della, conoscenza umana, vede nella necessità e
nell’universalità i caratteri primari dell’E. (Nuovo saggio $ 428-29). E
Husserl afferma con molta energia la necessità di quell’E. che egli riconosce
come primario cioè dell’E. della coscienza: « Alla tesi del mondo, che è
accidentale, si contrappone la tesi del mio puro io e del vivere dell’io, che è
necessaria e indubitabile. Ogni data cosa, anche se è presente in carne ed
ossa, può non essere; ma un’esperienza vissuta data in carne ed ossa non può
non essere. Questa è la legge essenziale che definisce questa necessità e quella
accidentalità » (Ideen, I, $ 46). Una caratteristica tipica di questa
concezione dell’E. o, come meglio si direbbe un suo teorema fondamentale, è
quella identificazione di E. e razionalità che è assunta da Hegel come
principio della sua filosofia. Talvolta questa identificazione è stata intesa
come immanentismo (v.) intendendosi con questa parola l’immanenza dell’E. nella
coscienza. Per quanto anche questa sia una tesi hegeliana, non ha tuttavia
nulla a che fare con l’altra. Quella fu espressa per la prima volta da
Parmenide che, appunto in questo senso, identificò 1’E. con il pensare (Fr. 5;
Fr. 8, 34-36, Diels). Certamente la tesi di Parmenide non aveva nulla a che
fare con l’immanentismo perchè la nozione di coscienza non era neppur nata (v.
CosciENZA): esprimeva soltanto il carattere razionale della necessità
ontologica. Questo stesso carattere veniva espresso da Aristotele con la
dottrina che la determinazione fondamentale della sostanza è l’essenza
necessaria, che è la ragion d'essere (/ogos) della cosa (De part. an., I, 1,
639 b 15). E Rosmini considerava lE. possibile come la forma stessa della
ragione (Nuovo saggio, $ 396). Il teorema in questione mentre esprime la
necessità dell’E. postula, dall’altro lato, un corrispondente concetto della
ragione in generale (v. RAGIONE). Sembra che si sottragga a questa tradizione
la ontologia di Nicolai Hartmann che assume come significato primario dell’E.
non la necessità ma l’effettualità (Wirklichkeit) alla quale sarebbero
riducibili possibilità e necessità. L’effettualità è la terza alternativa della
modalità dell’E., quella dell’assertorietà. L'E. al quale il dover essere e il
poter essere si riducono è, secondo Hartmann, l’E. semplicemente esistente,
nella sua pura effettualità o attualità, 1’E. che nel dominio della realtà di
fatto si presenta «così e non altrimenti» cioè come esistenza analoga alla
materia. Ma gli enunciati in cui si esprime, secondo Hartmann, la riduzione del
necessario e del possibile all’attuale fanno vedere come in realtà l’effettualità
non sia che ancora e sempre necessità. Quegli enunciati sono infatti i
seguenti; 1° ciò che è realmente possibile è anche realmente effettuale; 2° ciò
che è realmente ESSERE effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è
realmente possibile è anche realmente necessario. E negativamente: 4° ciò il
cui E. è realmente impossibile è anche realmente ineffettuale; 5° ciò che è
realmente ineffettuale è anche realmente impossibile; 6° ciò il cui non E. è
realmente possibile è anche realmente impossibile (Mboglichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Così il primato dell’assertorietà non ha un
significato diverso dal primato della necessità. L’ontologia di Hartmann ha
voluto prospettare la terza soluzione teoricamente possibile del problema
dell’E.; ma questa soluzione si dimostra identica, nella sua stessa
enunciazione, con l’interpretazione, propria della vecchia metafisica, dell’E.
come necessità. R) La concezione dell’E. primario come possibilità è stata per
la prima volta formulata da Platone. Essa è presentata da Platone come
rispondente a due esigenze fondamentali: in primo luogo a quella che si renda
conto perchè si dice che «sono » sia le cose corporee sia quelle incorporee
(Sof., 247 d); e in secondo luogo che si tenga conto del fatto che l’E. è o può
essere conosciuto (/bid., 248 e). La prima esigenza esclude che la materialità
o l’immaterialità possano entrare nella definizione dell’E. La seconda esclude
che possano entrare nella definizione dell’E. determinazioni necessarie; per
es., che l’E. sia necessariamente immobile (cioè che «tutto sia immobile »), o
che l’E. sia necessariamente in movimento (cioè che « tutto sia in movimento
+), ecc. (/bid., 249 d). Posto ciò, Platone afferma che l’essere non è altro
che possibilità (Sivauu) e che pertanto si deve dire che è qualsiasi cosa si
trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di fare o di subire, da parte
di qualche altra cosa, anche insignificante, una azione anche minima e anche
per una sola volta (/bid., 247 e). La possibilità in questo senso non ha nulla
a che fare con la potenza di Aristotele. La potenza infatti è tale solo nei
confronti di una attualità che, essa sola, è l’E. primario (v. ATTO). Ma per
Platone per l’appunto l’E. primario è possibilità. E possibilità sono i
rapporti reali tra gli enti: questi non si mescolano tutti insieme, nè evitano
assolutamente di mescolarsi ma presentano determinate possibilità di rapporti.
Come avviene per le lettere dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni possono
mescolarsi e altri no, così avviene anche per tutte le cose: sicchè è còmpito
della filosofia non già enunciare la tesi universale della necessità o
dell’impossibilità della comunicazione, ma studiare in particolare quali sono
le cose che possono (#0£Xew) unirsi tra loro e quali no (/bid., 252-53). Questa
concezione non dà luogo ad una metafisica simmetrica e opposta a quella che
interpreta l’E. come necessità: non dà luogo ad alcuna metafisica. ESSERE 345
Questo è il suo tratto caratteristico. Difatti, se l’E. è possibilità, esso non
ha determinazioni univoche necessitanti: non è necessario che esso sia uno e
non molti, immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non
temporale, ecc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie, non è
necessario che una gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli
in determinate ma diverse condizioni. Non è possibile quindi elencare, una
volta per sempre, le determinazioni univoche dell’essere. Platone aveva
raggiunto questa conclusione nel Parmenide; in questo dialogo si mostra che
l’E. non è uno o molti, ma uno e molti assieme, nel senso che può esser uno
come esser molti (144 e); e che lo stesso vale per le altre sue determinazioni
eventuali. La sconcertante chiusa di questo dialogo è che « l’uno, sia o non
sia, esso stesso e le altre cose, rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in
tutto, sono e non sono, appaiono e non appaiono » (166 c): le quali parole
riconoscono la possibilità di determinazioni opposte dell’E. ed escludono che
esso possa dirsi «uno» o «molti» o anche semplicemente «E.» in un senso unico
ed assoluto. Da questo punto di vista, una metafisica che sia l'elenco
sistematico delle determinazioni univoche ed assolute dell’E. è manifestamente
un non senso. Nell’àmbito della concezione in esame pertanto non possiamo
aspettarci di trovare formulazioni sistematiche, analoghe o corrispondenti alla
filosofia prima di Aristotele cioè alla metafisica classica. Al contrario
possiamo dire che questa concezione tènde ad affacciarsi ogniqualvolta la
determinazione delle caratteristiche universali e necessarie dell’E. tènde a
cedere il posto alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità,
non di determinazioni necessarie. Da questo punto di vista può dirsi che la
tradizione empiristica della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore
di quella concezione dell’E. che ha trovato la sua prima formulazione nel
Sofista platonico. Una possibilità può essere determinata unicamente sulla base
dell'esperienza cioè dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente
razionale o a priori. Attribuire all’E. il significato della possibilità
significa aprire la via a indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni
caso, di quale possibilità si tratti. Sul fondamento della concezione a, le
determinazioni dell’E., anche se mutano, è necessario che mutino, sicchè il
mutamento è sin da principio determinato e assolutamente prevedibile. Per la
concezione f, invece, ogni determinazione, in quanto determinazione possibile,
può essere accertata soltanto da un’indagine ad hoc. Sappiamo che gli Stoici
vedevano il significato dell’E. nella possibilità di agire o di subire
un’azione e perciò chiamavano enti solamente i corpi (PLUTARCO, Comm. Not., 30,
2, 1073; Diog. L., VII, 56); ma questo principio, se li indirizzò verso il materialismo,
non costituì per essi la base di un empirismo coerente. L’empirismo invece si
affaccia tutte le volte che compare la negazione del teorema fondamentale della
concezione opposta cioè la negazione della riducibilità dell’E. a predicato.
Questa negazione si può assumere come teorema tipico di questa concezione,
com’è teorema tipico dell’altra l’identificazione di E. e razionalità. Sul
finire della scolastica, Ockham formulava la tesi che l’E. o il non E. di una
cosa si può attingere solo con una « conoscenza intuitiva » che è la stessa
esperienza (/n Sent., II, q. 15 H; /bid., Prol., q.1Z); e in tal modo poteva
affermare l’irriducibilità dell’E. a una determinazione concettuale e il suo
significato di possibilità. « Alla questione se /a cosa esista, egli dice, si
può rispondere solo quando si conosca se la cosa esiste: il che accade se si
conosce una proposizione nella quale l’E. esistenziale sia predicato del
soggetto. Ora una tale proposizione dubitabile... in nessun modo si può
conoscere con evidenza, se la cosa significata dal soggetto non si conosce
intuitivamente ed in sè: per es., se essa non è percepita da un senso
particolare o se non è un intelligibile nonsensibile che sia visto
dall’intelletto in modo analogo a quello in cui la facoltà visiva esterna vede
l’oggetto visibile. Sicchè nessuno può conoscere con evidenza che il bianco è o
può essere se non ha visto un qualche oggetto bianco; e sebbene io possa
credere a coloro che mi raccontano che c’è il leone o il leopardo e così via,
non conosco tuttavia con evidenza queste cose » (Summa Log., III, 2). Qui il
senso primario dell’E. è posto nella possibilità dell’esperienza.
Conseguentemente Ockham riconosce la necessità solo alle proposizioni
condizionali (« Se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole +), mentre nega
che una qualsiasi proposizione affermativa possa essere necessaria. Tutte le proposizioni affermative
sono contingenti giacchè la proposizione « L'uomo è animale ragionevole»
sarebbe falsa per falsa implicazione, se l’uomo non ci fosse (Quodl., V, q.
15). Queste notazioni implicano due tesi fondamentali: 1° l’E. non è riducibile
a un predicato; 2° l’E. è una possibilità che può essere espressa solo da una
proposizione contingente. Quest'ultima tesi rivela la modalità primaria che le
notazioni di Ockham attribuiscono all’E.: questa modalità è la possibilità.
L'empirismo classico del Sei-Settecento si attiene a questa stessa modalità.
Locke contrappone la certezza delle proposizioni universali, che però non
riguardano la realtà, alla contingenza delle proposizioni particolari che
concernono l’esistenza. « Le proposizioni universali, della cui verità o
falsità possiamo avere una conoscenza certa, non riguar346 dano l’esistenza; le
affermazioni o negazioni particolari, che non sarebbero certe se venissero rese
generali, si riferiscono soltanto all’esistenza, dichiarando esse soltanto
l’accidentale unione o separazione delle idee in cose esistenti, idee che,
nella loro natura astratta, non hanno tra loro nessuna unione o ripugnanza
conosciuta» (Saggio, IV, 9, 1). Pertanto, con la sola eccezione dell’esistenza
di Dio, conosciuta attraverso la dimostrazione cioè attraverso il rapporto che
essa ha con altre esistenze, l’esistenza è conosciuta secondo Locke in modo
contingente e immediato, attraverso un rapporto diretto con l’oggetto: rapporto
che è intuizione nel caso dell’esistenza del proprio io, sensazione nel caso
dell’esistenza delle cose. Ciò esclude che l’esistenza sia un predicato o che
comunque possa essere ridotta a una determinazione concettuale. « Non
essendovi, dice Locke, nessuna connessione necessaria di qualsiasi altra
esistenza, tranne quella di Dio, con l’esistenza di alcun uomo particolare, ne
consegue che nessuno in particolare può conoscere l’esistenza di un altro
essere se non quando, operando questo su di lui, fa in modo di essere da lui
percepito. Il fatto che si abbia l’idea di una cosa nella nostra mente non
dimostra l’esistenza di quella cosa più che il ritratto di un uomo faccia
testimonianza dell’essere egli nel mondo o che le visioni di un sogno
costituiscano di per sè una storia veridica » (/bid., IV, 11, 1). Questo
concetto della sensazione come organo di conoscenza di ciò che esiste non è
altro che il vecchio concetto stoico della rappresentazione catalettica: che è
quella che « deriva da un ente sussistente ed è impressa e marcata da esso in
modo da essere conforme con esso » (Diog. L., VII, 46; Sesto EMPIRICO, Ad.
Math., VII, 248). La dottrina equivale a definire l’E. delle cose come
possibilità del manifestarsi di esse alla percezione o della percezione
medesima. La definizione dell’E. come possibilità viene esplicitamente ripresa
dalla filosofia tedesca del ’700 e in particolare da Wolff. Dice Wolff: « Ente
è ciò che può esistere e conseguentemente la cui esistenza non ripugna»
(Ontol., $ 134). Ma poichè ciò che può esistere è possibile, ciò che è
possibile è l’ente (Ibid., $ 135). Ma in questa definizione tutto dipende
ovviamente dal significato di possibile. E Wolff riprende a questo proposito un
concetto che rimonta forse a Duns Scoto (In Sent., I, d. 2, q. 7) e si trova
già formulato in Leibniz (Théod., II, $ 224): « possibile è ciò che non implica
contraddizione, vale a dire ciò che non è impossibile » (Onrol., $ 85). Da
questo punto di vista, la possibilità era definita come semplice assenza della
impossibilità, cioè come necessità negativa. La concezione dell’E. in termini
di possibilità era pertanto, in questa dottrina, una semplice apparenza. Kant
ESSERE ha, con molta fermezza, visto che cosa si nascondeva dietro questa
apparenza. «Il gioco di prestigio, egli ha detto, per cui la possibilità logica
del concetto (che non si contraddice) si scambia con la possibilità
trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde un oggetto) può
gabbare e contentare soltanto gli inesperti ». La « possibilità reale » è
quella data da una intuizione sensibile cioè dall’esperienza attuale o
possibile (Critica R. Pura, Analitica dei princìpi, cap. III). Per conseguenza
«E. non è un predicato reale cioè un concetto di qualche cosa che si possa
aggiungere al concetto di una cosa... Se io dico Dio è o c’è un Dio, non
affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il concetto in sè
con tutti i suoi predicati e l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi
devono avere esattamente lo stesso contenuto e però nulla si può aggiungere di
più al concetto che esprime semplicemente la possibilità quando ne penso
l’oggetto come dato (con l’espressione: ‘ Egli è ”)» (/bid., L'ideale della
ragion pura, sez. IV). Da questo punto di vista risulta chiaro il carattere
limitato e condizionale di ogni possibilità od E. e pertanto il carattere
fittizio o fantastico di una « possibilità assoluta » cioè di una possibilità
che valga sotto ogni aspetto (Ibid., Analitica dei principi, Confutazione
dell’idealismo). Nella filosofia contemporanea fanno riferimento a questa
interpretazione del significato dell’E. le seguenti dottrine: a) le teorie che
nella matematica, nella fisica e in generale nella scienza definiscono
l’esistenza come modo d°E. particolare, per es., come « assenza di
contraddizione» o « possibilità di costruzione » o « possibilità di
verificazione ». La modalità non necessaria dell’E. che risulta così definita è
evidente (v. ESISTENZA); b) le forme dell’empirismo che riconoscono l’E.
soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità della
sperimentazione e dell’osservazione definisce in questo caso il significato
dell’E. (v. ESPERIENZA); c) le teorie filosofiche che affermano il primato
della possibilità. Tali teorie trovano il loro precedente nella filosofia di
Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione dell’esistenza umana
in termini di possibilità (v. ESISTENZA, 3). Dall’altro lato lo stesso punto di
vista si può riconoscere in qualche aspetto della fenomenologia di Husserl e
nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto Husserl privilegi l'E. della
coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà delle cose, necessario,
l’analisi fenomenologica è per lui un’analisi di possibilità: per essa, come ha
detto Heidegger (Sein und Zeit, $ TO): «la possibilità sta più in alto della
realtà ». Dice Husserl: « Il fatto che una natura, ESTASI che un mondo della
cultura e degli uomini, con le loro forme sociali, ecc., esistano per me
significa che le esperienze corrispondenti mi sono possibili, cioè che,
indipendentemente dalla mia esperienza reale di questi oggetti, io posso a ogni
istante realizzarli e svilupparli in un certo stile sintetico. Questo significa
poi che altri modi di coscienza che corrispondono a queste esperienze come atti
di pensiero indistinto, ecc., sono possibili per me e che la possibilità di
essere confermate o invalidate per mezzo di esperienza di un tipo che è
stabilito in anticipo è inerente a questi atti» (Cart. Med., $ 37). Come
risulta da questo significativo passo l’analisi fenomenologica è un’analisi in
termini di possibilità: il che vuol dire: la possibilità è il significato
primario che essa attribuisce all’essere. Lo stesso accade
nell’esistenzialismo. Heidegger ha detto: « L’esserci, in quanto comprensione,
progetta il suo E. in possibilità » (Sein und Zeit, $ 32); e in realtà tutte le
analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità dell’Esserci le quali
costituiscono il tema dell’analitica esistenziale. Allo stesso modo, per
Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza stessa (Phil., $
18); e Sartre afferma che « il possibile è una struttura del per-sè cioè della
coscienza » (L’étre et le néant, pag. 34). È vero che per Sartre da questa
struttura si distinguerebbe l’E. in sè cioè l’E. del fenomeno che non sarebbe
nè possibile nè necessario, ma semplicemente esistente. Senonchè Sartre
attribuisce a questo stesso E. il carattere della contingenza e non ritiene
possibile una analisi dell’E. in sè se non a partire dall’E. per sè cioè dalla
coscienza: il primato della possibilità è quindi evidente in questa dottrina. È
tuttavia da osservare che uno dei caratteri della concezione in esame è il
rifiuto esplicito o l'abbandono del tentativo di una soluzione semplice e
globale del problema dell’E. e pertanto della trattazione « metafisica » di
questo problema. Il riconoscimento del significato dell’E. come possibilità
esige infatti che si passi immediatamente alla considerazione e allo studio
delle possibilità stesse, nei campi specifici nei quali esse trovano il loro
condizionamento e quindi la loro «realtà ». Non è pertanto possibile svolgere
una metafisica della possibilità, sul modello o in sostituzione della
metafisica classica della necessità. Un tentativo di questo genere non avrebbe
come risultato che il ritorno puro e semplice alla metafisica della necessità:
come è stato mostrato dallo stesso Heidegger che, una volta abbandonato il
terreno dell’analisi esistenziale per l’elaborazione del « problema dell’E. in
generale » è ritornato alle tesi classiche della metafisica tradizionale col
riconoscimento della necessità dell’E. (EinfUhrung in die Metaphysik, Tùbingen,
1953). 347 ESSERE GETTATO. V. DeIEzIONE; EFFETTIVITÀ. ESSERE, GRANDE (franc.
Grand Étre). Così Comte ha chiamato l’umanità come prima persona della trinità
positivistica, della quale il Grande Feticcio, cioè la Terra, e il Grande
Mezzo, cioè lo Spazio, sarebbero la seconda e la terza persona (Synthèse
subjective ou système universel des conceptions propres è l’humanité, 1856).
ESSERE PER SÈ. V. Per sè. ESSOTERICO. V. EsotERICO. ESTASI (gr. txotaow; lat.
Exrasis; inglese Ecstasy; franc. Extase; ted. Ekstase). 1. La fase
ultraintellettuale dell’ascesa mistica verso Dio: cioè la fase nella quale la ricerca
intellettuale di Dio cede il posto al sentimento di una stretta comunione con
lui o addirittura di una identificazione. La parola (che nel linguaggio comune
significa, oltrecchè spostamento, intontimento o agitazione) fu adoperata nel
senso sopra enunciato dagli indirizzi religiosi della filosofia alessandrina e
specialmente dai neoplatonici. Filone caratterizzava lE. come « trasformazione
dell’intelligenza » e precisamente come trasformazione operata non già dalla
intelligenza stessa ma direttamente da Dio (All. leg., II, 31-32). Plotino
caratterizza l’E. come l’abolizione dell’alterità tra colui che vede e la cosa
vista e come l’identificazione totale ed entusiastica dell’anima umana con Dio.
« Questo non è più una visione, egli dice, ma un modo diverso di vedere: estasi
e semplificazione e dedizione di se stesso e desiderio di contatto e quiete e
comprensione di congiunzione » (Enr., VI, 9, 11). Il linguaggio dell’amore e
specialmente dell’amore inteso come unità (v. AMORE) è spesso adoperato dai Mistici
per descrivere lo stato di estasi. Così fa Plotino frequentemente (per es.,
Enz., VI, 7, 34). Così faranno i Mistici medievali, ai quali la nozione arriva
soprattutto attraverso le opere del falso Dionigi l’Areopagita. Questi vede il
grado più alto della ascesa mistica nella deificazione (v.) cioè nella
trasformazione dell’uomo in Dio (De mystica theol., I, 1). A questo modo
intende l’E. anche Bernardo di Chiaravalle (sec. x1) che la chiama anche
excessus mentis e la considera come il supremo grado della contemplazione:
quello nel quale l’anima si unisce con Dio come una goccia d’acqua caduta nel
vino si dissolve in esso ed assume il sapore ed il colore del vino (De
diligendo Deo, 11, 28). Allo stesso modo considerano l’E. i Mistici di S.
Vittore. Secondo Ricardo, essa è il culmine dell’ultimo grado dell’ascesa a Dio
cioè della alienazione della mente da se stessa (De praeparatione ad
contemplationem, V, 2). E S. Bonaventura a sua volta vede nell’estasi
l’elevazione di sè al di sopra di sè, sino alla fonte dell'amore
superintellettuale. Essa è uno stato di 348 ignoranza dotta, nel quale
l’oscurità dei poteri conoscitivi diventa luce soprannaturale (2reviloquium, V,
6). La nozione passava senza mutamenti ai Mistici tedeschi del xrv secolo
(Eckhart, Susone, Tauler). Giordano Bruno usava la terminologia mistica dell’E.
(raptus mentis, excessus mentis) nel suo dialogo Degli eroici furori per
indicare il congiungimento dell’intelletto «eroico » con «il proprio oggetto
che è il primo vero o la verità assoluta » (I, 4): la quale è poi la natura
stessa. Nell’età moderna l’E. in questo senso ha attratto soprattutto
l'attenzione degli psicologi e degli psichiatri; i quali non hanno saputo
scorgere nessuna differenza, tranne che nel contenuto intellettuale, tra l’E.
religiosa e l’E. determinata da condizioni anormali della vita psichica o da
droghe (cfr. J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925,
specialmente cap. IX). Secondo Pierre Janet, l’E. è in ogni caso caratterizzata
da tre cose: 1° dalla soppressione quasi completa della attività motrice e da
una disposizione all’immobilità; 2° da un’attività più o meno grande del
pensiero interno; 3° da un grande sentimento di gioia (De /° Angoisse à
l’Extase, 1928, pag. 497). 2. Da Heidegger e Sartre sono state chiamate E. (nel
senso letterale del termine, come « esser fuori » o «uscir fuori») le tre
determinazioni del tempo cioè il passato, il presente o il futuro in quanto
ognuna di esse muove o va verso l’altra, il presente verso il passato, il
presente verso il futuro, il futuro verso il presente. Dice Heidegger: « La
temporalità è l’originario fuori di sè in sè e per sè. Noi chiamiamo i fenomeni
caratterizzati come avvenire, passato e presente, le E. della temporalità »
(Sein und Zeit, $ 65). In séguito Heidegger ha visto nelle E. temporali le
manifestazioni dell’Essere (Was ist Metaphysik?, 6* ediz., 1951, pag. 14).
Analogamente Sartre parla del « rapporto estatico interno» come della «sorgente
della temporalità » (L’étre et le néant, pag. 256) (v. TEMPO, 3).
ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA (inglese Thesis of Extensionality; franc. Thèse
d'extensionalité). Così è stata chiamata da Russell (Principia Mathematica, 1°,
pag. XIV, 659 sgg.) e da Carnap (Logische Syntax der Sprache, 1937, $ 67;
traduzione ingl., pag. 245 sgg.) la tesi che « per ogni sistema non
estensionale vi è un sistema estensionale nel quale il primo può esser tradotto
». Poichè i più importanti enunciati intensionali sono quelli modali, la tesi
in questione afferma la traducibilità degli enunciati modali in enunciati non
modali. Per es., gli enunciati « A è possibile », « A = non — A è impossibile»,
«A o non A è necessario», «A è contingente» equivarrebbero rispettivamente ai
seguenti enunciati: «‘A’ non è contraddittorio», ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA
«"A= non A°' è contraddittorio», «‘A o non A* è analitico », «‘A’ è
sintetico» (Logische Syntax der Sprache, $ 69; trad. ingl., pag. 250 sgg.). Lo
stesso Carnap tuttavia presentava la tesi dell’E. come una semplice
supposizione, per quanto plausibile, e la esprimeva paradossalmente, con un
enunciato modale: « Un linguaggio universale della scienza può essere
estensionale» (/bid., $ 67; traduzione ingl., pag. 245). Anche in sèguito
Carnap non si è pronunciato sulla validità della tesi (Meaning and Necessity,
1957, $ 32). ESTENSIONE (gr. Suotaoi; lat. Exfensio; ingl. Extension; franc.
Extension; ted. Ausdehnung). Il carattere fondamentale dei corpi fisici, in
quanto dotati delle tre dimensioni dello spazio. In base a tale carattere
Aristotele definiva il corpo (Phys., III, 5, 204b 20). Cartesio non fece che
esprimere questo stesso concetto quando vide nell’E. «la natura della sostanza
materiale, come il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante +
(Princ. Phil., I, 53). Spinoza fece dell’E. uno degli attributi fondamentali di
Dio cioè della Natura (Er., II, 2). Ma già Ockham nel xiv secolo aveva messo in
luce il carattere fondamentale dell’E. come attributo dei corpi. « È
impossibile, egli scriveva, che la materia sia senza E.: non c’è materia che non
abbia parte distante da parte, onde sebbene le parti della materia possano
unirsi tra loro come, per es., quelle dell’acqua o dell’aria, tuttavia mai
possono esistere nel medesimo luogo. Ora la distanza reciproca delle parti
della materia è l'E.» (Summulae Physicorum, I, 19). Appunto come caratteristica
del corpo, l’E. è, secondo Hobbes, lo spazio reale cioè la grandezza stessa del
corpo, distinta dallo spazio imaginario che è lo spazio puro e semplice o
spazio vuoto (De corp., 8, 4). Le notazioni di Leibniz non sono molto diverse.
L'E. è insieme con l’antitipia (v.), uno dei caratteri fondamentali della
materia. Essa è la continuità nello spazio per cui le sue modificazioni
costituiscono la varietà delle grandezze e delle figure (Op., ed. Erdmann, pag.
463). Locke identificava, come già Cartesio, l’E. con lo spazio (Saggio, II,
13, 3). Con Berkeley l’E. comincia ad essere ridotta a un fenomeno soggettivo.
L'E. è dichiarata da Berkeley un'idea, la quale esiste in quanto è percepita
(Principles of Knowledge, I, $ 9): un'affermazione che Hume ribadì dicendo che
l’E. non è altro che una copia di qualche impressione (7rearise, I, 2, 3).
Questa soggettivazione dell’E., che l’empirismo settecentesco fa dal punto di
vista della intuizione sensibile, è operata dall’idealismo romantico dal punto
di vista della ragione speculativa. Schelling pretende di dimostrare a priori
perchè «la materia debba necessariamente considerarsi come estesa secondo tre
dimensioni »: ed effettua questa sedicente ESTERIORITÀ, dimostrazione deducendo
le tre dimensioni dello spazio dal modo di operare della forza di attrazione e
di repulsione (System des transzendentale Idealismus, 1800, III, 2, Deduzione
della materia, Cor.). In modo analogo Maine de Biran riteneva di poter dedurre
« necessariamente» l’idea di E. dall’idea dello sforzo e della resistenza che
esso implica, nel senso che l’E. sarebbe una « continuità di resistenza »
(Fond. de la Psychologie, CEuvres, ed. Naville, II, pag. 272). E un tentativo
simile è quello di Bergson, che cerca di intendere l’E. come il movimento
opposto a quello della vita cioè come il movimento per il quale l’io,
abbandonandosi alla fantasticheria, si sparpaglia in una molteplicità di
sensazioni esterne l’una all’altra. L’E. sarebbe la distensione dello sforzo
dell'io (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 220). Concetti simili a quelli
esposti da Schelling, Maine de Biran e Bergson sono assai comuni nella
filosofia della seconda metà dell'800 e dei primi decenni del nostro secolo. Ma
questo tipo di speculazione ha perduto ogni interesse filosofico o scientifico
negli ultimi decenni, per i mutamenti che sono sopravvenuti, ad opera della
fisica relativistica, nella nozione di corpo (v.). La nozione di corpo come
particolare intensità di un campo di energia non ha più bisogno di essere
definita in termini di E.; o, se si preferisce, l’E. può essere intesa soltanto
come la possibilità della misura dell’intensità di energia in un dato campo.
ESTENSIONE ED INTENSIONE. Vedi INTENSIONE ED ESTENSIONE. ESTENSIVO ED INTENSIVO
(ingl. Extensive and Intensive; franc. Extensif et intensif; tedesco Extensiv
und intensiv). La distinzione fra grandezza E. e grandezza intensiva è stata
fatta da Kant. Secondo Kant è E. « quella quantità nella quale la
rappresentazione delle parti rende possibile la rappresentazione del tutto (e
perciò necessariamente la precede)»; per es., le parti dello spazio o del tempo
sono quantità E. in questo senso perchè le quantità spaziali o temporali sono
sempre intuite come aggregati o molteplicità di parti precedentemente date. La
quantità intensiva invece è quella « che è appresa soltanto come unità e in cui
la molteplicità può essere rappresentata solo per approssimazione alla
negazione = 0». Cioè la quantità intensiva è quella che ha sempre gradi; per
es., il rosso ha un grado che per quanto piccolo non è mai minimo e così il
calore, la pesantezza, ecc. Queste sono le qualità continue 0, come Kant dice
con termine newtoniano, fiuenti (Critica R. Pura, II, 2, sez. 3, Assiomi
dell’intuizione). ESTERIORITÀ, INTERIORITÀ (inglese Exterlority, Interiority;
franc. Extériorité, Intériorité; ted. Aeusserlichkeit, Innerlichkeit). Il tema
filoINTERIORITÀ 349 sofico del contrasto tra interiorità ed E. nasce
contemporaneamente con la nozione di coscienza (v.) ed esprime il contrasto tra
ciò che è estraneo alla coscienza e ciò che le è proprio. La predicazione
popolare stoica ha per la prima volta sfruttato ampiamente questo tema: il
quale ricorre continuamente nelle pagine di Epitteto, Marco Aurelio e Seneca.
Dice Epitteto: « Stato e contrassegno dell’uomo comune si è nè benificio nè
danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e
contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o
temere da sè medesimo » (Manuale, 48). E Marco Aurelio: « Le cose per se stesse
non arrivano a toccar l’anima, nè vi banno alcun accesso, nè possono mutarla o
rimuoverla. È invece l’anima che da sè sola si muta e si muove; e quali sono i
giudizi che essa stima degna di sè fare intorno alle cose esterne, tali essa fa
che siano per lei le dette cose » (Ricordî, V, 19). Seneca contrappone «la
gioia che nasce dall’interno » a quella che deriva dalle cose esterne (Ep.,
23). Neoplatonismo e Cristianesimo operarono l’identificazione dell’interiorità
con la sfera della coscienza e dell’E. con la sfera del mondo cui appartengono
le cose naturali e gli altri esseri. Il tema del contrasto tra interiorità ed
E. divenne così il tema classico di ogni filosofia che facesse appello alla
coscienza come a una sfera di realtà privilegiata sia per la sua certezza sia
per il suo valore. Il linguaggio comune ha accolto i significati filosofici
delle due parole che significano in esso proprio la contrapposizione da ciò che
è coscienza e ciò che non lo è. La metafisica dello spiritualismo (v.) e il
metodo dell’introspezione (v.) utilizzano ugualmente questo tema tradizionale.
Sarebbe molto facile mostrare il carattere puramente metaforico, e perciò
l’assenza di significato preciso, delle espressioni in cui ricorrono i termini in
questione o i corrispondenti aggettivi. « Realtà interna » e « realtà esterna
», « mondo interno » e «mondo esterno », «oggetti interni» e «oggetti esterni»
sono espressioni, che propriamente parlando, non hanno senso sia perchè non
vien fatto riferimento all'àmbito chiuso rispetto al quale un «esterno» e un «
interno » si può determinare, sia perchè tale àmbito chiuso, quando viene
determinato, non è spaziale perchè è la coscienza stessa. Hegel ha fatto un uso
abbondante di questi termini che, attraverso la sua opera appunto, sono
penetrati nella terminologia filosofica. Egli identificava l'interno con la «
ragion d’essere» e l’esterno con la sua manifestazione (Enc., $ 138-39). Ma
aveva il buon senso di aggiungere: « L’uomo, com'è esteriormente cioè nelle sue
azioni (di certo non nella sua E. soltanto corporea) è interno; e quand’egli è
solo interno — cioè virtuoso, morale, solo in intenzioni, disposi350 zioni,
ecc. — e il suo esterno non è con ciò identico, allora l’uno è così vuoto come
l’altro » (Ibid., $ 140). ESTETICA (ingl. Aesthetics; franc. Esthétique; ted.
Aesthetik). Con questo termine si designa la scienza (filosofica) dell’arte e
del bello. Il nome è stato introdotto da Baumgarten verso il 1750 in un libro
(Aesthetica) nel quale si sosteneva la tesi che oggetto dell’arte sono le
rappresentazioni confuse ma chiare, cioè sensibili ma « perfette », mentre
oggetto della conoscenza razionale sono le rappresentazioni distinte (i
concetti). Il nome significa propriamente « dottrina della conoscenza sensibile
+; e Kant, che pure parla (nella Critica del giudizio) di un giudizio estetico
che è per l'appunto il giudizio sull’arte e sul bello, chiama «E.
trascendentale » (nella Critica della Ragion Pura) la dottrina delle forme a
priori della conoscenza sensibile. Già per Kant il nome E,, riferito all’arte e
al bello, ha tuttavia cessato di aver riferimento alla dottrina di Baumgarten;
ed oggi il nome designa qualsiasi analisi, indagine, speculazione che abbia per
oggetto l’arte ed il bello, a prescindere da ogni dottrina o indirizzo
specifico. Si è detto «l’arte e il bello» perchè le indagini dirette all’uno e
all’altro di questi due oggetti coincidono o almeno sono strettamente
intrecciate nella filosofia moderna e contemporanea. Non così accadeva invece
nella filosofia antica, dove le nozioni di arte e di bello erano ritenute
diverse e reciprocamente indipendenti. La dottrina dell’arte era chiamata dagli
antichi, col nome del suo stesso oggetto, poetica cioè arte produttiva, e
produttiva di imagini (PLAT., Sof., 265 a; ARIST., Ret., I, 11, 1371 b 7);
mentre il bello (in quanto non incluso nel novero degli oggetti producibili)
cadeva fuori della poetica e veniva considerato a parte (v. BeLLO). Così per
Platone il bello è la manifestazione evidente delle Idee (cioè dei valori) ed è
perciò la più facile e ovvia via d’accesso a tali valori (Fedr., 250 e); mentre
l’arte è imitazione delle cose sensibili o degli eventi che si svolgono nel
mondo sensibile e costituisce piuttosto un rifiuto di muovere al di là dell’apparenza
sensibile verso la realtà e i valori (Rep., X, 598 c). Aristotele, a sua volta
ritiene che il bello consiste nell’ordine, nella simmetria e in una grandezza
che si presti ad essere facilmente abbracciata dalla vista nel suo complesso
(Poet., 7, 1450b 35 sgg.; Met., XIII, 3, 1078 b 1); mentre riprende e fa sua la
teoria dell’arte come imitazione, pur sottraendola, con la nozione della
catarsi, a quella specie di confinamento alla sfera sensibile cui Platone
l’aveva condannata (v. oltre). A partire dal *700 le due nozioni dell’arte e
del bello appaiono connesse come oggetti di un’unica investigazione; e la
connessione fu operata mediante ESTETICA il concetto del gusto inteso come
facoltà di discernere il bello, sia dentro che fuori dell’arte. La ricerca di
Hume sulla Regola del gusto (1741) suppone già questa identificazione come la
suppone quella di Burke, Sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756;
cfr. V, 1), e il saggio di G. SPALLETTI, Sopra la bellezza (1765; cfr. $
19-20). Ma fu soprattutto Kant a stabilire l'identità dell’artistico e del
bello affermando che « la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte »; e
che «l’arte non può essere detta bella se non quando noi, pur essendo coscienti
che è arte, la consideriamo come natura » (Crit. del Giud., $ 45). Finalmente
Schelling invertiva il rapporto tradizionale tra arte e natura, facendo
dell’arte la regola della natura invece che della natura la regola dell’arte.
L’arte è difatti per Schelling la necessaria e perfetta realizzazione di quella
bellezza che la natura attinge solo in modo parziale e casuale (System des
transzendentalen Idealismus, 1800, VI, $ 2; cfr. lo scritto « Le arti
figurative e la natura», 1807, in Werke, VII, pag. 289 e seguenti). Tuttavia un
tentativo di separare la scienza dell’arte dalla dottrina del bello è stato
fatto più recentemente in Germania, allo scopo di istituire su basi positive
una «scienza generale dell’arte » (E. UTITZ, Grundlegung der allgemeinen
Kunstwissenschaft, 2 voll., Stuttgart, 1914 e 1920; M. Dessorr, Aesthetik und
allgemeine Kunstwissenschaft, Stuttgart, 1923). Tale scienza avrebbe dovuto
avere come oggetto l’arte nei suoi aspetti tecnici, psicologici, morali e
sociali, lasciando invece all’E. la considerazione, per essa tradizionale, del
bello: considerazione peraltro ritenuta insufficiente a dar conto di tutti i
fenomeni artistici, in quanto l’arte dei primitivi, per es., e buona parte
dell’arte moderna sembrano sfuggire alla categoria del bello. Queste
considerazioni tuttavia non sono apparse decisive. La nozione di « bello » è
abbastanza estesa nell’uso comune e anche in quello colto (proprio dei critici
d’arte e dei filosofi) per qualificare qualsiasi opera d’arte riuscita, anche
se rappresenta cose o persone che, per se stesse, non potrebbero dirsi « belle
» in base ai canoni correnti. Non si è ravvisato pertanto l’opportunità di una
separazione tra l’E. come scienza filosofica del bello e la scienza dell’arte
come tale (cfr. B. C. HevL, New Bearines in Esthetics and Art Criticism, 1943,
pag. 20 sgg.). D'altronde, problemi di ordine psicologico, sociale, morale,
ecc., sono sempre più largamente dibattuti nel dominio stesso dell’E. e non
pare che esigano una sede a parte per la loro trattazione. La proposta in
questione perciò è servita soltanto a sottolineare l’esigenza che l’E. includa
sempre più ampiamente tali problemi nella sua considerazione. Più fortuna ha
avuto la proposta di Paul Valéry ESTETICA di distinguere dall’E. una poetica
che dovrebbe consistere, secondo le sue parole, « nell’analisi comparata del
meccanismo dell'atto dello scrittore e delle altre condizioni meno definite che
quest’atto sembra esigere» (Variéré, 1944, V, pag. 292). Col nome di poetica si
indica oggi spesso l’insieme delle riflessioni che un artista fa sulla propria
attività o sull'arte in generale; e se con l’uso di questa parola non s'intende
alludere a una forma di E. minore, depotenziata o provvisoria, l’uso stesso non
suscita obiezioni. La storia dell’E. presenta una grande varietà di definizioni
dell’arte e del bello. Sebbene ognuna di queste definizioni abbia di regola la
pretesa di esprimere in modo assoluto l’essenza dell’arte, si va facendo oggi
strada l’idea che la maggior parte di esse esprimano tale essenza solo dal
punto di vista di un particolare problema o gruppo di problemi. È, per es.,
abbastanza chiaro che la definizione dell’arte come imitazione è la soluzione
di un problema totalmente diverso da quello di cui la definizione dell’arte
come piacere si presenta come soluzione: difatti, la prima concerne il rapporto
tra l’arte e la natura, la seconda il rapporto tra l’arte e l’uomo. Le teorie
E. non possono perciò essere presentate se non in riferimento ai problemi
fondamentali di cui sono (0 pretendono essere) la soluzione; e occorre preliminarmente
prospettare quali sono tali problemi per poter accennare, a proposito di
ciascuno di essi, alle soluzioni più importanti che sono state o sono
attualmente proposte. Ora i problemi fondamentali intorno ai quali si possono
raggruppare tutti quelli che si dibattono nel dominio dell’E. e che pertanto
consentono di orientarsi nella varietà degli indirizzi di questa scienza sono
tre e precisamente: 1° il rapporto tra l’arte e la natura; 2° il rapporto tra
l’arte e l’uomo; 3° il compito dell’arte. 1° Molte definizioni dell'arte sono
determinazioni del rapporto tra l’arte e la natura (o in generale la realtà).
Poichè si può intendere l’arte come dipendente dalla natura, o indipendente da
essa o condizionata da essa, si possono distinguere tre diverse concezioni
dell’arte sotto questo profilo e cioè: a) l’arte come imitazione; b) l’arte
come creazione; c) l’arte come costruzione. a) La più antica definizione
dell’arte nella filosofia occidentale, quella di imitazione, è intesa a
subordinare l’arte alla natura o alla realtà in generale. Platone insiste sulla
passività dell’imitazione artistica: il pittore non fa che riprodurre
l’apparenza dell’oggetto costruito dall’artigiano (Rep., 598 b); il poeta non
fa che copiare l’apparenza degli uomini e delle loro attività senza intendersi
veramente delle cose che imita e senza la capacità di effettuarle (/bid., 599
b). Per Aristotele, il valore del351 l’arte deriva dal valore dell’oggetto
imitato: per es., devono essere propri dell'oggetto che la tragedia imita, cioè
del mito, i caratteri che garantiscono alla tragedia la sua riuscita. « Come i
corpi degli esseri viventi devono, per essere belli, avere una grandezza che
possa facilmente nel suo insieme essere abbracciata dallo sguardo, così il mito
deve avere un’estensione che possa facilmente essere abbracciato nel suo
insieme dalla mente» (Poer., VII, 1451 a 2). All’artista appartiene tutt’al
più, da questo punto di vista, il merito dell’opportuna scelta dell’oggetto
imitato; ma, scelto l’oggetto, egli altro non può che riprodurlo nelle sue
caratteristiche proprie. Non fa differenza che l’oggetto imitato sia una cosa
naturale o un'entità trascendente o intelligibile: la passività dell’imitazione
rimane. Così Seneca dice che quando l’artista tiene rivolto lo sguardo a un esemplare
da lui stesso concepito, quest’esemplare è in realtà contenuto nella mente
divina (Zp., 65): cioè non è creato. Allo stesso modo Plotino osserva: «Se
qualcuno disprezza le arti perchè non fanno che imitare le cose naturali,
bisogna dire in primo luogo che le stesse cose naturali imitano altre cose e in
secondo luogo bisogna sapere che le arti non imitano direttamente gli oggetti
visibili ma si rivolgono alle regioni dalle quali essi dipendono e così sono in
grado di far molte cose per conto loro e di aggiungere ciò che manca alle cose
naturali» (Enn., V, 8, 2). Così, secondo Plotino ciò che l’arte aggiunge alla
natura è da essa attinto alla realtà superiore (intelligibile) cui tiene
rivolto lo sguardo. La teoria dell’imitazione si trova ancora oggi difesa e
seguita dai sostenitori del realismo dell’arte, soprattutto nei paesi comunisti
o tra coloro che si ispirano all’ideologia comunista. Ma spesso
l’interpretazione che si dà dell’imitazione le toglie proprio quel carattere di
passività che la caratterizzava nella sua formulazione classica. Così Lukacs,
che definisce l’arte come « rispecchiamento della realtà », intende poi questa
realtà come il risultato del rapporto reciproco tra la natura e l’uomo:
rapporto che è mediato dal lavoro e dalla società in ogni suo momento storico.
Perciò vede nell'arte «il modo di espressione più adeguato e più alto
dell’autocoscienza dell’umanità» (Astherik I, 1963, cap. VII, $ III; trad. it.
pag. 575). È, da questo punto, di vista l’imitazione non si distingue dalla creazione.
b) Il concetto dell’arte come creazione è proprio del Romanticismo e fu fatto
valere in tutta la sua forza da Schelling. « In che cosa il prodotto E., egli
diceva, si distingua dal comune prodotto artigiano è facile giudicare perchè
ogni creazione E. è nel suo principio assolutamente /ibera, in quanto l’artista
può essere spinto ad essa 352 solo da una contraddizione che si trovi nella
parte più alta della sua natura, mentre ogni altra creazione è occasionata da
una contraddizione che è esterna a chi crea e ha perciò il suo scopo fuori di
sè » (System, cit., VI, $ 2). Per Schelling l’arte è la stessa attività
creatrice dell’Assoluto perchè il mondo è un « poema » (/bid., VI, $ 3) e
l’arte umana è una continuazione, specialmente attraverso il genio,
dell’attività creatrice di Dio. Questo concetto veniva ripreso da Fichte negli
scritti del secondo periodo e cioè nei Caratteri del tempo presente (1806),
nell’Essenza del dotto (1805) e nella Destinazione del dotto (1811) (cfr.
PAREYSON, L'E. dell’idealismo tedesco, 1950, pag. 388 sgg.). Come si vede, la
tesi romantica dell’arte come creazione si compone di due tesi diverse: I,
l’arte è originalità assoluta e i suoi prodotti non si lasciano ricondurre alla
realtà naturale; II, come originalità assoluta, l'arte è parte (o continuazione
o manifestazione) dell’attività creativa di Dio. Sono queste le tesi
fondamentali che Hegel illustrò nelle sue Lezioni di Estetica. « Si potrebbe
imaginare, egli disse, che l’artista debba raccogliere nel mondo esterno le forme
migliori e riunirle o debba fare una scelta delle fisionomie, delle situazioni,
ecc., per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma quando egli abbia
così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: giacchè l’artista
dev'essere creatore e nella sua propria fantasia, con la conoscenza delle forme
vere e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve spontaneamente e di
un sol getto formare ed esprimere il significato che lo ispira» (Vorlesungen
iîiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 240). Dall’altro lato, proprio per
questo suo carattere di creazione, l’arte appartiene alla sfera dello Spirito
assoluto ed è, con la religione e la filosofia, una delle manifestazioni o
realizzazioni di esso nel mondo. «L'arte, dice Hegel, in quanto si occupa del
vero come dell’assoluto oggetto della coscienza appartiene alla sfera assoluta
dello spirito e si colloca perciò, in base al suo contenuto. sullo stesso piano
della religione e della filosofia, Giacchè anche la filosofia non ha altro
oggetto che Dio ed è così essenzialmente una teologia razionale e un perpetuo
culto divino al servizio della verità » (Ibid., I, pag. 147-48). Croce non
fece, su questo punto, che ripetere, quasi alla lettera, la dottrina di Hegel.
« Come posizione e risoluzione di problemi (fantastici o estetici) l’arte non
riproduce alcunchè di esistente, ma produce sempre alcunchè di nuovo, forma una
nuova situazione spirituale, e perciò non è imitazione ma creazione. Del pari
creazione è il pensiero il quale anch’esso non consiste in altro che in
posizione e risoluzione di problemi (logici o filosofici o speculativi che si
dicano); e non mai in riproduzione di oggetti o di ESTETICA idee » (Nuovi Saggi
di E., 1920, DB: 156). Nello stesso senso Gentile ha scritto: « E difficile
rinunziare a vedere nell’artista un libero spirito creatore. Ci saranno pure
difficoltà, pel pensiero comune, a rendersi chiaro conto di questa creatività
dell’uomo; ma, ancorchè oscura, quest'idea dell’artista che crea un mondo suo,
è fitta profondamente in ogni uomo che si accosta all’opera d’arte» (Fil.
dell’arte, 1931, II, $ 4). Nell’àmbito della concezione romantica dell’arte, il
principio che l’arte è creazione appare come una verità evidente. Il corollario
principale di questa concezione è la scarsa importanza attribuita ai mezzi
tecnici della espressione e l’insistenza sulla natura « spirituale » cioè
coscienziale dell’arte. Diceva a questo proposito Hegel: «L’opera d’arte
raggiunge solo alla superficie l’apparenza della vita giacchè nel suo fondo
essa è pietra, legno, tela, 0, nel caso della poesia, lettere e parole. Ma
questo aspetto della esistenza esterna non è quello che costituisce l’opera
d’arte; l’opera d’arte si origina dallo spirito, appartiene al dominio dello
spirito, ha ricevuto il battesimo dello spirito ed esprime soltanto ciò che si
è formato sotto l’ispirazione dello spirito » (Vor/esungen ilber die Aesthetik,
ed. Glockner, I, pag. 55). Croce a sua volta ha confinato nel dominio della «
pratica » e considerato come semplice espediente di comunicazione la tecnica
espressiva dell’arte: «L'artista, che abbiamo lasciato vibrante di immagini
espresse che prorompono per infiniti canali da tutto l’esser suo, è uomo intero
e perciò anche uomo pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar disperdere
il risultato del suo lavorio spirituale e di rendere possibile e agevole, per
sè e per gli altri, la riproduzione delle sue imagini; onde promuove atti
pratici, che servono a quell’opera di riproduzione. Questi atti pratici sono
guidati, come ogni atto pratico, da conoscenze e perciò si dicono tecnici; e,
come pratici, distinguendosi dalla intuizione che è teorica, paiono esterni a
questa e perciò si dicono fisici; e tanto più facilmente prendono questo nome,
in quanto vengono dall’intelletto fissati ed astratti » (Breviario di E., in
Nuovi Saggi di E., II, pag. 39-40). E Gentile ribadiva: « Posto che l’elemento
estetico consista nella soggettività sentimentale che informa di sè un
pensiero, la rappresentazione in cui questo pensiero si sviluppa e attua,
riguarda unicamente i mezzi tecnici dell’espressione. Alfieri è lo stesso poeta
nei sonetti e nelle tragedie, ecc.» (Fil. dell’arte, VII, $ 8). c) Il concetto
dell’arte come costruzione si ha quando non si considera l'attività E. nè come
pura ricettività nè come pura creatività ma come un incontro tra la natura e
l’uomo o come un prodotto complesso in cui l’opera dell’uomo si ESTETICA
aggiunge, senza distruggerla, a quella della natura. Questo fu propriamente il
concetto che dell’arte ebbe Kant: che concepì l’attività E. come una forma del
giudizio riffettente: cioè della facoltà che fa scorgere la subordinazione
delle leggi naturali alla libertà umana o il finalismo della natura rispetto
all'uomo. Il finalismo della natura non è secondo Kant nè «un concetto della
natura» nè « un concetto della libertà »: cioè non appartiene propriamente nè
soltanto alla natura nè soltanto all’uomo, ma all'incontro tra la natura e
l’uomo dovuto al fatto che l’uomo deve realizzare proprio nella natura i suoi
fini e perciò prova un sentimento di piacere (cioè di liberazione da un
bisogno) quando questa realizzazione gli appare possibile: quando cioè la
natura gli si dimostra adatta a servire i fini umani (Cri. del Giud., Intr.,
V). Nello stesso concetto dell'attività E., Kant includeva così quello di un
incontro tra il meccanismo naturale e la libertà umana: incontro per il quale
l’arte non prescinde dalla natura ma la subordina a sè e l’uomo gode di questa
subordinazione come di un bisogno appagato. Il concetto col quale Kant più
frequentemente espresse il carattere costruttivo (nè imitativo nè creativo)
dell’arte fu quello di giuoco. Come attività liberale o non mercenaria, l’arte
è « un semplice giuoco cioè un’occupazione di per se stessa piacevole che non
abbisogna di altro scopo » (/bid., $ 43). E la nozione di giuoco fu poi
adoperata per definire alcune singole arti, specialmente l’eloquenza, la poesia
e la musica (Ibid., $ 51). Lo stesso significato ha il concetto di giuoco nella
dottrina di Schiller. L'uomo, essendo insieme natura e ragione, è dominato da
due tendenze contrastanti, la tendenza materiale e la tendenza formale: e
queste tendenze sono conciliate dalla tendenza al giuoco, che mira a realizzare
la forma vivente cioè la bellezza (Uber die aesthetische Erziehung des
Menschen, 1793-95, XV; trad. ital., pag. 71). La tendenza al giuoco armonizza
la libertà umana con la necessità naturale. « Con libertà illimitata, dice
Schiller, l’uomo può congiungere le cose che la natura separò e può separare
quelle che la natura congiunse... Ma possiede tale diritto di sovranità solo
nel mondo dell’apparenza, nell’irreale regno dell’imaginazione e solo finchè si
astiene scrupolosamente, nel campo della teoria, dall’affermarne l’esistenza e,
nella pratica, dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza» (/bid., XXVI,
pag. 134). L'apparenza E. (o sfera del giuoco) è pertanto il dominio in cui
l'uomo e la natura collaborano insieme, la natura limitando e condizionando la
libertà umana e la libertà umana, dal canto suo, procedendo a comporre e
unificare i dati naturali. Questo è proprio il concetto della costruzione che,
23 353 non mancò di fare qualche apparizione nella stessa E. romantica del sec.
xx. Il più grosso (se non il più grande) monumento di questa E., l’E. 0 Scienza
del bello (1846-57) di F. T. Vischer, pur assumendo come principio proprio del
mondo dell’arte l’Idea hegeliana, cioè la Ragione autocosciente, considerava
l’Idea stessa in lotta incessante con ostacoli e influenze che Vischer
complessivamente chiamava il «regno del caso». Tutta la vita dello spirito è
secondo Vischer « la storia dell’'annullamento e dell'assimilazione del caso »
(Aesthetik oder Wissenschaft des Schbnen, $ 41): ma soltanto nella bellezza, il
caso non è distrutto ma assimilato e organizzato. Ciò equivaleva a vedere
nell’arte un’opera, non di creazione, come Hegel l'aveva concepita, ma di
costruzione condizionata. Nell’E. contemporanea il concetto dell’arte come
costruzione domina il campo. Esso è stato esplicitamente difeso da Valéry che,
sul fondamento di esso, ha affermato l’eccellenza dell'architettura su tutte le
altre arti. « Colui che costruisce o crea, ha scritto Valéry, impegnato com°’è
con il resto del mondo e con il movimento della natura che tendono
perpetuamente a dissolvere, a corrompere o a rovesciare quel che egli fa, deve
ravvisare un terzo principio che egli tenta di comunicare alle proprie opere e
che esprime la resistenza che vuole sia da questi opposta al proprio destino di
perituro. Crea insomma la solidità e la durata » (Eupalinos; trad. ital., pag.
142). Lo stesso concetto si trova variamente ripetuto nelle considerazioni
estetiche di molti poeti contemporanei (v. POESIA) e Dewey lo esprime nella
forma più propria di collaborazione o contrasto tra il fare e il subire: «
L'arte nella sua forma accomuna in una stessa relazione il fare e il subire,
l'energia che esce ed entra, che fa sì che un’esperienza sia esperienza. Il
prodotto è un’opera d’arte E. a causa dell’eliminazione di tutto ciò che non
contribuisce alla mutua organizzazione dei fattori sia dell’azione che della
ricezione reciproca e a causa della selezione propria di quegli aspetti e
tratti che contribuiscono alla loro interpretazione + (Art as Experience, 1934,
cap. III; trad. ital., pagina 60). L. Pareyson nello studiare la formazione
dell’opera d’arte e nel darne la teoria ha delineato i caratteri della
costruzione artistica. « Fare inventando insieme il modo di fare; considerare
la riuscita come criterio a se stessa; produrre l’opera inventandone la regola
individuale; far coincidere l’invenzione con la produzione; l’ideazione con la
realizzazione, il concepimento con l’esecuzione; operare in modo che l’opera
d’arte sia insieme la legge e il risultato della propria formazione: ecco tante
espressioni equivalenti a designare il processo formativo dell’arte e a
indicare la coincidenza di tentativo e organizzazione nel procedimento arti354
stico» (E., 1954, pag. 126). Il teorema fondamentale di questa concezione
dell’arte è l’identità della produzione artistica con la sua tecnica: al modo
in cui la distinzione radicale tra tecnica e produzione è il teorema
caratteristico della concezione dell’arte come creazione. La cosiddetta arte
astratta che più delle altre insiste sull’identità di tecnica e produzione è,
nel suo complesso, una manifestazione di questo modo d’intendere l’arte. 2° Il
secondo problema fondamentale dell’E. è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo
cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle
categorie spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni
fondamentali: 4) quella che considera l’arte come conoscenza; 8) quella che la
considera come attività pratica; C) quella che la considera come sensibilità.
A) Che l’arte appartenga alla sfera della conoscenza sembra suggerito dalla
dottrina aristotelica per quanto (come si vedrà) Aristotele abbia
esplicitamente attribuito l’arte alla sfera dell’attività pratica. Ma egli
osserva che l’arte ha origine da quella tendenza all’imitazione che è un
aspetto del desiderio di conoscere (Poet., IV, 1448 b 5); e a proposito della
poesia, in un luogo famoso, afferma che essa è più filosofica della storia
(/bid., 9, 1451 b 5): il che sembra voler dire che essa ha maggior valore
teoretico della storia in quanto è più vicina alla prima scienza teoretica. Ma
fu soprattutto il Romanticismo a insistere sul valore conoscitivo dell’arte,
scorgendo in essa addirittura con Schelling, «l’organo generale della filosofia
» in quanto l’arte fa cogliere quell’« Identità della attività cosciente e
dell’inconscia +, che è Dio stesso o l'Assoluto (System, cit., VI, 1). Hegel
faceva arretrare l’arte di un passo, ponendola al di sotto della filosofia e
della religione; ma ne riconfermava il valore teoretico attribuendola alla
sfera di quello « Spirito assoluto » che è la più alta conoscenza (o «
autocoscienza +) che l’Assoluto può attingere di sè (Enc., $ 556). L’E. di
Croce e tutte quelle che su di essa si modellano seguono questa attribuzione.
Fin dalla prima formulazione della sua dottrina, Croce insistette sulla
definizione dell’arte come primo grado del conoscere cioè « conoscenza
intuitiva o del particolare » (E., 1902, cap. I). E ha sempre insistito sulla
tesi che l’arte è «una teoresi, un conoscere », che riannoda il particolare
all’universale e perciò ha sempre un’impronta di universalità e totalità (La
poesia, 1936). Questa stessa tesi è anche il presupposto dell’E. di Gentile:
nella quale la definizione dell’arte come sentimento significa soltanto la
riduzione dell’arte a pensiero « inattuale » cioè che non ancora si è
realizzato in un oggetto (La filosofia dell’arte, 1931, cap. IV). La stessa
dottrina bergsoniana dell’arte, formulata a proposito della funzionedel comico,
riduce l’arte all’intuizione che è l’organo della conoscenza filosofica (Le
rire, 1908, pag. 160). Infine quell’indirizzo di critica delle arti figurative
che è stato chiamato della « visibilità pura » perchè vede nelle forme e nei
gradi di quelle arti forme e gradi del vedere ha condiviso talora questa
nozione dell’arte come conoscenza. Così ha detto, ad es., K. Fiedler: « Solo
verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna dell’uomo e se si vuole
assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze dello spirito occorre
indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la spinta al conoscere »
(Aphorismen, in Schriften Uber Kunst, 1914, II, 8, pag. 147 sgg.). B)
L'attribuzione dell’arte alla sfera dell’attività pratica è la tesi esplicita
di Aristotele. Data la grande divisione tra scienze feoretiche o conoscitive,
che hanno per oggetto il necessario, e scienze pratiche che hanno per oggetto
il possibile, l’arte appartiene, secondo Aristotele, al dominio pratico e
costituisce l’oggetto della poetica cioè della scienza della produzione, mentre
l’altra suddivisione della pratica è la scienza dell’azione (Et. Nic., VI, 4,
1140a 1). Nonostante la potente suggestione di Aristotele (o forse perchè tale
suggestione è stata annullata dall’altra di cui si è detto), la concezione
dell’arte come attività pratica è ritornata solo raramente nella storia
dell’estetica. Può essere compresa in questa rubrica la concezione dell’arte
come giuoco. Questa fu esposta per la prima volta da H. Spencer che considerò
l’arte come un giuoco che si è svincolato dal suo scopo di addestramento biologico
ed è diventato fine a se stesso (Principles of Psychology, 1855, $ 535-36). Con
alcune varianti la teoria fu ripresa da K. Groos che riportò l’arte alla
«esperienza sensoria del giuoco » (Spiele des Menschen, 1889). Ma è stato
soprattutto Nietzsche a insistere sul carattere pratico dell’arte, vedendo in
essa una manifestazione della volontà di potenza. L’arte è condizionata secondo
Nietzsche, da un sentimento di forza e di pienezza, quale si verifica
nell’ebrezza. La bellezza è l’espressione di una volontà vittoriosa, di una
coordinazione più intensa, di un’armonia di tutti i voleri violenti, di un
equilibrio perpendicolare infallibile. « L'arte, dice Nietzsche, corrisponde
agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso di una costituzione florida
che trabocca nel mondo delle imagini e dei desideri; dall’altra, l’eccitamento
delle funzioni animali, mediante le imagini e i desideri di una vita
intensificata; è una esaltazione del sentimento della vita e uno stimolante
della vita» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 361). Essenziale all’arte è la
perfezione dell’essere, l'avviamento dell’essere alla pienezza; l’arte è
essenzialmente l’affermazione, la divinizzazione dell’esistenza. Lo stesso
stato apollineo (v.) non è che la risultanza estrema dell’ebrezza dionisiaca: è
il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza. C) L'attribuzione dell’arte
alla sfera della sensibilità è una tesi platonica, che ricompare nel 700 con
segno di valore mutato. Platone aveva confinata l'arte nella sfera
dell’apparenza sensibile e l’aveva caratterizzata con il rifiuto ad uscire da
questa sfera mediante l’uso del calcolo e della misura (Resp., X, 602c-d). Ma
nel 700 la nozione dell’arte come sensibilità non è più diminuzione o condanna:
l’arte appare come la perfezione della sensibilità stessa. La nascita e
l’elaborazione del concetto di gusto (v.), parallela alla nascita e alla
elaborazione della categoria del sentimento (v.) condiziona il nuovo
apprezzamento della sfera sensibile, che è proprio della filosofia del 700, e
la assegnazione, a tale sfera, del mondo dell’arte. Baumgarten riteneva che «il
fine dell’E. è la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale» e che
questa perfezione è la bellezza (Aesthetica, 1750-58, $ 14). È ben vero che
egli considerava le rappresentazioni E. come rappresentazioni chiarema confuse
e così poneva una differenza solo di grado tra esse e le rappresentazioni
razionali (che sono chiare e distinte): il che, come Kant ebbe spesso ad
osservare, non è una distinzione sufficiente tra sensibilità e intelligenza
(Cri. R. Pura, $ 8; cfr. Crit. del Giud., Intr., $ III. Ma è pur vero che, sia
pure con concetti imperfetti, Baumgarten aveva di mira proprio la
rivendicazione dell’autonomia della sfera sensibile. Alla stessa sfera riduceva
Vico la poesia, in polemica con quanto « dell'origine della poesia si è detto
prima da Platone, poi da Aristotele, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri,
Castelvetri » (Sc. Nuova, 1744, II, Della metafisica poetica). La tesi di
questi autori era, secondo Vico, che la poesia fosse «sapienza riposta » cioè «
metafisica ragionata ed astratta»; mentre la tesi di Vico è che la poesia fu
metafisica «sentita ed immaginata » quale poteva essere propria di uomini
«ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie »
(/bid., 1744, II, Della me-tafisica poetica). Ora, secondo Vico metafisica
(cioè conoscenza) e poesia sono tra loro totalmente opposte: quella purga la
mente dei pregiudizi della fanciullezza, questa tutta ve l’immerge e rovescia
dentro; quella resiste al giudizio dei sensi, questa ne fa principale sua
regola; quella infievolisce la fantasia, questa la richiede robusta; infine
quella non dà che pensieri astratti e scevri d’ogni passione; questa invece non
dà che pensieri concreti e corpulenti, che muovono con straordinaria violenza
gli animi umani (Sc. Nuova Prima, 1725, IIl, 26, in Opere, ed. Ferrari, IV,
pag. 227). La fantasia, che è l’organo della poesia, è definita da Vico come la
facoltà che « altera e contraffà» le cose (Sc. Nuova, 1744, III,
Dell’inarrivabile facultà poetica d’Omero); e in generale la fantasia è tanto
più robusta quanto è più debole il raziocinio (Ibid., I, Elementi, 36). Kant
infine segnava l’atto ufficiale di nascita della «facoltà del sentimento » e a
tale facoltà attribuiva il giudizio E. cercando di determinarne
conseguentemente i caratteri (Crir. del Giud., Intr., $ IID. E a tale facoltà
l’arte è stata più comunemente assegnata nell’E. contemporanea. Secondo
Santayana «la bellezza è un piacere considerato come la qualità di una cosa »
ed è perciò sempre « un’emozione, un’affezione della nostra natura volitiva e
valutativa » (The Sense of Beauty, 1896, $ 11). Per Dewey ugualmente l’arte è «
una forma di sentimento» (Art as Experience, 1934, cap. IV). 3° Il terzo punto
di vista dal quale possono essere considerate le teorie estetiche è quello del
còmpito che attribuiscono all’arte. Tutte le teorie cadono in due gruppi
fondamentali che rispettivamente considerano l’arte: «) come educazione; 8)
come espressione. Come educazione, l’arte è strumentale; come espressione, è
finale. a) La teoria dell’arte come educazione è di gran lunga la più antica e
la più diffusa. Platone condannò l’arte imitativa perchè la ritenne non
educativa ed anzi anti-educativa (Rep., X, 605 a-c); ma accettò e difese quelle
forme artistiche in cui vide utili strumenti d’educazione (/bid., III, 395 c).
Aristotele affermava che «la musica non va praticata per un unico tipo di
beneficio che da essa può derivare ma per usi molteplici, poichè può servire per
l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento dell’anima e la sospensione delle fatiche » (Polir., VIII, 7, 1341
b, 35). Ciò che egli dice per la musica vale, ovviamente, per tutte le arti; ed
altrettanto ovviamente la catarsi (v.) e il divertimento sono anch’essi
procedimenti educativi. Il concetto dell’arte come educazione è durato per
tutto il Medioevo e non è stato sensibilmente mutato o innovato dalle
discussioni estetiche del Rinascimento. La accentuazione del carattere
catartico dell’arte non è che l’accentuazione della sua strumentalità
educativa. Di questa non dubitava neppure Vico che insisteva sui «tre lavori
che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti
all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguire il
fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare
com’essi [i poeti] l’insegnarono a sè medesimi » (Sc. Nuova, II, Della
metafisica poetica). Questo è ancora il punto di vista tradizionale che fa
dell’arte uno strumento di perfezionamento morale. Ma la stessa teoria
dell’arte come conoscenza appartienall’àmbito di una concezione strumentale o
educativa dell’arte. Hegel ha espresso la cosa con tutta la chiarezza
desiderabile. Cercando di determinare lo scopo dell’arte nella introduzione
delle sue Lezioni di E. egli elimina le teorie che lo scopo dell’arte sia
l’imitazione o l’espressione (nel qual caso sarebbe vera la formula dell’arte
per l’arte) o il perfezionamento morale, per insistere sul punto che scopo
dell’arte è l’educazione alla verità attraverso la forma sensibile di cui
l’arte riveste la verità stessa: e che il perfezionamento morale è una
conseguenza inevitabile dell’educazione teoretica. « Bisogna ammettere, dice Hegel,
che l’arte debba rivelare la verità nella forma della rappresentazione
sensibile, che debba rappresentare la opposizione riconciliata [tra forma
sensibile e contenuto di verità] e che pertanto abbia il suo scopo finale in se
stessa, in questa rappresentazione e manifestazione » (Vorlesungen ilber die
Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 89). Ma l’educazione allaverità non è meno
educazione dell’educazione morale; e il compito dell’arte è secondo Hegel
quello di produrre la morte dell’arte cioè il passaggio a quelle forme
superiori di rivelazione della Verità assoluta che sono la religione e la
filosofia (/bid., III, pag. 579 sgg.). Con qualche attenuazione o confusione
questo punto di vista è stato ripetuto da Croce il quale riconosce che la
conoscenza E. si conserva nella conoscenza filosofica come si conserva
nell’arte l’esigenza morale o la coscienza del dovere (Breviario di E., III).
Alle teorie che vedono nell’arte uno strumento educativo ai fini della morale e
della conoscenza si sono aggiunte ora quelle che vedono in essa uno strumento
di educazione politica. Sono queste le dottrine che parlano dell'impegno
(engagement) politico dell’arte e che esigono che l’artista assuma una precisa
direttiva politica, che coordini la sua opera con le classi 0 i gruppi sociali
più estesi e meno privilegiati (o con i partiti che li rappresentano o
pretendono rappresentarli) e le aiuti nello sforzo di liberazione e perciò di
conquista e di conservazione del potere politico. Questa tesi che è propria
delle dottrine estetiche che si ispirano all’ideologia comunista non è,
filosoficamente parlando, più scandalosa delle dottrine tradizionali, che
pongono come còmpito dell’arte l'educazione morale o conoscitiva. Vero è che la
politica ha esigenze più mutevoli e più arbitrarie della morale o della
conoscenza: sicchè l’engagement politico rischia di limitare in modo assai più
drastico dell’engagement morale o conoscitivo le direzioni in cui si possono
compiere o sviluppare i tentativi artistici e perciò di bloccare in anticipo tentativi
che potrebbero riuscire fecondi. Ma l’autonomia, cioè il carattere finale, non
strumentale dell’arte, non è garantita neppure dalldottrina che vede nell’arte
un impegno conoscitivo o morale. 8) La teoria dell’espressione consiste nel
vedere nell’arte una forma finale delle esperienze, delle attività o in
generale degli atteggiamenti umani (v. EsprESSIONE). Il proprio
dell’atteggiamento espressivo è che esso prospetta come fine ciò che per altri
atteggiamenti vale come mezzo. Per es., il vedere, che è un mezzo per
orientarsi nel mondo e per servirsi delle cose, diventa un fine nell’arte
sicchè il pittore non vuol altro che vedere e far vedere. Perciò anche si dice
che l’espressione chiarifica e trasporta su un altro piano il mondo comune
della vita: le emozioni, i bisogni e anche le idee o i concetti che dirigono
l’esistenza umana. Ha detto Dewey: «L'emozione che fu elaborata in ultimo da
Tennyson nella composizione In Memoriam non era identica col sentimento di
dolore che si manifesta con il pianto e con un aspetto abbattuto: la prima è un
atto di espressione, la seconda di sfogo. Tuttavia è evidente la continuità
delle due nozioni, cioè il fatto che l’emozione E. è l’emozione originaria,
trasformata attraverso il materiale oggettivo al quale è stato affidato il suo
sviluppo e il suo compimento » (Art as Experience, 1934, cap. IV; trad. ital.,
pag. 94-95). Da questo punto di vista l’arte non è natura ma, come dice Dewey
«natura trasformata dalla sua entrata in nuove relazioni + (/bid., 1934, cap.
IV; trad. ital., pag. 94-95); o, come anche si potrebbe dire, ritorno alla
natura. E non fa meraviglia che spesso, dal Rinascimento all’Impressionismo, il
ritorno alla natura sia servito a rinnovare profondamente e con successo lo
stile e il gusto dell'arte. La concezione dell’arte come espressione è forse
adombrata nelle affermazioni di coloro che insistono sul carattere teoretico o
contemplativo dell’arte. Ma è malamente adombrata quando (come fa Croce,
Breviario di E., III) nello stesso tempo si ironizza sulla formula dell’arte
per l’arte che è la migliore definizione del carattere espressivo dell’arte. Su
questa formula hanno insistito poeti ed artisti moderni, che si sono avvalsi di
essa per difendere l’arte da ogni tentativo di asservimento o manipolazione a fini
che esigerebbero la sua completa subordinazione e le toglierebbero ogni libertà
di movimento. I testi relativi sono riportati nella voce Poesia. La formula che
essi difendono dev'essere a tutt'oggi considerata come la migliore, cioè più
efficace, difesa dell’attività E. e delle condizioni della sua fecondità.
Infatti poichè questa attività, come ogni altra, procede per tentativi e ben
poco si può dire in anticipo sul valore di un tentativo, il prescriverne alcuni
e bandirne altri, in nome di una funzione morale o conoscitiva o politica
dell’arte, significherebbe aumentare enormeETÀ mente il rischio di un
insuccesso totale, giacchè nulla garantisce che il tentativo più promettente
non sia fra quelli eliminati o condannati in anticipo. Il carattere espressivo
dell’arte significa pure che le possibilità di vedere, di contemplare, di
godere, che l’arte realizza, le nuove aperture sul mondo che essa dischiude,
quando riescono espresse nell’opera, rimangono a disposizione di chiunque sia
in condizione di intendere l’opera stessa. L’espressione è per natura sua
comunicazione. La capacità di giudicare le opere d’arte di un certo stile si
chiama gusto; e il gusto tènde a diffondersi e a divenire uniforme in periodi
di tempo determinati o in determinati gruppi d’individui. Ma indubbiamente le
possibilità comunicative di un’opera d’arte riuscita sono praticamente
illimitate e sono anche relativamente indipendenti dal gusto dominante. Questo
significa che non tutti devono necessariamente vedere in un’opera d’arte la stessa
cosa o goderla allo stesso modo. Le risposte individuali di fronte ad essa
possono essere innumerevoli e presentare o meno tra loro uniformità di gusti.
Ma l’importante non è quest’uniformità, ma la possibilità lasciata aperta a
nuove interpretazioni, a nuovi modi di fruire dell’opera stessa. Quelli che
godono di una stessa opera d’arte (per es., gli ascoltatori di un pezzo di
Beethoven) non sono come i membri di una setta o gli adepti di una stessa
credenza. Costituiscono tuttavia una comunità legata insieme da un interesse
comune, e aperta nel tempo e nello spazio. ESTETISMO (ingl. Aestheticism;
franc. Esthétisme; ted. Asthetizismus). Ogni dottrina o atteggiamento che
ritenga fondamentale e primari i valori estetici e riduca o subordini ad essi
tutti gli altri (anche e soprattutto quelli morali). In tal senso si può
chiamare E. sia una dottrina come quella di Novalis o di Schelling che vede
nell’arte la rivelazione dell’Assoluto; sia un atteggiamento come quello di
Oscar Wilde o di D'Annunzio, che dia la prevalenza ai valori estetici nella
letteratura e nella vita. L'E. fu caratterizzato da Kierkegaard come
l’atteggiamento di chi vive nell’istante, cioè vive per cogliere ciò che vi è
d’interessante nella vita trascurando tutto ciò che è banale, insignificante e
meschino. L’uomo estetizzante perciò evita la ripetizione, che implica sempre
monotonia e toglie l'interessante alle vicende più promettenti. Il sim-bolo o
l’incarnazione dell’E. è perciò Don Giovanni il seduttore. Lo sbocco finale
della vita estetizzante è, secondo Kierkegaard, la noia e quindi la
disperazione (Werke, II, pag. 162). ESTRAPOLAZIONE (ingl. Extrapolation; franc.
Extrapolation; ted. Extrapolation). 1. Il calcolo dei valori di una funzione
per argomenti che 357 sono al di là di quelli per i quali i valori della
funzione sono già conosciuti. 2. Le stesso che analogia (v.). ESTREMO (gr. tè
toyarov; lat. Extremum; ingl. Extreme; franc. Extréme; ted. Aeusserste). Ciò
che è primo o ultimo in una qualsiasi serie. Così il termine fu inteso da
Aristotele il quale notò che gli E. non sono sostanze ma limiti (Mer., XIV, 3,
1090 b 9). In questo senso si dice che il punto è l’E. della linea, la linea
del piano e il piano del solido. Nello stesso senso si parla di una specie E.
(ultima) che è quella più vicina all’individuo (/bid., III, 3, 998b 15). E.
(ultimo) è anche il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti
(Fis., VIII, 2, 244 b 4). E. sono pure i due termini del sillogismo che
compaiono nella conclusione e il cui rapporto viene stabilito ad opera del
termine medio (An. pr., I, 4, 25b 30). La parola si può dire abbia conservato a
tutt'oggi lo stesso significato (v. ULTIMO). ESTRINSECO, INTRINSECO (ingl.
Extrinsical, Intrinsical; franc. Extrinsèque, Intrinséque; ted. Aeusserlich, Innerlich).
In generale si dice intrinseco ciò che appartiene all’essenza o alla natura di
una cosa, E. ciò che le è estraneo. Secondo la logica tradizionale, è
intrinseco ad un oggetto il carattere che entra nella definizione dell’oggetto
stesso; per es., la razionalità, se l’uomo viene definito «animale ragionevole
». Dal punto di vista di una logica che non si fondi sulla nozione di essenza
necessaria o di sostanza (v.), le determinazioni E. od intrinseco hanno un
significato molto più elastico perchè diventano relative ai vari significati di
un oggetto qualsiasi (v. SIGNIFICATO)., ETÀ (gr. yévoc; lat. Aetas; ingl. Age;
franc. Age; ted. Zeitalter). La nozione della successione di E. diverse nella
storia degli uomini sulla Terra è stata spesso utilizzata dai filosofi. Il suo
primo documento letterario, nel mondo occidentale, è probabilmente quello
lasciatoci da Esiodo nelle Opere e giorni. Esiodo distingueva cinque E. del
mondo: 1° L’E. dell’oro, nella quale gli uomini vivevano come divinità, privi
di inquietudini, al riparo dalla fatica e dalla miseria e nell’abbondanza di
tutti i beni; 2° lE. dell'argento, inferiore alla prima nella quale gli uomini
difettavano soprattutto di saggezza e sirifiutavano di onorare gli dèi; 3° l’E.
de/ bronzo, nella quale gli uomini furono soprattutto guerrieri, violenti e
brutali; 4° l’E. degli eroi, che furono invece saggi e forti e perciò furono
chiamati semidei; e infine 5° lE. degli uomini, soggetti a ogni sorta di mali e
inquietudini, ma che godono anche di beni (Op., 109-79). Queste cinque E.
furono ridotte a tre da Platone. Nel Critia, facendo la storia della guerra tra
l’Atlantide e l’Attica, Platone narra che gli dèi un tempo si divisero a sorte
358 tutta la terra e colonizzarono così le diverse regioni, allevando gli
uomini come i pastori allevano oggi le greggi. Ma Efesto ed Atena che avevano
avuto da governare l’Attica, cioè la regione « naturalmente adatta alla virtù e
al pensiero» vi fecero nascere, quali autoctoni, uomini eccellenti nei quali
istillarono la nozione di una ordinata costituzione politica. Di questi uomini
si sono serbati solo i nomi mentre i fatti « per l’estinzione di quelli che ne
avevano ereditato il ricordo e per la lunghezza dei tempi, caddero nell’oblio
». E fra questi nomi Platone enumera quelli di Cecrope, Eretteo, Erittonio,
Erisittone, come degli eroi che si ricordano anteriori a Teseo. Quando a questa
E. degli eroi è successa l’E. degli uomini, di quella non è rimasta che
un’oscura tradizione; giacchè gli uomini, rimasti sprovvisti per molte
generazioni delle cose necessarie alla vita, sono stati per molto tempo dominati
dalla cura dei bisogni e hanno trascurato gli eventi anteriori e remoti
(Crifia, 109 b sgg.). In questo racconto le tre E. degli Dèi, degli Eroi e
degli Uomini sono chiaramente distinte. Vico riprendendo nel sec. xvm questa
divisione delle E. umane, l’attribuirà (Sc. Nuova, Idea dell’opera) all’erudito
romano Marco Terenzio Varrone che l’avrebbe esposta nella sua grande opera
Rerum divinarum et humanarum libri andata perduta; ma ricavava probabilmente la
notizia da Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, I, 44). La dottrina delle E.
costituisce, nell’antichità greca, un'autentica interpretazione della storia
nella sua totalità e precisamente un’interpretazione della storia come
decadenza (v. STORIA). Quando, nella filosofia moderna, viene ripresa da Vico,
essa perde il suo carattere pessimistico per assumere un carattere ottimistico
e progressivo. Inoltre il fondamento della divisione delle E. muta: non è più
storico-mitico, come ancora nel racconto platonico, ma antropologico: ciascuna
E. segnerebbe il prevalere di una particolare facoltà umana sulle altre.
Secondo Vico, infatti, la successione delle E. è determinata dal fatto che «gli
uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato
e commosso, finalmente riflettono con mente pura » (Sc. Nuova, 1744, degn. 53).
In base a questo principio si differenziano e si succedono le varie età. Ognuna
di esse è contrassegnata da una specifica natura umana: quella divina è robusta
di sensi e debole di raziocismo; quella eroica è nobile e saggia; quella umana
intelligente e modesta, benigna e ragionevole, «la quale riconosce per leggi la
coscienza, la ragione, il dovere ». A queste tre specie di natura corrispondono
poi tre specie di costumi, di diritti naturali, di governi, di lingue, ecc. (v.
STORIA, 3 d). Nel Romanticismo, Fichte ha ripreso la concezione delle ETÀ E.
del mondo. Nello scritto intitolato Caratteri fondamentali dell’E.
contemporanea (1806), Fichte distinse cinque E. della storia umana. La prima
sarebbe quella dell’istinto, in cui la ragione governa la vita senza la
partecipazione della volontà. La seconda è l’E. dell’autorità (o degli eroi) in
cui l’istinto della ragione si esprime in personalità potenti che impongono la
ragione con la forza. La terza è la liberazione dall’istinto e la rivolta
contro l’autorità. La quarta è quella in cui la ragione riconosce la propria
legge nel libero arbitrio e accetta una disciplina universale. La quinta è
quella in cui la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per
diventare pienamente reale nel mondo giustificato e santo, nell’autentico regno
di Dio (Werke, VII, pag. 7 sgg.). Più semplicemente Hegel distingueva tre E.
corrispondenti al progressivo svegliarsi dello spirito alla consapevolezza del
suo potere creativo. Nella prima E. lo spirito «è ancora tuffato nella
naturalità » per cui «uno solo è libero ». È questa l’E. rappresentata dal
mondo orientale. La seconda E. è quella in cui lo spirito viene a conoscenza,
ma solo imperfettamente e parzialmente, della sua libertà per cui in essa
«alcuni sono liberi». Questa seconda E. è rappresentata dal mondo greco-romano.
Nella terza E. lo spirito si eleva « dalla libertà particolare alla pura
universalità (l’uomo come tale è libero) all’autocoscienza e all’autosentimento
dell’essenza della spiritualità » Questa E. è rappresentata dal mondo
cristiano-germanico (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 136-37). Una
divisione delle E. si può vedere anche nella «legge dei tre stati» enunciata da
Augusto Comte nel Corso di filosofia positiva (1830): legge secondo la quale «
ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascuna branca delle nostre
conoscenze, passa successivamente per tre stati teorici differenti: lo stato
teologico o fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico 0
positivo ». Questi stati ricorrerebbero, ugualmente, secondo Comte, nello
sviluppo dell’individuo; il quale sarebbe « teologo nell’infanzia, metafisico
nella giovinezza e fisico nella virilità » (Phil. pos., I, Jez. I, $ 2). Con il
progredire della conoscenza storica nel mondo moderno e contemporaneo la
nozione di E. caratterizzabili con pochi tratti mitici o antropologici e
succedentisi secondo una regola costante è caduta in disuso: essa infatti
contrasta con l’indirizzo individuante della moderna indagine storica. Si fa
invece frequente riferimento alla nozione di epoca (v.) che è quella di un
periodo storico caratterizzato da un avvenimento immanente e fondamentale.
Nella nozione di E., quello che importa è la legge secondo cui le E. si succedono.
Nella nozione di epoca, quello che importa è l'avvenimento che dà il carattere
al periodo. Le due nozioni andrebbero tenute distinte. Non sempre tuttavia lo
sono nell’uso corrente; e si parla di «E.» della tecnica mentre si dovrebbe
parlare di «epoca » della tecnica. ETERE (gr. al0n6; lat. Aether; ingl. Ether; franc.
Éther; ted. Ether). Il termine, che Empedocle usò
(Fr., 100.5, Diels) come equivalente di aria e Anassagora (Fr., 15, Diels) come
equivalente di fuoco, fu adoperato da Aristotele a indicare la sostanza che
compone i cieli, in quanto si differenzia, per la sua ingenerabilità,
incorruttibilità e inalterabilità, dai quattro elementi che costituiscono le
cose sublunari. Aristotele attribuisce l’uso di questo termine, che ritiene il
più adatto ad indicare i cieli come sedi della divinità, ad una tradizione
assai antica. « Gli uomini, egli scrive, volendo indicare che il primo corpo è
alcunchè di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, chiamarono
il più alto luogo con il nome di E., derivato dal fatto che esso ‘corre sempre’
per un’eternità di tempo. Anassagora tuttavia, fraintese malamente il nome,
scambiando l’E. per il fuoco » (De Cuel., I, 3, 270b 20). L’E. fu poi chiamato,
ma non da Aristotele « quinto corpo » o « quinta sostanza » o «quinto elemento»
(P/acit., I, 3, 22; 2, 25, 7; 2, 6, 2). Dell'E. fa menzione nello stesso senso
di Aristotele l’Epinomide attribuito a Platone (981 c, 984 b). Gli Stoici a
loro volta identificarono l’E. con il fuoco di Eraclito, attribuendogli però la
stessa funzione e la stessa dignità che Aristotele. « Più in alto di tutti c’è
il fuoco, che chiamano E., dal quale è costituita sia la prima sfera immobile
dei cieli sia le altre sfere mobili » (Dio. L., VII, 137). Cicerone così
illustrava questa teoria stoica: 4 Dall’E. sorgono innumerevoli astri
fiammeggianti di cui primo è il Sole che tutto illumina con la sua luce
splendente ed è molte volte più grande e più esteso dell'intera Terra, poi gli
altri astri di smisurata grandezza » (De nat. deor., II, 36, 92; Acad., I, 7,
25). La nozione rimane fissata nella tradizione medievale in questi termini,
finchè si credette alla differenza di natura tra sostanza celeste e sostanza
sublunare: differenza che fu per la prima volta negata da Cusano (De docta
ignor., II, 12). Il nome fu riesumato da Fresnel (nei primi decenni dell’800)
per designare un ipotetico mezzo elastico che facesse da supporto alle onde
luminose. L’ipotesi dell’E. è stata mantenuta nella fisica sino a che la teoria
della relatività generale di Einstein l’ha resa inutile. ETERNITÀ (gr. didiémne, alby;
lat. Aeternitas; ingl. Eternity; franc. Éternité; ted. Ewigkeit). Il termine ha due significati
fondamentali: 1° durata indefinita nel tempo; 2° intemporalità come
contemporaneità. La filosofia greca ha conosciuto entrambi questi significati.
Eraclito ha espresso primo, affermando che il mondo «era da sempre, è e sarà
fuoco sempre vivo che si accende a intervalli e a intervalli si spegne » (Fr.,
30, Diels). Parmenide invece ha espresso il secondo: « L’essere non era nè sarà
ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo » (Fr., 8, Diels). Platone ha
esplicitamente contrapposto i due significati: « Della sostanza eterna, egli
dice, noi diciamo a torto che era, che è, e che sarà, mentre ad essa in verità
non compete che l’è ed invece l’era ed il sarà si devono predicare solo della
generazione che procede nel tempo» (Tim., 37 e). Aristotele ha utilizzato
entrambi i concetti. Da un lato infatti il mondo fuori del quale non c’è nè
spazio nè vuoto nè tempo abbraccia l’intera estensione del tempo ed è eterno
(De Caelo, I, 9, 279 a 25). L’E. in questo senso è durata (x\&v).
Dall'altro lato, le sostanze immobili, i motori dei cieli, sono eterni in un
altro senso: nel senso di essere fuori del tempo. « Gli enti eterni (tà «el
&vra) in quanto eterni, dice Aristotele, non sono nel tempo: infatti non
sono abbracciati dal tempo nè il loro essere è misurato dal tempo; il segno di
questo è che essi non subiscono affatto l’azione del tempo, non essendo nel
tempo » (Fis., IV, 12, 221b 3). Questa distinzione aristotelica è rimasta
classica. Plotino identificò l’E. («lwv) col modo d'essere proprio del mondo
intellegibile cioè con «ciò che persiste nella sua identità, che è sempre
presente a se stesso nella sua totalità, che non è ora questo e poi quello ma
è, tutto insieme, perfezione indivisibile, come quella di un punto in cui
s’uniscano tutte le linee senza che si spandano al di fuori: un punto che
persista in se stesso nella sua identità e non subisca modificazioni, che esista
sempre nel presente, senza passato nè futuro, ma sia ciò che è e lo sia sempre
» (Enn., III, 7, 3). Plotino ripete a questo proposito la notazione parmenidea
e platonica: eterno è ciò che non era nè sarà ma soltanto è. S. Agostino
impostava la sua analisi del tempo sulla contrapposizione tra il tempo e l’E.
(Conf., XI, 11; De civ. dei, XI, 4, 6). E Boezio esprimeva correttamente la
distinzione tra i due concetti di E.: «Ciò che subisce la condizione del tempo,
egli diceva, anche se, come Aristotele credette del mondo, non ha nè principio
nè fine, e anche se la sua vita si prolunga nell’infinità del tempo, non ancora
tuttavia si può legittimamente credere eterno. Infatti la sua vita pur essendo
infinita non comprende nè abbraccia la propria intera durata giacchè non
comprende e non abbraccia ancora il futuro e non abbraccia più il passato.
Pertanto solo ciò che abbraccia e possiede ugualmente nella sua totalità la
pienezza di una vita senza limiti, sicchè non gli manchi nulla dell’avvenire e
nulla gli sia sfuggito del passato, solo questo è l’essere che si deve ritenere
eterno: necessariamente esso si possiede interamente nel presente e possiede
nel presente l’infinità del tempo » (Phil. Cons., V, 6, 6-8). Dopo Boezio la
distinzione è diventata un luogo comune della filosofia. S. Tommaso fissava con
accuratezza la relativa terminologia. L’E. come «totale simultaneo e perfetto
possesso di una vita senza limiti » è caratterizzata: 1° dall'assenza del
principio e della fine; 2° dall’assenza di successione in quanto è un eterno
presente. La durata (aevum) invece è propria delle cose che sono soggette al
movimento locale e per il resto sono immutabili, come è il cielo; ed è perciò
qualcosa di intermedio fra l’E. e il tempo (S. 7A., I, q. 10, a. 1, 5). Questo
concetto dell’E. è rimasto proprio anche del razionalismo moderno. Spinoza
identifica l’E. con l’esistenza stessa della Sostanza in quanto implicita
nell’essenza di essa e quindi necessaria. E chiarisce: « Una tal esistenza in
quanto verità eterna è concepita come l’essenza della cosa; e però essa non può
essere spiegata per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata si
concepisca senza principio e senza fine » (£r., I, def. 8, chiar.). Pertanto
concepire le cose sotto l’aspetto dell’E. (sub specie aeternitatis) significa
concepirle come manifestazioni dell’essenza divina e derivate necessariamente
dalla sua natura (/bid., V, 30). Leibniz afferma, contro Locke, la precedenza
di una «idea dell’assoluto » che sarebbe a fondamento della nozione dell’E. (Nouv.
Ess., II, 14, 27). E l’intera filosofia hegeliana è concepita dal punto di
vista di un’E. così intesa. Hegel nega che l’E. possa essere intesa
negativamente come astrazione o negazione del tempo o come se venisse dopo il
tempo (Enc., $ 258). L'E. è per lui il forum simul delle determinazioni
dell’Idea. « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se
stessa eternamente come spirito assoluto » (/bid., $ 577). « Intemporalità » e
«presente eterno» sono le espressioni che più frequentemente ricorrono, anche
nella filosofia contemporanea, quando si avvale della nozione di eternità.
L’ultima espressione è quella che ricorre, per es., nell'opera di Lavelle, Il
tempo e l’E. (1945) come in molti altri idealisti e spiritualisti
contemporanei. Già però McTaggart aveva osservato che concepire l’E. come «
eterno presente » è una metafora non del tutto appropriata perchè significa
fare pur sempre riferimento al tempo, dato che il presente è una parte del
tempo e suppone passato e futuro. E aveva per suo conto proposto di considerare
l’eterno come situato nel futuro, alla fine o alla consumazione dei tempi (in
Mind, 1909, pag. 355). Ed è infatti oggi abbastanza chiaro che la concezione 2
dell’E., quale è stata espressa, con impressionante uniformità, da Parmenide a
noi, non è altro che un’imagine ridotta del tempo: è il tempo stesso ridotto ad
una delle sue determinazioni e precisamente alla contemporaneità (il totum
simul) che, come oggi tutti sanno, è non solo temporalità ma temporalità
misurabile. Quanto alla concezione dell’E. come aevum, cioè come durata
temporale indefinita, essa va incontro a quelle obiezioni che già Kant esponeva
nella sua critica alla cosmologia razionale del xviri secolo (v. COSMOLOGIA).
ETEROGENEITÀ, LEGGE DI. V. OmoGENEITÀ. ETEROGENESI DEI FINI (ted. Hererogonie
der Zwecke). Wundt ha chiamato col nome solenne di «legge dell’E. dei fini»
l'osservazione non molto peregrina che i fini che la storia realizza non sono
quelli che gli individui o le comunità si propongono, ma sono piuttosto la
risultante della combinazione, del rapporto e del contrasto delle volontà umane
tra loro e con le condizioni oggettive (Ethik, 1886, pag. 266; System der
Phil., 1889, I, pag. 326; II, pag. 221 sgg.). Si può ricordare che Vico aveva
espresso lo stesso concetto in una pagina famosa: « Perchè pur gli uomini hanno
essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di
questa Scienza, dappoichè disperammo di ritruovarla da filosofi e da filologi);
ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed
alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi
uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini
più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa
Terra » (Sc. Nuova, 1744, Concl. dell’opera). ETEROLOGICO. V. AuroLocico.
ETERONOMIA. V. AUTONOMIA. ETEROZETESI (lat. Heterozetesis). Lo stesso che
/gnoratio Elenchi (v.). ETICA (gr. tà }0wd; lat. Erhica; ingl. Ethics; franc.
Éthique; ted. Erhik). In generale, la scienza della condotta. Esistono due
concezioni fondamentali di questa scienza e cioè: 1 quella che la considera
come scienza del fine cui la condotta degli uomini dev’essere indirizzata e dei
mezzi per raggiungere tale fine; e deduce sia il fine che i mezzi dalla natura
dell’uomo; 2* quella che la considera come la scienza del movente della
condotta umana e cerca di determinare tale movente in vista di dirigere o
disciplinare la condotta stessa. Queste due concezioni, che si sono variamente
intrecciate nell’antichità e nel mondo moderno, sono profondamente diverse e
parlano due linguaggi diversi. La prima parla infatti il linguaggio dell’ideale
a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per conseguenza della « natura »
o «essenza » 0 « sostanza » dell’uomo. La seconda parla invece dei « motivi + o
delle «cause» della condotta umana o delle ‘ forze » che la determinano e
pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. La confusione tra questi due
punti di vista eterogenei è stata resa possibile dal fatto che entrambi si
presentano abitualmente nella forma apparentemente identica di una definizione
del bene. Ma l’analisi della nozione di bene (v.) mostra sùbito l’ambiguità che
essa cela: giacchèbene può significare o ciò che è (per il fatto che è) o ciò
che è oggetto di desiderio, di aspirazione, ecc.: e questi due significati
corrispondono esattamente alle due concezioni dell’E. sopra distinte. Difatti è
propria della concezione 18 la nozione del bene come realtà perfetta o perfezione
reale, mentre è propria della concezione 23 la nozione del bene come oggetto di
appetizione. Sicchè quando si afferma «Il bene è la felicità», la parola «bene»
ha un significato completamente diverso da quello che essa trova
nell’affermazione «Il bene è il piacere ». La prima asserzione (nel senso in
cui essa è fatta, per es., da Aristotele e da S. Tommaso) significa: «La
felicità è il fine della condotta umana, deducibile dalla natura razionale
dell’uomo »j mentre la seconda asserzione significa: «Il piacere è il movente
abituale e costante della condotta umana ». Poichè il significato e la portata
delle due asserzioni sono pertanto completamente diversi, la distinzione tra
etiche del fine ed etiche del movente deve essere tenuta continuamente presente
nelle discussioni sull’etica. Tale distinzione, mentre spacca in due la storia
dell’E., consente di riconoscere come irrilevanti molte delle discussioni di cui essa è tessuta e che non
hanno altra base se non la confusione fra i due significati 1° Entrambe le
dottrine etiche elaborate da Platone, cioè sia quella che trova la sua migliore
espressione nella Repubblica sia quella che trova la sua migliore espressione
nel Filebo, si inscrivono nella prima delle concezioni che abbiamo distinto.
L'E. esposta nella Repubblica è infatti un’E. delle virtù; e le virtù sono
funzioni dell'anima (Rep. I, 353b) le quali sono determinate dalla natura
dell'anima e dalla divisione delle sue parti (/bid., IV, 434 e). Il
parallelismo tra le parti dello Stato e le parti dell'anima consente a Platone
di determinare e definire le virtù particolari nonchè quella che le comprende
tutte: la giustizia come rispondenza di ogni parte alla sua funzione (/bid.,
443 d). Analogamente, l’E. del Filebo procede in primo luogo a definire il bene
come forma di vita mista di intelligenza e di piacere; e consiste nel
determinare la misura di questa mescolanza (Fil., 27 d). L'E. di Aristotele è
poi il prototipo stesso di questa concezione. Aristotele procede a determinare
il fine della condotta umana (la felicità) ricavandolo dalla natura razionale
dell’uomo (Er. Nic., I, 7); e procede poi a determinare le virtù che sono la
condizione della felicità. A sua volta l’E. degli Stoici, con la sua massima
fondamentale del « vivere secondo ragione» intende dedurre le regole della
condotta dalla natura razionale e perfetta della realtà (StoBEO, Ec/., II, 76,
3; Dios. L., VII, 87). Il misticismo neoplatonico pose come fine della condotta
umana il ritorno dell’uomo al suo principio creatore e l’immedesimarsi con
esso. Secondo Plotino, questo ritorno è «la fine del viaggio» dell’uomo; è un
allontanamento da tutte le cose esterne, «la fuga di uno solo verso uno solo»
cioè dell’uomo nel suo isolamento verso l'Unità divina (Enn., VI, 9, 11). Per
quanto diverse siano le dottrine cui si è fatto cenno, nelle loro interne
articolazioni, la loro impostazione formale è identica. Esse procedono: a) a
determinare la natura necessaria dell’uomo; b) a dedurre da tale natura il fine
cui dev'essere indirizzata la sua condotta. Tutta l’E. medievale si mantiene
fedele a questo schema. Così, ad es., l’intera E. di S. Tommaso è dedotta dal
principio « Dio è l’ultimo fine dell’uomo» (S. 7h., II 2, q. 1, a. 8):
principio dal quale si deduce la dottrina della felicità e quella della virtù.
Si può scorgere una istanza critica contro questa impostazione nel punto di
vista di Duns Scoto e molti Scolastici del ’300: che le norme morali sono
fondate sul puro e semplice comando divino, tranne appunto la norma che impone
di ubbidire a Dio, che sarebbe la sola « naturale » (Op. Ox., III, d. 37, q. 1;
cfr. OCKHAM, In Sent., II, q. SH). E difatti questo appello all’arbitrio divino
è il risultato della riconosciuta impossibilità di dedurre dalla natura
dell’uomo il fine ultimo della sua condotta (Op. Ox., IV, d. 43, q. 2, n. 27,
32). Ma con ciò non è tuttavia aperta alla ricerca etica un’alternativa
diversa. Nella filosofia moderna i Neoplatonici di Cambridge riprendono la
concezione stoica di un ordine dell’universo che vale anche a dirigere la
condotta dell’uomo; e pertanto insistono sull'innatezza delle idee morali come
in generale di tutte le idee generali o direttive di cui l’uomo è in possesso
(CupwortH, The True Intell. System, 1678, I, 4; MORE, Enchiridion, 1679, III).
E la filosofia romantica ha dato la forma più radicale a questa concezione
dell’etica. Fichte esige che l’intera dottrina morale sia dedotta dalla «
autodeterminazione del1’Io » (Sitrenlehre, Intr., $ 9). Il fine della morale è
perciò da lui posto nell’adeguamento dell’io empirico all’Io infinito,
adeguamento che non è mai completo e perciò provoca un progresso all’infinito,
la progressiva liberazione dell’io empirico dai suoi limiti (/bid., in Werke,
II, pag. 149). Secondo Hegel, il fine della condotta umana, che è nello stesso
tempo la realtà nella quale tale condotta trova la 362 sua integrazione e la
sua perfezione, è lo Stato. Perciò l’E. è per Hegel una filosofia del diritto.
Lo Stato è «la totalità etica », Dio che si è realizzato nel mondo (Fil. del
Dir., $ 258, Zusatz). Lo Stato è il culmine di quella che Hegel chiama «
eticità » (Siftlichkeit) cioè la moralità che trova corpo e sostanza in
istituzioni storiche che la garantiscono; mentre la « moralità » (Moralitàt) di
per se stessa è semplicemente intenzione o volontà soggettiva del bene. Ma a
sua volta il bene non è altro che « l’essenza della volontà nella sua
sostanzialità e universalità » ovvero «la libertà realizzata, l’assoluto scopo
finale del mondo » (/bid., $ 139-42): cioè lo Stato stesso. Sicchè si può dire
che per Hegel la moralità non è che l’intenzione o la volontà soggettiva di
realizzare ciò che si trova realizzato nello Stato. Il concetto dello Stato è
il punto di partenza e il punto di arrivo dell’E. di Hegel. Conforme all’E.
tradizionale del fine è l’E. di Rosmini, secondo la quale il bene si identifica
con l’essere, sicchè la massima fondamentale della condotta si può formulare
così: « Volere o amare l’essere ovunque lo si conosca, secondo l’ordine che
esso presenta all’intelligenza » (Princ. della scienza morale, ed. naz., pag.
78). Ma sia che la realtà si definisca come Essere sia che si definisca come
Spirito o Coscienza, la struttura delle dottrine morali che pretendono dedurre
la morale dal fine mostrano una grande uniformità di procedimenti e di
conclusioni. Si considerino, per es., nella filosofia contemporanea, l’E. di
Green e quella di Croce. Secondo Green, la Coscienza infinita, cioè Dio, è ab
aeterno tutto ciò l’uomo ha la possibilità di diventare: e cioè il Bene o Fine
supremo che è l’oggetto della buona volontà umana: bene che la ragione ha il
compito di concepire e di porre come a fondamento della sua legge (Prolegomena
to Ethics, 3* ediz., 1890, pag. 198, 214). Volere il bene significa perciò
volere la Coscienza assoluta, cercare di realizzare quello che è presente in
essa. Allo stesso modo per Croce l’attività etica è « volizione dell’universale
»; ma l’universale «è lo Spirito, è la Realtà in quanto è veramente reale, cioè
in quanto unità di pensiero e volere; è la Vita in quanto è còlta nella sua
profondità come unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è
perpetuo svolgimento, creazione, progresso » (Filosofia della pratica, 1909,
pag. 310). Agire moralmente significa perciò volere lo Spirito infinito,
assumerlo come Fine: un'impostazione dell’E. che (come quella di Fichte, Hegel,
Green) non si distingue dall’E. tradizionale che (come quella di Platone,
Aristotele, S. Tommaso e Rosmini) fa appello alla Realtà o all’Essere. Una
forma più complessa e moderna della stessa E. del fine si può scorgere nella
dottrina di Bergson. ETICA Bergson ha distinto una morale chiusa e una morale
aperta. La morale chiusa è ciò che s’intende comunemente con questo termine.
Essa corrisponde nel mondo umano a ciò che è l’istinto in certe società
animali: tènde cioè al fine di conservare le società stesse. « Supponiamo un
istante, dice Bergson, che la natura abbia voluto all’altra estremità della
linea [cioè all’estremità della linea evolutiva dell’intelligenza in quanto
diversa da quella dell’istinto] ottenere società in cui una certa latitudine
fosse lasciata alla scelta individuale: essa avrà fatto sì che l’intelligenza
ottenga qui risultati paragonabili, quanto alla loro regolarità, a quelli
dell’istinto nell’altra: avrà fatto ricorso ad abitudini. Ciascuna di queste
abitudini, che si potranno chiamare ‘morali” sarà contingente; ma il loro
insieme, cioè l’abitudine di contrarre abitudini, essendo alla base stessa
delle società, avrà una forza paragonabile a quella dell’istinto sia come intensità
che come regolarità » (Deux Sources, I; trad. ital., pag. 23). Dall’altro lato
però c’è la morale dei profeti e degli innovatori, dei mistici e dei santi.
Questa è la morale in movimento, fondata sull’emozione, sull’istinto,
sull’entusiasmo: una morale che è un impulso di rinnovamento coincidente con lo
stesso slancio creatore della vita. Questa dualità di forze è a fondamento di
ogni morale secondo Bergson. « Pressione sociale e slancio di amore non sono
che due manifestazioni complementari della vita, normalmente applicate a
conservare all’ingrosso la forma sociale che fu caratteristica della specie
umana fin dall’origine, ma eccezionalmente capaci di trasfigurarla grazie a
individui di cui ognuno rappresenta, come avrebbe fatto l'apparizione di una nuova
specie, uno sforzo di evoluzione creatrice » (/bid., pag. 101). Bergson ha così
dedotto dall’ideale del rinnovamento morale l’esistenza di una forza destinata
a promuovere tale rinnovamento; come ha dedotto dal concetto di una « società
chiusa » la sua nozione della morale corrente. La sua E. pertanto obbedisce
alla classica impostazione dell’E. del fine. Quando nella filosofia
contemporanea la nozione di valore (v.) ha cominciato a sostituire quella di
bene, la vecchia alternativa tra l’E. del fine e l’E. della motivazione ha
assunto una forma nuova. Il valore infatti si sottrae all’alternativa propria
della nozione di bene che può essere interpretata in senso oggettivo (come
realtà) o in senso soggettivo (come termine di appetizione). Il valore possiede
un modo d'essere oggettivo nel senso di poter essere inteso o appreso
indipendentemente dall’appetizione; ma è nello stesso tempo dato in una qualche
forma di esperienza specifica. Il valore viene pertanto costantemente
riconosciuto dotato di tre caratteri: @) l’oggettività; 5) la semplicità, per
cui e indefinibile e indescrivibile nel senso in cui lo è una qualità sensibile
elementare; c) la necessità 0 la problematicità. Quest’ultima è per l’appunto
l’alternativa che sostituisce nell'àmbito della nozione di valore quella tra
soggettività e oggettività propria della nozione di bene. Ora le dottrine che
riconoscono la necessità del valore cioè la sua assolutezza, eternità, ecc.,
hanno una stretta parentela con le dottrine etiche tradizionali del fine; mentre
le dottrine che riconoscono la problematicità del valore sono strettamente
imparentate con le dottrine etiche della motivazione. Le dottrine di Scheler e
Hartmann sono tra quelle che affermano la necessità del valore. Scheler ha
elaborato la sua «E. materiale dei valori» proprio allo scopo di rendere l’E.
immune da quel relativismo cui conduce un’E. materiale del bene cioè un’E. che
vede nel bene il semplice oggetto dell’appetizione. Secondo Scheler, le
appetizioni (o aspirazioni o impulsi o desideri) hanno i loro fini in se stesse
cioè «in un contemporaneo o precedente sentimento dei loro componenti
axiologici ». I fini dell’appetizione possono diventare scopi della volontà,
quando vengono rappresentati e scelti e così divengono un dover essere reale, cioè
i termini di un’esperienza oggettiva. Ma i valori sono dati anteriormente e
indipendentemente sia dai fini che dagli scopi e anche sono date
indipendentemente da tali fini e scopi le preferenze dei valori, cioè la loro
gerarchia. « Possiamo infatti, dice Scheler, sentire i valori, anche morali,
nella comprensione degli altri, senza che essi vengano fatti oggetto di
aspirazione o siano immanenti ad una aspirazione. Similmente possiamo preferire
o posporre un valore ad un altro, senza con ciò scegliere tra le aspirazioni
che si dirigono a tali valori. Tutti i valori possono essere dati e preferiti
senza alcuna aspirazione 1 (Formalismus, pag. 32). In altri termini, l’E. non è
fondata nè sulla nozione del bene nè su fini immediatamente presenti alla
aspirazione e su scopi deliberatamente voluti ma sull’intuizione emotiva,
immediata e infallibile dei valori e dei loro rapporti gerarchici; intuizione
che è alla base di ogni aspirazione, desiderio e deliberazione volontaria.
Hartmann ha espresso in modo più scolasticamente chiaro ed efficace la stessa
concezione dell'etica. «C’è, egli dice, un regno di valori sussistente in sè,
un autentico ‘ mondo intellegibile * che sta al di là della realtà come al di
là della coscienza, una sfera ideale etica, non costruita, inventata o sognata,
ma effettivamente esistente e afferrabile nel fenomeno del sentimento
axiologico, la quale sussiste accanto a quella ontica reale e a quella
gnoseologica attuale (Erhik, 1926, pag. 156). L’«essere in sè » dei valori
sottolinea la loro indipendenza dalla stessa intuizione axiologica in cui sono
dati e perciò la loro necessità e assolutezza che, nell’intenzione di Hartmann,
dovrebbe sbarrare la strada al «relativismo axiologico di Nietzsche» (/bid.,
pag. 139). Tuttavia il « relativismo axiologico di Nietzsche » ha la stessa
struttura formale, cioè la stessa impostazione, dell’E. di Hartmann e in
generale dell’E. tradizionale del fine, perchè si fonda anch’esso su una
gerarchia assoluta di valori. Scheler e Hartmann ritengono che tale gerarchia,
come i valori stessi, sia completamente indipendente dalla scelta umana, e che
ogni scelta anzi la presupponga, sia o no ad essa conforme. Ma questa è
precisamente anche la credenza di Nietzsche. Soltanto che, per Nietzsche, tale
gerarchia è diversa: è una gerarchia dei valori vitali, dei valori in cui
s’incarna la Volontà di Potenza. «I valori morali, dice Nietzsche, hanno
occupato fino ad oggi il rango superiore; chi potrebbe dubitare di essi? Ma
togliamo a questi valori il loro posto e muteremo tutti i valori: capovolgeremo
il principio della loro gerarchia precedente» (Wille zur Macht; trad. franc.
Bianquis, III, 503). L’immoralismo di Nietzsche, il suo « relativismo
axiologico», per il quale egli si fa critico della morale corrente e vede in
essa forme camuffate di egoismo ed ipocrisia, è semplicemente la proposta di
una nuova tavola dei valori fondata sul principio dell’accettazione
entusiastica della vita, sulla preminenza dello spirito dionisiaco. È proprio
per questo che Nietzsche intende sostituire alle virtù della morale
tradizionale le nuove virtù în cui si esprime la volontà di potenza. È virtù
ogni passione che dice sì alla vita ed al mondo: «la fierezza, la gioia e la
salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle
attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la disciplina
dell’intellettualità superiore, la volontà di potenza, la riconoscenza verso la
terra e verso la vita; tutto ciò che è ricco e vuol dare, vuol gratificare la
vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla » (/bid., $ 479). Nietzsche ha
dedotto così da quella che egli ha ritenuta la narradell’uomo, cioè dalla
volontà di potenza, la tavola dei valori morali, che dovrebbero indirizzare
alla realizzazione della stessa volontà di potenza in un mondo di superuomini.
La struttura della sua dottrina non è perciò diversa da quella di molte altre
che, utilizzando lo stesso procedimento, tendono a conservare e giustificare le
tavole dei valori tradizionali, deducendole dalla natura dell’uomo o dalla
struttura dell'essere. 2° La seconda concezione fondamentale dell’E. è quella
che si configura come una dottrina del movente della condotta. La
caratteristica di questa concezione è che in essa il bene non viene definito in
base alla sua realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o
delle regole che la dirigono. Sicchè mentre nella prima concezione le norme
sono derivate dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo (la perfezione
della vita razionale secondo Aristotele, lo Stato secondo Hegel, la società
chiusa o aperta secondo Bergson, ecc.); nella seconda concezione si mira
anzitutto a determinare il movente dell’uomo, cioè la regola alla quale egli
ubbidisce in linea di fatto; e conseguentemente si definisce come bene ciò a
cui si tènde in virtù di quel movente o che è conforme alla regola in cui esso
si esprime. Così quando Prodico formulava la sua morale nella forma di
proposizioni condizionali o imperativi ipotetici, dava luogo a un’E. del
movente che è tra le prime che siano state proposte. Egli diceva: «Se vuoi che
gli dèi ti siano benevoli, devi venerare gli dèi. Se vuoi essere amato dagli
amici, devi beneficare gli amici. Se desideri essere onorato da una città, devi
essere utile alla città. Se aspiri ad essere ammirato da tutta la Grecia, devi
sforzarti di far bene alla Grecia, ecc.» (Senor., Memor., II, i, 28). Allo
stesso modo un’E. del movente è quella a cui mira Protagora quando riconosce
che il rispetto reciproco e la giustizia sono le condizioni per la
sopravvivenza dell’uomo. Questo è il senso del mito di Prometeo, che Platone fa
esporre a Protagora nel dialogo omonimo (Pror., 322 c). E lo scritto sofistico
che va sotto il nome di Anonimo di Giamblico ribadisce questo punto di vista. «
Se anche ci fosse, come non c’è, un uomo invulnerabile, insensibile, con un
corpo e un’anima d’acciaio, solo alleandosi alle leggi e al diritto e
rafforzandole e usando la sua forza per esse e per ciò che le favorisce, egli
potrebbe salvarsi, giacchè altrimenti non potrebbe resistere » (Anon. Jambl., 6,
3). In queste formulazioni, ciò che si ténde a mettere in luce è il meccanismo
dei moventi che sono a fondamento delle regole del diritto e della morale: per
sopravvivere, l'uomo si conforma a tali regole e non può agire altrimenti. In
tali formulazioni il movente della condotta umana è il desiderio o la volontà
di sopravvivere. In altre formulazioni del genere, questo movente è il piacere.
Aristippo affermava che solo il piacere è desiderato di per se stesso; e vedeva
la conferma di questo nel fatto che sin da bambini gli uomini, senza deliberata
volontà, cercano il piacere e quando lo hanno raggiunto non cercano altro,
mentre fuggono il dolore che ne è l’opposto (Diog. L., II, 88). Lo stesso
significato di semplice riconoscimento di quello che è, in linea di fatto, il
movente della condotta umana ha il principio dell’E. di Epicuro: « Piacere e
dolore sono le due affezioni che si ritrovano in ogni animale, l’una favorevole
l’altra contraria, attraverso le quali si giudica ciò che si deve scegliere e
ciò che si deve fuggire » (Diog. L., X, 34).Questa concezione dell’E. è rimasta
assente per tutto il Medioevo e viene ripresa soltanto nel Rinascimento.
Lorenzo Valla la ripresentò per primo nel De voluptate, affermando che il
piacere è l’unico fine dell’attività umana e che la virtù non consiste in altro
che nella scelta del piacere (De vol., II, 40). E Telesio ripresentava l’altra
alternativa tradizionale della stessa concezione, derivando le norme dell’E.
dal desiderio, che è in ogni essere, della propria conservazione (De rer. nat.,
IX, 2). In modo rigoroso e sistematico Hobbes poneva questo stesso principio a
fondamento della morale e del diritto. «Il primo dei beni, egli scrive, è la
conservazione di sè. La natura infatti ha provveduto perchè tutti desiderino il
proprio bene; ma affinchè possano essere capaci di questo, bisogna che
desiderino la vita, la salute e la maggiore sicurezza possibile di queste cose
per il futuro. Di tutti i mali invece il primo è la morte, specialmente se si
accompagna con il tormento; giacchè i mali della vita possono essere tanti che,
se non si prevede vicina la loro fine, fanno annoverare la morte tra i beni»
(De hom., XI, 6). In questa tendenza alla propria conservazione e in generale
al conseguimento di tutto ciò che giova, Spinoza vide la stessa azione
necessitante della Sostanza divina. «La ragione, egli dice, non richiede nulla
contro la natura, ma richiede di per sè, innanzi tutto, che ognuno ami se
stesso, ricerchi l’utile che sia veramente tale per lui e desideri tutto quello
che conduce l’uomo a una perfezione maggiore; e in modo assoluto che ciascuno
si sforzi, per quanto è in lui, di conservare il proprio essere. Il che è, di
necessità così vero, quanto è vero che il tutto è maggiore della parte + (Et.,
IV, 18, scol.). Locke e Leibniz erano d’accordo sullo stesso fondamento
dell’etica. Diceva Locke: « Poichè Dio ha messo un legame indissolubile fra la
virtù e la pubblica felicità, e ha reso la pratica dellavirtù necessaria alla
conservazione della società umana e visibilmente vantaggiosa per tutti coloro
con cui hanno a che fare le persone dabbene, non bisogna meravigliarsi se
ciascuno vuole non solamente approvare queste regole, ma altresì raccomandarle
agli altri, essendo persuaso che, se le osserveranno, ne verranno vantaggi a
lui stesso » (Saggio, I, 2, 6). E Leibniz a sua volta riconosceva come
fondamento della morale il principio «Seguire la gioia ed evitare la tristezza
», ritenendolo tuttavia affidato più all’istinto che alla ragione (Nouv. Ess.,
I, 2, 1). Come si vede, l’E. del ’600 e del *700 manifesta un alto grado di
uniformità: non solo essa è una dottrina del movente ma anche la sua
oscillazione fra la «tendenza alla conservazione» e la «tendenza al piacere»
come base della morale non implica una diversità radicale giacchè il piacere
stesso non è che l’indice emotivo d’una situazione favorevole alla
conservazione (v. EMozioNE). Ciò con cui una E. siffatta è in opposizione
radicale, è l’E. del fine, cioè l'’E. nella sua impostazione tradizionale
platonico-aristotelico-scolastica. La caratteristica fondamentale della
filosofia morale inglese del °700, la quale ha un’importanza tutta particolare
nella storia dell’E., consiste nell’aver portato alla luce e nell'aver assunto
come tema principale di discussione per l'appunto il contrasto tra l’R. del
movente e l’E. del fine: un contrasto che apparve come quello tra ragione e
sentimento. Dice Hume: « C°è una controversia nata da poco, molto più degna di
esame, intorno ai fondamenti generali della morale: se essi cioè siano derivati
dalla ragione o dal senti mento: se giungiamo alla loro conoscenza per via di
un séguito di argomenti e di induzioni o per via di un sentimento immediato e
di un fine senso interiore » (Ing. Conc. Morals, I). Hume afferma che il primo
ad accorgersi di questa distinzione è stato Lord Shaftesbury; e in realtà
Shaftesbury parlò di un senso morale che è una specie di istinto naturale o
divino, specificazione nell’uomo del principio d’armonia che regola l’universo
(Caratteri stiche di uomini, maniere, opinioni e tempi, 1711). Già Hutchinson
interpretava il senso morale come tendenza diretta a realizzare «la massima
felicità del maggior numero possibile di uomini » (Ricerca sulle idee di
bellezza e di virtà, 1725, III, 8): una formula che sarà fatta propria da
Beccaria e da Bentham. E fu Hume a trovare la parola che esprimeva questo nuovo
indirizzo: il fondamento della morale è l’urilità. In altri termini l’azione
buona è quella che procura « felicità e soddisfazione» alla società; e
l’utilità piace perchè risponde a un bisogno o tendenza naturale: quello che
inclina l’uomo a promuovere la felicità dei suoi simili (7g. Conc. Morals, V,
2). La ragione e il sentimento entrano perciò egualmente nella morale, secondo
Hume: «La ragione ci istruisce sulle diverse direzioni dell’azione, l’umanità
ci fa stabilire la distinzione a favore di quelle che sono utili e benefiche »
(/bid., App. I. Il sentimento di umanità, cioè la tendenza a godere della
felicità del prossimo, è perciò, secondo Hume, il fondamento della morale cioè
il movente fondamentale della condotta umana. Alcuni anni più tardi Adamo Smith
chiamerà simpatia questo stesso sentimento in quanto è proprio di uno
spettatore imparziale che guardi e giudichi la propria e altrui condotta (The
Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Che la dottrina morale di Kant abbia
voluto inserirsi proprio in questa tradizione ed essere una dottrina del
movente, non del fine, risulta chiaro dal fatto che essa risponde alle
caratteristiche fondamentali di una dottrina del movente. Difatti in primo
luogo Kant ritiene che «il concetto del bene e del male non dev'essere
determinato prima della legge morale (di cui apparentemente dovrebbe essere il
fondamento) ma soltanto dopo di essa e attraverso di essa » (Crit. R. Prat., I,
1, 3). Questo vuol dire che Kant condivide la concezione 2 del bene, che
corrisponde a un’E. del movente. In secondo luogo è appunto in base ai moventi
(Bestimmungsgriinde) che Kant classifica le diverse concezioni fondamentali del
principio della moralità (Ibid., I, 1, $ 8, nota 2). In terzo luogo, la legge
morale è considerata da Kant come un fatto (Factum) perchè «non si può dedurre
da precedenti dati della ragione, per es., dalla coscienza della libertà » ma
s'impone per se stessa come un sic volo, sic iubeo (Ibid., $ 7). In tal modo
Kant ha trasferito dal «sentimento » alla « ragione » il movente della
condotta, utilizzando l’altro corno del dilemma proposto dai moralisti inglesi.
Con questo ha voluto garantire la categoricità della norma morale cioè quell’assolutezza
del comando per cui essa si distingue dagli imperativi ipotetici delle tecniche
e della prudenza. Per questa esigenza l’E. kantiana condivide indubbiamente con
la concezione 1 dell’E., la preoccupazione fondamentale di ancorare la regola
della condotta alla sostanza razionale dell’uomo. Ma se si prescinde da questa
preoccupazione assolutistica (che va messa sul conto del «rigorismo »
kantiano), l'E. di Kant si presenta assai affine a quella dei moralisti inglesi
del '700 (verso i quali d'altronde Kant, negli scritti precritici, non ha
celato le sue simpatie) non solo nella sua impostazione fondamentale ma anche
nei suoi risultati. Se il sentimento, cui si appellavano i moralisti inglesi
era la tendenza alla felicità altrui, la ragione cui si appella Kant è
l’esigenza di agire secondo una massima che gli altri possono far propria. Per
quanto questa formula possa apparire più rigorosa, e nello stesso tempo più
astratta, di quelle adoperate dai filosofi inglesi, il suo significato è lo
stesso. Ciò che l’una e le altre intendono suggerire come principio o movente
della condotta è il riconoscimento dell’esistenza di a/ri uomini (o come voleva
Kant di altri «esseri razionali +) e l’esigenza di comportarsi nei loro
confronti sulla base di questo riconoscimento. La formula kantiana
dell’imperativo per la quale si deve trattare l'umanità, nella propria persona
come nell’altrui, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo, non è che
un’altra espressione di questa stessa esigenza, che i moralisti inglesi
chiamavan « senso morale » o «senso di umanità +». Sfortunatamente, gli
sviluppi che la filosofia morale di Kant ha subito da Fichte in poi hanno fatto
leva più frequentemente sul suo armamentario dogmatico e assolutistico anzichè
sulla sua impostazione fondamentale e sulla sostanza dei suoi insegnamenti
morali. Tali insegnamenti, come l’impostazione da cui dipendono, sono in
accordo con l’E. settecentesca, cioè con l’indirizzo morale dell’Illuminismo;
ma non è in accordo con tale indirizzo la contrapposizione stabilita da Kant
fra il mondo morale e il mondo naturale e perciò tra l’E. e la scienza della
natura. Questo contrasto deriva alla dottrina di Kant proprio dall’armamentario
assolutistico della sua E. cioè da quell’aspetto per cui essa divenne la
creatura prediletta dei metafisici moralisti dell’800 e il pretesto per
innumerevoli (e inoperanti) disquisizioni intorno all’assolutezza del dovere e
all’accesso, che esso consentirebbe, a una Realtà superiore incondizionata
(quella del « noumeno +) senza nessun rapporto con quella fenomenica e
condizionata della natura. Ancora oggi, nell’E. di Kant, amici e avversari
vedono, il più delle volte, esclusivamente questo aspetto: i primi per
esaltarla come l’ancoraggio sicuro di tutte le certezze concernenti la vita
morale, i secondi per condannarla come il baluardo delle illusioni metafisiche
nel campo morale. Ma una considerazione di quest’E. che si sottragga a tali
alternative e la scorga nel quadro dell’E. settecentesca, di cui condivise
l’impostazione e che pretese fondare con necessità rigorosa, consente forse una
più adeguata valutazione di essa. Può infatti aprire la via ad una
utilizzazione delle analisi kantiane in vista di una impostazione dell’E. come
tecnica della condotta, indipendente da presupposti metafisici. Nel frattempo,
l’E. del movente assumeva, nel clima positivistico, la pretesa di valere come
scienza esatta della condotta. Già Helvétius diceva: « Ho creduto che si deve
trattare la morale come tutte le altre scienze e fare una morale come una
fisica sperimentale » (De l’esprit, 1758, I, pag. 4). Ma questa pretesa
caratterizza soprattutto l’utilitarismo dell’800 che ha il suo caposcuola in
Bentham. Secondo Bentham, i soli fatti su cui si possa far leva nel dominio
morale sono i piaceri e i dolori. La condotta dell’uomo è determinata
dall’attesa del piacere o del dolore; e questo è l’unico possibile motivo di
azione. Su questi fondamenti la scienza della morale diventa esatta come la
matematica, sebbene sia assai più intricata ed estesa (/ntroduction to the
Principles of Morals and Legislation, 1789, in Works, I, pag. V). Da questo
punto di vista, coscienza, senso morale, obbligazione morale sono concetti
fittizi o «non entità». La realtà che tali concetti celano è il calcolo dei
piaceri e dei dolori sul quale riposa il comportamento morale dell’uomo:
calcolo di cui Bentham volle stabilire i princìpi, fornendo la tavola completa
dei moventi di azione, tavola che doveva servire come guida per ogni futura
legislazione. In realtà l’opera di Bentham ispirò l’azione riformatrice del
liberalismo inglese e ancor oggi i suoi principi rimangono incorporati nella
dottrina del liberalismo politico. L’utilitarisjmo di Giacomo Mill e di
Giovanni Stuart Mill non è che la difesa, l’illustrazione delle tesi fondamentali
di Bentham. Il positivismo si ispirò allo stesso punto di vista: la morale
dell’altruismo, di cui si fece banditore Comte e che ha il suo principio nella
massima «Vivere per gli altri », è affidata anch'essa, quanto alla sua
realizzazione, a istinti simpatici che, secondo Comte, l’educazione può
sviluppare gradualmente sino a renderli predominanti sugli istinti egoisti
(Catéchisme positiviste, 1852, pag. 48). L’E. biologica di Spencer fa proprie
queste tesi. Spencer vede nella morale l’adattamento progressivo dell’uomo alle
sue condizioni di vita. Ciò che all'uomo singolo appare come dovere od
obbligazione morale è il risultato delle esperienze ripetute e accumulate
attraverso il succedersi di innumerevoli generazioni: è l’insegnamento che tali
esperienze hanno fornito all'uomo nel suo tentativo di adattarsi sempre meglio
alle sue condizioni vitali. Spencer prevede anche una fase in cui le azioni più
elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così
comuni come lo sono ora le azioni inferiori cui ci spinge il semplice
desiderio; in quella fase, perciò, l’antitesi tra egoismo e altruismo sarà
priva di senso (Data of Ethics, $ 46). Si può dire che l’E. dell’evoluzionismo
non è che l’espressione, nei termini dell’ottimismo positivistico, di quell’E.
fondata sul principio dell’autoconservazione che Telesio e Hobbes avevano
reintrodotta nel mondo moderno. Nella filosofia contemporanea questa concezione
dell’E. non ha realizzato mutamenti o progressi sostanziali. Bertrand Russell
si è limitato a riproporla nella forma più semplice e rozza, affermando che
«l’E. non contiene affermazioni vere o false, ma consiste di desideri di una
certa specie generale » (Religion and Science, 1936). Dire che qualcosa è un
bene o un valore positivo è un altro modo di dire « Mi piace »; e dire che
qualcosa è cattivo significa esprimere ugualmente un atteggiamento personale e
soggettivo. Russell ritiene tuttavia possibile influire sui propri desideri
rafforzandone alcuni e deprimendone o distruggendone altri. E ritiene pure che
ciò va fatto se si vuol mirare alla felicità o all'equilibrio della vita. Ma è
chiaro che questa posizione è contraddittoria: se l’E. non ha a che fare che
con desideri, manca ogni motivo o criterio per agata o per far prevalere sugli
altri uno di essi. andato perduto, nell’E. di Russell, uno degli aspetti
fondamentali dell’E. inglese tradizionale: l’esigenza di un calcolo di tipo
benthamiano cioè di una disciplina delle scelte fra i desideri o per meglio
dire fra le alternative possibili di condotta. Eppure proprio a questo punto di
vista così mutilato si è agganciata la concezione dell’E. prevalente nel
positivismo logico, secondo la quale i giudizi etici non fanno che esprimere «i
sentimenti di chi parla ed è perciò impossibile trovare un criterio per
determinare la loro validità » (Aver, Language, Truth and Logic, pag. 108; cfr.
STEVENSON, Ethics and Language, pag. 20). Questo non è altro ovviamente che lo
stesso punto di vista di Russell, secondo il quale l’E. ha da fare con desideri
e non con asserzioni vere o false; è un punto di vista che segna la rinuncia
alla comprensione dei fenomeni morali piuttosto che un passo qualsiasi verso
questa comprensione. Più fecondo si presenta il punto di vista di Dewey la cui
E. si collega con la nozione di valore. Dewey condivide con buona parte della
filosofia del valore (v.) la credenza che i valori siano, non solo oggettivi ma
anche semplici e perciò indefinibili; ma non condivide con essa la credenza che
siano assoluti o necessari. I valorisono, secondo Dewey, qualità immediate su
cui perciò non c’è nulla da dire; solo in virtù di un procedimento critico e
riflessivo possono essere preferiti o posposti (Theory of Valuation, 1939, pag.
13). Ma essi sono fuggitivi e precari, negativi e positivi e anche
infinitamente diversi nelle loro qualità. Di qui l’importanza della filosofia
che, come una « critica delle critiche +, ha in primo luogo lo scopo di
interpretare gli eventi per farne strumenti e mezzi della realizzazione dei
valori; ed in secondo luogo quello di rinnovare il significato dei valori
stessi (Experience and Nature, pag. 349 sgg.). Questo còmpito della filosofia è
condizionato dalla rinuncia alla credenza nella realtà necessaria e nel valore
assoluto. « Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e
immutabile può sembrare un sacrificio. Ma questa rinuncia è la condizione per
impegnarsi in una vocazione più vitale La ricerca dei valori che possono essere
assicurati e condivisi da tutti, perchè connessi ai fondamenti della vita
sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma coadiutori gli
uomini di buona volontà » (The Quest for Certainty, pag. 295). Queste
considerazioni di Dewey circoscrivono certamente il quadro in cui deve muoversi
la ricerca etica contemporanea, ma non offrono ancora a questa ricerca
strumenti efficaci. Manca ancora, nell’E. contemporanea una teoria generale
della morale che corrisponda alla teoria generale del diritto (v.) cioè una
teoria che consideri la morale come una tecnica della condotta e si applichi a
considerare le caratteristiche di questa tecnica e le modalità con cui essa si
realizza in gruppi sociali diversi. Ovviamente, una teoria generale della
morale non partirebbe da un impegno preventivo nei confronti di una determinata
tavola dei valori: il suo impegno sarebbesemplicemente quello di considerare la
costituzione delle tavole dei valori che si offrono allo studio storico e
sociologico della vita morale e di scoprire, se è possibile, le condizioni
formali o generali di tale costituzione. Ma essa potrebbe (e dovrebbe)
ampiamente utilizzare l’E. del °700 e in generale l’E. della motivazione e
presentarsi come la continuazione di tale concezione. A proposito dei rapporti
tra morale e diritto, va qui riaffermato ciò che si dice a proposito del
diritto e cioè che tali rapporti possono essere diversamente configurati, ma
mai specificati come rapporti di eterogeneità o indipendenza reciproca. L’E.,
come tecnica della condotta, sembra a prima vista più estesa del diritto come tecnica
della coesistenza. Ma se si riflette che ogni specie o forma della condotta è
una forma o specie della coesistenza, o reciprocamente, si vede sùbito come la
distinzione dei due campi sia pura materia di opportunità per delimitare
particolari problemi o gruppi di problemi o campi specifici di considerazione o
di competenza. ETICHE, VIRTÙ (gr. Oral dpetal; lat. Virtutes morales; ingl.
Ethical Virtues; franc. Vertus morales; ted. Ethische Tugenden). Sono, secondo
Aristotele, le virtù che corrispondono alla parte appetitiva dell'anima, in
quanto è moderata o guidata dalla ragione (Zf. Nic., I, 13, 1102b 16) e che
consistono nel giusto mezzo (v. MEDIETÀ) tra due estremi di cui uno è vizioso
per eccesso, l’altro per difetto (/bid., II, 6, 1107 a 1). Le virtù E. sono il
coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnanimità, la mansuetudine, la
franchezza, e infine la giustizia che è la maggiore di tutte (/bid., III-V).
Cfr. le singole voci. i ETICITÀ (ted. Sitrlichkeit). Hegel ha distinto dalla
moralità, che è la volontà soggettiva cioè individuale o privata del bene, l’E.
che è la realizzazione del bene stesso in realtà storiche o istituzionali, che
sono la famiglia, la società civile e lo Stato. L’E., dice Hegel, «è il
concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura dell’autocoscienza +
(Fil. del dir., $ 142). Le istituzioni etiche hanno una realtà superiore a
quella della natura perchè si tratta di una realtà « necessaria e interna »
(Ibid., $ 146). La più alta manifestazione dell’E., lo Stato, è Dio stesso che
è entrato nel mondo, un « Dio reale » (/bid., $ 258, Zusatz). Questa
distinzione tra moralità ed E. è stata ripetuta soltanto nell’àmbito della
scuola hegeliana. ETICO-RELIGIOSE, ANTINOMIE (tedesco Ethisch-religiose
Antinomien). Le antitesi in cui si esprime il conflitto tra il punto di vista
etico e il punto di vista religioso. Esse sono state enunciate da Nicolaj
Hartmann nel modo seguente: x 1° l’etica è radicata nell’al di qua, la
religione 368 tènde a un’esistenza che è al di là di questa; 2° l’etica si
rivolge all’uomo, la religione a Dio; 3° l’etica afferma l’autonomia dei
valori, la religione li subordina alla volontà di Dio; 4° l’etica si fonda
sulla libertà umana, la religione trasferisce ogni iniziativa a Dio (Erhik,
1926; 3* ediz., 1949, pag. 811-17). ETIOLOGIA (ingl. Etiology; franc.
Étiologie; ted. Aetiologie). La ricerca 0 determinazione delle cause di un
fenomeno. Il termine è usato quasi esclusivamente in medicina. ETNOGRAFIA
(ingl. Ethnography; francese Ethnographie; ted. Ethnographie). Lo stesso che
EtnoLOgiA. Talvolta, il primo stadio della ricerca antropologica:
l’osservazione e la descrizione, il lavoro sul campo (Lévi-STrAUSS,
Anthropologie structurale, 1958, cap. XVII). ETNOLOGIA (ingl. Ethnology; franc.
Ethnologie; ted. Ethnologie). Una delle discipline del ceppo sociologico. Essa
ha per oggetto i modi di vita di gruppi sociali ancora esistenti o dei quali
comunque si conservi un’abbondante documentazione. L’E. si dirige soprattutto a
studiare la cultura dei popoli « primitivi ». Essa non si distingue dalla
sociologia se non per l’accentuata tendenza dei suoi cultori a insistere sui
caratteri individuali dei gruppi sociali studiati e pertanto a prescindere dai
problemi sociologici generali. Lévi-Strauss considera l’E. come il primo passo,
dopo la descrizione etnografica, verso la sintesi antropologica: la sintesi
etnologica può essere geografica, storica o sistematica (Anthropologie
structurale, 1958, cap. XVID. ETOLOGIA (dal gr. 606; ingl. Ethology; francese Éthologie; ted.
Ethologie). Termine coniato da Wundt per designare lo
studio storico descrittivo dei costumi e delle rappresentazioni morali (Logik,
Il, 2, 369). E. comparata è lo studio comparativo dei comportamenti animali sia
nel loro aspetto ontogenetico che in quello filogenetico (K. LORENZ, in
Phisiological Mechanism in Animal Behaviour, 1950; N. TinBERGEN, The Study of
Istinct, 1951). ETOLOGIA (dal gr. $00g; ingl. Etho/ogy; francese Éthologie;
ted. Ethologie). Termine coniato da Stuart Mill per designare la scienza che
studia le leggi della formazione del carattere. Tali leggi deriverebbero da
quelle generali della psicologia, applicate però alle influenze che le
circostanze ambientali hanno sulla formazione del carattere. L’E. si
distinguerebbe dalla sociologia in quanto la prima sarebbe la scienza del
carattere individuale, la seconda la scienza del carattere sociale o collettivo
(Logic, VI, 5, $ 3). La parola non ha avuto fortuna, mentre è stata quasi
universalmente accettata, per designare la stessa scienza, la parola
caratterologia (v.). EUBULIA (gr. ebfovMa; lat. Eubulia). È, secondo
Aristotele, la buona deliberazione cioè il corretto giudizio sulla rispondenza
dei mezzi al fine. Il deliberare bene è proprio dei saggi e la saggezza
costituisce appunto il giudizio vero intorno alla rispondenza dei mezzi al fine
(Er. Nic., VI, 9, 1142 b 5). Nello stesso senso la definisce S. Tommaso (S.
7h., I, II, q. 57, a. 6). EUCOSMIA (gr. eòxoo pla). Comportamento ordinato,
buona condotta (cfr. ARIST., Po/.,IV,1299b 16). EUCRASIA (gr. eòxpuota).
Temperamento. Propriamente, giusta mescolanza degli elementi che compongono il
corpo (ARIST., De part. an., 673 b 25; GALENO, VI, 31, ecc.). EUDEMONIA. V.
FELICITÀ. EUDEMONISMO (ingl. Eudemonism; francese Eudémonisme; ted.
Eudamonismus). Ogni dottrina che assume la felicità come principio e fondamento
della vita morale. Sono eudemonistiche in questo senso l’etica di Aristotele,
l’etica degli Stoici e dei Neoplatonici, l’etica dell’empirismo inglese e
dell’Illuminismo. Kant ritiene che l’E. sia il punto di vista dell’egoismo (v.)
morale, cioè della dottrina « di chi restringe tutti i fini a se stesso e non
vede nessun utile fuori di ciò che giova a lui » (Antr., I, $ 2). Ma questo
concetto dell’E. è troppo ristretto perchè nel mondo moderno, a partire da
Hume, la nozione di felicità ha un significato sociale, quindi non coincide con
egoismo od egocentrismo (v. FELICITÀ). EUNOMIA (gr. ebvopia). Il «buon ordine
umano » contrapposto alla Aybris cioè all’atteggiamento di chi disconosce i
limiti degli uomini e il posto subordinato che essi hanno nel mondo (PLAT.,
Sof., 216 b). EUPRASSIA (gr. eòrpabla). Il comportarsi bene cioè ordinatamente
o secondo le leggi. Senofonte designa con questa parola l’ideale morale di
Socrate (Mem., III, 9, 14). Aristotele adopera la stessa parola in opposizione
a disprassia che indica la condotta disordinata (Et. Nic., VI, 5, 1140 b 7).
EURISTICA. Parola moderna coniata dal verbo greco ebploxw = trovo: ricerca o
arte della ricerca. Diversa da Eristica (v.). EUTASSIA (gr. eòvatta). La
condotta bene ordinata o conforme all’ordine cosmico. È un concetto stoico
(Stoicorum Fragmenta, III, 64), che Cicerone si è fermato ad illustrare (De
Officis, I, 40, 142). EUTIMIA (gr. eòtvula; lat. Tranquillitas). Era il titolo
di una delle opere di Democrito e significava la soddisfazione tranquilla,
diversa dal piacere, che consiste nell’assenza di timori, di superstizioni e di
emozioni (Dio. L., IX, 45). I latini tradussero il termine con tranquillitas
(SENECA, De tranquillitate animi, II, 3). EVANGELO ETERNO (lat. Evangelium
aeternum). Origene adoperò questa espressione per designare la rivelazione
delle verità più alte che Dio fa ai sapienti in tutte le epoche del mondo e che
è in grado di integrare e correggere la rivelazione contenuta nell’E. storico
(De princ., IV, 1; InJohann., 1,7). EVEMERISMO (ingl. Euhemerism; francese
Evhémérisme; ted. Evhemerismus). La dottrina di Euevemero o Evemero di Messina
(sec. rv-II1 a. C.), autore di una Sacra Scrittura tradotta in latino da Ennio,
nella quale si voleva dimostrare che gli dèi sono uomini coraggiosi o illustri
o potenti divinizzati dopo la morte (CiceR., De nat. deor., I, 119). EVENTO
(ingl. Event; franc. Événement; tedesco Geschehen). Nella fisica contemporanea,
una porzione del continuo spazio-temporale. In questo senso, una cosa, per es.,
un corpo, è un evento. Il concetto fu chiarito da Einstein nel 1916 (Teoria
spec. e gen. della relatività, $ 27). Da allora è apparso come un concetto
fondamentale della fisica: l’E. è, propriamente parlando, l’oggetto specifico
della fisica, quello a cui si riferiscono i suoi mezzi di osservazione: esso è
caratterizzato dalle tre coordinate spaziali e dalla coordinata temporale. « Il
mondo degli E. può venir descritto dinamicamente mediante una imagine che muti
col tempo, prospettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche
venir descritto mediante un’imagine statica, proiettata sullo sfondo del
continuo spazio temporale a quattro dimensioni. Dal punto di vista della fisica
classica, le due imagini, la dinamica e la statica, sono equivalenti. Ma dal
punto di vista della relatività, l’imagine statica è più conveniente e più
obiettiva » (EINSTEIN-INFELD, Evolution of Physics, III; trad. ital., pag.
218). Generalizzando il concetto di Einstein, Whitehead ha parlato di «E.
puntiformi» che sono quelli che possiedono una posizione l’uno rispetto
all’altro. Tali E. entrerebbero a costituire i punti di un sistema
spazio-temporale. Ogni sistema avrebbe un particolare gruppo di punti propri
cioè una propria definizione della « posizione assoluta » (Concept of Nature,
1920, cap. 5). Queste notazioni si riferiscono al tentativo di Whitehead di
tradurre la fisica contemporanea in una metafisica evoluzionistica. Dal suo
canto P. W. Bridgmann ha messo in dubbio l’importanza della nozione di E., non
ritenendo che tutti i risultati delle misure fisiche possano essere espressi in
termini di coincidenze spazio-temporali. Per es., egli nota, la differenza fra
un elettrone negativo e uno positivo non è contemplata nella specificazione
delle coordinate (Logic of Modern Physics, 1927, cap. III; trad. ital., pag.
153). Ma nonostante queste riserve, il concetto di evento continua ad avere
un’importanza fondamentale nella fisica contemporanea ed essere considerato dai
fisici come la migliore caratterizzazione dell’oggetto proprio di essa.
EVIDENZA (gr. &vépyew; lat. Evidentia; inglese Evidence; franc. Évidence;
ted. Evidenz). Il presentarsi o manifestarsi di un oggetto qualsiasi 24 — come
tale. Così intendevano l’E. gli antichi, e specialmente gli Epicurei e gli
Stoici che l’assumevano come criterio di verità. Gli Epicurei identificavano
l’E. con l’azione stessa degli oggetti sugli organi di senso (Dioc. L., X, 52).
Gli Stoici intendevano per E. il presentarsi o darsi delle cose ai sensi o
all’intelligenza, in modo che esse risultino s comprese » (Sesto E., /p. Pirr.,
II, 7). La rappresentazione catalettica (v.) è appunto la rappresentazione
evidente. Da questo punto di vista l’E. non è un fatto soggettivo ma oggettivo:
non è legata alla chiarezza e distinzione delle idee, ma al presentarsi e
manifestarsi dell’oggetto (quale che sia). Sicchè gli stessi Scettici non
rifiutano ciò che si presenta come evidente, per quanto evitino l’asserzione
relativa (Sesto E., /pot. Pirr., II, 10). Cartesio ha invece dato luogo al
concetto soggettivo dell’evidenza. La «regola dell’E.», che egli espone nel
Discorso prescrive «di non accettare mai alcuna cosa per vera a meno che non la
si riconosca evidentemente per tale; cioè di evitare diligentemente la
precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei propri giudizi se non
ciò che si presenta così chiaramente e distintamente al proprio spirito, da non
aver alcuna occasione di metterlo in dubbio» (Disc., II). In questa regola l’E.
è stata ridotta alla chiarezza e distinzione (v.) delle idee e i problemi
relativi si sono spostati dal dominio dell’oggetto al dominio dell'idea,
ripresentandosi però in quest’ultimo come problemi oggettivi. Cartesio stesso
aveva (soprattutto nelle Regole per la direzione dello spirito) collegato l’E.
con la facoltà dell’intuizione: con la quale parola aveva inteso, non già la
testimonianza dei sensi o il giudizio dell’imaginazione, ma «la concezione
ferma di uno spirito puro e attento, che nasce dalla sola luce della ragione e
che, essendo più semplice, è anche più sicura della deduzione » (Regulae ad
directionem ingenii, III). L’E. sarebbe così il carattere dell’intuizione e
costituirebbe la certezza propria di quest’ultima; allo stesso modo che la
necessità razionale costituisce la certezza della deduzione. Questi concetti
hanno dominato buona parte della filosofia moderna; anche perchè sono stati
accettati sia da Locke, che fa dipendere dall’intuizione dell'accordo o del
disaccordo tra le idee « tutta la certezza e l’E. della nostra conoscenza »
(Saggio, IV, 2, 1); sia da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 11, 10). Il carattere
soggettivo dell’E. e la sua connessione con una facoltà umana più o meno
misteriosa e miracolosa detta intuizione, sono rimasti in tutta la filosofia
moderna; e soltanto la filosofia contemporanea ha mostrato di ritornare
all’antico concetto dell’E. oggettiva. La critica dell’E. come «una mistica
voce che da un mondo migliore ci gridi: qui è la verità!» 370 è stata fatta da
Husserl; il quale ha trovato per l’E. la definizione di « riempimento
dell’intenzione ». Questa significa che l’E. si ha quando l’intenzione della
coscienza, diretta ad un oggetto, viene riempita dalle determinazioni per cui
l’oggetto stesso si individua, si definisce e da ultimo appare presente alla
coscienza stessa in carne ed ossa (Logische Untersuchungen, II, $ 39; Ideen, I,
$ 145; Erfahrung und Urteil, pag. 12). Di conseguenza per tutta la filosofia
contemporanea che si ispira alla fenomenologia, l’E. ha riacquistato il suo
carattere oggettivistico, tornando a designare il presentarsi o manifestarsi di
un oggetto come tale, qualunque sia l’oggetto e quali che siano i metodi con
cui s'intende certificare o garantire la sua presenza o manifestazione. In
questo senso Scheler ha parlato di «E. preferenziale» per indicare quei
rapporti gerarchici oggettivi dei valori che guidano e suggeriscono le scelte
umane (Formalismus, pag. 87). Nello stesso senso si dicono talvolta evidenti
proposizioni analitiche o tautologiche la cui verità risulta dai loro stessi
termini, come, ad es., «Il triangolo ha tre lati ». EVOLUZIONE (ingl.
Evolution; franc. Évolution; ted. Evolution). La parola conserva ancora il suo
senso generico di sviluppo (v.); ma più spesso è adoperata a designare una
particolare dottrina che si chiama «teoria dell’E.». Ora con questa espressione
si possono intendere due cose diverse: 1° la teoria biologica della
trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra: che è l’ipotesi
fondamentale delle discipline biologiche da un secolo a questa parte; 2° la
teoria metafisica dello sviluppo progressivo dell’universo nella sua totalità:
che è un’ipotesi ammessa o presupposta da molte dottrine filosofiche moderne e
contemporanee. Per quanto questi due significati abbiano storicamente agito
l’uno sull’altro, è opportuno tenerli distinti. Per il secondo, v. la voce
EVOLUZIONISMO. Il termine E. è stato probabilmente introdotto da Spencer nel
suo saggio sul Progresso del 1857; ma la parola stessa, come il concetto, non
avrebbero avuto la fortuna che hanno avuto senza i successi del trasformismo
biologico, che si iniziarono con l’Origine delle specie di Carlo Darwin (1859).
L’opera di Darwin (come è anche dimostrato dal suo successo senza precedenti)
era, da un certo punto di vista, piuttosto una conclusione che un principio: la
conclusione di un lungo lavoro di ricerche e di vari tentativi di
generalizzazione. La dottrina tradizionale dell’immutabilità (o fissità) delle
specie viventi era stata il riflesso, nel dominio biologico, della dottrina
della sostanza (v.) cioè della dottrina della necessità della struttura
ontologica del mondo. Questa dottrina fu fatta prevalere da Aristotele nel
mondo della filosofia e della scienza antica e EVOLUZIONE medievale; e si
spiega così perchè l’ipotesi di una trasformazione della specie, affacciata,
sia pure in forma fantastica, da Anassimandro (Ps. PLUT., Strom., 2) e da
Empedocle (Fr., 56-61, Diels) non abbia lasciato traccia. Tutte le forme
sostanziali sono, secondo la metafisica aristotelica, immutabili perchè
necessarie: il che vuol dire che non possono essere nè create nè distrutte.
Come forme sostanziali, le specie viventi condividono tali caratteristiche.
Questo principio aristotelico, con la sola correzione della creazione da parte
di Dio, ha costituito per molti secoli l’impalcatura generale della ricerca
filosofica e scientifica. Soltanto a partire dagli inizi del sec. xvi alcuni
naturalisti cominciarono a considerare la possibilità della trasformazione
delle specie biologiche. Ipoteticamente ammetteva questa possibilità Buffon,
che pur si dichiarava esplicitamente partigiano della fissità della specie
(Histoire naturelle, 1749-1804). Dallo stesso Buffon, Kant trasse probabilmente
l’ispirazione per l’ipotesi, da lui prospettata (nel 1790) nella Critica del
giudizio ($ 80), di una «reale parentela » delle forme viventi e di una loro
derivazione da una « madre comune », nonchè di uno sviluppo continuo della
natura dalla nebulosità primitiva agli uomini. Queste tuttavia erano solo
intuizioni generiche, non suffragate da un sistema coordinato di osservazioni.
Il primo a prospettare in forma scientifica la dottrina del trasformismo
biologico fu Gian Battista Lamarck nella sua Philosophie zoologique (1809):
egli tuttavia fondava l’E. degli organismi sulle differenze prodotte in questi
dall’uso maggiore o minore degli organi: differenze che si sarebbero poi
fissate con l’eredità. Si sa oggi che i mutamenti che nascono dalle abitudini
non possono essere ereditati; pertanto il merito di Lamarck non è quello di
aver scoperto il principio dell’E. ma quello di aver insistito sulla dottrina
generale e su qualche aspetto importante di essa, come quello dell’adattamento
all’ambiente. Soltanto l’Origine delle specie (1859) di Carlo Darwin ha fondato
la moderna teoria dell’E. biologica. La teoria di Darwin ammette due ordini di
fatti: 1° l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli
esseri viventi a intervalli irregolari di tempo; variazioni che in parte, per
la legge della probabilità, sono vantaggiose agli individui che le presentano;
2° la lotta per la vita che si verifica tra gli individui viventi, per la
tendenza di ogni specie a moltiplicarsi secondo una progressione geometrica.
Quest'ultimo presupposto era suggerito a Darwin dalla dottrina di Malthus
(Essay on Population, 1798). Da questi due ordini di fatti segue che gli
individui presso i quali si manifestino mutamenti organici vantaggiosi hanno
maggiori probabilità di sopravvivere nella lotta per la vita; e in virtù del
principio EVOLUZIONE 371 di eredità ci sarà in essi un’accentuata tendenza a
lasciare in eredità ai loro discendenti i caratteri accidentali. Questa è la
/egge della selezione naturale che Darwin ritenne come la principale molla
dell’E. (Or. delle specie, IV, 18). Mentre la teoria di Darwin da un lato
subiva gli attacchi dei partigiani della vecchia metafisica, dall’altro veniva
estesa e generalizzata in una teoria dell’E. cosmica, nuove ipotesi, in
contrasto col principio della selezione naturale, venivano presentate circa il
come l’E. avrebbe luogo. Da un lato i neo-lamarkiani (fra i quali specialmente
il francese Giard [1846-1908] e l’americano Cope [1840-97] insistettero sulla
relazione dell’organismo all'ambiente, attribuendo a questa relazione la
capacità di produrre le novità organiche che sarebbero poi trasmesse con
l’eredità. Dall'altro lato i neo-darwiniani, che si raccolsero specialmente
intorno al biologo tedesco Weissmann (1834-1914), insistettero sull’importanza
della selezione naturale come unico principio dell’evoluzione. Entrambi questi
indirizzi, nello sforzo di dimostrare la loro tesi, produssero fatti e
osservazioni nuove in favore della teoria generale dell’E.; ma nessuno di essi
riuscì, si può dire, a dimostrare la falsità della tesi dell’altro. Che l’adattamento
all’ambiente (tesi dei lamarkiani) e la selezione naturale (tesi dei
darwiniani) abbiano funzioni importantissime nell’E. della vita, risulta ormai
certo; ciò che non risulta è che l’uno porti alla esclusione dell’altra. In
questa incertezza, si sono inserite le nuove forme del vitalismo (v.) cioè
della dottrina che, ritenendo la vita non spiegabile in linea di principio con
fattori fisico-chimici, riconosce a fondamento di essa un principio spirituale
che agisca finalisticamente. Il vitalismo insiste su quello che sembra un
carattere fondamentale dell’E. biologica: il finalismo. Il finalismo, che è
strettamente collegato con la dottrina della struttura sostanziale del mondo
cioè con la metafisica aristotelica, è la parte più dura a morire di questa
metafisica. Il suo campo privilegiato è, come già notava Kant, proprio quello
dei fenomeni vitali. Questi fenomeni non sembrano verificarsi a caso. Anche
quando De Vries osservò la subitanea e casuale apparenza di nuove varietà di
piante e assunse questo fatto come la base reale dell’E. (Teoria delle
mutazioni, 1901), il carattere casuale e arbitrario dell’intero processo
evolutivo sembrò difficile a difendersi. Da questa difficoltà hanno attinto la
loro forza le teorie vitalistiche. La più famosa fra tali teorie nel mondo
contemporaneo è quella di Bergson, che attribuisce l’E. allo slancio vitale
cioè ad una grande corrente di coscienza che è lanciata nella materia e ténde a
dominarla, riuscendovi meglio in una direzione, peggio in un’altra, e
progredendo soprattutto nelle due direzioni fondamentali dell’istinto degli
artropodi e dell’intelligenza dell’uomo (Év. créatrice, 1907). Ma la teoria
bergsoniana dell’E., per quanto rigetti l’idea di un piano totale predisposto o
predeterminato (che sarebbe, dice Bergson, «un meccanismo rovesciato +) è
ancora finalistica e soggiace alla stessa obiezione che Bergson stesso fa al
vitalismo: di assumere a principio di spiegazione la ignoranza della
spiegazione. Come ha notato Huxley, attribuire l’E. a un é/an vital non spiega
la storia della vita più che attribuire il movimento di una macchina a vapore
ad un é/an locomotifnon spieghi il funzionamento della macchina stessa. Il
ricorso a un termine metafisico, che non fa che coprire una zona di ignoranza
mascherandola come sapere e quindi distogliendo o scoraggiando la ricerca
positiva diretta a diminuirla, è anche evidente nelle altre forme del vitalismo
contemporaneo. Così Driesch ricorre all’entelechia, un vecchio concetto
aristotelico, cui attribuisce la funzione direttiva nella costruzione
dell'organismo (Philosophie des Organischen, 1908-09). Gli studi di genetica
(v.) hanno avviato la teoria dell’E. su un terreno positivo di ricerche. La
teoria stessa è diventata il quadro complessivo degli strumenti e delle direzioni
possibili della ricerca biologica, evitando la dogmatizzazione di princìpi
parzialmente provati, che era stata la caratteristica della fase precedente. I
capisaldi della odierna teoria dell’E. possono essere così ricapitolati: 1° La
separazione dell’idea dell’E. dall’idea di progresso. L’E. non è
necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e
costante. Quale che sia il criterio che si scelga per giudicare il corso
dell’E., si troverà che la storia della vita fornisce esempi non solo di
progressi, rispetto a questo criterio, ma anche di regressi e di degenerazioni.
Huxley ha suggerito come criterio obiettivo di progresso quello della
dominazione successiva di un gruppo biologico: criterio che porterebbe a
costituire una successione di età: « Età degli invertebrati +, « Età dei pesci
+, « Età degli anfibi », « Età dei rettili», « Età dei mammiferi», ed «Età
dell’uomo » (E., The Modern Synthesis, 1942). Ma anche questa successione di
età non è del tutto oggettiva perchè è ovviamente suggerita dal criterio
dell’approssimazione all’uomo. Altre linee di progresso possono essere definite
in base all’espansione vitale o all’'adattamento all’ambiente: criteri che
suggeriscono l’ordinamento delle specie animali secondo la misura in cui esse realizzano
meglio l’una o l’altra di queste due cose. Un altro criterio che i biologi
adoperano spesso è la cosiddetta legge di Willinston secondo la quale « le
parti di un organismo tendono a ridursi nel loro numero e a specializzarsi
nella loro funzione» cioè tendono verso la semplificazione più che verso la
compli372 cazione. Altri indicano come criterio l’energia generale
dell’organismo o il livello del processo vitale (SEWERTZOFF, Morphologische
Gesetzmdssigkeiten der E., 1931). Ognuno di questi criteri porta a costruire un
ordine determinato delle specie viventi, o dei loro maggiori gruppi, ordine
coincidente solo parzialmente e occasionalmente con quelli risultanti dagli
altri criteri. 2° L'esigenza che i fattori invocati a spiegare l’E. spieghino non
solo ciò che avviene a disegno nell’organizzazione della vita ma anche ciò che
avviene a caso, non solo l’adattamento ma anche la mancanza di adattamento e in
generale non solo gli aspetti favorevoli e progressivi delle trasformazioni
vitali ma anche quelli sfavorevoli e negativi. La prima conseguenza di questo
punto di vista è il riconoscimento che è inutile e scientificamente illegittimo
privilegiare un fattore evolutivo, per es., la selezione naturale e
considerarlo come l’unico e fondamentale secondo quanto hanno fatto i
neodarwinisti. La seconda conseguenza è l’abbandono completo del punto di vista
finalistico, che esige la presenza di uno scopo finale nell’E. (cfr., per es.,
J. B. S. HALDANE, The Causes of E., 1932). 3° L'eliminazione di ogni pregiudizio
necessitaristico nella considerazione del ciclo vitale delle specie biologiche:
la loro nascita, sviluppo e morte non obbedisce a schemi prestabiliti e tanto
meno si modella sul ciclo dell'organismo singolo. Normalmente, un tipo di
organizzazione persiste fino a quando i suoi rapporti di adattamento
all’ambiente continuano ad essere possibili. Talvolta, la stessa specificità
dell'adattamento produce l’estinzione, giacchè rende l’organismo inadatto ad
affrontare i mutamenti dell’ambiente di portata maggiore dell’usuale. In questo
caso, ovviamente, la estinzione del gruppo è provocata dalla stessa tendenza
all’adattamento, che è un fattore di sopravvivenza. 4° Finalente — ed è la
caratteristica più importante della teoria generale dell'’E. — l’uso della nozione
di possibilità consente di evitare le dogmatizzazioni presentate dalle
alternative: ordinedisordine, fine-caso e così via. La vita tende a sfruttare
le possibilità che le sono offerte. Qualche scienziato ha considerato
l’incremento della somma totale della materia vivente nel mondo come la
principale legge dell’E. (A. J. Lorka, in Human Biology, 1945, pag. 167 sgg.).
Ciò vuol dire che la vita sembra appigliarsi a tutte le possibilità
disponibili. Simpson parla a questo proposito della « natura essenzialmente
opportunistica del processo dell’E. » (The Meaning of Evolution, 1949, cap.
12). Tuttavia neanche nello sfruttamento delle opportunità che gli si offrono,
tale processo appare perfettamente sistematico. Opportunità evidenti non
sonostate sfruttate e gli intervalli fra le specie viventi non sempre sono
stati riempiti. « La regola che tutte le opportunità della vita tendono a
essere utilizzate non è senza eccezioni. L’estinzione dei dinosauri precedette
di molto la rioccupazione di molti dei loro modi di vita da parte dei mammiferi
e non pare che tutti siano stati ancora rioccupati. Gli ittiosauri furono
estinti per molti milioni di anni prima che i delfini e i loro parenti abbiano
afferrato questa opportunità. Non vi è ragione evidente per la quale il modo di
vita degli ammoniti, untempo così numerosi, non possa essere ora seguito da
gruppi ugualmente abbondanti ma che invano si cercherebbero oggi nel mare. Si
sono estinti molti tipi che hanno lasciato aperto un modo di vita,
un'opportunità che nonèstataimmediatamente afferrata perchè nessun altro gruppo
ha una base strutturale o una riserva di mutazioni appropriate al cambiamento»
(/bid., pag. 185-86). Tuttavia il numero altissimo delle possibilità utilizzate
spiega i prodotti più riusciti e complessi dell’E.: per es., fra le
innumerevoli risoluzioni del problema della fotoricezione due soluzioni
riuscirono meglio: l’occhio dell’octopus (che è un mollusco) e quello
dell'uomo. Ma anche gli altri funzionano benissimo al loro proprio livello.
Questo dimostra che la complessità di un organo non è stata progettata in
anticipo come un piano da realizzare ma è il prodotto dello sfruttamento di
possibilità favorevoli che si sono presentate. S° Le caratteristiche specifiche
dei fenomeni vitali non vengono ignorate o trascurate dalla teoria dell’E.; ma
tuttavia non vengono assunte come fon-damento per affermare la tesi della «
irriducibilità » o della «originalità» della vita. Tale tesi infatti
sconsiglierebbe dal continuare a sottoporre i fenomeni della vita agli strumenti
oggettivi di indagine di cui la scienza dispone e per conseguenza fermerebbe la
ricerca biologica. Questa pertanto utilizza gli strumenti a sua disposizione e
ritiene «spiegato » solo ciò che può essere raggiunto con l’aiuto di tali
strumenti. È questo un materialismo metodico che ha poco o nulla a che fare
colmaterialismo dottrinale dell’800 (v. GENETICA; VITA; VITALISMO).
EVOLUZIONISMO (ingl. Evolutionism; francese Évolutionnisme; ted.
Evolutionismus). Con questo termine bisogna intendere non già la teoria
generale dell'evoluzione come quadro fondamentale delle ricerche biologiche
(per la quale v. EVOLUZIONE), ma il complesso delle dottrine filosofiche che
vedono nell’evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e
perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo complesso. L’E. è in
altri termini una dottrina metafisica, concernente la realtà come un tutto; e
per quanto si avvalga dello ipotesi e dei risultati della teoria biologica
dell'evoluzione, la sua tesi va molto al di là di tutto ciò che ogni possibile
teoria scientifica può legittimamente convalidare. In questo senso, l’E. è
stato assunto come schema fondamentale di molte metafisiche, sia
materialistiche sia spiritualistiche. Il tratto fondamentale che queste metafisiche
scorgono nell'evoluzione è il progresso. Per esse, evoluzione significa
essenzialmente progresso. Così fu certamente per Spencer che iniziò la serie
delle metafisiche evoluzionistiche con un saggio pubblicato nel 1857 col titolo
Progresso. Il progresso investe, secondo Spencer tutti gli aspetti della
realtà. « Sia che si tratti, egli dice nel saggio citato, dello sviluppo della
Terra, sia che si tratti dello sviluppo della vita alla sua superficie o dello
sviluppo della società o del governo o dell’industria o del commercio o del
linguaggio o della letteratura o della scienza o dell’arte, sempre in fondo ad
ogni progresso è la stessa evoluzione che va dal semplice al complesso
attraverso differenziazioni successive». Nei Primi principi Spencer dava dell’evoluzione
questa definizione: «L'evoluzione è una integrazione di materia e una
concomitante dissipazione di movimento; durante la quale la materia passa da
una omogeneità indefinita e incoerente ad una eterogeneità definita e coerente;
e durante la quale il movimento conservato soggiace ad una trasformazione
parallela » (First Principles, $ 145). Questa determinazione dell’evoluzione
come passaggio dall'omogeneo indifferenziato all’eterogeneo differenziato era
indubbiamente suggerita a Spencer dall’evoluzione biologica, che sembra andare
dall’ameba agli organismi superiori. Il senso generale dell’evoluzione è
ottimistico, secondo Spencer. La evoluzione è un progresso e per di più un
progresso necessario che, per ciò che riguarda l’uomo, terminerà soltanto con
«la più grande perfezione e la più completa felicità » (/bid., $ 176). A
differenza di ciò che è accaduto nella teoria dell’evoluzione biologica, la
quale ha ben presto svincolato la nozione di evoluzione da quella di progresso,
nell’E. filosofico il senso ottimistico e necessaristico della nozione di
progresso continua per molto tempo a costituire il tratto fondamentale
dell’evoluzione. Sia l’E. materialistico sia lE. spiritualistico condividono
questo tratto. Nessuno di questi indirizzi riesce ad una rielaborazione del
concetto in questione. Quando Ardigò definisce l'evoluzione come « il passaggio
dall’indistinto al distinto » (Opere, 1884, II, pag. 350) assumendo perciò come
modello evolutivo lo sviluppo psichico anzichè quello biologico, i tratti formali
dell'evoluzione non sono mutati: essa è sempre, e soltanto, progresso
universale necessario. L’E. materialistico trovò nel biologo tedesco Ernesto
Haeckel il suo maggiore rappresentante. Gli Enigmi del mondo (1899)
costituirono per i primi decenni del nostro secolo il catechismo di questo
materialismo, che vedeva in tutte le forme della realtà gradi di evoluzione,
progressivamente ordinati, della materia. Dall’altro canto, l’E.
spiritualistico, che vede nelle varie forme della realtà gradi di sviluppo di
un principio spirituale, si iniziò con Guglielmo Wundt, che riconobbe questo
principio spirituale nella volontà (System der Phil., 1889). Un pensiero
analogo ispirava l’opera del francese Alfredo Fouillée il quale vedeva
nell’idea-forza il substrato dell’evoluzione (L’E. des idées-forces, 1890). Ma
indubbiamente la più notevole manifestazione dell’E. spiritualistico è la
dottrina di Bergsoe ha visto nell’evoluzione il prodotto di uno slancio vitale
che è coscienza, libertà e creazione (Évolution créatrice, 1907). In un senso
analogo C. Lloyd Morgan parlò di Evoluzione emergente (1923): intendendo che
ogni fase dell'evoluzione non è la semplice risultante meccanica delle fasi
precedenti, ma contiene un elemento nuovo che denuncia il carattere progressivo
e creativo della evoluzione stessa. Ma il concetto dell’evoluzione come
progresso costituisce anche lo sfondo o il presupposto di altre dottrine che
tuttavia non assumono l’evoluzione come tema fondamentale delle loro
elaborazioni. Così la nozione di evoluzione emergente è assunta da Alexander
nel suo libro Spazio, Tempo e Deità (1920) per spiegare lo sviluppo complessivo
della realtà di cui spazio e tempo (che stanno tra loro come materia e spirito)
sarebbero la sostanza. E il concetto di processo assunto come fondamentale da
Whitehead (Process and Reality, 1929) non è che lo stesso concetto di
evoluzione, contaminato col concetto hegeliano di divenire; mentre l’evoluzione
in senso naturalistico è lo sfondo di tutta l’opera di Santayana (cfr. specialmente
il Realm of Mind, 1940). Questi richiami devono essere considerati solo come
esemplificativi della vastissima diffusione che l’E. ha avuto nel dominio della
filosofia moderna e contemporanea, e quindi in tutte le forme della vita
intellettuale. La credenza che la realtà è un processo unico, continuativo, e
necessariamente progressivo si legge fra le righe di dottrine filosofiche
disparatissime ed ha potentemente influenzato l’impostazione di ricerche
storiche, sociologiche, morali, ecc. Questa credenza tuttavia non è suffragata
da nulla; e nell'unico dominio in cui una teoria dell'evoluzione è suffragata
da prove di fatto, cioè nel dominio biologico, l’evoluzione ha perso proprio i
caratteri che i filosofi hanno dimostrato di apprezzare maggiormente in essa:
l’unità, la continuità, la necessità e il progresso. Nessuno di tali caratteri
viene oggi assunto 374 nel contesto dell'evoluzione biologica. Pertanto
l’ipotesi che la realtà costituisca un processo fornito di tali caratteri non
trova riscontro nel sapere scientifico ed è da considerarsi come una pura
ipotesi metafisica, al di là di ogni possibile, sia pure indiretta, verifica.
Quest'ipotesi tuttavia continua a riscuotere un certo successo presso
scienziati-filosofi. Così Teilhard de Chardin ha riconosciuto nell’evoluzione
il postulato generale al quale ogni teoria o ipotesi o sistema deve adeguarsi;
e conseguentemente ha considerato l’evoluzione della sostanza vivente sparsa
sulla terra come quella di un solo gigantesco organismo. Il termine finale dell’evoluzione
sarebbe allora un « Punto Omega?» e cioè una « Super Coscienza universale »
formata da una pluralità unificata di pensieri individuali che si combinano e
si rafforzano nell’atto di un Pensiero EX PRAECOGNITIS ET PRAECONCESSIS unanime
(Le phenomène humaine, 1955). Il carattere metafisico dell'evoluzione è
evidente in questa e simili speculazioni. EX PRAECOGNITIS ET PRAECONCESSIS.
Formula con cui s’abbrevia il principio esposto da Aristotele agli inizi degli
Analitici posteriori: « Ogni dottrina e ogni disciplina discorsiva nasce da una
conoscenza preesistente » (An. Post., I, 1, 7la 1). Boezio sottolineava
l’importanza di questa massima (P. L., 64°, col. 741) che diveniva un luogo
comune della scolastica. Locke riteneva fallace la massima, convinto com’era
che il fondamento della conoscenza sia la conoscenza intuitiva (Saggio, IV, 2,
8). Ma Leibniz rivendicava, contro Locke la validità della massima, in quanto
esprime il procedimento delle matematiche (Nouv. Ess., IV, 2, 8).
EXTRAPOLAZIONE. V. ESTRAPOLAZIONE. F F. Nella Logica medievale, i sillogismi i
cui nomi mnemonici cominciano con questa lettera, sono riducibili al quarto
modo della prima figura (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20).FABBRICAZIONE
(franc. Fabrication). L’attività propria dell’intelligenza, secondo Bergson.
Questa è infatti «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare
utensili per fare altri utensili, e di variarne indefinitamente la F. +». Da
questo punto di vista, la vera definizione dell’uomo non è Homo sapiens ma Homo
faber (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 151; Pensée et Mouvant, 3* ediz.,
1934, pag. 97). FABULAZIONE (franc. Fabulation). Bergson ha così chiamata la
facoltà o l’atto creatore di finzioni o superstizioni, nel quale consiste
essenzialmente la religione statica: che cerca, appunto mediante finzioni più o
meno consolanti, di difendere la vita contro il potere disgregatore
dell’intelligenza (Deux Sources, cap. Il). FACOLTÀ (gr. duyîic eidoc o pépiov;
lat. Facultas; ingl. Faculty; franc. Faculté; ted. Vermògen). 1. S'intendono
con questo nome i poteri dell’anima cioè le specie o parti in cui si possono
classificare e dividere le sue attività o i princìpi cui tali attività sono
attribuite. La distinzione fra i poteri dell’anima, c pertanto la nozione stessa
di potere in quanto riferita all'anima, nascono dall’ovvia considerazione della
diversità delle operazioni che si attribuiscono all’anima stessa e dal fatto
che tali operazioni possono venire in contrasto fra loro.Proprio su questo
fondamento Platone distinse tre poteri, che egli chiamava specie (et3n, Rep.,
IV, 440 e) dell’anima: il potere razionale che è quello per cui l’anima ragiona
e domina gl’impulsi corporei; il potere concupiscibile o irrazionale che è
quello appunto che presiede agli impulsi, ai desideri, ai bisogni e concerne il
corpo; e il potere irascibile che è un ausiliario del principio razionale e si
sdegna e lotta per ciò che la ragione ritiene giusto (Rep., IV, 439-40).
Aristotele distinse invece: a) la parte (uéprov) vegetativa che è la potenza
nutritiva e riproduttiva propria di tutti gli esseri viventi a cominciare
dall’uomo; 5) la parte sensitiva che comprende la sensibilità e il movimento ed
è propria dell’animale; c) la parte intellettiva (dianoetica), che è propria
dell’uomo. Il principio più elevato può far le veci di quelli inferiori, ma non
viceversa. Così nell’uomo l’anima intellettiva compie anche le funzioni che
negli animali sono compiute dall’anima sensitiva e nelle piante da quella
vegetativa (De an., II, 2, 413 a 30 sgg.). A sua volta il principio dianoetico
o anima intellettiva si divide in due parti che sono rispettivamente la parte
appetitiva o pratica (la volontà) e la parte intellettiva o contemplativa
(l’intelletto) (/bid., III, X, 433a 14; Et. Nic., VI, 1, 1139a 3; Pol., 1133
a).Questa partizione aristotelica doveva rimanere, per lunghi secoli, la più
accettata e diffusa. Gli Stoici tuttavia ne avevano proposta un’altra,
consistente di quattro princìpi: a) il principio direttivo o egemonico che è la
ragione; 5) i sensi; c) il seme o principio spermatico; d) il linguaggio (Dio.
L., VII, 157; Sesro E., Adv. Math., IX, 102). Nella filosofia medievale la
partizione aristotelica, che finisce col prevalere sul finire della Scolastica,
e che è ripetuta da molti pensatori (per es., da Alberto Magno, S. Tommaso,
Duns Scoto, Ockham) s’intreccia con quel tipo di partizione che era stato
inaugurato da S. Agostino e che consiste nel ritenere le parti dell'anima
modellate sulla Trinità divina. S. Agostino aveva infatti distinto tre facoltà
dell’anima, memoria, intelligenza e volontà, corrispondenti alle tre persone
della Trinità definite 376 rispettivamente come Essere, Verità e Amore (De
trin., X, 18). Questa partizione o partizioni analoghe, s'incontrano
frequentemente nella Scolastica (è ripetuta, per es., da S. AnseLMO, Monol.,
67). Da Cartesio in poi la sola partizione ammessa fu quella che Aristotele
aveva riconosciuta propria dell'anima intellettiva o dianoetica, tra volontà (o
appetizione o desiderio) ed intelletto vero e proprio: cioè la partizione
fondata sull’uso pratico e sull’uso teoretico della ragione. Per Cartesio
infatti l’anima è soltanto l’anima «razionale » giacchè le funzioni vegetativa
e sensitiva non appartengono nè all’anima razionale nè ad altra specie di anima
in quanto sono funzioni meccaniche, che vengono esplicate dal meccanismo
corporeo (Discours, V). La partizione tra intelletto e volontà viene enunciata
da Cartesio (Passions de l’dme, I, 17) come quella tra le azioni dell'anima,
che comprendono tutti i desideri, tra i quali Cartesio fa rientrare la volontà
(Ibid., 18), e le passioni che comprendono « tutte le specie di percezioni o
forme di conoscenza ». partizione viene meglio chiarita dall’uso che Cartesio
ne fa nella sua teoria dell’errore. Questo dipende dal concorso di due cause,
dell’intelletto e della volontà. Con l'intelletto l’uomo non afferma nè nega
nulla, ma concepisce soltanto le idee che può affermare o negare. L’atto
dell’affermazione o della negazione è proprio della volontà. Ora, la volontà è
libera: come tale è assai più estesa dell’intelletto e può quindi affermare o
negare anche ciò che l’intelletto non riesce a percepire chiaramente e
distintamente (Méd., IV; Princ. Phil., I, 34). Con ciò la distinzione fra
intelletto e volontà veniva stabilita e rimaneva sino a Kant un dato
comunemente accettato. Spinoza nega bensì che esistano nell’anima F. separate
adducendo che esse « o sono fittizie o sono entità metafisiche o sono
universali che noi formiamo dalle cose particolari» (Et., II, 48). Ma questo
significa per lui che « volontà e intelletto sono la medesima cosa» (/bid., 49,
coroll.): col che la distinzione viene polemicamente presupposta. Locke stesso
la riconosce quando, a proposito dell’idea di forza, afferma che la volontà e
l'intelletto sono le due forze che spiegano i mutamenti che avvengono nel
nostro spirito (Saggio, II, 21, $ 5-6). Leibniz dice che i due princìpi agenti
nella monade sono la percezione e l’appetizione (Monad., $ 14-15). Cristiano
Wolff a sua volta riconosceva nella conoscenza e nell’appetizione le due
funzioni fondamentali dello spirito umano e sulla base di questa partizione
modellava quella della filosofia nelle due branche fondamentali, filosofia
teoretica o metafisica e filosofia pratica (Log., Disc. Prael., $ 60-62). Kant,
traendo le somme dalle analisi degli empiristi inglesi interponeva tra
l’intelletto e la volontà FALANSTERIO una terza F. che chiamava « sentimento di
piacere e dispiacere». Con ciò le F. dell'anima venivano portate a tre (F. di
conoscere, F. del sentimento, F. di desiderare) (Crif. del Giud., Introd., IX)
e questa partizione diventava classica e venne spesso appoggiata da una
presunta testimonianza della coscienza (v. EMOZIONE, SENTIMENTO). Nessuna
tuttavia di queste dottrine implicava che le F. dell'anima fossero poteri
distinti ed indipendenti. Come già gli antichi, sia Cartesio (Regulae, XII, 79)
sia Locke (Saggio, II, 21, 6); sia Leibniz (Nouv. Ess., II, 21, 6) riconoscono
esplicitamente che la divisione delle F. è un’astrazione che non distrugge
l’unità dell’attività mentale. Sicchè non rappresenta una grande novità la
critica di Herbart alla dottrina delle F. e la sua tesi che le F. stesse
(intelletto, sentimento e volontà) sono semplici «concetti di classe» mediante
i quali si ordinano i fenomeni psichici (Einleitung in die Phil., $ 159). La
psicologia associazionistica condivideva questo punto di vista ma manteneva la
stessa tripartizione (per es., Barn, Mental and Moral Science, 1868, pag. 2;
Logic, II, 275) e il Neo-criticismo della Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp)
riconosceva soltanto tre scienze filosofiche, la logica, l’estetica e l’etica,
corrispondenti appunto alle tre attività dello spirito. Soltanto nella
psicologia e nella filosofia contemporanea, specialmente per influenza del
comportamentismo e della teoria della forma, la dottrina delle parti
dell'anima, comunque intesa, ha perso la sua importanza e non costituisce più
tema di indagine e di dibattiti. Come oggetto d’indagine, infatti, il
comportamento implica la messa in opera simultanea e la fusione di tutti i
principi o parti distinti o distinguibili nell'attività dell'anima o della
coscienza o dell’organismo, sicchè tali distinzioni diventano prive d’interesse
e si parla di « comportamento razionale + o « comportamento emotivo + in un
senso in cui la distinzione stessa non ha più nulla da fare (v.
COMPORTAMENTISMO; COMPORTAMENTO). 2. Nel significato più generale, lo stesso
che Potere (v.). FALANSTERIO (ingl. Phalanstery; francese Phalanstère). Termine
adoperato da Carlo Fourier per designare l’organizzazione sociale utopistica da
lui preveduta: un gruppo di circa 1600 persone viventi a regime comunistico,
con libertà di rapporti sessuali e regolamentazione della produzione e del
consumo dei beni (Trattato di associazione domestica e agricola o teoria
dell'unità universale, 1822). FALLACIA (gr. o6piopa; lat. Fallacia; ingl.
Fallacy; franc. Sophisme; ted. Fallacie). Termine con cui gli Scolastici
indicarono il «sillogismo sofistico » di Aristotele. F., disse Pietro Ispano, è
la FANATISMO idoneità a far credere che sia ciò che non è mediante qualche
fantastica visione; cioè, l’apparenza senza esistenza (Summul. log., 7.03).
Aristotele aveva diviso i ragionamenti sofistici in due grandi classi cioè in
quelli attinenti al modo di esprimersi o come dicono gli Scolastici, in
dictione e in quelli indipendenti dal modo di esprimersi o extra dictionem. I
primi sono sei e cioè: l’equivocazione, l’anfibologia, la composizione, la
divisione, l’accentuazione, la figura dictionis. I secondi sono sette e
precisamente: l’accidente, il secundum quid, l’ignorantia elenchi, la petizione
di principio, la non causa pro causa, il conseguente, l'interrogazione multipla
(EI. Sof., 4). La dottrina delle F. fu una delle parti meglio coltivate della
logica medievale ma ha perso quasi ogni importanza nella logica moderna. Una
buona metà delle Sumunulae logicales (sec. xm) di Pietro Ispano è dedicata alla
confutazione delle fallacie. Ma già nella Logica di Portoreale si dedica ad
essa un solo capitolo (il XIX della parte III) che è la ventesima parte circa
dell’intera trattazione. Nella logica contemporanea questa parte della
trattazione è completamente sparita: giacchè non possono essere ridotti a
sofismi le antinomie (v.) di cui essa tratta. Sotto i nomi dei singoli sofismi
si troverà ciò che la logica antica e medievale intendeva per essi. G. P.-N. A.
FALLIBILISMO (ingl. Fallibilism). Termine creato dal Peirce per indicare
l'atteggiamento del ricercatore che ritiene possibile l’errore a ogni istante
della sua ricerca e perciò cerca di migliorare i suoi strumenti di indagine e
di controllo (Coll. Pap., 1.13; 1.141-52). Dewey ha sottolineato l’importanza
di questo atteggiamento (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 79). E. Popper l’ha
fatto proprio, contrapponendolo a quello del « verificazionismo + e definendolo
come il procedimento che consiste nel formulare congetture e sottoporle a
confutazioni, anche in base aosservazioni empiriche, con la rinuncia ad ogni
pretesa di certezza nel campo della scienza (Conjectures and Refutations, 1965,
pag. 228 sgg.). FALSIFICABILITÀ (ingl. Falsifiability; francese
Falsificabilité; ted. Falschungsmòglichkeit). È il criterio suggerito da Karl
Popper per l’accoglimento delle generalizzazioni empiriche. Il metodo empirico,
secondo Popper, è quello che « esclude quei modi di evadere la falsificazione
che sono logicamente ammissibili ». Da questo punto di vista, le asserzioni
empiriche sono decidibili solo in un senso cioè nel senso della falsificazione,
e possono essere sottoposte a prova solo da tentativi sistematici di coglierle
in fallo. In tal modo l’intero problema dell’induzione e della validità delle
leggi di natura sparisce (Logic of Scientific Discovery, $ 6). Cfr. ESPERIENZA;
VERIFICAZIONE. 377 FALSO (gr. veu8nc; lat. Falsum; ingl. False; franc. Faux;
ted. Falsch). V. FALLIBILISMO; VERITÀ. FAMIGLIA (ingl. Family; franc. Famille;
tedesco Familie). Interessa qui registrare soltanto l’uso logico e metodologico
di questo concetto, che è recentissimo. Una «F. di concetti» è un insieme di
concetti fra i quali intercorrono relazioni diverse, non riducibili tuttavia a
un unico concetto o principio. È precisamente quello che si verifica tra i
membri di una F. umana, i quali non sempre hanno un’unica proprietà in comune;
e anche quando l’hanno, essa non assomma o esaurisce l’intera somiglianza
familiare. L’uso di questa nozione implica perciò l'impegno a cercare sempre
nuovi rapporti fra i concetti, senza che sia necessario ridurre tali rapporti
ad un unico tipo. Il primo a proporre e adoperare la nozione in questione è
stato WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, $ 110. Quest'opera è stata
pubblicata soltanto nel 1953; ma già da alcuni anni i suoi concetti
fondamentali erano noti e del concetto di F. si era avvalso Waismann nella sua
/ntroduzione al pensiero matematico (Einfihrune in das mathematische Denken,
1936; trad. ital., 1939). Cfr. sullo stesso concetto: ABBAGNANO, Possibilità e
libertà, 1956, passim. FANATISMO (ingl. Fanaticism; franc. Fanatisme; ted.
Fanatismus). Questa parola (da fanum = = tempio) fu adoperata a partire dal 700
scambievolmente con entusiasmo (v.) per indicare lo stato di esaltazione di chi
si crede invasato da Dio e quindi immune dall’errore e dal male. Nell'uso
moderno e contemporaneo, «F.» ha finito per soppiantare « entusiasmo » per
indicare la certezza di chi parla in nome di un principio assoluto e pertanto
pretende per le sue parole questa stessa assolutezza. Già Shaftesbury diceva: «
Ed è questo [l'entusiasmo] che ha fatto nascere la denominazione di F. nel
senso originale in cui l’usavano gli antichi, di apparizione che rapisce la
mente» (Letter on Enthusiasm, 7; trad. ital, Garin, pagina 78-79). In realtà
già Cicerone parlava di « filosofi superstiziosi e quasi fanatici» (De div., 2,
57, 118). Leibniz chiamava fanatica la filosofia che attribuisce tutti i
fenomeni a Dio «immediatamente per miracolo» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op.,
ed. Erdmann, pag. 204). Ma certo la migliore defìnizione filosofica del F. fu
data da Kant. Nel senso più generale, F. «è una trasgressione, intrapresa
secondo princìpi, dei limiti della ragione umana ». C'è poi il F. morale che è
«l’oltrepassare i limiti che la ragione pura pratica pone all'umanità, vietando
di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere,
cioè il movente morale di esse, in qualche altra cosa che non sia la legge
stessa ». Il F. morale consiste nella pretesa di 378 fare il bene per
ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente benefico della propria
natura; e perciò nel sostituire alla virtù, che è « l'intenzione morale in
lotta», «la santità del creduto possesso della purezza perfetta delle
intenzioni della volontà » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Il fanatismo in questo
senso è stato sempre l'oggetto polemico dell’opera di Kant che ne ha
individuate e combattute le manifestazioni principali, nel suo sforzo di
determinare i limiti dei poteri umani e la validità di tali poteri nei loro
limiti. In uno scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensare, Kant
poneva in guardia contro la pretesa di superare i limiti della ragione
appellandosi a facoltà o poteri che si pretendono «superiori ». I suoi
riferimenti polemici andavano a Jacobi e Mendelssohn; ma egli vedeva la stessa
pretesa nello spinozismo e contro spinozismo e fanatismo, ribadiva l’esigenza
di determi-nare con precisione i limiti della ragione. Queste osservazioni di
Kant appaiono, a chi le consideri oggi, come una critica anticipata del
Romanticismo che fu, sotto questo rispetto, il grande ritorno dello spinozismo.
Tuttavia Hegel stesso parlò di F., limitandolo però al campo politico e
religioso. Nel campo politico « il F. vuole una cosa astratta non
un’organizzazione »: il suo esempio è la Rivoluzione francese (Fil. del Dir., $
5, Zusatz). Nel campo religioso, il F. consiste nella subordinazione dello
Stato alla religione sicchè il suo motto è in questo campo: « Ai religiosi non
sia data alcuna legge » (/bid., $ 270, Zusatz). Ma Hegel non si accorge che la
stessa onnipotenza dello Stato, da lui teorizzata, è un fanatismo. La parola F.
ha conservato oggi il significato di atteggiamento o punto di vista o dottrina
che, in qualsiasi campo o dominio, trascuri o ignori i limiti dell’uomo. L’età
contemporanea ha conosciuto un’altra più sinistra forma di F.: il F. politico
che pur non essendo una novità dal punto di vista dottrinale ha operato nel
dominio politico l’abolizione dei limiti umani con la conseguente esaltazione o
divinizzazione di punti di vista politici e di individui che li incarnavano. La
parola stessa F. ha perduto, nel dizionario di alcuni movimenti politici, la
connotazione negativa che aveva fin dall’antichità, per significare il pregio
di una fedeltà a tutta prova, incurante di obiezioni come di limiti.
L'esperienza ha mostrato come questa fedeltà è la più fragile di tutte e si
capovolge, alla prima occasione, nel suo contrario. Come già diceva Kant, la
ragionevolezza, col riconoscimento dei limiti che essa implica, è la sola
garanzia di ogni autentico impegno teoretico o pratico. FANTASIA (ingl. Fancy;
franc. Fantaisie; tedesco Phantasie). 1. Lo stesso che immaginazione. FANTASIA
2. A partire dal sec. xvm l’uso contemporaneo dei due termini F. e
immaginazione favoriva una distinzione di significati secondo la quale « F.»
cominciò a indicare un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Già nella Logica
di Portoreale si dice che l’immaginazione è «la maniera di concepire le cose
mediante l’applicazione del nostro spirito alle immagini che sono dipinte nel
nostro cervello » (che è un concetto cartesiano esposto nella Regula XII), e si
distinguono queste immagini, che sono le idee delle cose dalle immagini «
dipinte nella fantasia » (I, 1). Si contrappongono, in altri termini le
immagini che sono idee, proprie dell'immaginazione, alle immagini fittizie,
proprie della fantasia. Analogamente Kant diceva che la F. è « l’immaginazione
in quanto produce immagini senza volerlo +; onde è «un fantastico » colui che è
abituato a ritenere tali immagini per esperienze interne o esterne (Antr., I, $
28). E osservava: « Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazione; ma
l'immaginazione, in quanto è F., gioca altrettanto spesso, e talvolta male a
proposito, con noi » [/bid., $ 31, a)]. In questo senso la F. è
un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Questo è uno dei significati che la
parola ha conservato a tutt'oggi soprattutto nel linguaggio comune, per il
quale la F. è «la pazza di casa». 3. Accanto a questo significato, il
Romanticismo ne ha elaborato un altro per il quale la F. viene intesa come
immaginazione creatrice, diversa di qualità più che di grado dalla comune
immaginazione riproduttiva. In tal senso Hegel vedeva nella F. «l'immaginazione
simboleggiante, allegorizzante e poetante» quindi «creatrice» (Enc., $ 456-57).
I Romantici esaltarono la F. così intesa. Per Novalis essa è «il massimo bene»
(Fragmente, 535). «La F., egli diceva, è il senso meraviglioso che può
sostituire per noi tutti i sensi. Se i sensi esterni sembra che sottostiano a
leggi meccaniche, la F. evidentemente non è legata al presente nè al contatto
di stimoli anteriori » (/bid., 537). In tal modo, il carattere disordinato o
ribelle dell’immaginazione fantastica che faceva apparire questa forma
dell’immaginazione inferiore alle altre durante il sec. xvm, diventa nel xrx un
elemento positivo, un pregio, il contrassegno di una libertà creatrice.
L'estetica romantica si è attenuta a questa valutazione della fantasia. Dice
Croce: « L'estetica del sec. xx foggiò la distinzione, che si ritrova in non
pochi dei suoi filosofi, tra F. (che sarebbe ìa peculiare facoltà artistica) e
immaginazione (che sarebbe facoltà extra artistica). Ammucchiare immagini,
trasceglierle, tagliuzzarle, combinarle, presuppone nello spirito la produzione
e il possesso delle singole immagini; e la F. è produttrice laddove l’immaginazione
è sterile e adatta a combinazioni estrinseche e non FATTO a generare
l’organismo e la vita » (Breviario di estetica, 1913, pag. 35-36). In un senso
analogo Gentile chiamava F. l’attività artistica come puro sentimento o
«inattuale forma subiettiva » dello spirito (Fil. dell’arte, $ 5). Ma in questo
significato romantico la F. cessa di essere un'attività o un’operazione umana,
definibile o descrivibile nelle sue possibilità e nei suoi limiti per
diventare, come manifestazione di un’attività infinita, essa stessa infinita, e
situarsi perciò al di là di ogni possibilità di analisi e di accertamento. Si
tratta, in altri termini, di un concetto magico-metafisico che non può essere
utilizzato fuori del clima romantico che lo creò o predilesse. FANTASMA. V. IMMAGINE.
FAPESMO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare l’ottavo dei nove
modi del sillogismo di prima figura e precisamente quello che ha per premesse
una proposizione universale affermativa e una proposizione universale negativa
e per conclusione una particolare negativa come nell'esempio: « Ogni animale è
sostanza, Nessuna pietra è animale, Dunque qualche sostanza non è pietra +
(Pietro Ispano, Summul. logic., 4.09; ARNAULD, Logique, III, 8). FATALISMO
(ingl. Fatalism; franc. Fatalisme; ted. Fatalismus). Già Leibniz aveva distinto
dal fato stoico e cristiano il «fato maomettano +? o «destino alla turca»
secondo il quale «gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa,
essendo dotati di necessità assoluta » (Op., ed. Erdmann, pag. 660, 764). Wolff
adoperava, per indicare questa dottrina, che egli attribuì a Spinoza, il
termine F. nello scritto De differentia nexus rerum sapientis et fatalis
necessitatis (1723) che è per l'appunto diretto contro Spinoza. In realtà però
tutte leconcezioni del fato (o destino), elaborate dai filosofi ammettono che
di esso fanno parte, come cause che determinano bensì altre cause ma sono a
loro volta determinate dalle antecedenti, le stesse azioni umane dirette ad
evitare o a rag-giungere certi risultati. F. è perciò un termine po-lemico col
quale i filosofi abitualmente designano quella forma di necessitarismo che non
condividono. Più esattamente, il termine può essere adoperato a designare, non
una dottrina filosofica, ma un at-teggiamento: l'atteggiamento di chi si
abbandona al corso degli eventi senza cercare di modificarlo e senza reagire.
FATO (ingl. Fate; franc. Fatalité; ted. Fatum). Il destino nel significato 1°
del termine, come necessità sconosciuta, perciò cieca, che domina gli esseri
del mondo in quanto parti dell’ordine totale. La nozione di fato venne a
distinguersi da quella di destino quando si volle accentuare l’inclusione, fra
le cause che costituiscono quest’ultimo, dellavolontà e dell’azione umana.
Leibniz contrappose, in questo senso al fato maomettano (fatum maho-metanum),
che considera gli eventi futuri indipendenti da ciò che l’uomo può volere e
fare, la nozione di destino (o di provvidenza) per la quale ciò che avverrà nel
futuro è anche, almeno in parte, determinato dall’azione umana (7héod., I, $
55). In un senso analogo Kant contrappone il F. alla necessità condizionale,
quindi intelligibile della natura (Crit. R. Pura, Postulati del pensiero
empirico). La nozione di F. è nella filosofia moderna una nozione polemica, che
non viene ritenuta valida da coloro che l’adoperano: perciò è alquanto bastarda
in filosofia. Essa non ha questo significato deteriore nell’espressione amor
fati, che è la definizione moderna del destino (v.). E al suo significato
deteriore ha anche cercato di sottrarla Peirce: «Il F., egli ha detto,
significa semplicemente ciò che siamo sicuri si avvererà e che non può essere
in nessun modo evitato. È una superstizione supporre che una certa specie di
eventi sia sottoposta al F. e lo è anche supporre che la parola F. non possa
mai essere liberata dal suo carattere superstizioso. È il F. di noi tutti di
morire» (Chance, Love and Logic, I, cap. 2, $ 4, nota; trad. ital., pag. 41).
FATTICITÀ (ingl. Factuality; ted. Tatsachlichkeit). Husserl ha chiamato con
questo termine il modo d’essere del fatto, in quanto essenzialmente «casuale»
cioè in quanto può essere diverso da ciò che è (Zdeen, I, $ 2). Heidegger ha
distinto « la F. del factum brutum di una semplice presenza» cioè di una cosa
dalla effettività (v.) dell’esistenza (Sein und Zeit, $ 29). FATTIZIO (ingl.
Factitious; franc. Factice; tedesco Gemacht). Termine che si adopera quasi
esclusivamente in riferimento alla classificazione cartesiana delle idee in
innate, avventizie e fattizie: queste ultime sono le idee «fatte e inventate»
da noi (Med., III). FATTO (ingl. Fact; franc. Fait; ted. Tatsache). In
generale, una possibilità oggettiva di verificazione, di accertamento o di
controllo e perciò pure di descrizione o di previsione: oggettiva nel senso che
ognuno può farla propria nelle condizioni adatte. « È un F. che x» significa
che x può essere verificato o accertato da chiunque sia in possesso dei mezzi
adatti o può essere descritto o previsto in modo controllabile. La nozione di
F. è una nozione moderna, più ristretta e specifica che non quella di realtà;
ed è nata soprattutto per indicare gli oggetti della ricerca scientifica, che
devono poter essere riconosciuti da qualsiasi ricercatore capace. Il F. si
presenta perciò, quanto alla sua validità, indipendente da opinioni e
pregiudizi e anche da giudizi e valutazioni che non siano quelli inerenti
all'uso degli strumenti adatti per accertarlo. Esso si presenta così fornito di
due caratteristiche fon-damentali: a) il riferimento a un metodo appropriato di
accertamento o di controllo; 5) l’indipendenza dalle credenze soggettive o
personali di chi adopera il metodo stesso. Per l’appunto in vista di queste due
caratteristiche, la «capacità di guardare i fatti» o «di tener conto dei fatti»
o «di accettare i fatti per quello che sono » è oggi considerata come uno dei
requisiti fondamentali non soltanto dello scienziato e in generale del
ricercatore, ma di ogni cittadino. Nonostante l’importanza che la nozione ha
assunto nella cultura moderna, l’attenzione dei filosofi si è solo raramente
portata su di esso. La storia delle analisi di questa nozione è assai magra. Si
può dire che s’inizi nel 1600, quando, con la distinzione tra « verità di
ragione» e « verità di F.» si comincia anche a distinguere, almeno
implicitamente, la sfera propria del fatto. Questa distinzione è stata fatta
per la prima volta da Hobbes: « Vi sono, egli diceva, due specie di conoscenza,
di cui una è la conoscenza di F., l’altra la conoscenza della conseguenza di
un'affermazione dall’altra. La prima non è altro che senso e memoria ed è
conoscenza assoluta, come quando vediamo un F. accadere o lo ricordiamo; e
questa è la conoscenza richiesta in una testimonianza. L’altra è chiamata
scienza ed è condizionale... » (Leviath., I, 9). Come Hobbes, Leibniz e Hume sono
d’accordo nel ritenere che tale sfera è l’esperienza. Secondo Leibniz, le
verità di F. sono contingenti mentre quelle di ragione sono necessarie perchè
fondate sul principio di contraddizione sicchè il loro contrario è impossibile
(Nouv. Ess., IV, 2, 1). Secondo Hume, delle verità di F. «è possibile sempre il
contrario, poichè non implica mai contraddizione ed è concepito dallo spirito
con la stessa facilità e chiarezza che se fosse conforme alla realtà » (Zng.
Conc. Underst., IV, 1). Sia Leibniz che Hume sono infine d’accordo nel ritenere
che il fondamento della verità di F. è il principio di causalità. Da questa
analisi risulta perciò che il fatto è: a) una realtà contingente, attinta o
testimoniata dall’esperienza; è) una realtà fondata su una certa connessione
causale. Una nozione di fatto così configurata è quella che propriamente oggi
si direbbe la nozione di avvenimento cioè di una realtà contingente,
appartenente all'ordine della natura. Quest'ultima qualifica è quella che viene
espressa dal ritenere la verità di F. fondata sul principio causale. Pertanto
questa non è ancora una nozione di F. sufficientemente estesa, cioè tale da
poter valere nei confronti dell’intera estensione della ricerca scientifica:
per essa le verità matematiche non sarebbero verità di fatto. L’estensione
della nozione fu realizzata da Kant. Secondo Kant, «i fatti sono gli oggetti
dei concetti di cui si può provare la realtà oggettiva, sia meFATTO diante la
ragione, sia mediante l’esperienza: nel primo caso, in base a dati teoretici o
pratici, in ogni caso per mezzo di una intuizione corrispondente » (Crit.
Giud., $ 91). Sono fatti in questo senso, secondo Kant, le proprietà
geometriche delle grandezze in quanto possono essere dimostrate a priori; le
cose o le qualità delle cose che possono essere provate mediante l’esperienza o
mediante testimonianze; ed anche l’idea della libertà, la cui realtà come una
specie particolare di causalità si può mostrare a partire dall’esperienza
morale (/bid., $ 91). Questa analisi di Kant è importante perchè: a) consente
di distinguere nettamente la nozione di F. da quella di avvenimento come
nozione più generale, corrispettiva della possibilità d’uso di qualsiasi
strumento di accertamento. Da questo punto di vista l'avvenimento è una specie particolare
di F., precisamente è un F. naturale; b) consente di riconoscere il carattere
empirico del F. come alcunchè di diverso dal suo confinamento alla sfera della
sensibilità: la ragione stessa ha a che fare con fatti che non le sono esterni
e imposti dall'esterno, ma che trova in se stessa, come condizioni del suo
funzionamento. Da questo punto in poi, la nozione di F. viene talora avvicinata
a quella di fenomeno, talaltra a un elemento o condizione della ragione. Si
avvicina il F. al fenomeno quando si parla di « F. bruto » o «grezzo» o di
«mero F.», giacchè si allude in tal caso al dato immediato, alla semplice o
grossolana apparenza così come si presenta prima facie. Ma è chiaro che non si
può procedere molto oltre sulla via di questa identificazione. Il F. non è il
fenomeno: per es., la spezzatura di un bastone nell'acqua è un fenomeno ma non
un fatto. È pure un fenomeno il moto apparente dei cieli che sin dagli inizi
l'astronomia cercò in vari modi di ridurre a « F.». Il F. implica una
sistemazione o interpretazione del fenomeno per la quale il fenomeno stesso
cambia faccia, diventa suscettibile di essere descritto, previsto e
controllato. Lo stesso Comte che adopera il più delle volte scambievolmente le
due parole sembra talora accennare ad una distinzione come nel passo seguente:
« Questo F. generale (cioè la gravitazione) ci è presentato come una semplice
estensione di un fenomeno che ci è eminentemente familiare e che perciò
consideriamo come perfettamente conosciuto, la pesantezza dei corpi alla
superficie della terra » (Phil. Pos., I, $ 4). Ma nell’ambito stesso del
positivismo, Claude Bernard accentuò la subordinazione dei fatti alla ragione.
« Senza dubbio, egli scrisse, io ammetto che i fatti sono le sole realtà che
possano dare la formula all’idea sperimentale e nello stesso tempo servirle di
controllo; ma ciò alla condizione che la ragione li accetti... Nel metodo
sperimentale,come dappertutto, il solo criterio reale è la ragione. Un F. non è
niente di per se stesso, vale soltanto per l’idea che gli si connette o per la
prova che fornisce » (Intr. à l’étude de la médecine expérimental, I, 2, 7).
Questa interpretazione del fatto sembrò confermata quando si vide la parte
preponderante che nella costruzione del «F. scientifico» ha la teoria (P. DUHEM,
La théorie physique: son objet et sa structure, 1906). La stretta connessione
del F. con l'attività razionale, espressa in vari modi, viene in generale
riconosciuta nella filosofia contemporanea. La fenomenologia ha elaborato la
nozione di stato di cose (Sachverhalt) come l’oggetto corrispondente di ogni
giudizio valido e ha considerato come un fatto lo stato di cose in cui è
coinvolta un’esistenza individuale. In questo senso una cosa non è un F.: ma è
un F. che questa cosa esista che abbia questo o quel carattere, ecc. (HussERL,
/deen, I, $ 6). La nozione di stato di cose è stata ripresa da Wittgenstein nel
Tractatus logico-philosophicus che però ha concepito in diversa maniera il
rapporto di esso col fatto perchè ha visto nello « stato di cose» l’elemento
semplice che entra a comporre il fatto. Lo stato di cose sarebbe perciò il « F.
atomico » il componente elementare dei fatti (Tracr., 2). Quel che c’è di
caratteristico in queste notazioni è la definizione del fatto (o dei suoi
componenti) come oggetto del giudizio o della proposizione valida. Lo stato di
cose o F. atomico non è, secondo Wittgenstein che l’oggetto di una proposizione
elementare (/bid., 4, 21). S’intende perciò come, sulla linea di sviluppo di
questa concezione, i fatti siano stati addirittura identificati con le
proposizioni. L’identificazione è stata proposta da Ducasse (in «Journal of
Philosophy +, 1940, pag. 701-11) e accettata da Carnap,nel senso che un F.
sarebbe una proposizione che sia: 1° vera; 2° contingente; 3° dotata di un certo
grado di completezza cioè di determinazione (Meaning and Necessity, $ 6, 1).
Bisogna avvertire che, per Carnap, il termine proposizione non significa nè
un’espressione linguistica, nè un avvenimento mentale o soggettivo ma qualcosa
di oggettivo che può o meno trovare esempi in natura ed è pertanto paragonabile
a « proprietà » (/bid., $ 6). La « proposizione vera + che Carnap identifica
col F. significa perciò semplicemente un « oggetto valido » o un reale « stato
di F. ». Il chiarimento che deriva da queste riduzioni linguistiche è puramente
verbale; e, se può riuscire di qualche utilità in una trattazione logica, poco
o nulla dice intorno alla natura e ai caratteri del fatto. Denuncia, al più la
tendenza a ricondurre il F. stesso a condizioni concettuali o linguistiche.
Dall’altro lato, il pragmatismo con Dewey ha insistito sul carattere «
operazionale » del F.: nel senso che i F. «sono soltanto risultati di
operazioni e di osservazioni compiute con l’aiuto degli organi sensoriali e di
strumenti ausiliari prodotti dalla tecnica, e perciò vengono scelti e ordinati
nell’espresso intento di farli servire come dati per una ricerca ordinata
(Logic, VI, 5, $ 4). L’analisi contemporanea della nozione ignora pertanto
l’antitesi tra fatti e ragione. L'eliminazione di questa antitesi si fa
indubbiamente sentire anche nell’elaborazione del concetto di ragione (v.). Per
ciò che riguarda la nozione di F., esso, nei confronti della ragione, si viene
a configurare come una condizione limitativa delle scelte razionali. In un
campo determinato, per es., nella fisica, un F. è ogni possibile oggetto di
osservazione cioè ogni stato o situazione che può essere accertata e
controllata con gli strumenti di cui dispone la fisica. Ma i fatti fisici in
questo senso sono i limiti o le condizioni dell’attività razionale nel campo
della fisica cioè di ogni costruzione teoretica o ipotesi. Allo stesso modo,
nel campo della logica, le implicazioni analitiche o tautologiche valgono come
fatti, cioè come condizioni o limiti della ricerca logica (AsBAGNANO,
Possibilità e libertà, VI, 7). In generale si può dire che mentre il F. è una «
possibilità di accertamento » che in ogni campo assume l’aspetto specifico
dovuto agli strumenti d’indagine disponibili nel campo stesso, esso è pure, nei
confronti della ragione, la condizione di altre possibilità cioè di scelte o di
operazioni che a loro volta si determinano o specificano secondo la natura dei
singoli campi d’indagine. FAUSTISMO (ted. Faustismus). Secondo Spengler, il
carattere della cultura occidentale, in quanto si contrappone all’apollinismo
della cultura antica. L’anima faustiana ha come suo simbolo lo spazio puro
illimitato. Faustiane sono, secondo Spengler, la dinamica di Galilei, la
dogmatica cattolica e protestante, le grandi dinastie con la loro politica di
gabinetto, il destino di Lear e l’ideale della Madonna dalla Beatrice di Dante
alla fine del secondo Faust di Goethe (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Ovviamente si tratta di una caratterizzazionearbitrariaefantastica. FAVOLA
(lat. Fabula; ingl. Fable; franc. Fable; ted. Fabel). Dal Rinascimento in poi
la convinzione che le « F. antiche » avessero un valore di sintomo o di
rivelazione indiretta della verità condusse a una reinterpretazione degli
antichi miti che furono talora piegati (come si vede nelle opere di Bruno) a
significati filosofici particolari. Sul valore delle F. stesse Bacone e Vico
segnano gli atteggiamenti fondamentali. Bacone pensava che le F. sono qualcosa
di intermedio tra il silenzio e l’oblio delle età perdute e la memoria e
l'evidenza delle età più vicine di cui possediamo testimonianze scritte. « Le
F., egli scrisse, non sono nè un prodotto delle 382 loro età nè frutto
dell’invenzione poetica ma quasi sacre reliquie e tenui aure di tempi migliori,
che dalla tradizione delle nazioni più antiche sono arrivate fino alle trombe e
ai flauti dei Greci» (De sapientia veterum, 1609, Pref.). Bacone propendeva
pertanto a scorgere nelle F. un significato allegorico che vi sarebbe stato
intenzionalmente racchiuso. Che è per l’appunto la tesi negata e combattuta, il
secolo dopo, da Vico: secondo il quale le F. sono tali soltanto dal punto di
vista dei dotti, mentre per i popoli primitivi che le crearono erano narrazioni
vere. «I filosofi, dice Vico, diedero alle F. interpretazioni fisiche o morali
o metafisiche o di altre scienze, come l’oro o l’impegno o il capriccio ne
riscaldasse le fantasie; sicchè essi piuttosto con le loro allegorie erudite le
finsero favole. I quali sensi dotti i primi autori di quelle F. non intesero,
nè per la loro rozza ed ignorante natura potevano intendere: anzi per questa
stessa loro natura concepirono le F. per narrazioni vere... delle loro divine
ed umane cose» (Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questa idea di Vico è
rimasta a fondamento della moderna filosofia delle forme simboliche (v. MITO).
FEDE (gr. riot; lat. Fides; ingl. Faith; francese Foi; ted. G/aube). La
credenza religiosa, cioè la fiducia nella parola rivelata. Se la credenza in
generale è l'impegno nei confronti di una nozione qualsiasi, la F. è l’impegno
nei confronti di una nozione che si ritiene rivelata o testimoniata dalla
divinità. In questo senso usava già la parola Sesto Empirico parlando di quei
ragionamenti che sembrano dipendere « dalla F. e dalla memoria » come il
seguente: « Se un Dio ti ha detto che costui diventerà ricco, costui diventerà
ricco. Ma questo Dio qui (e indico, supponiamo, Zeus) t’ha detto che costui
diventerà ricco. Dunque diventerà ricco ». In questi casi, nota Sesto,
assentiamo alla conclusione non per la necessità delle premesse ma in quanto
abbiamo F. nella dichiarazione della divinità (Ip. Pirr., II, 141). S. Paolo ha
riassunto le caratteristiche fondamentali della F. religiosa nelle celebri
parole: « F. è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi»
(Mebr., 11, 1). S. Tommaso ha chiarito nel modo seguente le parole di S. Paolo:
« In quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall’opinione, dal
sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto
al suo oggetto. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la fede
dalla scienza e dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa apparente. E in
quanto si dice sostanza delle cose sperate si distingue la virtù della F. dalla
F. nel comune significato [cioè dalla credenza in generale] la quale non è
diretta alla beatitudine sperata » (S. 7H., Il, 2, q. 4, a. 1). Gli Scolastici
si attennero, con poche FEDE varianti, a questa descrizione della fede. Col
misticismo tedesco del xrv secolo cominciò ad affacciarsi la dottrina del
carattere privilegiato della F. come via d’accesso originale, diretta e
immediata alle realtà supreme e specialmente a Dio. Maestro Eckhart vede nella
F. il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la realtà ultima di sè e di
Dio: la F., egli dice è la nascita di Dio nell’uomo. Questo tema ritornava
nella cosiddetta « filosofia della F. + del sec. xvi: Hamann e Jacobi
attribuiscono alla F. lo stesso sfarus privilegiato, la stessa capacità di
mettere l’uomo direttamente a contatto, scavalcando i limiti e le incertezze
della ragione, con le realtà ultime e specialmente con Dio. Per quanto Jacobi
includa nella F. religiosa anche la parte che propriamente spetta alla credenza
(«Noi crediamo, egli dice, di avere un corpo; crediamo all’esistenza delle cose
sensibili », Werke, IV, 211; III, 411), è sul carattere religioso della F. che
egli fonda la certezza privilegiata di essa: ogni F., egli dice, è
necessariamente F. della rivelazione e questa è necessariamente F. in Dio, cioè
religione (Ibid., Il, 274, 284 sgg.). I Romantici spesso riconfermarono questo
status privilegiato della fede. Così fece Fichte che esaltò la F. nelle opere
popolari del secondo periodo, per es., nella Missione dell’uomo (1800) dove
afferma che «la F., dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere vane
illusioni: è la sanzione della scienza» e ripete la parola di Jacobi: « Tutti
nasciamo nella F. » (Werke, II, pag. 254-55). Accenti analoghi risuonano talora
negli scritti di Schelling (Werke, I, 10, 183) e Novalis dice che la scienza è
soltanto una delle metà e la F. è l’altra metà (Fragmente, 391). Verso la fine
della Scolastica si era cominciato ad accentuare un altro aspetto della F.: il
suo carattere pratico che non consiste nella sua dipendenza dalla volontà ma
nella sua capacità di dirigere l’azione. Duns Scoto fu il primo ad insistere su
questo carattere: « La F., egli dice, non è un abito speculativo nè il credere
è un atto speculativo, nè la visione che segue al credere è una visione
speculativa, ma pratica » (Op. Ox., prol., q. 3). Per « pratico» Duns Scoto
intende ciò che serve a dirigere la condotta e perciò egli chiama pratica
l’intera teologia in quanto le verità che essa insegna non sono teoretiche cioè
necessarie e dimostrabili ma servono unicamente a dirigere l’uomo verso la
beatitudine eterna (/bid., prol., q. 4, n. 42). La stessa antitesi tra
l’hkabitus della F. e quello della scienza era ammessa da Ockham che riteneva i
due abiti incompatibili tra di loro e osservava che chi crede a qualcosa di cui
ha dimenticato la dimostrazione non si può dire veramente che ha «F.» perchè
l’oggetto della sua credenza è pur sempre la dimostrazione (/r Sent., III, q. 8
R). FEDE ANIMALE Nel mondo moderno il carattere pratico della F. veniva difeso
da Spinoza. «La F., egli dice, consiste nell’avere, nei confronti di Dio, quei
sentimenti tolti i quali viene tolta l’obbedienza a Dio, e che sono posti
necessariamente quando è posta tale obbedienza » (7ract. Theol.-Pol., 14). La
F. è perciò l’insieme delle credenze che condizionano l'obbedienza alla
divinità, secondo Spinoza. Ed è questo un concetto che doveva essere ripreso da
Kant, per il quale la credenza teoricamente insufficiente può, soprattutto nel
suo aspetto pratico, esser detta fede. Kant generalizza il concetto pratico
della F., riconoscendo in essa l’atteggiamento impegnativo che può dirigere sia
l’abilità, cioè l’attività che ha in vista fini arbitrari e accidentali, sia la
moralità che ha in vista fini assolutamente necessari. La F. che dirige l’abilità
è la F. prammatica la quale difficilmente spinge il suo impegno sino alla
scommessa. C’è invece una F. dortrinale che è più impegnativa ma che neppure
arriva alla certezza della F. morale. Quest'ultima specie di F., dà una
certezza che non si può comunicare e non è quindi di natura logica ma è una «
certezza morale» che poggia su fondamenti soggettivi. « Così io non devo dir
mai: è moralmente certo che c’è un Dio, ecc., ma: io sono moralmente certo,
ecc. Cioè: la F. in Dio e in un altro mondo è talmente intrecciata col mio
sentimento morale che, come non corro rischio di perdere questo, così non temo
che quella possa essermi tolta» (Crit. R. Pura, Canone della Ragion Pura, sez.
3). La F. religiosa può essere secondo Kant o «F. religiosa pura » che è la stessa
F. morale o «F. storica» che è F. nelle leggi statutarie cioè nelle leggi che
indicano il modo in cui Dio vuol essere onorato ed obbedito (Religion, III, I,
$ 6). Ciò che gli Scolastici chiamavano il carattere pratico della F. è
diventato per Kant (e per i moderni) il carattere impegnativo della F. stessa
cioè il carattere per il quale la F. è innanzi tutto un atto esistenziale, una
direzione impressa alla vita dell’individuo, capace di trasformarla e non priva
di rischio. Questi tratti appaiono chiari nell'ultima grande teoria della F.
che la filosofia ha elaborato: quella di Kierkegaard. Kierkegaard ritiene che
il cristianesimo ha invertito il rapporto tra F. e scienza. Nell’antichità
classica la F. è qualcosa di inferiore alla scienza perchè si rapporta al
verosimile; nel cristianesimo la F. è superiore alla scienza perchè indica la
certezza più alta, una certezza che si rapporta al paradosso, quindi
all’inverosimile: essa è «la coscienza dell’eternità, la certezza più
appassionata che spinge l’uomo a sacrificare tutto, anche la vita» (Diario, X*,
A 635). Il carattere impegnativo della F. consiste nel suo legame con
l’esistenza: aver F. significa esistere in un certo 383 modo. « Per aver F.,
dice Kierkegaard, è necessaria una situazione e questa situazione dev’essere
prodotta con un passo esistenziale dell’individuo » (Ibid., X*, A 114). Questo
passo segna la rottura col mondo e col suo ideale di intelligibilità. Che cosa
è credere? È volere (ciò che si deve e perchè si deve) in obbedienza riverente
e assoluta, difendersi contro i pensieri vani di voler comprendere e contro le
vane immaginazioni di poter comprendere » (/bid., X!, A 368). Da questo punto
di vista la F. non è fatta di certezze, ma di decisione e di rischio. La F.,
dice Kierkegaard in Timore e tremore, è la certezza angosciosa, l’angoscia che
si rende certa di sè e di un nascosto rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio
che gli conceda la F.; ma la possibilità di pregare non è in se stessa un dono
divino? Così c’è nella F. una contraddizione ineliminabile che la rende
paradossale. L'uomo è posto di fronte al bivio: credere e non credere. Da un
lato è lui che deve scegliere e dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perchè
Dio è tutto e da Lui deriva anche la fede. Questo concetto è stato sostanzialmente
ripreso da Karl Barth che ha interpretato la F. come l’inserzione della
Eternità nel tempo, della Trascendenza nell’esistenza (Commento all’Epistola ai
Romani, 1919). All’iniziativa divina attribuisce la F. anche Rudolf Bultmann
che, tuttavia ha affermato l’esigenza di liberare la F. stessa, e in
particolare quella cristiana, dai miti cosmologici con i quali essa
tradizionalmente si presenta unita e di procedere alla sua demitizzazione (v.).
E andando oltre su questa strada, Dietrich Bonhoeffer ha addirittura
contrapposto la F. alla religione (v.), considerata come un’espressione mitica
o contingente della F. e divenuta inaccettabile nell’età contemporanea dominata
dal razionalismo, dalla scienza e dalla tecnologia. Da questo punto di vista si
accentua il carattere pratico della F. che diventa una morale naturale ed
umana, che si fonda sull’unità del mondo e di Dio, dell’umanità e di Cristo
(£tica, 1949; Resistenza e Resa, 1951). A questo concetto della F., intesa come
azione rinnovatrice del mondo umano, si ispira il panteismo umanistico dei
cosiddetti « nuovi teologi » (v. Dio e Dio, MORTE DI). Da un punto di vista
filosofico ha insistito sull’identità di esistenza e fede Karl Jaspers che
tuttavia ha continuato a riconoscere nella F., sulle orme di Kierkegaard, un
rapporto diretto con la Trascendenza (Der Philosophische Glaube, 1948). FEDE
ANIMALE (ingl. Animal Faith). Così Santayana chiamò la credenza nella realtà in
quanto prodotta nell’uomo da esperienze animali: fame, sesso, lotta, ecc. (Scepricism
and Animal Faith, 1923) (v. CREDENZA). 384 FEDE, FILOSOFIA DELLA (ted.
G/aubensphilosophie). Con questo nome o con quello di « filosofia del sapere
immediato » si indica la filosofia di un gruppo di filosofi tedeschi della
seconda metà del 700 che fecero parte dello Sturm und Drang (v.). Le principali
figure di questa filosofia furono G. G. Hamann (1730-88), detto «il mago del
Nord +»; G. G. Herder (1744-1803) e F. E. Jacobi (1743-1819) al quale si deve
l’espressione « filosofia della F.». Questa filosofia accettava da Kant la
dottrina dei limiti della ragione solo per affermare la superiorità della F.
sulla ragione. Essa considerava la F. come un rapporto immediato, quindi non
soggetto a incertezze o a dubbi, con le realtà supreme e specialmente con Dio.
Jacobi espresse queste idee nelle Lerrere sulla dottrina di Spinoza a Mosé
Mendelssohn (1785), e nello scritto David Hume e la F. (1787). Hegel nella
logica dell’Enciclopedia considerò la dottrina di Jacobi come «Terza posizione
del pensiero rispetto all’oggettività » e criticò l'immediatezza nella quale
vide il carattere fondamentale della F. di cui parlava Jacobi (Enc., $ 61-74).
FEDE E SCIENZA. V. SCOLASTICA. FEDELTÀ (ingl. Loyalty). La volontaria, pratica,
completa devozione di una persona ad una causa. Così definì la F. Royce nel suo
libro Filosofia della F. (1908) assumendola come principio generale dell’etica.
La F. include infatti la solidarietà con gli altri individui o meglio con una
comunità di individui e contiene il criterio per giudicare del valore delle
cause giacchè consente di riconoscere come cattiva una causa che renda
impossibile o neghi la F. altrui. La F. alla F. fu quindi ritenuta da Royce il
criterio della vita morale. FELAPTO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici
per indicare il secondo dei sei modi del sillogismo di terza figura e
precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
premessa universale affermativa e di una conclusione particolare negativa come
nell’esempio: « Nessun uomo è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque qualche
animale non è pietra» (Pretro Ispano, Summul. logic., 4.14). FELICITÀ (gr.
evdaruovia; lat. Felicitas; inglese Happiness; franc. Bonheur; ted.
Glickseligkeit). In generale uno stato di soddisfazione dovuto alla propria
situazione nel mondo. Per questo rapporto con la situazione, la nozione di F.
si differenzia da quella di beatitudine (v.) la quale è l'ideale di una
soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col mondo e perciò ristretta
alla sfera contemplativa o religiosa. Il concetto di F. è umano e mondano. Così
è nato nella Grecia antica, dove Talete riteneva felice « colui che ha un corpo
sano, buona fortuna e un’anima bene educata» (Dioc. L., I, FEDE, FILOSOFIA
DELLA 1, 37). La buona salute, la fortunata riuscita della vita e il successo
della propria formazione, che costituiscono gli elementi della F., sono
inerenti alla situazione dell’uomo nel mondo e fra gli altri uomini. Democrito,
in modo pressocchè analogo, definiva la F. come «la misura del piacere e la proporzione
della vita», cioè come il tenersi lontani da ogni difetto e da ogni eccesso
(F7., 191, Diels). Comunque, F. e infelicità appartengono all’anima (Fr., 170,
Diels) giacchè solo l’anima «è la dimora della nostra sorte » (Fr., 171,
Diels). La connessione che è stata spesso stabilita tra F. e piacere ha lo
stesso significato, cioè è connessione tra lo stato definito come F. e il
rapporto col proprio corpo, con le cose e con gli uomini. La tesi che la F. sia
il sistema dei piaceri, fu espressa con tutta chiarezza da Aristippo che
distinse anche il piacere dalla felicità. Solo il piacere è il bene perchè solo
esso viene desiderato di per se stesso e quindi è il fine in sè. « Il fine è il
piacere particolare, la F. è il sistema dei piaceri particolari, in cui si
sommano anche i passati e i futuri » (Diog. L., II, 8, 87). Egesia che negava
la possibilità della F., la negava proprio per il fatto che i piaceri sono
troppo rari e labili (Ibid., II, 8, 94). Dall’altro lato, Platone negava che la
F. consistesse nel piacere e la riteneva invece connessa con la virtù. «I
felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli
infelici, infelici per il possesso della cattiveria », egli dice nel Gorgia
(508 b) e nel Convito (202 c) sono detti felici «coloro che posseggono bontà e
bellezza ». Ma giustizia e temperanza sono virtù; « possedere bontà e bellezza
» significa ancora essere virtuosi; e la virtù non è altro, secondo Platone, se
non la capacità dell'anima di adempiere al proprio compito, cioè di dirigere
l’uomo nel modo migliore (Rep., I, 353 d sgg.). Sicchè anche la nozione
platonica della F. è relativa alla situazione dell'uomo nel mondo, e ai compiti
che qui lo attendono. Quanto ad Aristotele, egli ha bensì insistito sul
carattere contemplativo della F. nel suo grado eminente, cioè della beatitudine
(v.), ma ha dato della F. una nozione più estesa definendola come « una certa
attività dell’anima svolta conformemente a virtù » (Er. Nic., I, 13, 1102 b);
la quale non esclude, ma include la soddisfazione dei bisogni e delle
aspirazioni mondane. Le persone felici, secondo Aristotele, devono possedere
tutte e tre le specie di beni che si possono distinguere, cioè quelli esterni,
quelli del corpo e quelli dell’anima (/bid., 1153 b 17 sgg.; Pol., VII, 1, 1323
a 22). È vero tuttavia che «i beni esteriori, come ogni strumento, hanno un
limite entro il quale adempiono la loro funzione di essere utili, come mezzi,
ma oltre il quale diventano dannosi o inutili per chi li possiede. E che i beni
spirituali invece, FELICITÀ 385 tanto più sono abbondanti tanto più sono utili
». Ma in generale si può dire che « Ciascuno merita tanta F., per quanto virtù,
senno e capacità di agire in conformità egli possiede e si può chiamare a
testimonio la divinità che è felice e beata non per beni esteriori ma di per se
stessa, per quello che è per natura » (Po/., VII, 1, 1323 b 8). La F. è perciò
più accessibile al saggio che più facilmente basta a se stesso (Er. Nic., X, 7,
1177 a 25) ma è ciò a cui in realtà devono tendere tutti gli uomini e le città.
L'etica post-aristotelica si occupa invece esclusivamente della F. del saggio;
la netta divisione degli Stoici tra saggi e pazzi rende infatti ovviamente
inutile occuparsi di questi ultimi. Il saggio è colui che basta a se stesso e
che perciò trova in sè esclusivamente la sua F. che meglio si direbbe
beatitudine. Plotino rimprovera alla nozione aristotelica di F. che,
consistendo essa per ogni essere nel compiere la sua funzione e nel raggiungere
il proprio fine, può applicarsi benissimo non solo agli uomini ma anche agli
animali e alle piante (Enn., I, 4, 1 sgg.). E agli Stoici Plotino rimprovera
l’incoerenza di porre la F. nell'indipendenza dalle cose esterne e nello stesso
tempo di additare come oggetto della ragione proprio queste cose stesse. Per
Plotino, la F. è la vita stessa; perciò mentre appartiene a tutti gli esseri
viventi, appartiene nel grado più eminente alla vita più completa e perfetta
che è quella dell’intelligenza pura. Il saggio, in cui tale vita si realizza, è
bene a se stesso: non ha bisogno che di se stesso per essere felice e non cerca
le altre cose o almeno le cerca solo perchè sono indispensabili alle cose che
gli appartengono (per es., al corpo) e non a lui stesso. La F. del saggio non
può essere distrutta nè dalla cattiva fortuna nè dalle malattie fisiche e
mentali nè da alcuna circostanza sfavorevole, come non può essere aumentata
dalle circostanze favorevoli (/bid., I, 4, 5 sgg.): è perciò la stessa
beatitudine di cui godono gli Dei. La filosofia medievale ha ribadito e fatto
propri questi concetti, talora adattando ad essi (come ha fatto S. Tommaso) la
stessa dottrina aristotelica: e solo estendendoli alla generalità degli uomini.
Dali’ Umanesimo in poi la nozione di F. comincia a essere strettamente legata —
com'era già stata per Cirenaici ed Epicurei — con quella di piacere. Il De
voluptate di Lorenzo Valla è imperniato su questa connessione; e tale
connessione si accentua nel mondo moderno. Essa trova concordi Locke e Leibniz.
Locke dice che la F. «è il massimo piacere di cui siamo capaci e l’infelicità è
la massima pena; e l’infimo grado di ciò che può essere chiamato F. è di essere
tanto liberi da ogni pena e di aver tanto piacere presente da non poter essere
25 — contenti con meno » (Saggio, II, 21, 43). E Leibniz: «Io credo che la F.
sia un piacere durevole, ciò che non potrebbe accadere senza un progresso
continuo verso nuovi piaceri » (Nouv. Ess., II, 21, 42). La nozione della F.
come piacere o come somma o meglio come «sistema» di piaceri, secondo la espressione
del vecchio Aristippo, comincia con Hume ad acquistare un significato sociale:
la F. diventa piacere diffusibile, il piacere del maggior numero e in questa
forma la nozione di F. diventa la base del movimento riformatore inglese
dell’800. Nel frattempo Kant, che riteneva impossibile porre la F. a fondamento
della vita morale, ne chiariva tuttavia efficacemente la nozione senza
ricorrere a quella di piacere. « La F., dice Kant, è la condizione di un essere
razionale nel mondo al quale, nell’intero corso della sua vita, tutto avvenga
secondo il suo desiderio e la sua volontà » (Crif. R. Pratica, Dialettica, Sez.
5). Si tratta perciò di un concetto che l’uomo non trae dagli istinti e non
deriva da ciò che in lui è animalità, ma che egli si forma in modi diversi e
che cambia spesso e spesso arbitrariamente (Crit. del giud., $ 83). Kant
ritiene che la F. faccia parte integrante del sommo bene, il quale è per l’uomo
la sintesi di virtù e felicità. Ma come tale il sommo bene non è realizzabile
nel mondo naturale; e non è realizzabile sia perchè nulla garantisce in questo
mondo la perfetta proporzione tra moralità e F. in cui il sommo bene consiste;
sia perchè nulla garantisce quel soddisfacimento pieno di tutti i desideri e
tendenze dell’essere razionale in cui la F. consiste. Nel mondo naturale
pertanto la F. è dichiarata da Kant impossibile e rinviata in un mondo
intelligibile che è «il regno della grazia » (Crif. R. Pura, Dottrina del
metodo, cap. II, sez. 2). Kant ha avuto il merito, in primo luogo, di enunciare
in modo rigoroso la nozione di F. e in secondo luogo quello di mostrare che
tale nozione è empiricamente impossibile, cioè irrealizzabile. Non è possibile
infatti che siano soddisfatte rutte le tendenze, inclinazioni, volizioni
dell’uomo perchè da un lato la natura non si preoccupa di venire incontro
all’uomo in vista di tale soddisfazione totale e dall’altro perchè gli stessi
bisogni e inclinazioni non rimangono mai fermi nella quiete dell’appagamento
(Crir. del giud., $ 83). Ricondotta al concetto di soddisfazione assoluta e
totale — sul quale insiste anche Hegel (Enc., $ 479480) — la F. diviene
l’ideale di uno stato o condizione inattingibile, salvo che in un mondo
soprannaturale e per intervento di un principio onnipotente. Non fa quindi meraviglia
che tutta quella parte della filosofia moderna che è passata attraverso il
filtro del kantismo abbia trascurato la nozione di F. e non se ne sia avvalsa
per l’analisi di ciò che l’esistenza umana è e deve essere. Tut386 tavia
l’empirismo inglese aveva iniziato con Hume (come già si è detto) un nuovo
sviluppo in senso sociale della nozione, sviluppo che è proprio
dell’utilitarismo. Hume aveva osservato che « nel far le lodi di qualche
persona benefica e umana » non si manca mai di mettere in luce « la F. e la
soddisfazione che derivano alla società umana dalla sua azione e dai suoi buoni
uffici » (/ng. Conc. Morals, II, 2). E pertanto aveva identificato ciò che è
moralmente buono con ciò che è utile e benefico. Dopo di lui Bentham
riprendeva, come fondamento della morale, la formula di Beccaria: « La massima
F. possibile del maggior numero possibile di persone + formula a cui si
ispirarono anche James Mill e Stuart Mill, accentuandone sempre più il
carattere sociale. Non si trova in questi autori un concetto rigoroso di F.; ma
non si trova neppure in essi quell’irrigidimento e assolutizzazione della
nozione che essa aveva subito in Kant e che l’aveva resa inservibile. Essi
sanno anche che la F., dipendente com'è da condizioni e circostanze oggettive oltrecchè
dagli atteggiamenti dell’uomo, non può appartenere all'uomo nella sua
singolarità, ma all'uomo in quanto è membro di un mondo sociale. E se collegano
la F. col piacere, distinguono piacere da piacere, ammettendo l’identificazione
solo per l’ambito di quei piaceri che sono socialmente partecipabili. Nella
tradizione culturale inglese e americana, la nozione di F. è rimasta viva in
questa forma e ha ispirato oltrecchè il pensiero filosofico, il pensiero
sociale e politico. Il principio della massima felicità è rimasto per lungo
tempo la base del liberalismo moderno di stampo anglosassone. La Costituzione
americana ha incluso fra i diritti naturali e inalienabili dell’uomo « la
ricerca della F. ». A questa tradizione si collega Bertrand Russell, che è stato
uno dei pochi a difendere oggi la nozione di F., sia pure in un libro a
carattere popolare (La Conquista della F., 1930). Ciò che Russell aggiunge di
nuovo alla nozione tradizionale di F. (oltre alla persuasiva analisi che egli
fa delle odierne situazioni di «infelicità »), è una condizione che ritiene
indispensabile, cioè la molteplicità degli interessi, dei rapporti dell’uomo
con le cose e con gli altri uomini, perciò l’eliminazione dell’ egocentrismo »,
della chiusura in se stessi e nelle proprie passioni. Si tratta di una
condizione che pone la F. al polo opposto di quella autosufficienza del saggio
in cui gli antichi ponevano il grado più alto di essa. Dall’altro lato i
filosofi, non riuscendo più a utilizzare la nozione di F. come fondamento o principio
della vita morale, si sono, di regola, disinteressati della nozione stessa. A
questo disinteresse ha contribuito anche la tendenza, nata dal Romanticismo e
per lungo tempo dominante, ad esaltare l’infelicità, il dolore, gli stati di
turbamento e di FENOMENICO, FENOMENOLOGICO insoddisfazione come esperienze
positive e intrinsecamente gioiose. La F. difatti, nei gradi e nelle forme in
cui si può ritenere realizzabile, è uno stato di calma, una condizione di
equilibrio almeno relativo, di soddisfazione parziale e tuttavia effettiva, che
è direttamente l’opposto della irrequietudine romantica. La filosofia
contemporanea non si è finora fermata ad analizzare la nozione di F. nei limiti
in cui essa può servire a descrivere situazioni umane effettive e ad orientarle.
E tuttavia che si tratti di una nozione importante è dimostrato dalla
importanza che alcune nozioni negative come « frustrazione », «insoddisfazione
+, ecc., hanno nella psicologia individuale e sociale, normale e patologica.
Queste nozioni e altre analoghe indicano infatti l'assenza più o meno grave di
quella condizione di almeno relativo soddisfacimento che la parola F.
tradizionalmente designa. E l’importanza di esse per l’analisi di stati o
condizioni più o meno patologici denuncia l'importanza che la corrispondente
nozione positiva ha per le condizioni normali della vita umana. FENOMENICO,
FENOMENOLOGICO (ingl. Phenomenal, Phenomenological; franc. Phénoménal,
Phénoménologique; ted. Phinomenal, Phanomenologisch). La distinzione fra i due
aggettivi, che non vanno confusi, è stata bene espressa da Heidegger: « Per
fenomenico s’intende ciò che è dato ed esplicabile nel processo con cui il
fenomeno viene incontro, per cui si parla di ‘strutture fenomeniche ’.
Fenomenologico è invece tutto ciò che è inerente al modo del mostrare e
dell’esplicare e tutto ciò che esprime la concettualità implicita in questa
ricerca » (Sein und Zeit, $ 7). In altri termini si può parlare di « oggetto
fenomenico » o « realtà fenomenica +», ma si deve parlare di « ricerca fenomenologica
» di «epoché fenomenologica?, ecc. L’aggettivo F. qualifica l’oggetto che si
rivela nel fenomeno, l’aggettivo fenomenologico qualifica il manifestarsi
dell’oggetto nella sua « essenza » nonchè la ricerca che rende possibile questo
manifestarsi. FENOMENISMO (ingl. Phenomenalism; francese Phénoménisme; ted.
Phinomenalismus). La dottrina che la conoscenza umana è limitata ai fenomeni,
nel significato 2° del termine. La parola designa sia le filosofie che tuttavia
ammettono l’esistenza di una realtà diversa del fenomeno (come quelle di Kant o
di Spencer) sia le filosofie che negano ogni realtà che non sia il fenomeno
(Renouvier, Hodgson). Il termine è stato coniato nell’800. Ma la filosofia
fenomenistica è nata nel ’700 ed è la filosofia dell’Hluminismo. FENOMENO (gr.
tà pawéueva; ingl. Phenomenon; franc. Phénomène; ted. Phanomen). 1. Lo stesso
che apparenza (v.). In questo senso il F. è l'apparenza sensibile, che si
contrappone alla realtà, FENOMENOLOGIA della quale per altro può essere assunto
come la manifestazione; o al fatto col quale per altro può essere considerato
identico (v. FATTO). È questo il significato solitamente assunto dalla parola
nel linguaggio comune (anche quando questo allude a un’apparenza paradossale e
insolita, per es., mostruosa) ed è anche il significato che ricorre in Bacone
(nel De /nterpretatione naturae proemium, 1603), in Cartesio (Princ. Phil., III, 4), in Hobbes (De
Corp., 25, $ 1) e in Wolff (Cosm., $ 225). 2. A partire dal sec. xvni e in connessione con la
rivalutazione dell’apparenza come manifestazione della realtà ai sensi e
all’intelletto dell’uomo, la parola F. comincia a designare l’oggetto specifico
della conoscenza umana in quanto appunto appare sotto particolari condizioni,
caratteristiche della struttura conoscitiva dell’uomo. In questo senso la
nozione di F. è correlativa con quella di cosa in sè (v.) e la richiama per
opposizione contraria. A misura che si riconosce che gli oggetti della
conoscenza si rivelano nei modi e nelle forme proprie della struttura conoscitiva
dell’uomo e che perciò essi non sono le «cose in se stesse» cioè le cose quali
sono o potrebbero essere al di fuori del rapporto conoscitivo con l’uomo,
l’oggetto della conoscenza umana si configura come F. cioè come cosa apparente
in quelle condizioni: il che ovviamente non vuol dire cosa ingannevole o
illusoria. È la filosofia del ’700 che fa questo passo. Hobbes che ha in linea
di principio rivalutato il F. come apparenza in generale (De Corp., 25, $ 1; v.
ApPARENZA) non conferisce alcun significato limitativo o correttivo alla parola
F. con cui designa ogni oggetto possibile della conoscenza umana. Maupertuis
che nelle Lettere del 1752 afferma che l’estensione è un F. come tutte le cose
corporee (CEuvres, 1756, II, 198 sgg.) esprime invece la convinzione, assai
comune al suo tempo, di una limitazione della conoscenza umana; ed è da questa
convinzione che ha preso le mosse Kant per la sua distinzione tra F. e noumeno.
Secondo Kant, il F. è in generale l’oggetto della conoscenza in quanto condizionato
dalle forme dell’intuizione (spazio e tempo) e dalle categorie dell’intelletto.
« F. dice Kant è ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova
sempre nel rapporto di esso col soggetto ed è inseparabile dalla
rappresentazione che questo ne ha. Giustamente perciò i predicati dello spazio
e del tempo sono attribuiti agli oggetti dei sensi come tali, e in ciò non c’è
illusione. AI contrario, se attribuisco alla rosa in sè il color rosso, a
Saturno gli anelli o a tutti gli oggetti esterni in sè l’estensione, senza
considerare il rapporto di questi oggetti con il soggetto e senza limitare il
mio giudizio a questo rapporto, allora nasce l’illusione » (Crif. R. Pura,
Estetica trascen387 dentale, $ 8, Osserv. gen., nota). Tale significato nel quale
veniva fissato un diffuso filosofema del sec. XVI è rimasto come uno dei
significati fondamentali del termine e precisamente quello in rapporto al quale
si parla di fenomenismo. Questo significato è contrassegnato dalla limitazione
di validità che importa nella conoscenza umana. F. è in questo senso non
l’oggetto che si manifesta ma l’oggetto che si manifesta all’uomo nelle
particolari condizioni limitative che questo rapporto con l’uomo implica. 3.
Tuttavia nella filosofia contemporanea, a partire dalle Ricerche logiche
(1900-01) di Husserl, F. ha cominciato a indicare non solo ciò che appare o si
manifesta all’uomo in particolari condizioni, ma ciò che appare o si manifesta
in se stesso, cioè com'è in sè, nella sua essenza. Vero è che per Husserl il fenomeno
in questo senso non è una manifestazione naturale o spontanea della cosa: esige
altre condizioni che sono quelle poste dalla ricerca filosofica come
fenomenologia (v.). Il senso fenomenologico di F. come «rivelazione di essenza
» (HusseRL, /deen, I, Intr.) si aggiunge perciò al significato critico di F.,
senza eliminarlo. Su esso ha insistito Heidegger considerando il F. come puro e
semplice apparire dell'essere in sè e distinguendolo pertanto dalla semplice
apparenza (Erscheinung o blosse Erscheinung): che è l’indizio o l’annunzio
dell’essere (il quale però rimane nascosto) e che perciò è il non manifestarsi
o il nascondersi dell’essere stesso (Sein und Zeit, $ 7, A). Ovviamente in
questo senso la nozione di F. non si contrappone più a quella di cosa in sè: il
F. è l’in sè della cosa nel suo manifestarsi: il quale pertanto non costituisce
un’apparenza della cosa stessa ma si identifica col suo essere. Possiamo allora
ricapitolare nel modo seguente i tre significati tuttora in uso della parola
F.: 1° l’apparenza grezza (o il fatto bruto) sia che la si consideri o meno
come manifestante la realtà o il fatto reale; 2° l’oggetto della conoscenza
umana, qualificato e delimitato dal rapporto con l’uomo; 3° il rivelarsi
dell’oggetto in sè. FENOMENOLOGIA (ingl. Phenomenology; franc. Phénoménologie;
ted. Phanomenologie). La descrizione di ciò che appare o la scienza che ha come
suo compito o progetto questa descrizione. Il termine è stato probabilmente
coniato nella scuola wolfiana. Lambert lo adopera come titolo della quarta
parte del suo Nuovo organo (1764) ed intende per esso lo studio delle fonti di
errore. Qui l’apparenza, di cui la F. è la descrizione, è intesa come apparenza
illusoria. Da Kant invece il termine viene adoperato per indicare quella parte
della teoria del movimento che considera il movimento o la quiete della materia
solamente in rap388 porto con le modalità in cui essi appaiono al senso esterno
(Meraphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft, 1786, Pref.). A sua volta
Hegel chiamò «F. dello spirito» la storia romanzata della coscienza che, dalle
sue prime apparenze sensibili, giunge ad apparire a se stessa nella sua vera
natura cioè come Coscienza infinita o universale. In questo senso la F. dello
spirito è da lui identificata col «divenire della scienza o del sapere»; ed
Hegel scorge in essa la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre
i gradi di formazione dello Spirito universale, come figure già deposte o tappe
di una via già tracciata e spianata (Phénomen. des Geistes, Pref., ed.
Glockner, pag. 31). Ancora un altro significato dette al termine Hamilton
intendendo con esso (Lectures on Logic, 1859-60, I, pag. 17) la psicologia
descrittiva e in questo significato cioè come pura descrizione dell’apparenza
psichica, preparatoria per la spiegazione dei fatti psichici, il termine è
stato frequentemente adoperato nella cultura filosofica tedesca della seconda
metà del sec. xx e dei primi anni del ‘900. Eduardo Hartmann intitolò F. della
coscienza morale (Phànomenologie des sittliche Bewusstseins, 1879) la raccolta
dei dati empirici della coscienza morale, indipendente dalla loro
interpretazione speculativa. Ma l’unica nozione oggi viva di F. è quella
(correlativa al significato 3° di fenomeno) annunziata da Husserl nelle
Ricerche logiche (1900-01, II, pag. 3 sgg.) e poi da lui stesso sviluppata
nelle opere successive. Husserl medesimo si è preoccupato di eliminare la
confusione tra psicologia e fenomenologia. La psicologia, egli ha detto, è una
scienza di dati di fatto; i fenomeni che essa considera sono accadimenti reali
e si inseriscono, insieme con i soggetti a cui appartengono, nel mondo
spazio-temporale. La F. invece (che egli chiama 4 pura » o «trascendentale ») è
una scienza di essenze (perciò «eidetica +) e non di dati di fatto; ed è resa
possibile solamente dalla riduzione eidetica che per l'appunto ha il compito di
purificare i fenomeni psicologici dalle loro caratteristiche reali o empiriche
e di portarli sul piano della generalità essenziale. La riduzione eidetica,
cioè la trasformazione dei fenomeni in essenze, è anche riduzione
fenomenologica in senso stretto perchè trasforma tali fenomeni in irrealtà
(Ideen, I, Intr.). In questo significato, la F. costituisce un indirizzo
filosofico particolare che pratica la filosofia come ricerca fenomenologica
cioè avvalendosi della riduzione fenomenologica e della epoché (v.). I
risultati fondamentali cui questa ricerca ha condotto per opera di Husserl
possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° il riconoscimento del
carattere intenzionale della coscienza (v.), per il quale la coscienza è un
movimento di trascendenza verso FENOMENOLOGIA l'oggetto e per il quale
l’oggetto stesso si dà o si presenta alla coscienza «in carne e ossa? o «in
persona +; 2° l’evidenza della visione (intuizione) dell’oggetto dovuta alla
presenza effettiva dell’oggetto stesso; 3° la generalizzazione della nozione di
oggetto, che comprende non solo le cose materiali ma anche le forme
categoriali, le essenze e in generale gli «oggetti ideali » (/deen, I, $ 15);
4° il carattere privilegiato della « percezione immanente » cioè della
coscienza che l'io ha delle proprie esperienze, in quanto apparire ed essere
coincidono perfettamente in questa percezione, mentre non coincidono nella
intuizione dell’oggetto esterno il quale non si identifica mai con le sue
apparizioni alla coscienza ma rimane al di là di esse (/bid., $ 38). Non tutti
questi capisaldi sono accettati dai pensatori contemporanei che si avvalgono
della ricerca fenomenologica: soltanto il primo di essi cioè il riconoscimento
del carattere intenzionale della coscienza per cui l’oggetto è trascendente
rispetto ad essa € tuttavia presente «in carne e ossa? trova credito non solo
presso questi pensatori ma in una ampia cerchia di filosofi contemporanei. Della
ricerca fenomenologica si è avvalso Nicolai Hartmann per la fondazione del suo
realismo (v.) metafisico; Scheler per la sua analisi delle emozioni (v.) e
Heidegger come metodo per la sua ontologia. Quest'ultimo esprime con tutta
chiarezza il carattere proprio della F. quando afferma: « L’espressione ‘ F.’
significa prima di tutto un concetto di metodo. Essa non caratterizza la
consistenza di fatto dell'oggetto dell’indagine filosofica, bensì il suo
come... Il termine esprime un motto che potrebbe venir formulato così: alle
cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate in aria e ai
trovamenti causali; in contrapposizione all’accettazione di concetti solo
apparentemente giustificati ed ai problemi apparenti che si impongono da una
generazione all’altra come veri problemi » (Sein und Zeit, $ 7). Pertanto ciò
che la F. mostra è ciò che innanzitutto e per lo più mon si manifesta, ciò che
è nascosto; ma che tuttavia è tale da esprimere il senso e il fondamento di ciò
che innanzitutto e per lo più si manifesta. E in questo senso la F. è la sola
possibile ontologia (Ibid., $ 7 C). In modo analogo la F. viene intesa da
Sartre (L’étre et le néant, Intr., $ 1-2) e da Merleau-Ponty (Phénoménologie de
la perception, Pref.). L'impostazione fenomenologica della filosofia non
implica pertanto la riduzione dell'esistenza all’apparenza e non si può a
nessun titolo scambiare per fenomenismo (v.). Il concetto stesso di fenomeno
cui si fa riferimento è in questo caso diverso. Essa d’altronde non implica
neppure la eliminazione della differenza tra l’apparire e l’essere, sebbene
venga senz’altro eliminato il vecchio FIDEISMO dualismo. Dice, per es., Sartre:
« Il fenomeno d’essere esige la transfenomenalità dell’essere. Ciò non vuol
dire che l’essere si trovi nascosto dietro i fenomeni (abbiamo visto che il
fenomeno non può mascherare l'essere), nè che il fenomeno sia una apparenza che
rinvia a un essere distinto (solo in quanto apparenza il fenomeno è, esso cioè
si indica sul fondamento dell’essere). Ma l’essere del fenomeno, per quanto
coestensivo col fenomeno, deve sfuggire alla condizione fenomenica — che è
quella per cui si esiste solo in quanto ci si manifesta — e per conseguenza
trascende e fonda la conoscenza che se ne ha» (L’érre et le néant, Intr., $ 2).
Il rapporto tra l’apparenza e l’essere, nell’ontologia fenomenologica, può
essere variamente definito o analizzato, ma tuttavia non si modella sul
rapporto tradizionale di apparenza e realtà. FENOMENO ORIGINARIO. V.
UrpHANoMENON. FERIO. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il
quarto modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che consiste
di una premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e
di una conclusione particolare negativa come nell’esempio: « Nessun animale è
pietra, Alcuni uomini sono animali, Dunque alcuni uomini non sono pietra»
(Pretro IsPano, Summul. logic., 4.07). FERISON. Parola mnemonica usata dagli
Scolastici per indicare il sesto dei sei modi del sillogismo di terza figura e
precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
premessa particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa come
nell'esempio: « Nessun uomo è pietra, Qualche uomo è animale, Dunque qualche
animale non è pietra» (Pietro IsPaNO, Summa. logic., 4.15). FESPAMO. Parola
mnemonica usata dalla Logica di Portoreale per indicare l’ottavo modo del
sillogismo di prima figura (cioè il Fapesmo) con la modificazione di assumere
per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato della
conclusione. L'esempio è il seguente: « Nessuna virtù è una qualità naturale,
Ogni qualità naturale ha Dio come primo autore, Dunque ci sono qualità che
hanno Dio per autore, che non sono virtù » (ARNAULD, Logique, III, 8). FESTINO.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il terzo dei quattro modi
della seconda figura del sillogismo e precisamente quello che consiste di una
premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una
conclusione particolare negativa, come nell’esempio: Nessuna pietra è animale,
Qualche uomo è animale, Dunque qualche uomo non è pietra » (Pietro Ispano,
Sunmul. logic., 4.11). 389 FETICISMO (ingl. Ferishism; franc. Fétichisme; ted.
Fetichismus). Propriamente la credenza nel potere soprannaturale o magico di
particolari oggetti materiali (fericci dal portoghese fetico = artificiale).
Più generalmente, l’atteggiamento di chi consideri animati gli oggetti
materiali, e i tipi di religione o di filosofia fondati su questa credenza. In
questo secondo significato il termine è ora caduto in disuso perchè sostituito
da animismo (v.). I filosofi adoperano la parola più spesso in senso
dispregiativo; per es., Mach chiamò F. la credenza nei concetti di causa e di
volontà (Popularwissenschaftliche Vorlesungen, 1896, pag. 269). Comte aveva
esaltato il F. considerandolo in qualche modo affine al positivismo: in quanto
entrambi vedono in tutti gli esseri una attività che è analoga o simile a
quella umana e così stabiliscono quell’unità fondamentale del mondo che è
espressa nella teoria del Grande Essere (Politique Positive, III, pag. 87; IV,
pag. 44). Kant, dall’altro lato, chiamò F. la religione magica cioè la
religione di chi si serve di certe azioni, che di per sè non contengono nulla
di gradito a Dio cioè di morale, come mezzi per acquistare il favore divino e
per soddisfare i propri desideri. In questo senso il sacerdozio è « la
costituzione di una chiesa in cui regna un culto feticista, il quale si
incontra là dove, non già principi di moralità, ma comandamenti statutari,
regole di fede e osservanze costituiscono il fondamento e l’essenza del culto»
(Religion, IV, sez. 2, $ 3). FICHTISMO. V. ROMANTICISMO. FIDEISMO (ingl.
Fideism; franc. Fidéisme; ted. Fideismus). Si chiamò con questo termine
l’indirizzo filosofico-religioso sostenuto, nei primi decenni del sec. xrx,
dall’abate Bautain, da Huet, da Lamennais e da quest’ultimo specialmente
nell'opera Essais sur l’indifférence en matière de religion (1817-23):
indirizzo che consiste nel contrapporre alla ragione « individuale » una
ragione « comune » che sarebbe una specie di intuizione delle verità
fondamentali comuni a tutti gli uomini. Questa intuizione troverebbe la sua
origine in una rivelazione primitiva e si trasmetterebbe mediante la tradizione
ecclesiastica; essa sarebbe perciò a fondamento della fede cattolica. La
dottrina era diretta a giustificare il primato della tradizione ecclesiastica.
In realtà negava alla chiesa la prerogativa di essere l’unica depositaria della
tradizione autentica e negava alla tradizione l’appoggio della ragione. Dopo la
condanna della chiesa (1834), il termine assunse, presso gli scrittori
cattolici, un significato peggiorativo. Si continuò tuttavia e si continua a
usare, per indicare in generale ogni atteggiamento che veda nella fede uno
strumento di conoscenza superiore alla ragione e indipendente dalla ragione
stessa. 390 FIGURA (gr. oyfpua; lat. Figura; ingl. Figure; franc. Figure; ted.
Figur, Gestalt). 1. Con questo termine sono tradizionalmente chiamate le forme
fondamentali del sillogismo, distinte dai modi (v.) che sono specificazioni di
tali forme. Aristotele distinse le varie figure del sillogismo a seconda della
funzione del termine medio che è quello che serve a dimostrare l’inerenza del
predicato al soggetto della conclusione. Nella prima F., il termine medio fa da
soggetto nella premessa maggiore e da predicato nella premessa minore. Nella
seconda F., fa da predicato in entrambe le premesse, una delle quali è
negativa, e la conclusione è anche negativa. Nella rerza F., fa da oggetto in
entrambe le premesse e la conclusione è particolare. La tradizione attribuisce
a Galeno, il famoso medico e filosofo aristotelico del rr secolo d. C., la
distinzione di una quarta F., cioè quella nella quale il termine medio funge da
predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore: i modi
di questa F. erano stati compresi da Aristotele tra quelli della prima. La
separazione fu fatta perchè si definì come premessa maggiore quella che
comprende il predicato della conclusione e come premessa minore quella che
comprende il soggetto della conclusione stessa (PRANTL, Geschichte der Logik,
I, pag. 570 sgg.). Ogni F. si distingue a sua volta in un certo numero di modi
a seconda della qualità e della quantità delle proposizioni costituenti le
premesse e la conclusione: cioè a seconda che le premesse e la conclusione
sono, ciascuna, universale o particolare, affermativa o negativa. Poichè nella
Scolastica si adoperò la lettera A per indicare la proposizione universale affermativa,
la lettera E per indicare quella universale negativa, la lettera Z per indicare
la proposizione particolare affermativa e la lettera O per indicare
laproposizione particolare negativa (donde i versi: A affirmat, negat E, sed
universaliter ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae), si formarono
parole mnemoniche per indicare i vari modi del sillogismo cioè parole, nelle
quali le prime due vocali indicano le premesse e la terza la conclusione. Così
i nove modi della prima F. furono indicati con le parole: Barbara, Celarent,
Darii, Ferio, Baralipton, Celantes, Debitis, Fapesmo, Frisemorum. I quattro
modi della seconda F. furono indicati con le parole: Cesare, Camestres,
Festino, Baroco. I sei modi della terza F. furono indicati con le parole: Darapti,
Felapto, Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Gli ultimi quattro modi della prima
F. sono quelli che si attribuiscono alla quarta F., quando viene distinta. Le
iniziali delle parole mnemoniche hanno anche un significato. Tutti i modi
indicati da una parola che comincia con 8 sono riducibili al primo modo della
prima F.; quelli indicati da una parola che coFIGURA mincia con C sono
riducibili al secondo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che
comincia con D al terzo e quelli indicati con una parola che comincia con F al
quarto modo della prima F. (cfr. sull’uso delle parole mnemoniche Pietro
Ispano, Summ. Log., 4.18 sgg.). Per i singoli modi, v. le relative parole. 2.
Con lo stesso termine, che traduce il tedesco Gestalt, si indicano le
determinazioni della fenomenologia dello spirito di Hegel. Queste
determinazioni sono « figure della coscienza » (Phdnomen. des Geistes, pref.,
ed. Glockner, pag. 36 e passim) o « gradi della via già tracciata e spianata »
dallo Spirito universale; cioè tappe attraverso le quali la coscienza è giunta
alla coscienza di sè come Coscienza infinita o assoluta. Come è noto, tra le F.
della fenomenologia Hegel include anche creazioni fantastiche: il che
stabilisce una differenza fra tali F. e le caregorie che costituiscono
l’oggetto dell’Enciclopedia. Le categorie sono infatti determinazioni
necessarie e necessariamente reali. FIGURAE DICTIONIS (FALLACIA). Paralogismo
in dictione (v. FALLACIA), consistente in un erroneo uso grammaticale nelle
premesse, che genera conseguenze paradossali o conseguenze grammaticalmente
impossibili (a Omnis homo est albus, mulier est homo, ergo mulier est albus»).
Cfr. ARISTOTELE, Soph. El., 4, 166b 10; Pietro IsPano, Summ. Log., 7.34 sgg.;
JunGIUs, Logica Hamb., VI, 7; ecc. G. P. FILANTROPIA (gr. puav9porta; lat.
Philanthropia; ingl. Philanthropy; franc. Philanthropie; ted. Philanthropie).
L'amicizia dell’uomo verso l’altro uomo. Così la intesero Aristotele (Et. Nic.,
VIII, 1, 1155, a. 20) e gli Stoici, i quali la attribuirono al legame naturale
per cui tutta l'umanità costituisce un solo organismo. «Ne deriva, dice
Cicerone, che è naturale anche la reciproca solidarietà degli uomini tra loro,
per cui necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un altro
uomo, per il fatto stesso che è uomo» (De fin., III, 63). Diogene Laerzio ne
attribuisce il concetto anche a Platone, che l’avrebbe diviso in tre aspetti:
il saluto, l’aiuto, l’ospitalità (Diog. L., III, 98). Nel linguaggio moderno,
il significato del termine si è ristretto al secondo degli aspetti distinti da
Platone. L'atteggiamento generale di benevolenza verso gli uomini è spesso oggi
chiamato altruismo (v.). FILAUTIA. V. AMOR DI sè. FILODOSSIA (gr. quodotta;
lat. Philodoxy; franc. Philodoxie; ted. Philodoxie). La parola (che
propriamente significa «amore di gloria +) fu adoperata da Platone per indicare
gli «amanti della opinione » in contrapposizione agli « amanti della scienza »
che sono i filosofi. Gli amanti dell’opiFILOSOFIA nione sono quelli a cui piace
ascoltare belle voci, guardare bei colori, ecc., ma che sono alieni dal
considerare il bello come un essere a sè (Rep., V, 480 a). Kant ha chiamato F.
l’atteggiamento di coloro che rigettano non solo il metodo della critica, da
lui proposto, ma anche il metodo della fondazione di Wolff, che consiste nel
procedere stabilendo i princìpi, definendo i concetti e cercando il rigore
nelle dimostrazioni (Crift. R. Pura, Prefazione alla 28 ediz.). FILOGENESI. V.
BiogENETICA, LEGGE. FILOLOGIA (gr. quoroyla; lat. Philologie; ingl. Philology;
franc. Philologie; ted. Philologie). Amore dei discorsi, intendeva Platone
(Teer., 161 a) con questa parola che, nell’età moderna, è passata a designare
la scienza della parola o meglio lo studio storico del linguaggio. Vico
contrappose filosofia e F.: « La filosofia contempla la ragione onde viene la
scienza del vero; la F. osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la
coscienza del certo + (Scienza Nuova, degn. 10). Compito dei filologi sarebbe «
la cognizione delle lingue e dei fatti dei popoli ». F. e filosofia si
completano nel senso che i filosofi dovrebbero « accertare » le loro ragioni
con l'autorità dei filologi e i filologi dovrebbero «avverare » le loro
autorità con la ragione dei filosofi. Nel concetto moderno, la F. è la scienza
che ha per fine la ricostruzione storica della vita del passato attraverso il
linguaggio e quindi i documenti letterari di esso. I progetti e i risultati di
questa scienza, così come si è venuta formando soprattutto nel sec. xIx, vanno
perciò molto al di là del modesto compito, al quale avrebbero voluto confinarla
i filosofi dell’idealismo romantico. Già Hegel polemizzava contro «i filologi »
cioè gli storici che facevano il loro mestiere, in nome della storia
filosofica, la sola capace di scoprire a priori il piano provvidenziale del
mondo (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 8 sgg.). Croce nello stesso
senso chiamava storia filologica la storia degli storici alla quale
contrapponeva la storia « speculativa » che identificava con la filosofia
(CROCE, Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come pensiero e
come azione, 1938). In realtà, la storia filologica è la storia degli storici,
mentre la storia speculativa non è che la concezione provvidenzialistica del
mondo storico, che non ha nulla a che fare con la storiografia scientifica (v.
STORIOGRAFIA). L'aggettivo filologico non può neppure essere applicato a
designare forme piatte e mal riuscite di storiografia giacchè la F. non è per
nulla responsabile di esse. E anche quella funzione di conservazione e di
ripristino del materiale documentario e delle fonti che Nietzsche chiamò storia
archeologica (v.) non è un tipo inferiore di storia, perchè è possibile solo
sul fonda391 mento di un interesse intelligente che guidi le scelte opportune e
le faccia servire all’opera della critica e della ricostruzione storica.
FILOSOFEMA (gr. quootpnua; lat. Philosophema; ingl. Philosopheme; franc.
Philosophème; ted. Philosophem). In generale, discorso filosofico. Nella logica
di Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a 15) è il «ragionamento dimostrativo».
Fuori della logica: concetto o luogo comune filosofico. In questo secondo senso
è usato da Aristotele stesso (De caelo, II, 13, 294a 19) e dalla tradizione
posteriore. G. P.-N. A. FILOSOFIA (gr. quocopla; lat. Philosophia; ingl.
Philosophy; franc. Philosophie; ted. Philosophie). La disparità delle F. si
riflette ovviamente nella disparità dei significati di « F. » senza tuttavia
impedire di riconoscere in essi alcune costanti. Fra esse, meglio si presta a connettere
e articolare i significati diversi del termine la definizione illustrata
nell’Eutidemo platonico: la F. è l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo.
Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le
pietre in oro se non si sapesse servirsi dell'oro; a nulla servirebbe la
scienza che rendesse immortale se non si sapesse servirsi dell’immortalità; e
via dicendo. Occorre dunque una scienza nella quale coincidono il fare e il
sapersi servire di ciò che si fa; e questa scienza è la F. (Eurid., 288 e-290
d). Secondo questo concetto, la F. implica: 1° il possesso o l'acquisto di una
conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile; 2°
l’uso di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo. Questi due elementi ricorrono
frequentemente nelle definizioni che sono state date della F. in epoche diverse
e da diversi punti di vista. Essi si riscontrano, per es., nella definizione di
Cartesio, secondo la quale «questa parola F. significa lo studio della saggezza
e per saggezza non s’intende soltanto la prudenza negli affari ma una perfetta
conoscenza di tutte le cose che l’uomo può conoscere sia per la condotta della
sua vita sia per la conservazione della sua salute e l’invenzione di tutte le
arti» (Princ. Phil., Pref.). Si ritrovano ugualmente nella definizione di
Hobbes, per la quale la F. è da un lato conoscenza causale, dall'altro
utilizzazione di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo (De Corp., 1, $ 2, 6);
e in quella di Kant che definisce il concetto cosmico della F. (cioè il
concetto di essa che interessa necessariamente ogni uomo) come quello di « una
scienza della relazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione
umana» (Crift. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III). Questo fine
essenziale è la « felicità universale»: la F. pertanto «riferisce tutto alla
saggezza, ma per la via della scienza» (/bid., in fine). Non diverso
significato ha la definizione 392 della F. data da Dewey come «critica dei
valori » cioè « critica delle credenze, delle istituzioni, dei costumi, delle
politiche, rispetto alla loro portata sui beni» (Experience and Nature, pag.
407). Queste definizioni (che si adducono qui solo come esempi) si lasciano
tutte ricondurre alla formula platonica che abbiamo citato in principio. Quella
formula ha il vantaggio di non assumere nulla circa la natura e i limiti del
sapere accessibile all'uomo o circa gli scopi cui l’uso può essere indirizzato.
Si può pertanto intendere quel sapere sia come rivelazione o possesso sia come
acquisto o ricerca; e l’uso di esso può essere inteso come diretto alla
salvezza ultramondana o terrena dell’uomo come all’acquisto di beni spirituali
o materiali o alla realizzazione di rettifiche o mutamenti nel mondo. Pertanto
quella formula appare adatta ugualmente ad esprimere i compiti disparati che la
F. si è di volta in volta assunti. E, per es., essa esprime egualmente bene sia
il compito delle F. positive o dogmatiche sia quello delle F. negative o
scettiche. Quando lo scetticismo antico si propone di realizzare, mediante la
sospensione dell’assenso, l’imperturbabilità dell’anima (Sesto E., /p. Pirr.,
I, 25-27) non fa che intendere la F. come l’uso di un certo sapere per
conseguire un vantaggio. Analogamente quando, nella F. contemporanea,
Wittgenstein afferma che lo scopo della F. è quello di far sparire gli stessi
problemi filosofici e di eliminare la F. stessa o di « guarire» da essa
(Philosophical Investigations, $ 133) non fa appello ad un concetto diverso di
F.: la liberazione dalla F. è il vantaggio che l’uso del sapere (che è in
questo caso la rettificazione linguistica di esso) può procurare. I due
elementi riconoscibili della definizione della F., che si è ritenuta adatta ad
apprestare il quadro delle articolazioni principali del significato del
termine, costituiscono già di per se stessi la prima di tali articolazioni. Si
possono in altri termini distinguere i significati storicamente dati del
termine: 1° rispetto alla natura o alla validità del sapere cui la filosofia fa
riferimento; 2° rispetto alla natura dello scopo cui la F. intende indirizzare
l’uso di questo sapere. Infine, 3° si possono distinguere i significati del
termine rispetto alla natura del procedimento che si ritiene proprio della
filosofia. I. La filosofia e il sapere. — L’uso del sapere al quale l'uomo, a
qualsiasi titolo, accede, è, in primo luogo, un giudizio sull’origine o la
validità di tale sapere. E a proposito del giudizio sulla validità del sapere,
si offrono subito due alternative fondamentali che stabiliscono la distinzione
fra due tipi diversi ed opposti di filosofia. La prima alternativa stabilisce
l’origine divina del sapere: esso è per l’uomo una rivelazione o un dono. La
seconda FILOSOFIA alternativa stabilisce l’origine umana del sapere: esso è un
acquisto o una produzione dell’uomo. La prima alternativa è la più antica e la
più frequente nel mondo, dal momento che è quella di gran lunga prevalente
nelle F. orientali. La seconda alternativa è quella sorta in Grecia e di cui il
mondo occidentale moderno è l’erede. A) Secondo la prima alternativa, il sapere
è una rivelazione o illuminazione divina di cui sono stati privilegiati uno o
più uomini e che si trasmette per tradizione in un gruppo altrettanto
privilegiato di uomini (casta, setta o chiesa). Esso non è quindi accessibile
ai comuni mortali se non per il tramite di coloro che ne sono i depositari; nè
è possibile, ai comuni e non comuni mortali, incrementarne il patrimonio o
giudicarne la validità. Fa parte integrante di questa interpretazione
dell’origine del sapere la credenza che anche l’uso di esso a vantaggio
dell'uomo — vantaggio che in questo caso è la «salvezza» — sia dettato o
prescritto dalla rivelazione o illuminazione divina. Sembra dunque che questa
interpretazione elimini o renda superfluo il «lavoro » filosofico che verte
appunto su quest’uso. Ma in realtà ciò accade di rado. L'esigenza di avvicinare
la verità rivelata alla comune comprensione umana, di adattarla alle
circostanze e far sì che essa risponda ai problemi nuovi o mutati che gli
uomini si pongono, di difenderla contro negazioni, deviazioni, incredulità
dichiarate o nascoste, fa sì che il lavoro filosofico trovi, in questa
concezione del sapere, un vasto campo per esplicarsi e compiti molteplici cui
far fronte. Tale lavoro rimane però subordinato e ancillare: non è e non può
essere decisivo, quando si tratta delle interpretazioni fondamentali e delle
istanze ultime. Trova nella rivelazione e nella tradizione limiti insuperabili
che gli vietano ogni possibilità di sviluppo in direzioni diverse da quelle che
esse determinano. Non può combattere e distruggere le credenze stabilite,
opporsi radicalmente alla tradizione, promuovere o progettare rinnovamenti
radicali. La sua funzione è quella di conservare le credenze stabilite, non di
rinnovarle o rettificarle: è perciò una funzione subordinata e strumentale,
priva della autonomia e della dignità di una forza direttiva. Si è già detto
che quasi tutte le F. orientali sono di questa natura: il che ha fatto talora
dubitare che possano chiamarsi filosofie. Ma in realtà lo stesso mondo
occidentale offre frequentemente esempi di F. di questo genere, per quanto
nessuna di esse presenti in tutto il loro rigore i caratteri ora esposti. Dal
nome del più importante di questi esempi, le forme che questo tipo di F. ha
assunto nel mondo occidentale si possono chiamare scolastiche. Una scolastica,
a differenza di una FILOSOFIA F. di schietto tipo orientale, presuppone una F.
autonoma e si avvale di essa; ma se ne avvale per la difesa e l'illustrazione
di una verità religiosa cioè per confermare o difendere credenze la cui
validità si ritiene stabilita in anticipo e indipendentemente da ogni conferma
o difesa. Una scolastica, come dice la parola stessa, è essenzialmente uno
strumento di educazione: serve ad avvicinare l’uomo, per quanto è possibile, a
un sapere ritenuto immutabile nelle sue linee fondamentali, perciò non
suscettibile di essere rettificato o rinnovato. Tra i compiti, d’altronde
molteplici come sono molteplici le vie di accesso dell'uomo alla verità e gli
ostacoli che si incontrano su queste vie, che una F. scolastica riconosce a se
stessa, non c’è l’eventuale abbandono delle credenze di cui essa è
l’interprete. Le sètte filosofico-religiose del n secolo a. C. (per es., gli
Esseni), le dottrine di Filone di Alessandria (1 secolo d. C.) e di molti
Neoplatonici, la F. islamica e giudaica, la Patristica e la Scolastica nonchè,
nel mondo moderno, l’occasionalismo, l’immaterialismo, la Destra hegeliana e
buona parte dello spiritualismo contemporaneo, sono scolastiche nel senso ora
chiarito: cioè F. che consistono nell’utilizzare una determinata dottrina (il
platonismo, l’aristotelismo, il cartesianesimo, l’empirismo, l’idealismo, ecc.)
per la difesa e l’interpretazione di credenze che non possono, attraverso
questo lavoro, essere revocate in dubbio, rettificate o negate. Certamente
queste diverse scolastiche posseggono gradi di libertà diversi e tali gradi
variano talvolta, per ciascuna di esse, da un periodo all’altro. S. Tommaso,
per es., mentre conferisce alla « F. umana» una certa autonomia in quanto
riconosce propria di essa la considerazione e lo studio delle cose create in
quanto tali cioè la loro natura e le loro proprie cause (Contra Gent., II, 4),
ritiene tuttavia impossibile che essa possa contraddire le affermazioni della
fede cristiana la quale dev’essere assunta come regola del corretto procedere
della ragione (Ibid., 1, 7). Per quanto F. di questo genere possano conseguire
risultati importanti, che entrano a far parte del patrimonio filosofico comune,
il loro ambito è strettamente delimitato dal problema su cui sono impostate,
della difesa delle credenze tradizionali: le loro possibilità non si estendono
alla rettificazione e al rinnovamento di tali credenze. B) Per la seconda
alternativa, il sapere è un acquisto o una produzione dell’uomo. Il fondamento
di questa concezione è che l’uomo è un « animale ragionevole » e che perciò «
tutti gli uomini, come dice Aristotele all’inizio della Metafisica (980 a 21),
tendono per natura al sapere»: tendono vuol dire qui che non solo lo desiderano
ma possono conseguirlo. Il sapere, da questo punto di 393 vista, non è
privilegio o patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo
acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in capitolo per giudicarlo: cioè
per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e l’organizzazione del sapere è, da
questo punto di vista, il compito fondamentale della filosofia. Quando Tucidide
(II, 40) fa dire a Pericle: «Noi amiamo il bello con moderazione e filosofiamo
senza timidezza» esprime certamente l’atteggiamento dello spirito greco dal
quale è nata la F. in questo secondo significato del termine. Pericle non
alludeva a una disciplina specifica ma alla ricerca del sapere condotta senza
impegni pregiudiziali o con l’unico impegno di saggiare e mettere a prova ogni
credenza possibile. In questo senso la F. è una creazione originale dello
spirito greco e una condizione permanente della cultura occidentale. Essa è
l’impegno che ogni ricerca, in qualsiasi campo condotta, obbedisca soltanto
alle limitazioni o alle regole che essa stessa riconosca valide in vista della
propria possibilità e della propria efficacia discopritrice o confermatrice. La
F. in questo senso si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e
in generale alla credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano
opinione. Il contrasto tra l’opinione e la scienza, tra l’amore dell’opinione e
l’amore della sapienza, è quello su cui più frequentemente insiste Platone nel
chiarire il concetto di F. (Rep., V, 480 a). La F. come ricerca è da Platone
contrapposta da un lato all’ignoranza dall’altro alla sapienza. L'ignoranza è
l’illusione della sapienza e distrugge l'incentivo della ricerca (Conv., 204
a). Dall’altro lato la sapienza, che è il possesso della scienza rende inutile
la ricerca: gli Dei non filosofano (/bid., 204 a; Teet., 278 d). La ricerca
definisce lo status proprio della filosofia. Già Eraclito aveva detto: « È
necessario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose» (Fr.
35, Diels). In quanto ricerca, la F. è «acquisto», come diceva Platone (Eutid.,
288 d), o « sforzo », come dicevano gli Stoici (SESTO EMPIRICO, Adv. Math., IX,
13) o «attività », come dicevano gli Epicurei (/bid., XI, 169). Ma se la F. è
l’impegno che fa del sapere una ricerca, essa condiziona il sapere effettivo,
che è «conoscenza » o «scienza ». Nel giudizio che la F. stessa dà su di esso,
questo condizionamento può assumere tre forme che definiscono tre concezioni
fondamentali della F., quella metafisica, quella positivistica e quella
critica. 1° Per la prima di esse, la F. è l’unico sapere possibile e le altre
scienze, in quanto tali, coincidono con essa o sono parti o preparazione di
essa; 2° per la seconda di esse, la conoscenza è propria delle scienze
particolari e la F. ha il compito di coordinare o unificare i loro risultati;
3° per la terza di essa, la F. è giudizio 394 sul sapere cioè valutazione delle
sue possibilità e dei suoi limiti, in vista del suo uso umano. 1° La prima
concezione della F. è quella metafisica, dominante nell’antichità e nel
Medioevo e che ancora oggi è propria di molti indirizzi filosofici. La sua
caratteristica principale è la negazione di ogni possibilità di ricerca
autonoma fuori della filosofia. Una conoscenza o è conoscenza filosofica o non
è conoscenza affatto. Si ammette spesso che esista, fuori della F., un sapere
imperfetto, provvisorio o preparatorio; ma si nega che tale sapere possegga,
per suo conto, validità conoscitiva. Così Platone da un lato chiama « F.» la
geometria e le altre scienze specialmente in riferimento alla loro funzione
educativa (Teer., 143 d; Tim., 88 c); dall'altro considera tali scienze
(aritmetica e geometria, astronomia e musica) come semplicemente propedeutiche
alla F. vera e propria cioè alla dialettica, la quale avrebbe fra l’altro il
compito di «scoprire la comunanza e la parentela reciproca delle scienze e
dimostrare le ragioni per cui sono connesse l’una con l’altra » (Rep., VII, 531
d). Aristotele definisce la F. come la «scienza della verità » (Mer., II, 1,
993b 20) nel senso che essa comprende tutte le scienze teoretiche cioè la F.
prima, la matematica e la fisica e lascia fuori di sè soltanto l’attività
pratica: ma anche questa deve ricorrere alla F. per essere in chiaro della
propria natura e dei propri fondamenti. Sia Platone che Aristotele ammettono
come scienza prima una disciplina determinata, che per Platone è la dialettica,
per Aristotele è la F. prima o teologia; ma questa disciplina determinata è per
essi anche la più generale. La dialettica infatti, come si è visto, consente di
intendere il collegamento e la natura comune delle scienze; e la F. prima, come
scienza dell’essere in quanto essere, ha per oggetto specifico quell’essenza
necessaria o sostanza, che è compito di ogni scienza indagare nel suo campo
particolare (De part. anim., I, 5, 645 a 1). Altre volte, invece, la F. viene
risolta nelle discipline particolari senza che nessuna di esse risulti
privilegiata. Così facevano gli Epicurei che la dividevano in canonica, fisica
ed etica (Dio. L., X, 29-30); e gli Stoici che la dividevano in logica, fisica
ed etica (AEZIO, Plac., I, 2) considerando queste tre parti unite fra loro come
le membra di un animale (Dios. L., VII, 40). Questa concezione, che identifica
l’intero sapere con la F. e si rifiuta di riconoscere che ci sia o possa
esserci un sapere autentico fuori di essa, è sopravvissuta anche alla
costituzione delle scienze particolari in discipline autonome e s’è conservata
sostanzialmente immutata, in certe correnti filosofiche, sino ai giorni nostri.
La definizione che Fichte dette della F. come di una «scienza della scienza in
generale» (Uber den Begriff der WissenschaftsFILOSOFIA lehre oder der
sogenannten Philosophie, 1794, $ 1) non lascia alcuna autonomia alle scienze
particolari perchè, secondo quella definizione, la dottrina della scienza «
deve dare la sua forma non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre
scienze possibili » e costituire così, il « sistema compiuto ed unico nello
spirito umano » (/bid., $ 2). Questa pretesa si è mantenuta inalterata in tutte
le definizioni che l’idealismo romantico ha dato della filosofia. Non altro
significato hanno le notazioni di Schelling, secondo il quale il compito della
F. è di chiarire l'accordo (che è poi identità) dell’oggettivo e del soggettivo
cioè della natura e dello spirito, e nel portare così a compimento la «
tendenza necessaria di tutte le scienze naturali » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, Intr., $ 1). Esplicitamente Hegel affermava che «le scienze
particolari si occupano degli oggetti finiti e del mondo dei fenomeni »
(Geschichte der Philosophie, Intr., A, $ 2; trad. ital., I, pag. 69); e che
«altra cosa è il processo di origine e i lavori preparatori di una scienza,
altra cosa la scienza stessa» nella quale quelli scompaiono per essere
sostituiti dalla « necessità del concetto » (Enc., $ 246). Questo vuol dire che
sola la F. è scienza perchè solo essa dimostra «la necessità del concetto »,
utilizzando e manipolando a suo modo (come Hegel in realtà fece) il materiale apprestato
dalle cosiddette scienze empiriche. Pertanto Hegel riservava alla F. il
privilegio di essere «la considerazione pensante degli oggetti » (/bid., $ 2).
La conoscenza preliminare o preparatoria è quella che si appoggia su
rappresentazioni; la conoscenza vera e propria si ha quando, con la F., «lo
spirito pensante, attraverso le rappresentazioni e lavorando sopra di esse,
progredisce alla conoscenza pensante e al concetto » (Zbid., $ 1). È chiaro
che, espresso in questa forma, il concetto della F. come totalità del sapere è
una professione di superbia filosofica, che era estranea a questo stesso
concetto nell’età classica. In questa età, infatti, quel concetto agiva come lo
specifico impegno delle discipline scientifiche che da esso venivano immesse
nella sfera della ricerca disinteressata e incoraggiate e sorrette nel loro
costituirsi concettuale. Ma nella concezione dell’idealismo romantico, le
scienze particolari vengono abbassate alla funzione di una mera manovalanza,
priva di qualsiasi validità intrinseca. A questa stessa funzione riducono la
scienza sia l’idealismo, sia lo spiritualismo. La definizione della F. come
«teoria generale dello spirito » porta Gentile a considerarla come la coscienza
che l'Io assoluto ha di se stesso: coscienza di cui le conoscenze empiriche,
fondate sulla distinzione dell’oggetto dal soggetto e degli oggetti tra di
loro, è una falsa astrazione (Teoria generale dello spirito, 1916, caFILOSOFIA
pitolo 15, $ 2). E nonostante la meno appariscente formulazione, la definizione
data da Croce della F. come « metodologia della storiografia », implica la
stessa superbia filosofica. Per Croce la conoscenza storica è l’unica
conoscenza possibile, dato che la storia è l’unica realtà: pertanto la
riduzione della F. a metodologia di tale conoscenza equivale a negare che sia
conoscenza il sapere scientifico: che, infatti, è, per Croce, non un sapere ma
un insieme di espedienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica, 1908, I,
cap. 2). Dall'altro lato, lo spiritualismo contemporaneo segue prevalentemente
la stessa strada. Bergson fa dell’intuizione l’organo della F. perchè vede
nell’intuizione « la visione diretta dello spirito da parte dello spirito» (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 51) cioè lo strumento per attingere,
immediatamente e infallibilmente, quella « durata reale » che è la realtà
assoluta. Il suo riconoscimento della scienza come conoscenza adeguata del
mondo materiale o delle «cose» è puramente fittizio: nè la materia nè le cose
hanno per Bergson realtà come tali perchè non sono che coscienza e la coscienza
può essere autenticamente conosciuta soltanto dalla coscienza stessa: «
Sondando la sua propria profondità la coscienza non penetra pure nell’interno
della materia, della vita, della realtà in generale? Si potrebbe contestarlo
solo se la coscienza si aggiungesse alla materia come un accidente, ma noi
crediamo d’aver mostrato che una simile ipotesi è assurda o falsa, secondo il
lato per cui la si prende, contraddittoria in se stessa o contraddetta dai fatti
» (/bid., pag. 156-57). Il concetto della F. come conoscenza privilegiata (su
qualsiasi titolo poi si appoggi il privilegio) non è che una delle tante
espressioni del vecchio concetto della F. come sapere unico ed assoluto. Le
tendenze che si sogliono chiamare « metafisiche+ del pensiero moderno sono
appunto caratterizzate da questo concetto della filosofia. Husserl così espone
l’ideale cartesiano della F. che egli dichiara di far proprio: « Ricordiamo
l’idea direttiva delle Meditazioni di Cartesio. Essa mira a una riforma totale
della F. per fare di questa una scienza a fondamenti assoluti. Questo implica,
per Cartesio, una riforma parallela di tutte le scienze giacchè queste non sono
che membri di una scienza universale che non è altro che la filosofia. Solo
nell’unità sistematica di questa, esse possono diventare veramente scienze»
(Carr. Med., 1931, $ 1). Nella sua ultima opera Husserl poneva, come prima
condizione della filosofia: « un’epoché da qualsiasi assunzione delle nozioni
delle scienze oggettive, da qualsiasi presa di posizione critica intorno alla
verità o falsità della scienza, un’epoché persino dall’idea direttiva della
scienza, dall’idea di una conoscenza oggettiva del mondo» (Krisis, $ 35). 395
Alla stessa negazione della scienza mettono capo, nonostante l’ampio
riconoscimento della validità del metodo scientifico, le considerazioni di
Jaspers sulla natura della F., giacchè negano autonomia di struttura e di
validità alle scienze particolari (Phil., I, pag. 53 sgg.; Existenzphil., 1938,
Intr.). Una svalutazione ancora più radicale delle scienze particolari è
effettuata da Heidegger, per il quale i presupposti della scienza moderna sono
l'oblio dell'essere, la riduzione dell’uomo a soggetto e del mondo a
rappresentazione (Brief Qber den « Humanismus», in Platos Lehre von der
Wahrheit, 1947, pag. 88). 2° La seconda concezione della F. come giudizio sul
sapere è quella che tende a risolverla nelle scienze particolari, affidandole
talvolta la funzione specifica di unificare le scienze stesse o di raccoglierne
i risultati in una « visione del mondo ». L’origine di questa concezione si può
vedere in Bacone; il quale concepì la F. come una scienza che in primo luogo
dividesse e classificasse le scienze particolari e poi mettesse tali scienze in
possesso del loro metodo, del materiale di cui disporre e delle tecniche con
cui utilizzare questo materiale a vantaggio dell’uomo. Nel De Dignitate et
augmentis scientiarum (1623), abbozzando il piano di una enciclopedia delle
scienze su base sperimentale, Bacone affidava alla « F. prima» da lui
considerata come «scienza universale e madre delle altre scienze » il compito
di raccogliere « gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
comuni a più scienze (De Augm. Scient., III, 1). Hobbes a sua volta
identificava la F. con la conoscenza scientifica. «La F., egli dice, è la
conoscenza acquisita, attraverso il corretto ragionamento, degli effetti o
fenomeni a partire dai concetti delle loro cause o generazioni; o
reciprocamente la conoscenza acquisita delle generazioni possibili a partire
dagli effetti conosciuti » (De Corp., 1, $ 2). Da questo concetto della F. come
coincidente con la conoscenza scientifica e come impegno di chiarirla ed
estenderla derivò quell’uso inglese del termine sul quale già Hegel richiamava
l’attenzione (Enc., $ 7 e nota; Geschichte der Phil., Intr., A, 2; trad. ital.,
I, pag. 70) secondo il quale il termine si applicava non solo alla scienza
della natura ma anche a certi strumenti come termometri, barometri, ecc.,
nonchè ai princìpi generali della politica: un uso, quest’ultimo, che si è
conservato nei paesi anglosassoni. Per io stesso Cartesio, la F. comprendeva «
tutto ciò che lo spirito umano può sapere » e così veniva in larga misura a
coincidere con le ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte
ricondotte a certi principi fondamentali (Princ. Phil, Pref.). L'intero
Illuminismo condivise il concetto della F. come conoscenza scientifica. «
Filosofo, amatore della saggezza cioè della verità», diceva Voltaire 396 (Dicr.
Phil., art. Philosophe). E lo stesso Wolff ammetteva, accanto alle scienze «
razionali » in cui divideva la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di
un metodo autonomo, che è quello sperimentale. Per es., accanto alla cosmologia
generale o scientifica, Wolff ammette una cosmologia sperimentale « che trae
dalle osservazioni la teoria che è stabilita o è da stabilirsi nella cosmologia
scientifica » (Cosm., $ 4); e riconosce che è possibile, sebbene non facile che
l’intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle osservazioni
(Zbid., $ 5). Nell'ambito di questo significato, il positivismo sottolineò la
funzione propria della filosofia di riunire e coordinare i risultati delle
scienze singole, in modo da realizzare una conoscenza unificata e
generalissima. Questo fu il compito che alla F. assegnarono Comte e Spencer.
Comte vuole che accanto alle scienze particolari ci sia uno « studio delle
generalità scientifiche », che egli fa corrispondere alla «F. prima» di Bacone.
Questo studio dovrebbe « determinare esattamente lo spirito di ciascuna
scienza, scoprire le relazioni e il concatenamento fra le scienze, riassumere,
possibilmente, tutti i loro princìpi propri nel minimo numero di princìpi
comuni, conformandosi incessantemente alle massime fondamentali del metodo
positivo » (Cours de phil. positive, lez. 1, $ 7; lez. 22, $ 3). Il concetto
della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati delle altre
scienze è stato ed è largamente diffuso nella F. moderna e contemporanea. È
stato infatti accettato non solo dalle correnti positivistiche ma anche da
dottrine spiritualistiche; le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una
determinazione o condizione limitatrice: quella generalizzazione e unificazione
deve costituire un'immagine del mondo che soddisfi i bisogni del cuore. Questa
è la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la sua
funzione nella « ricapitolazione delle conoscenze particolari in una intuizione
del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i bisogni del
cuore » (Syst. der Phil., 4* ediz., 1919, I, pag. l; Einleitung in die Phil.,
3* ediz., 1904, pag. 5). Da questo punto di vista la F. «è la scienza
universale che deve unificare in un sistema coerente le conoscenze universali
fornite dalle scienze particolari »: un concetto che ricorre molto
frequentemente nella letteratura filosofica degli ultimi decenni del secolo xrx
e nei primi del sec. xx in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente i
risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle scienze naturali
sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta si tende ad accentuare, in
questa direzione, il carattere unitario e totalitario di questa scienza
universale; in tal caso, come nella definizione di Wundt, la si considera come
una intuizione o FILOSOFIA visione del mondo. Questo concetto è una
determinazione ulteriore del concetto della F. come «scienza universale » cioè
unificatrice e generalizzatrice. Dice Mach: « Il filosofo cerca di orientarsi nell’insieme
dei fatti in un modo universale, il più completo possibile... Solo la fusione
delle scienze speciali apporterà la concezione del mondo verso la quale tendono
tutte le specialità » (£rkenntniss und Irrtum, cap. 1; trad. franc., pag.
14-15). Dilthey mostrò bene questa connessione tra la F. e le scienze speciali
quando scrisse: « La storia della F. trasmette al lavoro filosofico sistematico
i tre problemi della fondazione, della giustificazione e della connessione
delle scienze particolari, insieme al compito di affrontare il bisogno
inesauribile della riflessione ultima sull’essere, sul fondamento, sul valore,
sullo scopo e sulla loro connessione nella intuizione del mondo, quali che
siano la forma e la direzione incui tale compito viene eseguito » (Das Wesen
der Philosophie, in fine; trad. ital., in Critica della ragione storica, pag.
487). Il rapporto tra la fondazione e l’unificazione delle scienze e
l’intuizione del mondo (in cui propriamente consiste la metafisica) è da Simmel
configurato come la distinzione tra i due limiti che definiscono il campo della
ricerca filosofica. «L'uno comprende le condizioni, i concetti fondamentali, i
presupposti della ricerca particolare i quali non possono in questa trovare
soddisfacimento poichè stanno piuttosto già alla sua base; nell’altro questa
ricerca particolare viene condotta a completamento e a connessione e messa in
rapporto con questioni e concetti che non hanno nessun posto entro l’esperienza
e il sapere oggettivo immediato. Quella è la teoria della conoscenza, questa è
la metafisica del campo particolare in questione» (Soziologie, 1910, pag. 25;
cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, pag. 242
sgg.). Ora il primo di questi compiti è quello che la F. critica aveva
riconosciuto proprio della F. (v. oltre); il secondo di essi è invece quello
che aveva attribuito alla F. l’indirizzo positivistico che fa capo a Bacone.
L’ultima manifestazione di questo concetto della F. nel pensiero contemporaneo
è la nozione di « scienza unificata », propria del neo-empirismo, alla quale è
dedicata l’Enciclopedia internazionale della scienza unificata (dal 1938 in
poi). In quest'opera tuttavia il concetto stesso di unificazione è incerto ed è
inteso in modo diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la intende come la
combinazione dei risultati delle varie scienze e l’assiomatizzazione di essi in
un sistema unico; Dewey come esigenza di estendere il posto e la funzione della
scienza nella vita umana; Russell come unità di metodo; Carnap come unità formale
o linguistica; e Morris come dottrina generale dei segni (Intern. Encycl. of
Unified Science, FILOSOFIA I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il concetto della
filosofia come unificazione o generalizzazione del sapere scientifico continua
tuttavia a ripresentarsi nel mondo contemporaneo; Whitehead, ad es., lo
sostiene (Adventures of Ideas, 1933, IX, $ 2). 3° La terza concezione della F.
come giudizio sul sapere è quella che si può chiamare critica e che consiste
nel ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina della conoscenza o a
metodologia. Secondo questa concezione la F. non accresce la quantità del
sapere stesso: essa perciò, non può propriamente chiamarsi « conoscenza ». Il
suo compito è piuttosto di saggiare la validità del sapere, determinando i limiti
e le condizioni di esso: le sue possibilità effettive. L’iniziatore di questo
concetto della F. è Locke. Già l’intero Saggio è nato, come egli avverte nella
« Epistola al lettore» che vi è premessa, dal bisogno di « esaminare la
capacità della mente umana e vedere quali oggetti siano alla sua portata e
quali invece superiori alla sua comprensione ». Più esattamente ancora la F.
tende a scoprire «quali sono le possibilità dell’intelligenza, quale sia
l’estensione di queste possibilità, a quali cose esse siano in certa misura
proporzionate e dove il loro soccorso ci viene a mancare » (Saggio, Intr., $
4). I limiti delle capacità umane sono da Locke chiaramente riassunti nel terzo
capitolo del libro IV del Saggio. Ma ancora più chiaramente, per ciò che riguarda
la F., tali limiti risultano dall’ultimo capitolo dell’opera dedicato alla
divisione delle scienze. Si distinguono in esso tre scienze principali: la F.
naturale o fisica il cui compito è «la conoscenza delle cose, quali sono nel
loro essere proprio, e la loro costituzione, le loro proprietà e operazioni »;
la F. pratica o etica che è «l'arte di ben dirigere i nostri poteri e i nostri
atti al raggiungimento di cose buone e utili »; e la dottrina dei segni o
semiotica o /ogica il cui compito è di «considerare la natura dei segni di cui
fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose o per trasmettere ad altri la
sua conoscenza» (/bid., IV, 21, $ 2-4). In questa divisione delle scienze manca
la F.: il che vuol dire che la F. per Locke non è una scienza nel senso in cui
la fisica, l’etica o la logica lo sono, cioè come conoscenza di oggetti, ma è
giudizio sulla scienza stessa cioè critica. Questo punto di vista costituisce
uno dei filoni principali della F. moderna e contemporanea. Hume riconosceva il
compito della F. accademica o scettica, da lui professata, nella «limitazione
delle nostre ricerche a quelle materie che meglio si adattano alla ristretta
capacità dell’intelligenza umana » (Ing. Conc. Underst., XII, 3). Da Kant la
limi. tazione della conoscenza è assunta come fondamento della validità della
conoscenza stessa, secondo un concetto che già Locke aveva utilizzato. Per Kant
397 infatti sia le condizioni a priori della conoscenza (intuizioni pure,
categorie), sia le condizioni @ posteriori di essa (il dato empirico o
intuizione) determinano e limitano le possibilità conoscitive nel senso che non
solo escludono certi campi di indagine ma anche fondano la validità o
l’effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva l’intero campo della F.
con le seguenti domande: 1° che cosa posso sapere?; 2° che cosa devo fare?; 3°
che cosa posso sperare?; 4° che cosa è l'uomo? « La metafisica, aggiungeva
Kant, risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la religione alla
terza, e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe tutto ricondurre
all’antropologia, perchè le tre prime questioni si riportano all’ultima. Il
filosofo deve per conseguenza poter determinare: 1° la sorgente del sapere
umano; 2° l’ambito dell’uso possibile e utile di tutto il sapere; e infine 3° i
limiti della ragione » (Logik, Intr., IIl). L’obiezione di Hegel contro questo
punto di vista, che « voler conoscere prima che si conosca è assurdo non meno
del saggio proposito di quel tale scolastico di imparare a nuotare prima di arrischiarsi
nell’acqua » (Enc., $ 10), è una pura boutade. Giacchè la F. come critica
suppone che si sappia già nuotare, che ci sia già un sapere costituito (quello
della scienza), a partire dal quale si possono indagare le possibilità di
conoscere e determinare i loro limiti. Della dottrina kantiana, il
neocriticismo contemporaneo ha modificato il punto concernente la religione; e,
mantenendo fermo il concetto della F. come critica del sapere, ha riconosciuto
tre discipline filosofiche e precisamente la logica, l’etica e l’estetica; per
logica intendendo, il più delle volte, la teoria della conoscenza. Questa
dottrina veniva difesa dalla cosiddetta scuola di Marburgo (Cohen, Natorp,
Cassirer) nonchè dal criticismo francese (Renouvier, Brunschvicg). Il primato
che la gnoseologia o teoria della conoscenza ha tenuto nella F. contemporanea
(e non solo presso le correnti neocriticistiche) è una conseguenza del concetto
della F. come critica del sapere. La gnoseologia o teoria della conoscenza (v.)
è tuttavia caratterizzata da particolari presupposti e problemi; pertanto il
concetto della F. come critica del sapere non implica l’identificazione della
F. con la dottrina della conoscenza o gnoseologia. Quel concetto rimane
infatti, anche dopo la crisi e l’abbandono della gnoseologia ottocentesca,
nella forma di analisi dei procedimenti effettivi della conoscenza scientifica
e determinazione dei loro limiti e della loro validità. Questa analisi è il
tema proprio della merodologia (v.). La metodologia si può pertanto considerare
l’ultima incarnazione della F. come critica del sapere. Come parte della
metodologia o come ulteriore restrizione del suo compito, si può in398 tendere
la definizione della F., come «analisi del linguaggio » che è stata proposta
per la prima volta da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922).
Wittgenstein, attribuendo «la totalità delle proposizioni vere» alla scienza
naturale, nega che la F. sia una scienza naturale: questa parola, egli dice «
deve significare qualcosa che sta al di sopra o al di sotto delle scienze della
natura, non a fianco di esse » (7racr., 4. 111). Compito della F. diventa
allora la chiarificazione logica del linguaggio. «La F. non è una dottrina ma
un'attività. Un'opera filosofica consiste essenzialmente in delucidazioni.
Frutto della F. non sono ‘ proposizioni filosofiche * bensì il chiarificarsi
delle proposizioni. La F. deve rendere chiare e delimitare con precisione le
idee che altrimenti sarebbero, per così dire, torbide e confuse » (/bid., 4.
112). II. La filosofia e l’uso del sapere. — Il secondo punto di vista dal
quale possono essere cercate costanti nei significati storicamente attribuiti
alla F. e quindi effettuare divisioni o articolazioni di tali significati è
quello espresso nella seconda parte della definizione che è stata assunta come
punto di partenza di questo articolo: cioè quello per il quale la F. è l’uso
umano del sapere. Due interpretazioni fondamentali sono state storicamente date
di questo aspetto della F., e precisamente: a) quella per cui la F. è
contemplativa e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; 5) quella
per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento di modificazione o di
correzione del mondo naturale od umano. Secondo la prima interpretazione, la F.
si esaurisce nell’individuo che filosofa; per la seconda interpretazione, la F.
trascende l’individuo e concerne propriamente i rapporti con la natura o con
gli uomini, quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di
chiaro significato storico, si può chiamare « illuministica » questa seconda
interpretazione della filosofia. a) Il concetto della F. come contemplazione è
proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che pongono come scopo
della F. la salvezza dell’uomo. La salvezza è difatti la liberazione da ogni
rapporto con il mondo e pertanto la realizzazione di uno stato in cui ogni
attività è impossibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F.
come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro filosofico ha
assunto (e che è stata invece quella della «saggezza» cioè della F. attiva e
militante) ma è stata la prima caratterizzazione esplicita di questo lavoro. Il
fondamento di tale caratterizzazione è la natura « disinteressata » della
ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso a Solone: «Ho
udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per vedere molti paesi»
allude ovviamente al carattere FILOSOFIA disinteressato di questi viaggi che
non sono stati intrapresi per scopi di lucro o di politica ma solo a scopo di
conoscenza. Platone stesso contrapponeva lo spirito scientifico dei Greci
all'amore del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV, 435 e). E
che la ricerca del sapere non possa essere subordinata o piegata a fini
estranei è cosa che risulta dalla stessa nozione di questa ricerca, quale
appunto si è venuta configurando nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel
racconto riferito a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico
(Diog. L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome di F., c’è
qualcosa in più della semplice esigenza del disinteresse della ricerca. Secondo
quella tradizione, riportata da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pitagora
paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per
affari, altri per partecipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni
soltanto per vedere ciò che avviene: questi ultimi sono i filosofi. Qui è
sottolineato il distacco tra il filosofo, interessato solo a vedere, cioè a
contemplare disinteressatamente, e la comune umanità dedita alle sue faccende.
La superiorità della contemplazione sull’azione è pertanto implicita in questo
racconto; che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare, col richiamo a
Pitagora, il concetto della F. che si andava formando nella scuola di
Aristotele. Il carattere contemplativo della F. (che non ha nulla a che fare
con il carattere disinteressato della ricerca in generale), come una delle
risposte possibili al problema dell’uso umano del sapere, è stato per la prima
volta affermato e giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti fondato
sulla natura necessaria dell’oggetto della F., che è ciò che « non può essere
altrimenti da quello che è» (Et. Nic., VI, 3, 1139b 19). Da questo punto di
vista la F. è sapienza, non saggezza: giacchè la saggezza consiste nel
deliberar bene, ma nulla c’è da deliberare intorno alle cose che non possono
essere altrimenti (/bid., VI, 5, 1140 a 30). Su questa base Aristotele
stabilisce un contrasto tra saggezza e sapienza (v.). Uomini come Anassagora e
Talete sono sapienti e non saggi: essi non indagano sui beni umani, non
conoscono ciò che giova a loro stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose,
difficili e divine. « Nessuno, dice Aristotele, delibera intorno a ciò che non
può essere altrimenti o intorno alle cose che non hanno un fine o il cui fine
non è un bene realizzabile » (/bid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo
punto di vista, l’uso possibile del sapere? Uno solo: la realizzazione di una
vita contemplativa cioè dedita alla conoscenza del necessario. L'attività
contemplativa è pertanto considerata da Aristotele come la più alta e
beatifica: essa fa dell’uomo qualcosa di superiore all’uomo FILOSOFIA stesso
perchè è conforme a ciò che di divino c’è in lui (/bid., X, 7, 1177 b 26). La
dottrina di Aristotele ha così fissato i punti seguenti intorno all’uso umano
del sapere: 1° la F., in quanto ha per oggetto il necessario, non offre
all’uomo nulla da fare ed è perciò contemplazione; 2° la contemplazione è una
forma di vita individuale privilegiata perchè è la beatitudine stessa. Le due
tesi sono tipiche di questa concezione della F., che ricorre frequentemente
nella storia del pensiero occidentale. Intanto essa domina tutta la F. greca
postaristotelica; la quale coltiva l’ideale del «sapiente» cioè di colui nel
quale si realizza la vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e
Neoplatonici concordano nel ritenere che il sapiente solo può esser felice
perchè egli soltanto, come puro contemplante, è autosufficiente. Il fine che
questi filosofi attribuiscono alla F. è individuale e privato: la realizzazione
di una forma di vita che chiude il sapiente in se stesso e nella sua
contemplazione solitaria. Anche da questo punto di vista, ovviamente, la F. è
uno sforzo di trasformazione o di rettificazione della vita umana; perciò non è
vera alla lettera l’affermazione di Aristotele che essa non dà nulla da fare.
Questa affermazione significa solo che essa non modifica la struttura del
mondo, della conoscenza che concerne il mondo e delle forme di vita associata;
mentre può modificare la vita dell’individuo rendendolo sapiente e beato. È
facile riconoscere da questi tratti l’atteggiamento contemplativo in filosofia.
Quando Spinoza dice: «L'uomo forte considera principalmente che tutte le cose
seguono dalla necessità della natura divina e che quindi tutto ciò che crede
molesto e cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, orrendo, ingiusto e
turpe nasce dal fatto che egli concepisce le cose stesse torbidamente,
parzialmente e confusamente » (Er., IV, 73, scol.) esprime, nella sua forma
classica, il concetto contemplativo della filosofia. E quando Hegel afferma che
la F., come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del
crepuscolo, giunge sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire come deve
essere il mondo, esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir., Pref.). Difatti per
Hegel, come per Aristotele e Spinoza, l’oggetto della F. è il necessario; il
suo compito è precisamente quello di mostrare la necessità di ciò che esiste,
cioè la razionalità del reale (Enc., $ 12). Da questo punto di vista la F. è la
giustificazione razionale della realtà: per realtà intendendosi non solo quella
della natura ma anche quella delle istituzioni storico-sociali cioè del mondo
umano. Non molto diverso, era da questo punto di vista il concetto che della F.
aveva Schopenhauer. « Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpidamente
in concetti l’intera essenza del mondo, egli 399 diceva, e così, quale immagine
riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione:
questa e non altro è F.» (Die Welt, I, $ 68). Nella F. contemporanea il
concetto della F. come contemplazione rimane nella fenomenologia e nello
spiritualismo. La fenomenologia è lo sforzo di realizzare, mediante l’epoché,
il punto di vista di uno « spettatore disinteressato » cioè di un soggetto che
non sia a sua volta sottoposto alle stesse condizioni limitative che egli
prende a considerare. Dice Husserl: «L'io della meditazione fenomenologica può
divenire lo spettatore imparziale di se stesso, non soltanto nei casi
particolari ma in generale; e questo ‘se stesso’ comprende ogni oggettività che
esista per lui, tale quale esiste per lui » (Cart. Med., $ 15). E nell’ultima
opera Husserl vede nella filosofia « il movimento storico della rivelazione
della ragione universale, innata come tale nell’umanità » (Krisis, $ 6) e le
attribuisce il compito di portare la ragione « alla propria autocomprensione, a
una ragione che comprenda concretamente se stessa, che comprenda di essere un
mondo, un mondo che è nella propria verità universale » (/bid., $ 73).
Dall’altro lato Bergson, distinguendo la F. come intuizione o coscienza della
durata temporale (cioè del divenire della coscienza) dalla scienza come
conoscenza dei fatti, vede nella scienza «l’ausiliare dell’azione » e nella F.
un’attività contemplativa. «La regola della scienza, egli dice, è quella che è
stata posta da Bacone: obbedire per comandare. Il filosofo non obbedisce nè
comanda: cerca di simpatizzare » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag.
158). L’idoleggiamento del «sapiente » come di una condizione umana
privilegiata o perfetta o della F. come della forma finale e conclusiva
dell’essere sono due dei tratti caratteristici da cui si può riconoscere la
concezione della F. come contemplazione. A questa concezione appartengono le
forme dello scetticismo antico e moderno. Quando Sesto Empirico addita come
fine della F. scettica l’imperturbabilità che essa consente di realizzare (Ip.
Pirr., 1, 25); o quando Hume riduce il motivo del suo filosofare, che ritiene
incapace di agire sulle credenze più radicate dell’uomo, al piacere che ne
ricava (7reatise, I, 4, 7; Ing. Conc. Underst., XII, 3); entrambi attribuiscono
alla F. una funzione contemplativa che si esaurisce nell’ambito della vita
individuale. E nello stesso ambito si esaurisce la funzione della F. come «
terapia » della F., cioè come liberazione dai dubbi filosofici, della quale
parlano Wittgenstein (Philosophical Investigations, $ 133) e alcuni filosofi
inglesi suoi seguaci (cfr. Revolution in Phil., 1956, pag. 106, 112 sgg.). Non
sembra infatti che questi filosofi attribuiscano alla terapia filosofica altra
funzione se non quella di liberare l’individuo dai dubbi filosofici e così 400
permettergli di « sentirsi meglio » al modo in cui Hume si sentiva meglio coi
suoi dubbi scettici. 5) Il concetto della F. come attività direttiva o
trasformatrice è già presente nella leggenda dei Sette Savi che è stata per la
prima volta riportata da Platone (Prot., 343 a). I Sette Savi furono moralisti
e politici e i loro motti si riferiscono alla condotta della vita e ai rapporti
con gli uomini (v. SAVI). Ma il primo grande esempio di una F. esplicitamente
concepita allo scopo di trasformare il mondo umano è quella di Platone, la
quale è diretta interamente a modificare la forma della vita associata e a
fondarla sulla giustizia. L'educazione del filosofo culmina, non già nella
visione del bene ma nel «ritorno nella caverna »: giacchè il filosofo deve
porre a disposizione della comunità i risultati della sua speculazione e
utilizzarli per la guida e la direzione di essa. « Ciascuno di voi, dice
Platone, deve a sua volta discendere nella dimora comune e abituarsi a
contemplare gli oggetti nelle tenebre: perchè abituandosi a queste, vedrà assai
meglio di quelli che sono rimasti sempre laggiù e riconoscerà i caratteri e
l'oggetto di ciascuna immagine, perchè ha visto i veri esemplari della
bellezza, della giustizia e del bene. Così noi e voi costituiremo e governeremo
la città da svegli e non già sognando, come avviene ora nella maggior parte
delle città per colpa di coloro che si combattono a causa di ombre e si
contendono il potere come se fosse un bene » (Rep., VII, 520c). La F. platonica
è interamente dominata da questo impegno educativo e politico: còmpito della F.
non è, per Platone, quello di dare a un certo numero di uomini la beatitudine
della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità di vivere
secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione attiva della F. è rimasta
per lungo tempo inoperante. Solo nel Rinascimento essa fu ripresa dagli
Umanisti che intesero la F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et Medicinae
Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: « Molto mi stupisco che tu sostenga che
la sapienza consista nella contemplazione a cui sarebbe serva la prudenza, che
starebbe con essa nel rapporto di un amministratore con il padrone; e che tu
dica che la sapienza è la maggiore delle virtù, propria della parte migliore
dell'anima, cioè dell’intelletto; e che la felicità consiste nell’operare
secondo sapienza. E soggiungi che, essendo la metafisica la sola scienza
libera, il filosofo vuole che la speculazione preceda in tutto l'azione... Ma
la vera sapienza non consiste, come tu credi, nella pura speculazione. Se togli
la prudenza non troverai nè il sapiente nè la sapienza... Chiameresti infatti
sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e divine ma non abbia provveduto a
se stesso, giovato agli amici, alla famiglia, ai congiunti e alla FILOSOFIA
patria? ». Nello stesso spirito Leonardo Bruni nell’Isagogicon Moralis
disciplinae (1424) affermava la superiorità della F. morale su quella
teoretica. Il successivo affermarsi di questa concezione attiva della F.
caratterizza l’inizio dell’età moderna. Gli umanisti credevano che solo la F.
morale fosse attiva; per Bacone è attiva anche la F. che ha per oggetto la
natura perchè è diretta a dominare la natura. E Bacone non esita a chiamare «
pastorale » la stessa F. di Telesio, che molto apprezzava e in parte seguiva,
perchè gli sembrava che essa « contemplasse il mondo placidamente e quasi per
ozio» (Works, III, pag. 118). Hobbes insisteva sulla stessa funzione della F.
(De Corp., I, $ 6). Cartesio a sua volta la riteneva diretta a conseguire la
saggezza e la scienza di tutto ciò che riesce utile o vantaggioso per l’uomo
(Princ. Phil, Pref.). Lo stesso scopo direttivo e correttivo attribuirono alla
F. Locke e gli Illuministi. Con Locke, la F. diventa critica della conoscenza e
sforzo di liberazione dell’uomo da ignoranze e pregiudizi. E tale si mantiene
per l’Illuminismo del sec. xvi, che vede nella F. lo sforzo della ragione di
investire il mondo umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire.
D’Alembert così descriveva l’azione che la F. esercitava nel suo tempo: « Dai
princìpi delle scienze profane sino ai fondamenti della rivelazione, dalla
metafisica sino alle materie di gusto, dalla musica sino alla morale, dalle
dispute scolastiche dei teologi sino agli oggetti del commercio, dai diritti
dei princìpi sino a quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi
arbitrarie delle nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più a
quelle che ci interessano di meno, tutto è stato discusso e analizzato o almeno
agitato. Una nuova luce su alcuni oggetti, una nuova oscurità su molti altri,
sono stati il frutto o la conseguenza di questa effervescenza generale degli
spiriti, come l’effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare
sulla riva qualcosa e di allontanarne qualche altra » (CEuvres, ed. Condorcet,
pag. 218). Il concetto illuministico della F. era partecipato da Kant secondo
il quale la F., determinando le possibilità effettive dell’uomo in tutti i
campi, deve illuminare e dirigere il genere umano nel suo doveroso progresso
verso la felicità universale (Recensione alle « Idee sulla F. della storia » di
Herder, 1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo,
capitolo III, in fine). Il Romanticismo, insistendo sul carattere necessario,
perchè razionale, dell’essere, ha costituito, nel suo complesso, un ritorno
alla concezione contemplativa della filosofia. Lo stesso positivismo che
intendeva esplicitamente rifarsi alla dottrina baconiana del sapere come
possibilità di dominio sulla natura, non sempre rimane fedele al riconoscimento
FILOSOFIA del carattere attivo della filosofia. Se per il posifivismo (v.) di
stampo sociale (St.-Simon, Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è
prevalentemente uno strumento di trasformazione della società umana, per il
positivismo evoluzionistico la F. ha più carattere contemplativo che attivo. La
difesa del mistero che Spencer pone tra i compiti della F., cioè il
riconoscimento dell’insolubilità dei cosiddetti problemi ultimi, porta la F.
sullo stesso piano contemplativo della religione. La discussione intorno alla
solubilità o insolubilità dei cosiddetti « enigmi del mondo + cade interamente
sul piano della F. contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo
materialistico (Haeckel) e l’evoluzionismo spiritualistico (Wundt, Morgan,
ecc.) sono ugualmente contemplativi. In realtà il clima romantico è presente
nel positivismo come nell’idealismo e indirizza quello come questo verso il
concetto della F. come contemplazione di una realtà necessaria. Contro tale
concetto costituisce una protesta il « nuovo materialismo » di cui si fece
partigiano Marx, polemizzando, dall’altro lato, contro il materialismo
teoretico di Feuerbach. «I filosofi, egli diceva, hanno finora soltanto
diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo » (Tesi su Feuerbach,
11). Ma per quanto Marx insista sull’impegno di trasformazione che deve
caratterizzare la F. come tale, il fondamento stesso della F. come
contemplazione rimane saldo nella sua dottrina. Quel fondamento è infatti la
necessità del reale; e per Marx la trasformazione della società, cioè il
passaggio dalla società capitalistica a quella senza classi, avverrà « con la
fatalità che presiede ai fenomeni della natura» (Capit., I, 24, $ 7). Su questa
base, il compito della F. appare quello di una profetica Cassandra anzichè
quello di promuovere e orientare la trasformazione stessa. Sotto questo
rispetto, si sottrae talvolta al clima romantico il neocriticismo. Nella
Ucronia Renouvier si propose di eliminare « l'illusione della necessità
preliminare per la quale il fatto compiuto sarebbe il solo, fra tutti gli altri
immaginabili, che avrebbe potuto realmente accadere» (Uchronie, 2* ediz., 1901,
pag. 411). La «F. analitica della storia » ha, secondo Renouvier, il compito di
determinare le concatenazioni generali dei fatti storici per dirigere lo
sviluppo della storia stessa (/nir. d la phil. analytique de l’histoire, 1864,
pag. 551-52). Dall'altro lato la determinazione della F. come «visione del
mondo», determinazione che la F. subì, nella seconda metà del sec. xxx, ad
opera di pensatori di provenienza neocriticistica o positivistica, ha un chiaro
significato contemplativo. Contro l’interpretazione contemplativa della F. si è
invece schierato polemicamente il pragmatismo sin dalla sua origine, che si può
vedere nel saggio Come render 26 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 401
chiare le nostre idee (1878) di C. S. Peirce. In questo saggio Peirce affermava
che l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d'azione (o
credenze) e che pertanto il significato di un concetto consiste esclusivamente
nelle possibilità d’azione che esso definisce. Ma queste affermazioni di Peirce
sono importanti anche da un altro punto di vista. Peirce negava esplicitamente
il presupposto stesso della F. come contemplazione, cioè il carattere
necessario del reale. Peirce mostrava difatti come la regolarità e l’ordine
degli eventi nonchè i legami condizionali tra gli eventi stessi non hanno
niente a che fare con la necessità, che implicherebbe la possibilità della
previsione infallibile (Chance, Love and Logic, II, cap. 2). La definizione
data da Dewey della F. come « critica dei valori » (Experience and Nature, pag.
407) esprime, proprio sui presupposti stabiliti da Peirce, la funzione
direttiva della filosofia. Secondo Dewey, il compito della F. è quello antico,
iscritto nel significato etimologico della parola: ricerca della saggezza; dove
la saggezza differisce dalla conoscenza per essere « l'applicazione di ciò che
è conosciuto alla condotta intelligente delle faccende della vita umana »
(Problems of Man, 1946, pag. 7). Non diverso significato ha la definizione data
da Morris: « Una F. è un’organizzazione sistematica che comprende le credenze
fondamentali: credenze sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene,
sui metodi da seguire nella conoscenza, sul modo in cui la vita dev'essere
vissuta» (Signs, Language and Behavior, 1946, VIII, $ 6; traduzione ital, pag.
314). Per Morris, infatti, come per tutto il pragmatismo, la credenza non è che
una regola di comportamento: e la F., come organizzazione delle credenze
fondamentali, costituisce perciò quello che Sartre ha chiamato «il progetto
fondamentale di vita ». Nell'opera stessa di Sartre si può scorgere il
passaggio dalla concezione contemplativa della F., espressa ne L’éfre er le
néant (1943) a quella attiva o illuministica espressa nella Critique de la
raison dialectique (1960). Nel primo scritto, Sartre progettava una ricerca
detta « psicanalisi esistenziale » il cui scopo era quello « di mettere in
luce, in una forma rigorosamente oggettiva, la scelta soggettiva per la quale
ciascuna persona si fa persona cioè si fa annunziare a se stessa ciò che essa
è» (L’étre et le néant, pag. 662). Il risultato di una ricerca di questo genere
avrebbe dovuto essere, secondo Sartre, la classificazione e il confronto dei
vari tipi di condotta possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà
umana come tale (/bid., pag. 663). Il carattere contemplativo di una disciplina
siffatta è evidente. Ma nella sua seconda opera Sartre intende la F. come «
totalizzazione del sapere, metodo, Idea regolatrice, arma offensiva e comunità
di linguaggio » nonchè come 402 uno strumento che agisce, per trasformarle,
sulle società in decadenza e che può costituire la cultura o addirittura la natura
di un'intera classe (Critique de la raison dialectique, pag. 17). Nel primo
caso la F. non dava nulla da fare agli uomini giacchè l’uomo nulla poteva fare:
Sartre definiva l’uomo come « passione inutile» cioè come passione impossibile
di essere Dio (L’éfre et le néant, pag. 708). Nel secondo caso, la F.
s’inserisce come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a
trasformarlo. Sottratta al destino del fallimento e a quello del successo, la
nozione di progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo e operativo
che alla F. attribuiscono gli indirizzi neoilluministici contemporanei. Un
progetto difatti fa leva sulle conoscenze disponibili e ne determina l’uso
possibile al fine di garantire l'esistenza e la coesistenza degli uomini. Una
F. che progetti in questo senso (che è poi quello già chiarito da Platone)
l’uso umano del sapere è ovviamente la determinazione di tecniche di vita che
possono essere messe a prova, rettificate o rigettate. III La filosofia e î
suoi procedimenti. — Il terzo punto di vista dal quale si possono individuare
costanti di significato che consentano di riconoscere articolazioni
fondamentali nelle interpretazioni storicamente date del concetto di F., è
quello del procedimento o metodo che si ritiene proprio della filosofia. Da
questo punto di vista le F. si possono distinguere in «) F. sintetiche o
creative che procedono producendo concettualmente il loro oggetto, senza
riconoscere limiti o condizioni a questo lavoro di costruzione; e 8) F.
analitiche che riconoscono l’esistenza di defi e procedono a descrivere o
analizzare questi dati stessi. Il carattere proprio delle F. analitiche è la
limitazione cui si ritengono sottoposte da parte del dato, comunque poi
intendano la natura di esso. Il carattere proprio delle F. sintetiche sta
invece nel non riconoscere questa limitazione e nel pretendere che il proprio
metodo è interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza residui l’intero
oggetto della filosofia. a) Il procedimento sintetico non può far appello al
controllo di situazioni, fatti o elementi che siano indipendenti da sè; la sua
caratteristica è pertanto quella di valere come controllo a se stesso. Ogni
qualvolta una F. assume che la validità dei propri risultati dipende
esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa F. e può essere perciò
riconosciuta e stabilita una volta per tutte, senza bisogno che i risultati
stessi siano messi a prova e convalidati da tecniche o procedure indipendenti
da essa, il suo metodo può essere ritenuto sintetico. La sua procedura infatti
equivale in questo caso alla creazione o composizione ex novo del suo oggetto,
in una forma che non esige FILOSOFIA conferme nè teme smentite. La F. di Hegel
costituisce l’incarnazione più pura di questo tipo di filosofia. Quando Hegel
dice: « La F. non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter
presupporre i suoi oggetti come immediatamente dati dalla rappresentazione, e
come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere successivo, il metodo
del suo conoscere » (Enc., $ 1), egli afferma per l’appunto l’esigenza che la
F. costruisca da sè, interamente, il suo oggetto e il suo metodo. Ma producendo
da sè sia l’oggetto che il metodo, essa non ha neppure da render conto ad altre
scienze o ad altri eventuali punti di vista dei suoi risultati quali che siano.
Hegel insiste sul carattere assolutamente indipendente o incondizionato del suo
metodo. «Il metodo (egli dice, per es.) così come nella scienza il concetto, si
svolge da se stesso ed è soltanto una progressione immanente e una produzione
delle sue determinazioni » (Fil. del Dir., $ 31). E ancora: «La più alta
dialettica del concetto è produrre e intendere la determinazione, non
semplicemente come limite o posizione, ma traendo da essa il contenuto e il
risultato positivi; in quanto unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso
immanente. Questa dialettica non è un fare esterno di un pensiero oggettivo ma
l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi rami e i suoi
frutti organicamente » (/did., $ 31). La differenza tra questo metodo
produttivo o, come meglio si direbbe, creativo del suo oggetto e il metodo
analitico, che Hegel riconosce proprio delle scienze dopo Cartesio, è espressa
da Hegel stesso nel modo seguente: « Il metodo iniziato da Cartesio rifiuta tutti
i metodi rivolti a conoscere ciò che per il suo contenuto è infinito; si
abbandona perciò allo sfrenato arbitrio delle immaginazioni e asserzioni, ad
una presunzione di moralità e orgoglio di sentimento o ad uno smisurato opinare
e raziocinare il quale si dichiara nel modo più energico contro la F. e i
filosofemi » (Enc., $ 77). Questa concezione attribuisce al procedimento
filosofico la produzione del suo oggetto e fa dell’oggetto, l’infinito stesso
cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o annulla in sè ogni fatto o cosa finita.
Prima di trovare in Hegel la sua forma tipica, tale concezione era stata
esposta da Fichte come esigenza che la F., quale dottrina della scienza, dia
forma sistematica non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze possibili
e garantisca per tutte la validità di questa forma (Uber den Begriff der
Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Fichte riteneva infatti che, insieme alla sua
forma, la dottrina della scienza dovesse produrre anche il contenuto; e che il
contenuto della dottrina della scienza racchiudesse in sè ogni possibile
contenuto e fosse perciò «il contenuto assoluto » (/bid., $ 1). RisaFILOSOFIA
lendo ancora più in là, la concezione del metodo sintetico si può vedere in
Spinoza: secondo il quale il procedimento filosofico (che egli chiama
conoscenza intuitiva o terzo genere di conoscenza o amore intellettuale di Dio)
è quello che ha per oggetto la necessità con cui tutte le cose derivano dalla
natura divina. L’amore intellettuale di Dio è lo stesso amore con cui Dio ama
se stesso (£t., V, 36): ciò vuol dire che la conoscenza della necessità con cui
le cose derivano da Dio è la conoscenza stessa che Dio ha di sè. Il
procedimento matematico dell’Erica acquista, da questo punto di vista, un
rilievo fondamentale nella filosofia di Spinoza: esso non è un artificio
espositivo ma l’adeguazione del metodo della F. al procedimento necessario con
cui le cose derivano da Dio. Considerato in questa prospettiva, il metodo
sintetico si rivela nella sua caratteristica più appariscente: nella sua
pretesa di valere come un colpo d'occhio divino gettato sul mondo, come la
conoscenza stessa che Dio ha di sè e dei suoi effetti creati. Èfacileallora
vedere come questa pretesa sia stata spesso avanzata dalla filosofia. « Questa
scienza soltanto, diceva Aristotele, è divina e lo è in un duplice senso:
perchè propria di Dio e perchè concerne il divino. Essa sola ebbe in sorte
entrambi questi privilegi: Dio infatti appare come la causa e il principio di
tutte le cose e solo o principalmente una scienza siffatta può essere propria
di Dio» (Met., I, 2, 983a 5). Aristotele chiamava pertanto seologia la F.
prima. Vero è che la F. prima è tale per la sua universalità e che essa è
universale solo in quanto è scienza dell’essere in quanto essere (/bid., VI, 1,
1026 a 30). Ma la stessa scienza dell’essere in quanto essere è teologia perchè
è la scienza della causa o ragion d’essere e questa causa o ragion d’essere è
Dio. La F. aristotelica ha perciò dichiaratamente carattere sintetico e può
anzi essere considerata come il primo e classico esempio del procedimento
sintetico. Ovviamente, essa non lo è soltanto perchè ha Dio come oggetto della
sua investigazione; ma anche perchè si considera coincidente con la conoscenza
che Dio ha di sè. E da questo tratto può essere agevolmente riconosciuta ogni
F. sintetica come tale. $) Il procedimento analitico della F. si riconosce
negativamente dalla mancanza della pretesa di valere come conoscenza divina del
mondo e positivamente dal riconoscimento di un limite delle sue possibilità e
di un controllo dei suoi risultati. Il procedimento analitico non è, di
conseguenza, la costruzione ex novo del suo oggetto, ma la risoluzione di esso
negli elementi che lo lasciano intendere cioè nelle sue condizioni. In questi
termini, la determinazione del procedimento filosofico è stata fatta da Kant
dapprima in uno scritto 403 precritico del 1764 Sulla distinzione dei principi
della teologia naturale e della morale poi nella seconda parte principale della
Critica della Ragion Pura. Nel primo di questi scritti Kant contrapponeva il
metodo analitico della F. al metodo sintetico della matematica. « Ad ogni
concetto generale, egli diceva, si può pervenire per due strade: o attraverso
un collegamento arbitrario dei concetti oppure isolando quelle conoscenze che
sono state chiarite per suddivisione. La matematica arriva sempre alle sue
definizioni seguendo la prima strada... Le definizioni filosofiche invece sono
del tutto diverse. Qui il concetto delle cose è già dato ma in modo confuso e
non sufficientemente determinato. Bisogna suddividerlo, confrontare nei vari
casi le note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare e
render compiuta questa idea astratta » (Untersuchung Uber die Deutlichkeit der
Grundsatze der natilrlichen Theologie und der Moral, 1, I, $ 1). Nella Critica
della Ragion Pura, Kant distinse la conoscenza filosofica come conoscenza per
concetti dalla conoscenza matematica che consiste nella costruzione di
concetti. La matematica, dice Kant, può costruire concetti perchè dispone di
una intuizione pura che è quella dello spazio-tempo. Ma la F. non dispone di
una intuizione pura ma soltanto di una intuizione sensibile: gli oggetti della
F. devono quindi essere dati e possono pertanto solo essere analizzati, non costruiti,
dal procedimento filosofico (Critica R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez.
I). Kant mette pertanto in guardia i filosofi contro la pretesa di voler
organizzare la loro scienza secondo il modello matematico. In F., non ci sono
propriamente definizioni (che siano costruzioni di concetti) nè assiomi, cioè
verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè prove apodittiche. Dice Kant a
proposito di queste ultime: « L'esperienza ci insegna ciò che c'è, ma non che
non può essere altrimenti. Princìpi empirici di prova non possono darci nessuna
prova apodittica. Da concetti a priori (nella conoscenza discorsiva) non può
nascere mai una certezza intuitiva cioè un’evidenza, per quanto il giudizio
possa essere apoditticamente certo + (/bid., Dottrina del metodo, cap. I, sez.
I). Da questo punto di vista, il procedimento della F. è ben lontano dal poter
dare all’uomo una conoscenza paragonabile a quella posseduta da Dio. «La
determinazione dei limiti della nostra ragione non può farsi se non su princlpi
a priori; ma la limitatezza della ragione, che viene ad essere la conoscenza,
sia pure indeterminata, di un’ignoranza mai completamente eliminabile, può
anche essere conosciuta a posteriori vale a dire da questo che, in ogni sapere,
ci resta sempre ancora da sapere » (/bid., Della impossibilità di un
appagamento scettico). La F. non è mai una scienza perfetta, che si possa
insegnare od apprendere. 404 4 Si può imparare soltanto a filosofare cioè ad
esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi universali
a determinate ricerche, ma sempre con la riserva del diritto della ragione
stessa a indagare quei principi alle loro sorgenti e a confermarli o
rifiutarli» (/bid., Dottrina del metodo, cap. III). Queste notazioni di Kant
costituiscono un concetto relativamente compiuto o maturo del procedimento
analitico in filosofia. Il precedente immediato di esso è Locke. « Non è affar
nostro, in questo mondo, aveva detto Locke, conoscere tutte le cose, bensì
quelle che riguardano la condotta della nostra vita. Se dunque possiamo trovare
le regole mediante le quali, una creatura ragionevole, qual è l’uomo,
considerato nello stato in cui si trova in questo mondo, può e deve condurre le
sue opinioni e le azioni che ne dipendono; se, dico, possiamo giungere a tanto,
non dobbiamo farci un cruccio se altre cose sfuggono alla nostra conoscenza »
(Saggio, Intr., $ 6). Il concetto della F. come procedimento analitico cioè
diretto a determinare le condizioni e perciò i limiti delle attività umane,
ispirò l’intero Illuminismo settecentesco. Ma sotto questo rispetto e con la
diversità dovuta alla differenza dei mezzi culturali disponibili, l’Illuminismo
settecentesco riprendeva l’ideale dell’Illuminismo antico, quello dei Sofisti e
di Socrate, che intesero la F. come diretta alla formazione dell’uomo nella
comunità. Di questo Illuminismo, secondo il quale la F. è uno strumento per
l’uomo, si può ritenere una manifestazione lo stesso concetto platonico della
filosofia. Platone infatti negava che la F. potesse essere propria della
divinità. Essa, come l’amore, è mancanza perchè è desiderio di saggezza da
parte di chi la saggezza non possiede per propria natura. L’uomo è filosofo
perchè «sta in mezzo tra il sapiente e l’ignorante » mentre la divinità che
possiede già la sapienza, non ha bisogno di filosofare (Conv., 204 a-b).
Dall'altro lato, la dialettica, che è il metodo della F., è concepita da
Platone come analisi, cioè come un procedimento che consente di distinguere il
discorso vero dal discorso falso, mostrando le cose che possono combinarsi tra
loro e quelle che non possono combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare quali
sono le cose che possono e quelle che non possono combinarsi, la dialettica
procede componendo varie determinazioni in un unico concetto e poi dividendo questo
concetto stesso nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro, 265
e). Essa quindi suppone a ogni passo la scelta opportuna delle determinazioni
da comporre in un concetto solo e dei punti in cui far cadere la divisione del
concetto stesso: scelta che suppone, come ogni altra scelta, un’utilizzazione
di dati: onde il metodo platonico è FILOSOFIA stato giustamente considerato
come un metodo empirico (TavLor, Pilato, 4* ediz., 1937, pag. 377). Che la F.
sia un'attività umana cioè limitata nella sua portata e nella sua validità; che
essa consista nell’effettuare scelte e non già nel costruire in toto il suo
oggetto, sono le caratteristiche fondamentali della concezione analitica della
filosofia. Da questi due caratteri deriva il terzo, che è forse il più ovvio e
appariscente: quello per cui questo metodo è, tra l’altro e in primo luogo,
riconoscimento ed utilizzazione di dari cioè di fatti, elementi o condizioni
che non sono prodotti dal metodo stesso. La scelta dei dati e la loro
elaborazione in vista di una soluzione possibile costituisce il problema (v.).
Le F. analitiche sono in genere contrassegnate dal fatto che in esse la nozione
di problema è fondamentale, mentre non esiste o è considerata secondaria e
trascurabile nelle F. sintetiche (come accade in quelle di Aristotele e Hegel).
Un’ulteriore determinazione di questa concezione (una determinazione che essa
acquista solo nel mondo contemporaneo) è quella concernente il campo dal quale
la F. può o deve trarre i suoi dati e col quale l’interpretazione di questi
dati può o deve essere messa a confronto. È solo un’idea recente che i
risultati della F., come quelli di ogni altra indagine, non sono definitivi ma
hanno bisogno di essere messi a prova e saggiati. Dewey ha chiamato a questo
proposito la F. critica delle critiche. « Può sembrare ad alcuni un tradimento,
egli ha detto, concepire la F. come il metodo critico per sviluppare i metodi
della critica. Ma anche questo concetto della F. attende di essere messo alla
prova, e la prova che lo confermerà o lo condannerà consiste nella riuscita
eventuale. L'importanza della conoscenza che abbiamo acquistato e
dell’esperienza che è stata ravvivata dal pensiero consiste nell’evocare e nel
giustificare la prova » (Experience and Nature, pag. 437). Tuttavia questa
esigenza diventa operante solo quando si determini il campo dal quale la F.
tragga i suoi dati e nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La
determinazione di questo campo costituisce la caratteristica propria della F.
analitica dei tempi nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento sono
soltanto due: 1° l’esistenza singola; 2° l’esistenza associata. 1° Le F. che
fanno appello all’esistenza singola per la ricerca dei dati e per la eventuale
messa a prova delle soluzioni considerano abitualmente l’esistenza singola come
coscienza e vedono nella coscienza il dominio proprio della filosofia. Nel
mondo contemporaneo, la più conosciuta e tipica F. di questa specie è quella di
Bergson, che esplicitamente si organizza come ricerca dei « dati immediati
della coscienza » e che utilizza questi dati per soluzioni che possono a loro
volta essere messe a prova FINALISMO soltanto nell’ambito della coscienza. A
questo tipo di F. si riconnette anche la fenomenologia concepita da Husserl
come « un ritorno radicale all’ego cogito puro, per far rivivere i valori
eterni che ne derivano + (Cart. Med., $ 2). Il difetto metodologico di questo
tipo di F. consiste nel fatto che in esse il dato, che deve servire come
limitazione o controllo del procedimento analitico, non è veramente
indipendente da questo procedimento, perchè può essere scoperto o assunto solo
sulla base dei presupposti che lo ispirano. 2° Le F. che fanno appello
all’esistenza associata hanno il loro capostipite nella F. di Platone, che per
l’appunto intendeva mettere a prova i risultati della F. nella vita associata.
Allo stesso genere appartiene la F. di Kant, secondo la quale i risultati della
F. devono essere messi a prova nel dominio morale e politico cioè nel campo dei
rapporti umani in generale e costituire uno strumento di progresso in tale
campo [cfr. lo scritto Se il genere umano sia in costante progresso verso il
meglio, del 1798, nonchè quello Sull’illuminismo, 1784, e quelli
precedentemente citati in questo articolo, II, b)]. L'esperienza inter-umana è
anche quella cui fa riferimento Dewey per la messa a prova dei risultati della
F. cioè delle proposte che essa formula per la condotta intelligente della vita
(Experience and Nature, cap. X). Dall'altro lato, l’esistenzialismo di
Heidegger, per quanto non progetti di mettere a prova i risultati delle sue
analisi, assume i dati di questa analisi dall’esistenza comune quotidiana, da
ciò che accade fra gli uomini « innanzi tutto e per lo più » (Sein und Zeit, $
9). Infine a questo stesso orizzonte si può ricondurre la F. intesa come
analisi del linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il fatto
inter-soggettivo fondamentale e quindi nel chiarimento e nella rettificazione
di esso lo strumento più adatto per l’eliminazione degli equivoci e la rettificazione
dei rapporti intersoggettivi. Questa almeno sembrerebbe il significato più
importante di una siffatta filosofia. Ma non è il caso di questo significato,
se essa viene intesa semplicemente (come alcuni l’intendono) quale una
«terapia» diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fittizi, prodotti dalla
filosofia. In questo caso, poichè nessuno, tranne l’interessato, può giudicare
se si senta o meno sufficientemente « guarito +, la messa a prova della F.
avrebbe per suo campo proprio la vita privata dell’individuo. FILOSOFIA PRIMA
(gr. rpém puocopla; lat. Prima philosophia; ingl. First Philosophy; francese
Philosophie première; ted. Ersten Philosophie). Così Aristotele chiamò talvolta
la F. come scienza dell’essere (o teologia) per distinguerla dalla fisica (F.
seconda) e dalla matematica (Fis., I, 9, 191 a 36; Met., VI, 1, 1026a 16;
ecc.). Bacone adoperò il 405 termine per indicare la «scienza universale + che
è come l’albero da cui si dipartono, come tanti rami, le scienze particolari e
ha per oggetto i princìpi comuni delle scienze (De Augm. Scient., III, 1): (v.
Frrosoria). Nel significato aristotelico il termine è stato sostituito da
quello di metafisica (v.). FINALISMO (ingl. Finalism; franc. Finalisme; ted.
Finalismus). La dottrina che ammette la causalità del fine, nel senso che il
fine sia la causa totale dell’organizzazione del mondo e la causa dei singoli
eventi. La dottrina implica due tesi: 18 il mondo è organizzato in vista di un
fine; 23 la spiegazione di ogni evento del mondo consiste nell’addurre il fine
cui l'evento è diretto. Queste due tesi si trovano spesso congiunte o confuse
insieme; ma talvolta sono distinte e si cerca di ammettere l'una senza
ammettere l'altra. Secondo la testimonianza di Platone e di Aristotele,
Anassagora fu il primo degli antichi ad ammettere la causalità del fine (PLAT.,
Fed., 97 c; ARIST., Met., I, 3, 984b 18). Platone presenta la sua propria
dottrina come una conseguenza del principio di Anassagora che l'intelligenza è
la causa ordinatrice del mondo. « Se l'intelligenza ordina tutte le cose e
ciascuna cosa dispone nel modo migliore, egli dice, trovare la causa per la
quale ciascuna cosa si genera, si distrugge O esiste, significa trovare qual è
per essa il modo migliore di esistere o di modificarsi o di agire + (Fed., 97
c). Ciò che è « meglio » o «eccellente » è, da questo punto di vista la « vera
» causa delle cose mentre sono cause secondarie o concause quelle di natura
fisica che solitamente si adducono (Tim., 46 d; Fil., 54c). Ma la dottrina che
ha fatto prevalere la concezione finalistica nella metafisica antica e recente
è quella aristotelica. Le due tesi proprie del F. sono parti integranti della
metafisica aristotelica. Da un lato Aristotele afferma che « tutto ciò che è
per natura esiste per un fine » (De an., III, 12, 434 a 31) e identifica il
fine con la stessa sostanza «0 forma o ragion d'essere della cosa» (Mef., VIII,
4, 1044a 31). Dall’altro lato, ritiene che l’intero universo è subordinato ad
un unico fine che è Dio stesso, dal quale dipende l’ordine e il movimento
dell’universo stesso (/bid., XII, 7, 1072 b). Su queste basi, Aristotele
difende la causalità del fine contro la tesi che egli chiama della « necessità
»: la quale consiste nell’ammettere che le cose non avvengono in vista del loro
risultato migliore, ma che il risultato migliore è, talvolta, l’effetto
accidentale della necessità. Difatti come si dice che di necessità, date certe
cause, è piovuto e che la pioggia ha accidentalmente prodotto la perdita del
raccolto, senza che questa fosse il fine della pioggia, così si potrebbe
tentare di spiegare allo stesso modo la forma degli organismi animali (Fis.,
II, 8, 198 b 17). Contro questo modo di ra406 gionare Aristotele osserva che
ciò che accade sempre o per lo più non si può spiegare col caso, ma suppone la
necessità d’azione del fine (/bid., II, 9, 200a 5). Non si trova però in
Aristotele quella forma popolare della teleologia che s’inizia con gli Stoici e
che consiste nel mostrare che le cose del mondo son fatte dalla natura a
vantaggio dell’uomo. Il fondamento di questa teleologia è espresso da Cicerone:
« Per chi dunque si potrebbe dire che è stato realizzato il mondo?
Evidentemente per gli esseri viventi dotati di ragione cioè per gli dèi e per
gli uomini; non vi è nulla infatti che sia più eccellente di essi, dato che la
ragione è superiore a tutto: diviene così credibile che il mondo e tutto ciò
che nel mondo esiste è stato fatto per gli dèi e per gli uomini» (De nar.
deor., II, 133). Data la sua stretta connessione con la teologia, si intende
perchè il F. è stato sempre assunto a fondamento dalla metafisica teologica.
Gli Scolastici insistono sulla superiorità causale del fine che chiamano «causa
delle cause ». S. Tommaso, sulle orme di Aristotele, risolve nella causalità
del fine la necessità propria dei movimenti naturali. « La necessità naturale
che inerisce alle cose e le dirige, egli scrive, viene alle cose stesse
impressa da Dio in quanto le dirige ad un fine: al modo stesso in cui la
necessità con cui si muove la freccia e per cui è diretta verso il bersaglio è
stata impressa ad essa da chi l’ha lanciata e non appartiene alla freccia » (S.
Th., I, q. 103, a. 1). Questo è proprio il pensiero fondamentale che domina e
rende straordinariamente uniformi tutte le teorie finalistiche di cui è ricca
la storia della F. fino ai nostri giorni. Sembrò a Hegel una grande novità la
sua propria dottrina del fine come del «concetto stesso nella sua esistenza » e
della finalità come una determinazione immanente alla natura stessa; ed egli
infatti contrappose questa dottrina a quella, che riteneva propria della
tradizione, di un intelletto «extramondano » che dall’esterno imponga i suoi
fini alla natura (Wissenschaft der Logik, III, sez. II, cap. III; trad. ital,
pag. 216 sgg.).. Ma in realtà, come provano i testi finora citati, non esiste,
nella storia della F., la dottrina di una finalità estrinseca e imposta da un
intelletto extra mondano; giacchè per finalità del mondo Aristotele, come gli
Stoici e come S. Tommaso, intendono la ragion d’essere propria del mondo, la
sua necessità immanente: e S. Tommaso esplicitamente identifica l’impressio di
Dio sulla natura con la « necessità inerente alle cose». Una finalità se è tale
è sempre immanente alla totalità di cui costituisce l'organizzazione. E come già
notava Aristotele, il F. sotto questo aspetto non muta, sia che si tratti di
totalità naturali sia che si tratti di totalità artificiali; nella costruzione
di una casa il fine pervade il materiale di cui ci si FINALISMO serve e
inerisce ad esso in maniera non diversa da come inerisce alle parti di un
organismo (Zis., II, 9, 200a 34). In tutti i casi il F. è, per adoperare
l’espressione hegeliana, il concetto stesso nella sua esistenza: la
realizzazione di un concetto che sin da principio dirige e governa questa
stessa realizzazione. Pertanto la polemica contro « l’intelletto extra-mondano
» di Hegel è una polemica teologica: la contrapposizione di una tesi
panteistica ad una tesi teistica; ma non concerne il finalismo. Diverso
significato ha la distinzione tra finalità interna e finalità esterna fatta da
Schopenhauer, il quale tuttavia mantiene immutato il concetto tradizionale di
F., nonostante la sua tesi del carattere irrazionale e disordinato della forza
che regge il mondo. La finalità interna è per Schopenhauer «l’armonia di tutte
le parti di un organismo singolo, in modo tale che la conservazione di esso e
della sua specie si presenti come lo scopo di questa stessa armonia ». La
finalità esterna è invece la «relazione della natura inorganica con l’organica
o di parti della natura organica tra loro, che rende possibile la conservazione
dell’intera natura organica o delle singole specie» (Die Welt, I, $ 28).
Dall'altro lato non costituisce una innovazione del F. tradizionale la dottrina
di Bergson al riguardo. Bergson si è pronunciato, a proposito della finalità
organica, sia contro il « meccanismo radicale » sia contro il « F. radicale »,
in entrambi i quali ha riconosciuto la negazione del carattere «imprevedibile »
o «creativo» dell'evoluzione vitale. L'armonia, egli dice, deve trovarsi
all’indietro piuttosto che in avanti di questa evoluzione. « L’avvenire non è
contenuto nel presente sotto la forma di un fine rappresentato. Tuttavia una
volta realizzato, esso spiegherà il presente come il presente lo spiegava, e
ancora meglio; dovrà essere considerato come un fine altrettanto e più che come
un risultato. La nostra intelligenza ha il diritto di considerarlo
astrattamente dal suo punto di vista abituale, giacchè essa stessa è
un’astrazione operata sulla causa da cui emana » (Évol. créatr., 8 ediz., 1911,
cap. 1, pag. 57). Ma anche questa determinazione bergsoniana non innova gran
cosa nel concetto classico del F.; la cui natura non consiste, come Bergson
ritiene, nel negare i caratteri imprevedibili o nuovi che emergono nel corso
della realizzazione del fine, ma unicamente nell’ammettere la causalità del
fine stesso e nel ritenere questa causalità come principio di spiegazione. La
dottrina di Bergson non porta nessuna innovazione a questi due punti. Essa si lascia
pertanto ricondurre interamente alla concezione classica del F.; come alla
stessa concezione si riconducono le dottrine, che pur ammettendo il meccanismo,
lo ritengono incluso e subordinato al F. generale della natura, come fanno
FINALISMO Leibniz (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 607; IV, pag. 284), Lotze
(Mikrokosmus, 1856, I) e con loro molti spiritualisti contemporanei. Una
innovazione significativa del F. si ha soltanto con l’interpretazione kantiana.
Questa interpretazione infatti nega la tesi 2* del F. stesso cioè quella per la
quale spiegare un fenomeno significa addurre lo scopo. Per Kant, la spiegazione
dei fenomeni può essere soltanto causale; ed il giudizio teleologico è
riflettente non determinante cioè coglie, non un elemento costitutivo delle
cose, ma un modo soggettivo, per quanto inevitabile per l’uomo, di
rappresentarsele. « V'è un’assoluta differenza tra il dire che la produzione di
certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è possibile se non
mediante una causa che si determina ad agire secondo fini, e il dire che,
secondo la particolare natura della mia facoltà conoscitiva, io non posso
giudicare della possibilità delle cose e della loro produzione se non
concependo una causa che agisca secondo fini e quindi un essere che produca
analogamente alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare
qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva del
concetto che ammetto; nel secondo caso la ragione non fa che determinare l’uso
delle mie facoltà conoscitive, conformemente alla loro natura e alle condizioni
essenziali della loro portata e dei loro limiti » (Crif. del Giud., $ 75). Dal
secondo punto di vista, che è quello proposto da Kant, il F. non è che un
concetto regolarivo dell’uso dell'intelletto umano: uso opportuno e necessario
per il fatto che l'intelletto umano incontra limiti ben precisi nella
spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a ricorrere ad una
considerazione complementare. Questa tuttavia non può mai valere come una spiegazione;
e la sua sola funzione è quella di aiutare a ricercare le leggi particolari
della natura (Ibid., $ 78). Questo punto di vista kantiano (che recentemente è
stato rinnovato da N. HARTMANN, Philosophie der Natur, 1950), mentre nega al F.
ogni valore conoscitivo e scientifico gli riconosce una specie di validità
soggettiva, tra estetica e morale, validità dovuta alla limitazione inevitabile
della conoscenza umana. Ovviamente l’interpretazione kantiana del F. poggia
sulla tesi propria degli avversari del F. cioè sulla negazione del potere
esplicativo del F. stesso. Soltanto questa negazione costituisce in realtà
l'abbandono del F. e solo le ragioni che l'appoggiano costituiscono
un'autentica critica di esso. Il F. difatti non è una generalizzazione empirica
a partire dalla considerazione di un certo numero di esempi teleologici; e
pertanto neppure una « disteleologia » cioè un’elencazione di casi contrari al
F. è una critica decisiva del F. stesso. La 407 dottrina di Platone e di
Aristotele al riguardo, e specialmente quella di quest'ultimo, mostra
chiaramente quale sia il fondamento del F.: la credenza che l’unica spiegazione
possibile degli eventi è quella che adduce lo scopo per cui avvengono. Lo scopo
infatti, per Platone e per Aristotele, è la forma o ragion d’essere della cosa;
e la determinazione dello scopo è la spiegazione causale della cosa stessa. Ora
di questo principio si è cominciato a dubitare solo nell’età moderna.
L'’epicureismo che, con Lucrezio, negava il F. adducendo che esso mette prima
quel che viene dopo, per es., la vista prima dell’occhio (LucREZIO, De rer.
nat., IV, 829 sgg.) non costituisce la negazione di quel principio. La prima
critica di esso si può invece trovare nella scolastica del ’300 ed è opera di
Guglielmo Ockham. Ockham in primo luogo fa vedere che l’azione del fine non può
consistere se non nel muovere ad agire la stessa causa efficiente; in secondo
luogo fa vedere che quest’azione è puramente metaforica (/n Sent., II, q. 3 G).
Ockham osserva che l’azione del fine non potrebbe consistere se non nell’essere
desiderato od amato; e che questo appunto dimostra il carattere metaforico di
tale azione. Nelle azioni naturali, che si verificano con uniformità, non ha
senso chiedersi la causa finale; per es., non ha senso chiedersi per qual fine
il fuoco si genera: infatti non si richiede l’esistenza del fine affinchè
l’effetto si produca (Quodl., IV, q. 1). Questa è, probabilmente, la prima
critica che sia stata rivolta al valore esplicativo del finalismo. Qualche
secolo dopo, la causa finale veniva completamente trascurata nella spiegazione
che Telesio tentava del mondo naturale (De rerum natura, 1565). E Bacone
eliminava esplicitamente la considerazione del fine dalla ricerca sperimentale
(Nov. Org., II, 2). « La ricerca delle cause finali, egli diceva, è sterile:
come una vergine consacrata a Dio, non partorisce nulla» (De augm. scient.,
III, 5). A loro volta Galilei (Op., VII, pag. 80) e Cartesio (Princ. Phil.,
III, 3) eliminavano dalla scienza la considerazione della causa finale. E
Spinoza contrappose la necessità con cui le cose derivano dalla natura divina
al F. da lui considerato come un pregiudizio contrario all'ordine del mondo e
alla perfezione di Dio (Er., I, 36, App.). Da questa epoca in poi, cioè dalle
origini della scienza moderna, il F. ha cessato di valere come procedimento di
spiegazione scientifica. È ben vero che esso si è sempre insinuato nelle crepe
della spiegazione meccanica del mondo ed è stato spesso considerato come un
completamento di questa spiegazione al di là dei limiti da essa raggiungibili.
Ciò è accaduto soprattutto nel dominio delle scienze biologiche o nella
speculazione filosofica sui risultati di queste scienze. Nonostante 408 i
successi ottenuti in questo campo dalla considerazione fisico-chimica dei
fenomeni biologici, il mancato raggiungimento o addirittura l’irraggiungibilità
di una riduzione meccanica di tali fenomeni è stata frequentemente
riconosciuta. Le varie forme del vitalismo (v.), sono per l’appunto
contrassegnate da questo riconoscimento e pertanto dal ricorso ad una
spiegazione teleologica dei fenomeni vitali. Questo ricorso tuttavia è apparso
inevitabile solo nella misura in cui scienziati e filosofi hanno formulato
ipotesi globali sull’origine e la natura della vita; giacchè il lavoro
propriamente scientifico, quello a cui sono dovuti i successi della biologia e
della medicina contemporanea, non ha adoperato altri strumenti, materiali o
concettuali, che quelli propri delle scienze naturali. Questo lavoro pertanto
non ha mai avuto bisogno dell’ipotesi finalistica. Dall'altro lato, la
situazione odierna è caratterizzata: 1° dal riconoscimento dell’originalità dei
fenomeni organici rispetto a quelli fisico-chimici, senza che tale originalità
si faccia consistere nel carattere finalistico di essi (v. EVOLUZIONE;
VITALisMo); 2° dall'abbandono dell’ideale della spiegazione meccanica, sicchè
la differenza radicale che si era venuta stabilendo, in base alla riuscita di
questa spiegazione, tra fenomeni fisici da un lato e fenomeni biologici e
antropologici dall’altro lato è venuta a cadere (v. CausALITÀ; SPIEGAZIONE). In
virtù di questa situazione, da un lato si è espunta la causalità del fine dal
dominio dell’evoluzione organica, dall'altro l’azione stessa di questa
causalità, quale si ammette nell'uomo, può non esser considerata diversa da
quella dalla causalità naturale. Sul primo punto, Simpson afferma: « Lo scopo e
il piano non sono le caratteristiche della evoluzione organica e non sono la
chiave per nessuna delle sue operazioni. Ma lo scopo e il piano sono
caratteristiche della nuova evoluzione [cioè dell'evoluzione sociale o storica]
perchè l’uomo ha scopi e fa piani. Qui scopo e piano entrano definitivamente
nell’evoluzione, come un risultato e non come causa dei processi che la lunga
storia della vita ci mostra. Gli scopi e i piani sono nostri, non
dell’universo, il quale mostra indizi convincenti della loro assenza» (7he
Meaning of Evolution, 1952, pag. 292). Ma dall’altro lato gli scopi e i piani
non costituiscono una forma di causalità a parte, che faccia del mondo in cui
essi si verificano un dominio privilegiato o speciale dell’essere. Nel mondo
umano, la causalità del fine o è stata ricondotta alla motivazione (v.) che non
differisce formalmente dalla spiegazione causale (C. G. HeMPEL-P. OPPENHEIM,
«The Logic of Explanation», in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag.
327-28); oppure è stata descritta in termini di comportamento che implicano
ancora meno il riferimento a un tipo di FINALITÀ spiegazione specifica
(ROSEBLUETH-WIENER-BIGELOW, in « Philosophy of Science», 1943, pag. 18 sgg.).
In conclusione, il F., riconosciuto oggi inutile in tutti i campi della
spiegazione scientifica, rimane la caratteristica di quegli indirizzi
metafisici che ritengono troppo modesto per la filosofia il còmpito di
criticare i valori per rettificarli o renderne possibile la conservazione e si
propongono invece quello di dimostrare che i valori sono garantiti dalla stessa
struttura del mondo in cui l’uomo vive e costituiscono il fine di essa. Il F.
ha perduto completamente il carattere scientifico che aveva alle sue origini
nella Grecia antica e rimane solo come una delle tante speranze o illusioni cui
l’uomo fa appello in mancanza di procedimenti efficaci o in sostituzione di
essi. FINALITÀ (ingl. Purposiveness, Finality; francese Finalité; ted.
Zweckmdssigkeit). La rispondenza di un complesso di cose o di eventi ad un
fine. Così, per es., la F. di un piano o progetto è la rispondenza o
l’adeguazione di esso al fine cui è diretto. La F. della natura è la
rispondenza della natura a quelli che si presumono suoi fini; ecc. La parola
non si applica quindi esclusivamente alla causalità dei fini della natura (cui
si applica la parola finalismo), ma designa in generale una certa forma di
organizzazione o di ordine. FINE (gr. 606, où évexa; lat. Finis; inglese End,
Purpose; franc. Fin, But; ted. Zweck). La parola ha i seguenti significati
principali: 1° termine, nel senso in cui Aristotele dice: «la natura cerca
sempre il F.» cioè « fugge l’infinito » (De gen. anim., I, 1, 715b, 16 15).
Nello stesso senso ha usato la parola Dewey: « Possiamo concepire il F. come
dovuto al compimento, al raggiungimento perfetto, alla sazietà,
all’esaurimento, alla dissoluzione, a qualcosa che è venuto meno o ha ceduto»;
e in altri termini i F. sono solo «termini o conclusioni di episodi temporali »
favorevoli o sfavorevoli, buoni o cattivi che siano (Experience and Nature,
pag. 97 sgg.); 2° compimento o perfezione, nel senso che ha frequentemente la
parola greca ié/os. In questo senso si dice « giunta al F. + o « giunta a buon
F.» di una cosa che è stata portata a compimento; 3° scopo o causa finale, nel
senso della quarta delle quattro cause aristoteliche (v. CAuSALITÀ). In questo
significato la parola italiana scopo, quella francese but e quella inglese
purpose sono meglio adoperate. Lo scopo ha carattere oggettivo, sia che
s’intenda come immanente alla natura sia che si intenda come F. di un
comportamento umano: è il termine del progetto o piano cui si riferisce; 4°
intento 0 mira, cioè lo scopo nel suo aspetto soggettivo, come ciò che è il
termine di una certa FINITO intenzione ma che può essere anche diverso dal
termine cui questa intenzione mette capo in realtà. FINI, REGNO DEI (ted. Reich
der Zwecke). È, secondo Kant, la comunità ideale degli esseri ragionevoli in
quanto obbediscono unicamente alla legge della ragione. Il regno dei F., dice
Kant è «il concetto in virtù del quale ogni essere ragionevole deve
considerarsi come fondatore di una legislazione universale per mezzo di tutte
le massime della sua volontà, in modo da poter giudicare se stesso e le sue
azioni da questo punto di vista + (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II).
In tale regno, inteso come «l’unione sistematica di vari esseri ragionevoli
sotto leggi comuni +, ogni membro è nello stesso tempo legislatore e suddito e
vale pertanto come « fine in se stesso » (Zbid., II). Vedi DIGNITÀ. FINITISMO
(ingl. Finitism; franc. Finitisme; ted. Finitisnus). Con questo termine, usato
molto raramente, s'intende ogni dottrina che affermi la finità del mondo cioè
che faccia sue le resi delle antinomie cosmologiche esposte nella Critica della
Ragion Pura di Kant. FINITO (gr. rnenepacpévov; lat. Finitus; inglese Finite;
franc. Fini; ted. Endlich). Il termine ha i seguenti significati principali, i
primi tre dei quali corrispondono ai significati di infinito: 1° come
disposizione o qualità di una grandezza, cioè in senso matematico, il F. è: a)
ciò che è completo o esauribile, cioè non ha parti fuori di sè: il contrario
dell’infinito potenziale; 5) l’insieme non auto-riflessivo cioè non equipotente
ad una sua propria parte o sottoinsieme (nel senso stabilito nella teoria degli
insiemi di Cantor e Dedekind). 2° Ciò che è stato condotto a termine, quindi è
compiuto e perfetto. In questo senso si parla comunemente di « lavoro F. » o di
« opera d’arte F. » per significare un lavoro accurato, che si è condotto sino
in fondo, o un'opera d’arte portata alla sua forma perfetta. Questo significato
corrisponde all’uso greco del termine. Platone considera F. ciò che ha ordine,
misura e armonia (Fil., 23c sgg.). Aristotele afferma a sua volta: «La cosa che
non ha niente al di là di sè è finita ed intera perchè noi definiamo l’intero
come ciò che non manca di niente... Ora intero e perfetto hanno la stessa
natura, o pressapoco. Ma niente è perfetto che non ha termine, e il termine è
limite» (Fis., III, 6, 207 a 7). 3° Nel senso teologico, ciò che incontra
limiti od ostacoli alla sua possibilità di essere cioè alla sua potenza. Questo
concetto del F. si può far risalire a Plotino, il quale è il primo che ha
inteso l'infinito come illimitatezza della potenza (Enn., IV, 3, 8; VI, 6, 18).
Ma questo è soprattutto il 409 concetto di F. sul quale ha fatto leva il
Romanticismo per affermare la realtà dell’infinito. Per Hegel, l’infinito è la
realtà stessa in quanto illimitata potenza di realizzazione cioè in quanto
Assoluto. Il F. è ciò che non ha abbastanza potere per realizzarsi, l’ideale,
il dover essere (Enc., $ 95; Wissenschaft der Logik, cap. II, sez. I; trad.
ital., I, pag. 163). Da questo punto di vista il F. è « irreale » e trova la
sua realtà soltanto nell’infinito e come infinito. 4° Ciò che può essere o
agire solo in determinate condizioni. Questo è il senso in cui la parola è
stata intesa da Kant. Egli chiama l’uomo un « essere pensante F.+, in quanto le
sue possibilità conoscitive sono limitate dall’intuizione sensibile cioè da
un’intuizione che dipende da oggetti dati (Crit. R. Pura, $ 8, rv). Dal punto
di vista morale l’uomo è un essere F. in quanto la sua volontà non si
identifica con la ragione e la legge di questa vale per essa solo come un
imperativo (Crif. R. Pratica, $ 1, scol.). Infine, l’intera facoltà del
giudizio estetico e teleologico è fondata sulla natura F. dell'uomo cioè sulla
limitazione delle sue possibilità conoscitive in quanto non determinano
interamente il loro oggetto ma solo la forma di esso (Crit. del giud., $ 77).
Questo significato della parola è rimasto in espressioni come «intelletto F.»,
«essere F.», « natura F.», ecc.: nelle quali il F. non esprime una limitazione
spaziale o temporale ma il carattere condizionale di certe possibilità, che non
sono tali da garantire l’onniscienza, l’onnipotenza e l’infallibilità. Nello
stesso significato, il termine è assunto dall’esistenzialismo contemporaneo.
Heidegger vede il carattere F. dell’uomo nel fatto che ogni suo progetto del
mondo è già dominato dal mondo stesso, che limita le possibilità progettabili.
Dice Heidegger: «Il progetto di possibilità, conformemente alla sua essenza, è
via via più ricco del possesso in cui il progettante si trovava anteriormente.
Ma un possesso siffatto può appartenere all’Esserci solo perchè esso, in quanto
progettante, si sente immerso nel mezzo dell’ente. Ma con ciò sono già
sortratte all’Esserci determinate altre possibilità e lo sono in conseguenza
della sua effettività... Che il concreto progetto del mondo acquisti forza e
divenga un possesso solo nella sottrazione, è un documento trascendentale della
finitudine della libertà dell’Esserci. Non si annuncia qui forse proprio
l’essenza F. della libertà in generale? (Vom Wesen des Grundes, Ill; trad.
ital., pag. 68-69). In questo senso, «F.+ è qualità propria solo dell’uomo o
delle possibilità umane; e finitudine è il termine astratto corrispondente.
Ogni filosofia dell’esistenza è una filosofia del F. perchè è l’interpretazione
dell'esistenza in termini di possibilità condizionate (v. ESISTENZA, 3°). 410
FINZIONE (ingl. Fiction; franc. Fiction; tedesco Fiktion). Una filosofia della
F. o finzionismo (Fiktionalismus) è la « Filosofia del come se » (1911) di
Vaihinger, la quale si propone di dimostrare che tutti i concetti, le
categorie, i princìpi e le ipotesi di cui si avvalgono il sapere comune, le
scienze e la filosofia sono F. prive di qualsiasi validità teoretica, spesso
intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto
utili. Vaihingre ritiene che questa non sia una situazione patologica ma
normale e che l’unica alternativa che essa prospetti è quella di un uso consapevole
e scaltrito delle F. come tali. Ovviamente in questo senso la F. non è
un’ipotesi perchè non esige di essere verificata; si avvicina di più al
concetto di mito (v.). La filosofia della F. è uno degli sviluppi che ha avuto
il concetto kantiano nella filosofia contemporanea del come se (v.). FISICA (gr. quow; lat. Physica;
ingl. Physics; franc. Physique; ted. Physik).
La disciplina che ha per oggetto lo studio della natura, le cui caratteristiche
e i cui metodi sono pertanto in relazione con ciò che s’intende per narura
(v.). Come disciplina specifica, essa si può dire nata con Aristotele che la
considerò come la «filosofia seconda» distinguendola, nel gruppo delle scienze
teoretiche, da un lato dalla feologia dall’altro dalla matematica (Met., XI, 7,
1064b 1). Si possono distinguere tre concetti fondamentali di questa scienza,
che si sono succeduti storicamente: 1° il concetto della F. come teoria del
movimento; 2° il concetto della F. come teoria dell’ordine necessario; 3° il
concetto della F. come previsione dell’osservabile. 1° Alla sua nascita, con
Aristotele, la F. è la teoria del movimento e tale si è mantenuta sino alle
origini della scienza moderna. Aristotele ritiene infatti che la F. ha per
oggetto «quella sostanza che ha in se stessa la causa del suo movimento »
(Mer., VI, 1, 1025b 18); e che pertanto il modo in cui la F. considera le
sostanze dipende dalla natura dei movimenti di cui sono dotate. Ora dei quattro
movimenti distinti da Aristotele (sostanziale, cioè generazione e corruzione;
qualitativo, cioè mutamento; quantitativo, cioè aumento o diminuzione; /ocale,
cioè traslazione; Fis., VIII, 7, 261 a 26), il movimento di traslazione è il
primo e fondamentale: tutti gli altri possono infatti essere spiegati con la
traslazione dei corpi (/bid., VIII, 7. 260 a-b). La determinazione delle varie
sostanze fisiche deve perciò essere fatta in base al movimento di traslazione
che è proprio di ciascuna di esse. Ora il movimento di traslazione è di tre
specie: dall’alto verso il centro del mondo, dal centro verso l’alto, intorno
al centro o circolare. I primi due movimenti sono contrari tra loro e (poichè
la generazione e la corruzione consistono nel passaggio FINZIONE da un
contrario all’altro) sono propri dei corpi soggetti alla generazione e alla corruzione
cioè dei corpi terrestri o sublunari, che risultano composti di quattro
elementi: acqua, aria, terra e fuoco. Il movimento circolare invece non ha
contrari perchè muoversi da destra a sinistra o da sinistra a destra
circolarmente non modifica la circolarità del movimento stesso (De cael., I,
4). Esso sarà allora proprio della sostanza che compone i corpi ingenerabili e
incorruttibili cioè i corpi celesti, e questa sostanza è l’etere. Dei quattro
elementi che compongono il mondo sublunare due, aria e fuoco, si muovono dal
basso in alto; due, acqua e terra, dall’alto in basso. La F. aristotelica è
pertanto una F. qualitativa nel senso che ritiene un determinato movimento
proprio di un determinato elemento e stabilisce così una netta divisione
qualitativa degli elementi tra loro e di tutti gli elementi dall’etere. Da
questa impostazione segue il principio generale della F. aristotelica che è: «
Ogni elemento si muove verso la sua sfera, se non è impedito » (Fis., IV, 1,
208 b 10); principio il quale implica o stabilisce l’esistenza di luoghi
assoluti che sono le sedi naturali degli elementi e ai quali pertanto gli
elementi stessi ritornano quando ne sono allontanati. Questi luoghi sono,
secondo Aristotele, determinati dal peso degli elementi. Al centro del mondo
c’è la terra che è l’elemento più pesante (come risulta, per es., dal fatto che
la pietra cade o affonda nell’acqua). Attorno alla terra c'è la sfera
dell’acqua; e attorno alla sfera dell’acqua quella dell’aria che è ancora più
leggera, come dimostra il fatto che una bolla d’aria rotta nell’acqua sale alla
superficie. Attorno alla sfera dell’aria c’è quella del fuoco, che è l’elemento
più leggero, come dimostra il fatto che le fiamme accese sulla superficie della
terra tendono verso l’alto cioè alla sfera che è al di sopra dell’aria. Su
questa base Aristotele determina i caratteri del mondo: che è unico perchè gli
elementi si addensano ognuno nella sua sfera; finito perchè compiuto e
perfetto; e come tale anche ordinato ad un unico fine, che è Dio stesso. Questa
dottrina, fondata su poche ma comuni esperienze, e ammirevole per la sua
eleganza e semplicità, è stata la maggiore espressione, nel pensiero antico, di
una sintesi delle conoscenze naturali. Di fronte ad essa, la F. atomistica
degli Epicurei e la F. panteistica degli Stoici hanno più carattere di
speculazione che di conoscenza scientifica. Tale infatti è il giudizio che ne
fecero gli scienziati antichi, i quali le trascurarono completamente, per
rifarsi invece costantemente alla F. aristotelica: sulla quale Tolomeo stesso
(I1 secolo) innestò la sua astronomia. La F. aristotelica ha dominato
incontrastata per molti secoli; e nonostante i dubbi che alcuni scolastici del
sec. xiv avanzarono su di essa, il suo FISICA abbandono si ha soltanto con Leonardo,
Copernico, Keplero e Galilei, ai quali è dovuta la prima organizzazione della
scienza moderna. 2° Il secondo concetto fondamentale della F. è quello che la
considera come lo studio dell’ordine sperimentabile della natura. A questo
concetto hanno contribuito gli Aristotelici del Rinascimento con la difesa
della necessità dell’ordine naturale; i Platonici dello stesso Rinascimento, e
specialmente Cusano, con l’affermazione del carattere matematico dell'ordine
naturale; infine la magia con la sua pretesa di attingere ed esercitare un
dominio effettivo sulla natura. Il concetto della natura, che è già chiaro in
Galilei, è quello di un ordine oggettivo, scritto in caratteri matematici,
necessario e privo di finalità, attingibile mediante l’esperimento. Su questo
concetto di ordine si fondava la nozione di armonia che Keplero poneva a base
della scienza della natura (Hermonices mundi, 1619, IV, 1). L’opera di Newton
portava alla sua maturità il corrispondente concetto della fisica. Còmpito
della F. diveniva esplicitamente e unicamente la descrizione dell'ordine
naturale. La F. aristotelica, come teoria del movimento, era diretta allo
studio delle cause del movimento: le quali cause coincidevano con le sostanze
(forme o cause finali) delle cose. Newton chiariva il senso nel quale la
determinazione dell’ordine naturale deve essere oggetto della scienza, proprio
negando, in polemica con la scienza aristotelica, che la F. fosse scienza delle
cause (Optice, 1740, III, q. 31). Nel 1764 Kant così descriveva il concetto
newtoniano della scienza: « Con esperienze sicure e nel caso anche con
l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole secondo le quali si
svolgono certi fenomeni della natura » (Untersuchung ilber die Deutlichkeit de
Grundsdtze der natiirlichen Theologie und der Moral, 1763, II). Queste regole
sono le leggi naturali: leggi che delineano l’ordine dei fenomeni naturali cioè
il modo necessario, perciò uniforme e costante, in cui essi si connettono l’uno
con l’altro. Descrivere questa connessione è il compito della fisica.
L’illuminismo e il positivismo fecero prevalere questo concetto della F.: sul
quale insisteva D'Alembert (É/ements de phil., 1759, $ 4) e che è alla base
della nozione della scienza espressa da Comte. « Il carattere fondamentale della
F. positiva, diceva quest’ultimo, è di considerare tutti i fenomeni come
soggetti a /eggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui
riduzione al minimo numero possibile sono gli scopi di tutti i nostri sforzi,
considerando come assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di
quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali » (Cours de Phil.
Positive, lez. I, $ 4). Le leggi non sono infatti altro che le espressioni
dell’ordine necessario della natura. 411 Il concetto della F. come teoria
dell’ordine naturale si contrappone al concetto della F. come teoria del
movimento per la sua pretesa di limitarsi a descrivere la natura nel suo ordine
invece che a spiegarla nelle sue cause. Da Newton in poi la descrizione viene
opposta alla spiegazione, come còmpito proprio della fisica. Oppure, il che ha
lo stesso significato, si considera la spiegazione cui la F. deve
legittimamente aspirare come la determinazione di un rapporto tra due fenomeni
in conformità di una legge: il che è per l’appunto ciò che, sotto un altro
aspetto, è una semplice descrizione. Questo concetto della F. ha pertanto, come
sua caratteristica propria, il riconoscimento delle connessioni necessarie tra
i fenomeni, nelle quali si concreta o prende corpo l’ordine naturale, nonchè la
credenza nella sperimentabilità, cioè accertabilità empirica, di tale
connessione. Il concetto dell’ordine naturale coincide con quello della
causalità necessaria (v. CAUSALITÀ) e pertanto con quello della prevedibilità
infallibile dei fenomeni naturali. Se la natura è l’ordine necessario, la F.
come studio di quest’ordine può stabilire regole che consentono la previsione
infallibile dei fenomeni. Questa è la credenza che ha costituito la base della
F. classica sino ai primi decenni del sec. xx e che ha sorretto altresì
l'ipotesi fondamentale sulla quale essa si reggeva: il meccanicismo (v.).
Questa ipotesi aveva fra l’altro il vantaggio di rendere possibile una
descrizione visuale del corso dei fenomeni: una descrizione cioè che faceva
appello a immagini visive e pretendeva di rappresentare con tali immagini (cioè
mediante particelle in movimento) la struttura effettiva dei fenomeni. Ma
proprio da questa pretesa cominciarono a sorgere le prime difficoltà, quando,
con la F. relativistica, il concetto di campo (v.) cominciò a sostituire la
rappresentazione visiva delle particelle in movimento. « Occorreva una
coraggiosa immaginazione scientifica, notano Einstein e Infeld, per riconoscere
che l’essenziale per l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere
non già il comportamento dei corpi bensì il comportamento di qualcosa che si
interpone fra di essi, vale a dire del campo » (The Evolution of Physics, IV;
trad. ital., pag. 302). La F. quantistica costituiva un passo ulteriore nella
distruzione della possibilità di una descrizione visualizzante. Notava Bohr: «
Nell’adattamento dell’esigenza relativistica al postulato del quantum dobbiamo
prepararci ad andare incontro a una rinuncia alla visualizzazione (nel senso
ordinario del termine) ancora più radicale di quella incontrata nella
formulazione delle leggi quantiche considerate finora. Noi ci troviamo qui sul
cammino intrapreso da Einstein nell’adattare i nostri modi di percezione,
desunti dalle sensazioni. alla conoscenza gradual412 mente più approfondita
delle leggi di natura» (Atomic Theory and the Description of Nature, 1934, pag.
90). La rinuncia alla visualizzazione era in realtà anche la rinuncia alla
descrizione; giacchè l'impossibilità di visualizzare l’intero corso dei
fenomeni non è che l’impossibilità di descrivere il loro ordine necessario
nella sua interezza. Difatti questa impossibilità fu riconosciuta nella F. con
l'introduzione del cosiddetto « principio di indeterminazione » di Heisenberg
(1927) con il quale la causalità rigorosa dei fenomeni fisici veniva per la
prima volta negata, stante l’impossibilità di prevedere con esattezza il
comportamento della particelle atomiche singole (v. CAUSALITÀ;
INDETERMINAZIONE). Caduta la pretesa della causalità rigorosa e per conseguenza
quella della descrizione dell’ordine totale dei fenomeni, la F. non poteva più
essere intesa come una teoria dell’ordine necessario della natura. 3° Il terzo
concetto della F., che si è venuto delineando a partire dal 1930, fa leva su di
una determinazione che era già ritenuta fondamentale dalla nozione della F. che
l’ha preceduta. Già Comte infatti sulle orme di Bacone, aveva insistito sulla
esigenza della scienza di stabilire previsioni che consentano il dominio sulla
natura. « Scienza, donde previsione; previsione, donde azione +, aveva detto
(Cours de Phil. Positive, lez. II, $ 3). Nel 1894 Hertz nei suoi Principi di
meccanica insisteva sullo stesso concetto: « Il più diretto e in un certo senso
il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura
deve renderci capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, per la
quale possiamo organizzare le nostre faccende presenti sulla base di tale
anticipazione ». A_ misura che il còmpito della descrizione totale dell’ordine
degli eventi veniva considerato fuori delle possibilità effettive della F., il
còmpito della previsione acquistava un sempre maggiore rilievo. Il limitarsi a
questo compito ha accresciuto enormemente il potere d’azione o di
trasformazione della fisica. Il principio di complementarità espresso da Bohr
nel 1927 segna l’abbandono definitivo, da parte della F., della sua pretesa di
valere come teoria dell’ordine necessario. Quel principio infatti dice che: «
Una descrizione spazio-temporale rigorosa e una connessione causale rigorosa
dei processi individuali non possono essere realizzati simultaneamente: o l'una
o l’altra dev'essere sacrificata ». Questo vuol dire che la catena delle cause
e degli effetti potrebbe essere quantitativamente verificata solo se l'intero universo
fosse considerato con un unico sistema; ma in questo caso la F. sarebbe svanita
e rimarrebbe solo uno schema matematico (HEISENBERG, Die physikalischen
Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Da questo punto di vista, mentre
non può FISICALISMO essere descritto l’intero corso di un fenomeno, si può
calcolare con esattezza il risultato di una osservazione futura. « Ad un certo
istante, dice Heisenberg, si misurino certe grandezze fisiche tanto esattamente
quanto è possibile in linea di principio; si hanno allora in ogni istante
successivo grandezze il cui valore può essere calcolato esattamente, cioè per
le quali il risultato di una misura può essere predetto con esattezza, purchè
il sistema da osservarsi non sia sottoposto ad alcuna perturbazione tranne la
misura stessa » (7bid., IV, $ 1). Dirac ha espresso lo stesso concetto della F.
dicendo: «Il solo oggetto della F. teorica è di calcolare risultati che possono
essere paragonati con l’esperimento ed è del tutto inutile che sia data una
descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del fenomeno» (Principles of
Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). La F. si è così trasformata interamente in
una teoria della previsione degli eventi osservabili e ha abbandonato le
esigenze descrittive della sua seconda fase, oltre che quelle esplicative della
sua fase anteriore. Dal punto di vista filosofico, questo carattere
fondamentale della F. contemporanea è stato perfettamente espresso dallo stesso
Heisenberg quando ha detto che la F. del nostro tempo non ci fornisce più « una
immagine della natura, ma una immagine dei nostri rapporti con la natura » (Das
Naturbild der heutigen Physik, 1955, pag. 21). FISICALISMO (ingl. Physicalism;
franc. Physicalisme; ted. Physikalismus). Nome proposto da Neurath (in « Erkenntnis»,
1931, pag. 393) come denominazione del Circolo di Vienna, che vedeva nel
linguaggio il campo d°’indagine della filosofia, per sottolineare il carattere
fisico del linguaggio. Il termine fu accettato da Carnap per indicare il
primato del linguaggio fisico e la sua capacità di valere come il linguaggio
universale: « Il linguaggio della fisica, dice Carnap, è un linguaggio
universale, che comprende i contenuti di tutti gli altri linguaggi scientifici.
In altri termini, ogni proposizione di una branca del linguaggio scientifico è
equipollente ad alcune proposizioni della lingua fisicalistica e può essere
pertanto tradotta in essa senza mutare il suo contenuto» (Philosophy and
Logical Syntax, 1935, pag. 89). Questa traducibilità di ogni proposizione
significante in una proposizione della fisica è ciò che si è chiamato F.: il
quale ha costituito l’idea direttiva della Enciclopedia della scienza unificata
(v. EMPIRISMO LOGICO; ENCICLOPEDIA). Carnap ha tuttavia, in un secondo momento,
interpretato il F. come la riducibilità di tutte le espressioni linguistiche
significative al linguaggio cosale (v.), piuttosto che a quella particolare
forma del linguaggio cosale che è il linguaggio fisico (« Testability and
Meaning *, in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 69-70). FONDAMENTO
FISICA SOCIALE (ingl. Socia/ Physics; francese Physique sociale; ted. Sozial
Physik). Con questo nome Comte indicò lo studio dei fenomeni sociali, cioè la
sociologia; della quale egli per primo affermò l'autonomia scientifica (Cours
de Phil. Positive, lez. 46) (v. SOCIOLOGIA). FISICO-TEOLOGICA, PROVA. V. Dio,
PROVE DI. FISIOCRAZIA. V. ECONOMIA POLITICA. FISIOGNOMICA (gr. queroyvopla;
ingl. Physiognomonics; franc. Physiognomonie; ted. Physiognomik). È l’arte di
giudicare dall’apparenza visibile di un uomo e specialmente dai tratti del
viso, il suo carattere, cioè il suo modo di sentire e di pensare. Aristotele
(seguito da molti scrittori antichi e medievali) aveva già ammessa la
possibilità di giudicare la natura di una cosa sulla base della sua forma
corporea (An. Pr., II, 27, 70b 7). Cicerone parlava di un fisionomista Zopiro
che si vantava di conoscere la natura e il carattere di un uomo con l’esame del
suo corpo, cioè dei suoi occhi del suo volto e della sua fronte (De Fato, V,
10). Ma fu soprattutto nel Rinascimento che quest'arte fu coltivata in
particolare, a cominciare da Giambattista della Porta che nel 1580 pubblicava
un libro Sulla F. umana. A quest’arte fu data grande diffusione nel *700 da
Lavater (Frammenti F., 1775-78). Kant stesso riconosce il valore della F.
(Antr., II, cap. III). Hegel la distingue con lode dalle cattive arti e dai
vani studi perchè essa afferma l’unità dell’interno e dell’esterno (Phanomen.
des Geistes, I, parte I, cap. V; trad. ital., pag. 281). Ed anche in tempi
moderni la F. trova sostenitori non solo tra psicologi e caratteriologi ma
anche tra filosofi. Spengler ha detto: «La morfologia di ciò che è meccanico ed
esteso, una scienza che scopre e ordina rapporti causali, si chiama
sistematica. La morfologia di ciò che è organico, della storia e della vita, di
tutto ciò che reca in sè direzione e destino, si chiama F.» (Untergang des
Abendlandes, 1, pag. 134). R. Kassner ha addirittura affermata l’identità della
psicologia con la F., sul fondamento che la vecchia distinzione tra essere e
apparire non ha valore: «La psicologia deve quindi essere F., e qualsiasi altra
è tediosa e banale, giacchè, tutto consistendo nella visione, nulla ha più
bisogno di venir sondato oppure scoperto togliendo uno strato dopo l’altro di
parvenze » (Das physiognomische Weltbild, Intr.; trad. ital., in Gli elementi
dell’umana grandezza, 1942, pag. 61 e seguenti). FISIOGNOSI (ingl.
Physiognosy). Termine adoperato da Peirce per indicare il complesso delle
scienze fisiche (Coll. Pap., 1.242). FISIOLOGIA (ingl. Physiology; franc.
Physiologie; ted. Physiologie). Nel senso in cui Aristotele e altri scrittori
antichi usano la parola, studio della 413 natura: lo stesso che fisica. In
questo senso ha anche usato talvolta la parola Kant (Cri. R. Pura, Dottr.
trasc. del met., cap. III). FISIOLOGIA PSICOLOGICA o PSICOFISIOLOGIA. V.
PsicoLOGIA, B). FISSISMO. Termine che non trova riscontro nelle altre lingue,
col quale si indica la dottrina dell’immutabilità delle specie viventi, in
contrapposto con evoluzionismo (v. EVOLUZIONE). FOLLIA. V. PAZZzia. FONDAMENTO
(gr. altia, x6y0g; lat. Ratio; ingl. Foundation; franc. Fondement; ted. Grund).
La causa nel senso di ragion d’essere. Questo è uno dei significati principali
del termine « causa » e precisamente quello per il quale essa contiene la
spiegazione e giustificazione razionale della cosa di cui è causa. Dice
Aristotele: « Noi crediamo di conoscere un oggetto singolo assolutamente — cioè
non accidentalmente o in modo sofistico — quando crediamo di conoscere la causa
per la quale la cosa è, e di conoscere che essa è causa della cosa e che questa
non può essere altrimenti» (Ana/. post., I, 2, 71b 8). In questo senso la causa
è ragione, logos (De part. an., 1, 1, 639 b 15): giacchè fa comprendere non soltanto
l’accadere di fatto della cosa ma il suo « non poter essere altrimenti » cioè
la sua necessità razionale. Nella dottrina aristotelica pertanto, come in tutte
quelle che dipendono da essa, la causa-ragione è un concetto ontologico che
esprime la necessità propria dell'essere in quanto sostanza. In questo stesso
senso adopera Hegel il concetto: « Il F., egli dice, è l’essenza che è in sè e
questa è essenzialmente F.; e F. è soltanto in quanto fondamento di qualcosa,
di un altro» (Enc., $ 121). Difatti in questo senso il F. è « l’essenza posta
come totalità» (/bid., $ 121) cioè la ragione della necessità di una cosa, come
riteneva Aristotele. Per opera di Leibniz, tuttavia, la nozione aveva
acquistato un significato diverso e specifico per il quale si distingue
nettamente da quella di causa essenziale o sostanza necessaria. Passa cioè a
designare una connessione priva di necessità e tuttavia tale da fare intendere
o giustificare la cosa; e il principio di questa connessione viene chiamato
principio di ragion sufficiente (Principium rationis sufficientis, Satz vom
zureichenden Grunde). Leibniz giunge alla formulazione di questo principio
attraverso la contrapposizione tra la connessione libera ma determinante e la
connessione necessitante. Egli dice: « La connessione o concatenazione è di due
specie: l’una è assolutamente necessaria, tale cioè che il suo contrario
implica contraddizione, e tale connessione si verifica nelle verità eterne come
sono quelle della geometria; la seconda non è necessaria che ex Aypothesi e per
così dire per acci414 dente ed è contingente in se stessa, giacchè il suo
contrario non implica contraddizione ». Questa seconda connessione si verifica
nel rapporto tra una sostanza individuale e le sue azioni: per es., il
fondamento del fatto che Cesare passò il Rubicone si trova indubbiamente nella
stessa natura di Cesare, ma ciò non dice che quel fatto sia necessario in se
stesso o che il suo contrario implichi contraddizione. Allo stesso modo Dio
sceglie sempre il meglio, ma lo sceglie liberamente e il contrario di ciò che
sceglie non implica contraddizione. « Ogni verità fondata su questi tipi di
decreti è contingente, per quanto sia certa, perchè questi decreti non mutano
affatto la possibilità delle cose; e per quanto Dio, come ho già detto, scelga
sempre indubbiamente il meglio, ciò non impedisce che ciò che è meno perfetto
non sia e non rimanga possibile in se stesso, benchè non accadrà, dato che non
è la sua impossibilità che lo fa respingere ma la sua imperfezione. Ora, nulla
è necessario il cui opposto sia possibile » (Discours de Métaphysique, 1686, $
13). Come appar chiaro da questi testi di Leibniz, il F. o ragion sufficiente
ha una capacità esplicativa diversa dalla causa o ragion d’essere di
Aristotele. Quest'ultima infatti spiega la necessità delle cose, il perchè la
cosa non possa essere altrimenti da com'è. Il fondamento o ragion sufficiente
spiega la possibilità della cosa, cioè spiega perchè la cosa può esser o
comportarsi in un certo modo. Proprio per questo Leibniz destinò il principio
di ragion sufficiente a fondamento delle verità contingenti, continuando ad
ammettere, come aveva fatto Aristotele, il principio di contraddizione come
base delle verità necessarie (De scientia universali, in Opera, ed. Erdmann,
pag. 83). Tuttavia, soltanto Cristiano Wolff riconobbe al principio del F. (o
principio di ragion sufficiente) il rango di principio della intera filosofia e
del metodo di essa. Proprio sulla base di esso Wolff infatti definiva la
filosofia come «scienza delle cose possibili in quanto possono esistere »
(Lop., Disc. prael., $ 29) e vide il còmpito fondamentale di essa nel dare la «
ragione per cui le cose possibili possono conseguire l’essere » (/bid., $ 31).
Da questo punto di vista, tutta l’attività filosofica consiste nella
determinazione del F. (ratio, Grund), intendendosi per F. «la ragione per cui
qualcosa è o accade» (Zbid., $ 4). Woiff tuttavia riconduceva il principio di
ragion sufficiente ad un significato necessaristico. Egli distingueva difatti
il principium essendi che contiene la ragione della possibilità della cosa dal
principium fiendi (o dell'accadere) che contiene la ragione della realtà (Ont.,
$ 874). E distingueva dall’altro lato il principium cognoscendi con il quale
intendeva «la proposizione mediante la quale si intende la verità di un’altra
proposizione » (/bid., $ 876). Ora FONDAMENTO è chiaro che sia il principium
fiendi (che è poi il principio di causalità) sia il principium cognoscendi (che
è poi la dimostrazione) hanno un carattere necessitante. Lo stesso carattere il
principio assume nell’opera di Baumgarten, che tende a ricondurlo a quello di
contraddizione (Mer., $ 20). Questa tendenza prevaleva all'interno della scuola
wolffiana (cfr. Cassirer, Erkenntnissproblem, VII, cap. 3; trad. ital., II,
pag. 596 sgg.) e fu soltanto contrastata da Crusius, che insisteva sulla
distinzione del principio di ragion sufficiente dal principio di causalità,
proprio per escludere dal primo il carattere necessitante (De usu et limitibus
principii rationis determinantis, 1743, $ 4): una correzione che Kant accettava
in uno dei suoi primi scritti (Principiorum Primorum Cognitionis Metaphysicae
Nova Dilucidatio, 1755). Dopo di Crusius tuttavia il carattere non necessitante
del principio di ragion sufficiente, cioè quel carattere che aveva convinto
Leibniz ad ammetterlo come un principio a sè, andò del tutto smarrito. La
stessa distinzione stabilita da Crusius tra principio di ragion sufficiente e
principio di causalità servì a considerare i due princìpi come due espressioni
del principio di necessità. Questa fu appunto la via tenuta da Schopenhauer nel
suo scritto Die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813).
Schopenhauer enumerava quattro forme del principio di ragion sufficiente; cioè,
accanto alle due distinte da Crusius, poneva il principio di ragion sufficiente
dell'essere, che regola i rapporti fra gli enti matematici e il principio di
ragion sufficiente dell’agire, che regola i rapporti fra le azioni e i loro
motivi. Il carattere non necessitante del F. è tuttavia oscuramente
riconosciuto nelle utilizzazioni metafisiche che sono state fatte di esso.
Schelling nelle Untersuchungen liber das Wesen der menschlichen Freiheit (1809)
intese per F. la brama o volontà di vivere da cui dipende l’esistenza sia
dell’uomo che di Dio. Il F. in questo senso non è, ovviamente, una causa
necessitante. In un senso analogo Heidegger ha detto: «la libertà è il F. del
F.». «La libertà, egli spiega, in quanto è il fondo di questo F. è anche
l’abisso (senza fondo) dell’Esserci. Non che sia infondato il singolo libero
rapportamento, ma nel senso che la libertà, nella sua essenziale natura di
trascendenza, pone l’Esserci, come poter essere, in possibilità le quali si
distendono innanzi alla sua scelta finita, cioè nel suo destino » (Vom Wesen
des Grundes, 1928, IIl; trad. ital., pag. 77-78). In altri termini, il F. è per
l’esistenza umana quel radicarsi nel mondo per cui le possibilità progettate
sono limitate e comandate dal mondo stesso. Il F. esprime il condizionamento
che il mondo esercita sull’uomo in virtù del radicarsi stesso dell’uomo nel
mondo. FORMA Affiora chiaramente da questi testi il tratto caratteristico della
nozione in esame, che è quello di esprimere un condizionamento non
necessitante. Questo è infatti il significato più comune e generale del termine
sia nel linguaggio comune che in quello filosofico. Il F. è ciò che dà ragione
di una preferenza, di una scelta, della realizzazione di una alternativa
piuttosto che un’altra. Si parla di F. ogni qualvolta la preferenza o la scelta
è giustificata o la realizzazione dell’alternativa è spiegabile. Similmente un
principio « fondamentale » è un principio che stabilisce la condizione prima e
più generale perchè qualcosa possa esserci; e una scienza fondamentale è quella
che contiene le condizioni che rendono possibili le altre scienze (e in questo
senso Wolff chiamava Grundwissenschaft l’ontologia). Si può dire pertanto che
nell’uso moderno la parola ha un significato non diverso da condizione (v.).
L’illuminismo tedesco del *700, che ha elaborato il concetto di F., ha anche
elaborato la nozione del metodo del F. (ted. Grundlichkeit) di cui lo stesso
Wolff ha dato le regole nel IV capitolo del Discorso preliminare della
Philosophia rationalis e che Kant così riassumeva nella prefazione alla seconda
edizione della Critica della Ragion Pura: «Ci toccherà un giorno, nel sistema
futuro della metafisica, di seguire il metodo del celebre Wolff, il più grande
dei filosofi dogmatici il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio
divenne in Germania il creatore di quello spirito di Grundlichkeit che non si è
ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino della scienza
stabilendo regolarmente i princìpi, determinando chiaramente i concetti,
cercando il rigore delle dimostrazioni e rifiutandosi ai salti nel trarre le
conseguenze +». Il metodo della fondazione consiste nell’addurre il F., cioè la
ragione giustificativa, di ogni passo del filosofare; ed è il metodo dal quale
ancora la filosofia può attendersi una salvaguardia dall’arbitrio. FORMA (gr.
uoppf, el8oc; lat. Forma; inglese Form; franc. Forme; ted. Form). Il termine ha
i seguenti significati principali: 1° L’essenza necessaria o sostanza delle
cose che hanno materia. In questo senso che è quello aristotelico la F. non
soltanto si oppone alla materia, ma la richiama. Aristotele adopera pertanto
questo termine in riferimento alle cose naturali che sono composte di materia e
F.; e osserva che la F. è «natura » più della materia giacchè di una cosa si dice
che è ciò che essa è in atto (la F.), piuttosto che ciò che è in potenza (Fis.,
Il, 1, 193b 28; Met., IV, 1015 a 11). Da questo punto di vista non possono
dirsi F. le sostanze immobili (Dio e le intelligenze motrici) che sono prive di
materia; ma 415 sono F. le sostanze naturali in movimento. Di qui la polemica
condotta da Aristotele contro il platonismo, allo scopo di affermare
l’inseparabilità della F. della materia. Gli Scolastici non si sono attenuti
rigorosamente a questa terminologia aristotelica e hanno esteso il termine F. a
ogni sostanza, parlando di « F. separate » per indicare le idee esistenti nella
mente di Dio (ALBERTO Magno, S. 7h., I, q. 6; S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 15, a.
1) e di «F. sussistenti » per indicare gli angeli che sono privi di corpo e
così di materia (S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 50, a. 2). Essi inoltre parlavano
di « F. sostanziali o di F. accidentali» (/bid., I, q. 76, a. 1) la quale
ultima espressione è, da un punto di vista aristotelico, poco meno che
contraddittoria. Gilberto Porretano (sec. xn) aveva distinto nel De sex
principiis le F. inerenti, corrispondenti alle quattro prime categorie
aristoteliche (sostanza, qualità, quantità, relazione) e le F. assistenti che
corrispondono alle altre categorie aristoteliche e costituiscono caratteri non
costituenti la sostanza delle cose. In ogni caso, la F. conserva i caratteri
che Aristotele le aveva riconosciuti: è la causa 0 ragion d’essere della cosa,
ciò per cui una cosa è quello che essa è; è l’atto o l’attualità della cosa stessa,
perciò il principio e il fine del suo divenire. Il concetto di F. così inteso è
stato ed è adoperato anche fuori dell’aristotelismo e dei suoi derivati. Non
possiede determinazioni diverse da quelle accennate, la F. di cui parla Bacone
come oggetto proprio della scienza naturale: questa F. è atto e causa
efficiente, proprio come la F. aristotelica (Nov. Organ., II, 17) e si
distingue da questa soltanto perchè non si lascia afferrare, come riteneva
Aristotele, dal procedimento deduttivo o dall’intelletto intuitivo ma solo
dall’induzione sperimentale. Al significato tradizionale della parola fa
riferimento Cartesio quando nega che esistano «quelle F. o qualità di cui si
disputa nelle scuole » (Discours, V). E nello stesso significato è assunta da
Bergson quando afferma che «la F. è un’istantanea presa su di una transizione »
cioè una specie di immagine media cui si avvicinano le immagini reali nel loro
mutamento e che viene assunta come «l’essenza della cosa o la cosa stessa »
(Évol. Créatr., IV ed., 1911, pag. 327). A questo concetto di F. si avvicina il
senso in cui la parola è usata da Hegel, come «totalità delle determinazioni »,
che è poi l’essenza nel suo manifestarsi come fenomeno (Enc., $ 129). La F. in
questo senso è il modo di manifestarsi dell’essenza o sostanza di una cosa in
quanto quel modo di manifestarsi coincide con l’essenza stessa. Questo è il
senso in cui Hegel usava la parola abitualmente, per es., quando diceva: « Il
contenuto umano della 416 coscienza, prodotto dal pensiero, appare dapprima non
in F. di pensiero, ma come sentimento, intuizione, rappresentazione, F. che
sono da distinguere dal pensiero come F.» (Enc., $ 2). Questo è precisamente il
senso nel quale Croce e Gentile hanno parlato di « forme dello spirito », sia
per stabilirne sia per negarne la diversità. 2° Una relazione o un complesso di
relazioni (ordine) che può mantenersi costante col variare dei termini tra i
quali intercorre. Per es., la relazione « Se p, allora g + può essere assunta
come la F. dell’inferenza, perchè rimane costante quali che siano le
proposizioni p e q tra le quali intercorre. Similmente si dice di solito che la
matematica è una scienza formale nel senso che ciò che essa insegna non vale
soltanto per certi insiemi di cose, ma per tutti gli insiemi possibili,
vertendo appunto su certe relazioni generali che costituiscono l’aspetto
formale delle cose. In questo senso, la parola F. è stata per la prima volta
usata da Tetens che intese per essa le relazioni che il pensiero stabilisce tra
le rappresentazioni sensibili che costituirebbero, dal canto loro, ia « materia
» del conoscere (Philosophische Versuche iber die menschliche Natur, 1776, I,
pag. 336). Analoga distinzione Kant faceva nella dissertazione del 1770: « Alla
rappresentazione appartiene, in primo luogo, qualcosa che si può chiamare
materia e che è la sensazione e, in secondo luogo, ciò che si può chiamare F. o
specie delle cose sensibili, la quale serve a coordinare, mediante una certa
legge naturale dell’anima, le varie cose che colpiscono i sensi + (De mundi
sensibilis et intelligibilis forma et ratione, $ 4). Questa distinzione fra
materia e F. divenne il punto di partenza dell’intera filosofia kantiana; ma
Kant mantenne sempre fisso il significato di F. come relazione o complesso di
relazioni cioè ordine. « L'elemento formale della natura, egli scrisse, per
es., nei Prolegomeni ($ 17) è la regolarità di tutti gli oggetti
dell’esperienza ». Analogamente la F. dei principi morali è il semplice
rapporto in cui una legge si trova con gli esseri ragionevoli cioè la sua
validità per tutti questi esseri, la sua universalità (Crir. R. Pratica, $ 4).
Da Kant in poi il senso della parola è rimasto pertanto fissato in quello di
relazione generalizzabile, ordine, coordinazione o, più semplicemente, universalità.
In tal senso, Kant distingueva materia e F. nel concetto: «La materia del
concetto è l’oggetto; la F. di esso è l’universalità » (Logik, Elementarlehre,
$ 2). Questo è il senso in cui i logici si avvalgono oggi della parola per
caratterizzare l'oggetto della loro scienza. Ad esso faceva riferimento Peirce
(Coll. Pap., 4.611); e ad esso più recentemente fanno riferimento Strawson
(/nir. to Logical Theory, 1952, pag. 4l), Prior (Formal Logic, 1955, $ 1) e
Church (/ntroFORMA duction to Mathematical Logic, 1956, $ 00). Carnap ha detto:
« Una teoria, una regola, una definizione o simili dev'essere chiamata formale
quando non fa alcun riferimento al significato dei simboli (per es., delle
parole) o al senso delle espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente
alle specie e all'ordine dei simboli con le quali le espressioni sono costruite
» (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Allo stesso significato di ordine o
relazione si riconnette l’uso della parola F. (Gestalt) da parte della
psicologia contemporanea quando intende sottolineare il fatto sperimentale che
impressioni simultanee non sono indipendenti l’una dall'altra come fossero
pezzi di un mosaico, ma costituiscono un’unità che ha un ordine definibile (v.
PSICOLOGIA). Nello stesso senso, Born ha proposto che siano considerate come
«F. delle cose fisiche le invarianti delle equazioni, che hanno la stessa
realtà oggettiva delle cose che ci sono familiari » (Experiments and Theory in
Physics, 1943, pag. 12-13). Nell’estetica stessa c’è almeno un significato nel
quale la parola F. può essere ricondotta a quello di ordine od organizzazione
delle parti; ed è il significato chiarito da Dewey: « Solo quando le parti
costitutive di un tutto hanno l’unico fine di contribuire alla perfezione di
un’esperienza cosciente, disegno e figura perdono il carattere sovrapposto e
diventano F.+ (Art as Experience, cap. VI; trad. ital., pag. 140). Allo stesso
significato si avvicina l’uso che della parola ha fatto Focillon: «Le relazioni
formali in un’opera e tra le varie opere costituiscono un ordine, una metafora
dell’universo + (Vie des Formes). In generale si può dire che, nell’ambito di
questo significato, si passa alla considerazione della F. ogni qualvolta una
certa relazione viene generalizzata cioè ritenuta valida per un certo numero di
termini o di casi possibili; oppure quando si prescinde dai termini tra i quali
un ordine intercorre per ritenere importante o significativo solo quest’ordine.
3° Una regola di procedura. In questo senso si parla di F. nel diritto, per il
quale una « questione di F. » concerne il rapporto del caso in esame con le
regole della procedura e non già il problema che costituisce la sostanza o il
contenuto del caso. In modo analogo si dice «rispettare le F.» per indicare il
rispetto delle regole delle buone maniere o simili. Talvolta il ricorso o
l’appello alla « F.» esprime l’esigenza dell'autonomia di una procedura o di
una tecnica determinata. Questo è, spesso, il significato dell’insistenza sul
carattere formale dell’arte. Quando, nell’arte, l’appello alla F. non esprime
l’esigenza della organizzazione e dell’ordine (che è un ricorso al significato
2°) esprime l’esigenza che i procedimenti o le tecniche dell’arte siano
indipendenti dai procedimenti o dalle tecniche FORMULA di altre attività come
la conoscenza, la morale, ecc. (cfr. Croce, Breviario di Estetica, pag. 53). In
questo senso, il passaggio alla considerazione formale, in un certo campo, si
ha quando si riconosce l'indipendenza delle tecniche adoperabili in questo
campo da quelle proprie di altri campi. FORMA, PSICOLOGIA DELLA. V. PsiCOLOGIA.
FORMALE (ingl. Formal; franc. Formel; tedesco Formal). 1. Corrispondentemente
al significato 1° di forma: ciò che appartiene all’essenza o sostanza della
cosa, perciò: essenziale, sostanziale, attuale. In questo senso adoperano la
parola gli Scolastici, nonchè Cartesio (Méd., III; ZI Réponses, def. IV) e
Spinoza (Er., II, 8). A questo significato si riferisce anche l’uso che fa del
termine Duns Scoto nelle espressioni « distinzione F.» o «ragione F.». La
distinzione F. è infatti una distinzione di essenza o natura che però non
implica una separazione numerica: essa intercede, per es., tra la natura comune
e l’individualità delle cose o tra le varie perfezioni di Dio (Op. Ox., I, d.
8, q. 4, n. 17). 2. Corrispondentemente al significato 2° di forma: ciò che
appartiene a una relazione generalizzabile o all'ordine o alla coordinazione
delle parti. In questo senso la parola è adoperata nella logica, nella
matematica moderna e in estetica. In logica questo termine è stato ampiamente
usato, con un senso intuitivamente abbastanza chiaro ma non mai del tutto
determinato. Nella Logica medievale formalis ha il significato fondamentale di
«inerente alla forma», quindi «essenziale »; ma anche, di conseguenza, «
universale ?, «valido per ogni contenuto empirico relativo ad una certa forma
+; perciò, come ultimo significato, anche « indipendente dalla natura empirica
dei contenuti ». È in questo senso che il termine è passato nella Logica
moderna e contemporanea, in cui, a partire da Leibniz, i termini «forma» (per
es., gli arguments en forme nella terminologia leibniziana) e « F. » stanno ad
indicare certi schemi, formule, ecc., in cui i termini descrittivi sono
sostituiti da simboli (« variabili ») e pertanto le proprietà, relazioni,
conseguenze, ecc., dello schema o formula vigono indipendentemente da ogni
possibile designazione dei termini significativi in essa presenti. 3.
Corrispondentemente al significato 3° della parola « forma »: ciò che
appartiene alla procedura, sia essa quella legale o del galateo, ecc. G.P.-N.
A. FORMALI, SCIENZE. V. Scienze, CLASSIFICAZIONE DELLE. FORMALISMO (ingl.
Formalism; franc. Formalisme; ted. Formalismus). Ogni dottrina che faccia
appello alla forma, in uno qualsiasi dei significati del termine. Verso la fine
del sec. xv si chiamarono « formalisti» i seguaci della metafisica di Duns 27
417 Scoto, i quali si opponevano ai « terministi », seguaci di Ockham (GERson,
De conceptibus, pag. 806). F. è stato chiamato il punto di vista kantiano
nell’etica perchè fa appello alla forma generale delle massime, prescindendo
dai fini cui sono dirette. F. è stato chiamato in matematica il procedimento
che intende prescindere da qualsiasi significato dei simboli matematici e
perciò specialmente l’indirizzo di Hilbert. F. si chiama pure l’accentuazione
dell'importanza della procedura nel diritto o di certe regole di comportamento
nei rapporti tra gli uomini. FORMALIZZATO, LINGUAGGIO. V. Sr STEMA LOGISTICO.
FORMALIZZAZIONE (ingl. Formalisation; franc. Formalisation; ted.
Formalisation). Questo termine è caratteristico della logica e della filosofia
della scienza contemporanea. Con «F. di una teoria » si intende il procedimento
con il quale viene costruito un sistema meramente sintattico di simboli S,
retto da alcuni assiomi (ed, eventualmente, da regole operative di formazione e
derivazione delle formule) dai quali, secondo le regole sintattiche del sistema
stesso, si fanno derivare formule che risultino trasformazioni tautologiche del
gruppo di assiomi. Questo sistema sintattico puro S costituisce una F. di una
data teoria 7 (per es., dell’aritmetica dei numeri interi, o della teoria degli
insiemi, o del calcolo logico elementare) quando 7 risulti essere una
interpretazione vera, e possibilmente Z-vera, di S. In generale tutte le teorie
fondamentali delle matematiche pure contemporanee hanno ricevuto F.; rimane
ancora non del tutto risolto il problema della F. della logica, e in genere dei
metalinguaggi impiegati per la F. delle teorie matematiche stesse. Tra l’altro,
una delle maggiori difficoltà di tale formalizzazione di secondo grado è data
da un noto teorema (di Gédel) per cui una teoria formalizzata non può contenere
la prova della propria non-contraddittorietà (v. ASSIOMATIZZAZIONE; MATEMATICA).
G. P. FORMAZIONE (ted. Bildung). Nel significato specifico che questa parola
assume in filosofia e in pedagogia, in relazione con il termine tedesco
corrispondente, essa indica il processo di educazione o di civilizzazione, che
si esprime nei due significati di cultura; intesa da un lato come educazione,
dall’altro come sistema di valori simbolici (vedi CULTURA). FORME, PLURALITÀ
DELLE. V. AcoSTINISMO. FORMULA (ingl. Formula; franc. Formule; ted. Formel). 1.
L’elemento di un calcolo (v.). In questo senso la F. si distingue dalla
proposizione che è l’elemento di un sistema semantico (CARNAP, Foundations of
Logic and Mathematics, $ 9). 418 2. Lo stesso che enunciato o proposizione. 3.
Più in generale: una sequenza finita lineare di simboli primitivi. Così ha
definito la formula A. Church, che ha chiamato «F. ben formata» quella che
risponde a certe regole fondamentali di un linguaggio (/ntr. to Mathematical
Logic, 1956, $ 7). FORMULA IDEALE. Così Gioberti chiamò «la proposizione che
esprime l'/dea in modo chiaro, semplice e preciso » cioè la seguente: « L’Ente
crea l'esistente, l’esistente ritorna all’Ente + (Zrnr. allo studio della
filosofia, , II, pag. 147, 174; III, pag. 3). La F. I. esprime il concetto
neoplatonico della derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio
attraverso l’uomo. FORO INTERIORE (franc. For intérieur). L'espressione deriva
dalla vecchia frase francese, tuttora in vigore, e significa il tribunale della
coscienza (v.). FORONOMIA (ingl. Phoronomics; franc. Phoronomie; ted. Phoronomie).
Parola coniata da Lambert per indicare la dottrina che studia le leggi del
movimento (Neues Organon, 1764) e ripresa da Kant in un senso analogo
(Meraphysische Anfangsgrilnde der Naturwissenschaft, 1786). FORTEZZA. V.
Coragoro. FORTUITO. Ciò che è dovuto alla fortuna o al caso (v.). FORTUNA (gr.
viyn; lat. Fortuna; ingl. Fortune; franc. Fortune; ted. Glick). Secondo
Aristotele si distingue dal caso (v.) perchè si verifica nel dominio delle
azioni umane e perciò non possono andare incontro a F. o a sfortuna gli esseri
che non possono agire liberamente. « Gli esseri inanimati, le bestie, i
bambini, non fanno niente per F. perchè non hanno scelta; e la buona o la mala
F. si attribuisce ad essi soltanto per similitudine, al modo in cui Protarco disse
che le pietre di un altare sono fortunate perchè sono onorate mentre le loro
compagne sono calpestate dai piedi» (Fis., II, 66,197 b 1). Questo significato
si è mantenuto anche nell’uso moderno della parola. Il suo concetto filosofico
è pertanto lo stesso di quello di caso (v.). FORZA (lat. Vis; ingl. Force;
franc. Force; ted. Kraft). Propriamente l’azione causale, non in quanto
esplicativa o giustificativa (come ragion d’essere) ma in quanto produce
immancabilmente il suo effetto. Quindi, più in generale, ogni tecnica atta a
garantire immancabilmente un effetto o che pretenda di garantirlo. In tal senso
si dice «il diritto come F. » 0 «lo Stato come F. » per sottolineare
l’immancabilità della realizzazione del diritto o della volontà dello Stato. In
tal senso Kant diceva che ci sono quattro specie di combinazioni della F. con
la libertà e la legge: a) legge e libertà senza F.: anarchia; b) legge e F.
senza libertà: dispotismo; c) F. senza libertà e senza legge: barbarie; 4) F.
con FORMULA IDEALE libertà e legge: repubblica (An:r., II, Delineazione del
carattere del genere umano, 2). In senso analogo Hegel parlava di « F.
dell’esistenza » nel dominio delle relazioni giuridiche fra gli Stati,
alludendo alla frase di Napoleone: «La repubblica francese non ha bisogno di
riconoscimento » (Fil. del Dir., 331, Zusatz). La nozione di F. dev’essere
considerata sotto due aspetti fondamentali e cioè: 1° nell’uso che la scienza
ha fatto di essa; 2° nella interpretazione che la filosofia ne ha dato. 1°
Considereremo qui la nozione di F. esclusivamente quale si è venuta
configurando agli inizi della scienza moderna escludendo cioè dal suo ambito le
nozioni di potenza, di causa efficiente o formale, di qualità occulta, ecc.,
cioè tutte le nozioni di carattere metafisico o teologico cui si può
retrospettivamente (e grossolanamente) riferire il termine forza. Tutti questi
termini hanno infatti una portata storica e problematica completamente diversa
dal termine in questione e tale che non può addurre alcuna luce sul suo significato
o sui problemi ad esso attinenti. Intenderemo perciò con il termine F. l’azione
causale infallibile in quanto: a) venga ritenuta diversa o indipendente da
qualsiasi agente o forma metafisica; è) venga ritenuta diversa o indipendente
da qualsiasi forma o agente psichico; c) venga ritenuta suscettibile di
trattamento matematico. La nozione di F. dev'essere anche tenuta distinta da
quella di energia, nonostante che gli stessi scienziati abbiano talora confusi
i due termini parlando (come fecero, per es., Mayer e Helmholtz) di
conservazione della F., laddove si trattava della conservazione dell'energia.
In questo senso la nascita della nozione di F. si può scorgere nelle
osservazioni di Keplero che considerò la virtù (virtus) cui sono dovuti i
movimenti gravitazionali come soggetta a tutte le « necessità matematiche »
(Astronomia nova, III, pag. 241) e negò che essa potesse essere identificata
con l'anima (Mysterium Cosmographicum, 1621, in Opera, editore Frisch, I, pag.
176). Ma la nozione fu esattamente definita solo quando fu esattamente
definito, come principio fondamentale della fisica, il principio d'inerzia:
cioè con Cartesio. Galilei si serve frequentemente della nozione (per es., nei
Disc. sulle nuove scienze, in Op., VIII, pag. 155, 344, 345, 442, 447, ecc.) ma
non la definisce perchè non definisce neppure la nozione d’inerzia di cui
egualmente si serve. Direttamente in rapporto con quest’ultima, la F. è
definita da Cartesio. Egli dice: «La F. con cui un corpo agisce contro un altro
corpo o resiste alla sua azione, consiste in questo solo che ogni cosa persiste
sin che può nel medesimo stato in cui si trova, conformemente alla prima legge
che è stata esposta [cioè alla legge d’inerzia]. Sicchè un corpo FORZA che è
congiunto ad un altro corpo possiede una F. per impedire che ne sia separato; e
quando ne è separato c’è qualche F. per impedire che gli sia congiunto; e così,
quando esso è in quiete, ha una F. per rimanere in quiete e per resistere a ciò
che potrebbe farlo cambiare; e così, se si muove, ha una F. per continuare a
muoversi con la stessa velocità e verso la medesima banda » (Princ. Phil., II,
43). Ma colui che generalizzò la nozione di di F. e le dette un’espressione
matematica precisa fu Newton. Il secondo principio della dinamica newtoniana
cioè la proporzionalità tra la F. e l’accelerazione impressa (F= m a) fa della
F. una relazione fra due grandezze, che non ha alcun riferimento alle essenze o
qualità nascoste delle quali lo stesso Newton dichiarava l’inutilità per la
fisica. «Io intendo, egli diceva, dare soltanto una nozione matematica delle
forze, senza considerare le loro cause o le loro sedi fisiche (Philosophiae
naturalis Principia mathematica, 1760, pag. 5). La generalizzazione newtoniana
consentiva di parlare di F. di gravità, come di F. elettrica o forza magnetica;
sicchè nella seconda metà del xvm secolo il concetto di F. divenne uno dei più
popolari e diffusi. Ma contemporaneamente esso suscitava le diffidenze degli
scienziati, che spesso si rifiutavano di vedere in esso qualcosa in più della
semplice relazione causale. D’Alembert osservava che se la relazione tra causa
ed effetto è considerata, non di natura logica, ma fondata solo
sull’esperienza, la F. a distanza (cioè la gravità) non rappresenta un enigma
maggiore della trasmissione del movimento attraverso l’urto: essa infatti non
fa che esprimere, precisamente come quest’ultima, una relazione testimoniata
dall’esperienza (Elements de phil., 1759, $ 17). Per gli stessi motivi,
Maupertuis voleva che il concetto di F. come «causa della accelerazione » fosse
eliminato dalla meccanica e sostituito dalle semplici determinazioni della
misura dell’accelerazione (Examen philosophique de la preuve de l’existence de
Dieu, , II, $ 23, 26). Kant non fa che esprimere lo stesso concetto quando dice
che «la F. non è altro che il rapporto della sostanza A a qualch’altra cosa 8»
e che tale rapporto può essere solo dato dall’esperienza (De mundi sensibilis
et intelligibilis forma et principiis, $ 28); o che la F. non è che «la
causalità della sostanza + cioè « il rapporto del soggetto della causalità con
l’effetto » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. II, sez. III, Seconda
analogia dell’esperienza). Già da questo punto di vista l’interpretazione della
F. come un agente causale misterioso e inaccessibile, quale si ritrova, per
es., in Spencer (First Principles, $ 26) cade interamente fuori della scienza.
Ma anche nel suo specifico significato galileiano o newtoniano la nozione di F.
non esercitò a lungo 419 nella scienza un compito predominante. Già Leibniz
aveva scoperto e chiarito il concetto di F. viva, che è il prodotto della massa
per il quadrato della velocità: concetto che è il punto di partenza della
moderna nozione di energia (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 218
sgg.). La sua dottrina della superiorità della F. sulla materia, che fa da
termine medio per la risoluzione della materia stessa nell’energia spirituale
(v. oltre), è per l’appunto fondata su questo concetto di energia. Ma nel
secolo successivo, la scoperta della conservazione dell’energia (1842) dovuta a
Roberto Mayer e l’opera di Helmholtz e di Hertz condussero alla formulazione di
quello che si chiamò l’energetismo della meccanica (cfr. PorNcARÉ, La science
et l’hypothèse, pag. 148). L’energetismo nega che la F. sia « causa » del
movimento e che perciò sia presente prima del movimento; e considera l’idea
della energia anteriore a quella di forza. Quest'ultima è introdotta da una
semplice definizione e le sue proprietà vengono dedotte dalla definizione e
dalle leggi fondamentali. Nell’energetismo pertanto l’idea di F. non implica
più alcuna difficoltà; è un semplice concetto convenzionale. Sulla stessa linea
sono i Principi di meccanica (1894) di Hertz, che considerano come fondamentali
soltanto le idee di tempo, spazio e massa, considerando derivata non solo
l’idea di F. ma anche quella di energia. Il concetto di energia tuttavia
conservava la sua importanza nella fisica, soprattutto in riferimento al
concetto di campo (v.); mentre il concetto di F. rimaneva quello che
l’energetismo aveva mostrato che fosse: un nome per definire certe relazioni
fra alcune grandezze fisiche. Ha detto Russell a questo proposito: « Si suppone
che la F. sia causa dell’accelerazione... Ma l’accelerazione è una semplice
finzione matematica, un numero, non un fatto fisico... Quindi una F., se è
causa, è causa di un effetto che non ha luogo » (Principles of Mathematics,
1903, pag. 474). 2° Le interpretazioni filosofiche del concetto di F. seguono
molto alla lontana e poco fedelmente lo sviluppo scientifico dello stesso
concetto. Esse obbediscono tutte ad uno schema uniforme; consistono nel
ricondurre la nozione di F. ad una esperienza umana. Questa riduzione può
tuttavia avere un duplice significato. Può: a) essere intesa a giustificare la
nozione stessa e a farne un concetto metafisico; 5) essere intesa a criticare
la nozione e a mostrarne, col carattere antropomorfico, la mancanza di
fondamento. Leibniz è il capostipite dei tentativi nel primo senso, Locke lo è
dei tentativi nel secondo senso. a) Nel Système nouveau de la nature (1695)
Leibniz racconta che, dopo essersi affrancato dal giogo di Aristotele, aveva
creduto nel vuoto e 420 negli atomi ma che dopo molte meditazioni si era
accorto che le unità ultime non possono essere materiali e perciò non possono
essere atomi di materia ma di spirito. « Bisognava dunque, egli aggiunge,
riabilitare le forme sostanziali così screditate oggigiorno ma in un modo che
le rendesse intelligibili e che separasse l’uso che se ne deve fare dall’abuso
che se n’è fatto. Trovai dunque che la loro natura consiste nella F. e che da
questo segue qualcosa d’analogo alla coscienza e all’appetito; e che così
bisognava concepirle ad imitazione della nozione che abbiamo delle anime»
(Systéme, ecc., $ 3). Questo mostra il fondamento del primato che Leibniz ha
poi sempre concesso alla nozione di F. nelle sue interpretazioni fisiche e
metafisiche: la F. è qualcosa d’analogo alla coscienza (sentiment) e
all’appetito cioè ad esperienze interne dell’uomo. Vero è che Leibniz intendeva
per F. la vis activa che, come si è detto, è piuttosto energia. Ma la cosa non
fa differenza dal punto di vista della sua metafisica, che è una metafisica
della F. spirituale (cfr. Nouv. Ess., II, 21, $ 1). Questa dottrina diventa
l’archetipo di tutto l’indirizzo filosofico che ha avuto come suo secondo
fondatore, ai princìpi del sec. xrx, Maine De Biran. Maine de Biran infatti
assume la percezione interna e immediata, cioè la coscienza che l’io ha di sè,
come F. volente ed attiva, come la rivelazione dello stesso carattere
originario della realtà, che perciò appunto sarebbe essa stessa F. « La
percezione interna o immediata, eglidice, è la coscienza di una F. che è il mio
stesso io e che serve di tipo esemplare a tutte le nozioni generali e universali
di causa e di F. (Nouveaux essais d’anthropologie, 1823-24, in (Euvres, ed.
Naville, III, pag. 5). Quasi contemporaneamente Schopenhauer effettuava lo
stesso passaggio dalla psicologia alla metafisica, riconoscendo come unica F.
costituente l’essenza del mondo quella che l’uomo percepisce immediatamente in
se stesso, cioè la volontà (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819). Ciò va
inteso nel senso che all'uomo appare come volontà quella stessa potenza attiva
che nelle altre parti della natura si manifesta come F.: «Se quindi dirò: la F.
che fa cadere a terra la pietra, nella sua essenza, in sè, e fuori di ogni
rappresentazione, è volontà; non si attribuirà a questa affermazione l’insano
significato che la pietra si muova secondo un motivo conosciuto per il fatto
che nell'uomo la volontà si manifesta in questo modo » (Die Welt, I, $ 19).
Questa identificazione della F. di cui l’uomo è conscio nell’esperienza
interiore con la F. che agisce nel mondo è e rimane alla base delle filosofie
spiritualistiche. La dottrina di Bergson secondo la quale uno s/ancio vitale,
che alla coscienza umana si rivela come durata reale, dà origine alla vita
penetrando la materia e orgaFORZA nizzandola (Évol. créatr., cap. I) obbedisce
alla stessa impostazione fondamentale. Ma a questa impostazione obbediscono
d’altronde anche le dottrine materialistiche: ammettere, come faceva, per ces.,
Haceckel (Die Weltratsel, ), un’unica F. che spieghi tutto il divenire
dell’universo e che sia analoga a quella che si rivela alla coscienza dell’uomo
significa obbedire alla stessa interpretazione della nozione di forza. b)
Dall'altro lato la riduzione di questa nozione a una esperienza interna ha
talora significato una critica della nozione stessa perchè è stata assunta come
un segno del suo carattere arbitrario. Locke a questo proposito aveva messo in
luce la derivazione dell’idea del potere (Power) dalla riflessione dello
spirito sulle sue stesse operazioni (Saggio, II, 21, 4). Berkeley, allo scopo
di difendere la sua concezione dell’universo come linguaggio o manifestazione
di Dio, fu a sua volta portato a togliere ai concetti della scienza il loro
carattere realistico: « La F., la gravità, l’attrazione e simili termini, egli
diceva, sono comodi allo scopo di ragionare e di effettuare calcoli sul
movimento e sui corpi che si muovono ma non allo scopo di comprendere la natura
del movimento stesso » (De Motu, $ 17; Siris, $ 234). Hume a sua volta mostrò
che nè dall’esperienza interna nè da alcuna altra fonte lo spirito può
attingere una chiara e reale idea di forza. « Noi ignoriamo è vero, disse Hume,
la maniera con la quale i corpi operano l’uno sull’altro, e la loro F. o
energia ci è del tutto incomprensibile; ma siamo egualmente ignoranti della
maniera o F. con la quale una mente, anche la suprema, opera sia su se stessa
che sui corpi. Da che cosa, domando, riusciamo a farcene una idea?... Che cosa
è più difficile concepire, che il moto nasca da un urto o che nasca da un atto
di volontà? Tutto quello che sappiamo è la nostra ignoranza profonda in
entrambi i casi » (/ng. Conc. Underst., VII, 1). Questa critica di Hume è
rimasta classica e, per un certo aspetto, definitiva. Mach considerava come un
«feticismo» l’uso del concetto di F. come d'altronde di quello di causa che
egli voleva sostituito dal concetto di funzione (Analyse der Empfindungen, 9*
ediz., 1922, pag. 74; Popularwissenschaftlichen Vorlesungen, 1896, pagina 259;
trad. ingl., 1943, pag. 254). Dall’altro lato il fatto che questo concetto
abbia perduto nella scienza ogni còmpito lo sottrae anche all’interesse della
critica metodologica. Esso si presenta oggi pertanto come un concetto
scientifico antiquato, che serve di pretesto (ma ormai sempre più raramente) a
speculazioni metafisiche (cfr. Max JAMMER, Concepts of Force, 1957: opera ricca
di informazione per quanto incerta e confusa nel delimitare la nozione che ne è
l’oggetto). FUNZIONALE FRECCIA (gr. 8tox6q=epvq Df che si legge: «p implica g»
equivale per definizione a «non-p 0 g»; dove pe q stanno rispettivamente, per
l’antecedente e il conseguente e il ferro di cavallo > sta per il segno
dell’I. materiale. Corrispondentemente, si è chiamata /. formale quella che,
oltre a rispondere alla condizione di validità dell’I. materiale, esige, per
esser valida, altre condizioni. Negli esempi numerati di sopra solo l’(8) è una
pura I. materiale perchè può essere espressa dicendo «0 x non è un genio
filosofico o io sono l’imperatore della Cina ». Le altre, pur rispettando
questa condizione, ne esigono (come si è visto) altre che ne costituiscono il
fondamento. Sicchè si può dire che tutte le I. formali sono materiali, ma non
tutte le I. materiali sono formali. L’I. materiale sarà perciò definita dalla
seguente tavola di verità (nella quale p e 9g stanno per proposizioni qualsiasi
e V e F per vero e falso): P q P29 V V V V F F F V V F F V (v. TAVOLE DI
VERITÀ). 474 L’I. materiale può apparire paradossale dal punto di vista del
senso comune e delle scienze empiriche. Essa, per es., consente di riconoscere
come vera I’I. «Se 2 x 2= $, allora New York è una città piccola +; e come
falsa quest’altra «Se 2x 2=4 allora New York è una città piccola » (cfr.
TARSKI, Introduction to Logic, 1941, $ 8) nelle quali non appare alcuna
connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente: ma la
prima significa «0 2 x 2 non è = 5 o New York è una città piccola » e la
seconda significa o 2 x 2 non è = 4 o New York è una città piccola ». L’I.
materiale è soprattutto usata nelle matematiche e Hilbert ha fondato su di essa
gli assiomi della logica delle proposizioni (« Die Logischen Grundlagen der
Mathematik », in Mathematische Annalen, 1923, pagine 151-65). In forma di
assioma, I’I. materiale significa che «il vero segue da ogni cosa + perché se q
è vero di per sé stesso segue a qualsiasi p, non importa se vero o falso; e che
«ogni cosa segue dal falso » perché se p è falso, da esso può seguire qualsiasi
g sia vero che falso. In realtà, l’I. materiale astrae completamente da ogni
connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente (che può
avere fondamenti assai diversi) e costituisce soltanto la condizione minima
sufficiente per la validità di rutte le implicazioni. Alcuni logici tuttavia
hanno cercato di rendere meno astratto il concetto di I. avvicinandolo di più
al significato che ha nell’uso comune. Così l'americano C. I. Lewis (cfr. Lewis
and LANGFORD, Symbolic Logic, 1932, pag. 174 sgg., 248 sgg.) ha parlato di
un'/. stretta secondo la quale «p implica g » sarebbe sinonimo di « q è
deducibile da p » nel senso che sarebbe contraddittorio affermare l'antecedente
p e negare il conseguente g. Questo concetto fa ricorso al concetto di
possibilità logica e sarebbe perciò espresso dalla formula —M (pr> g), dove
M sta per « possibile », e che si legge: «non è possibile che p sia vero e gq
non lo sia». Una relazione analoga di I. è stata chiamata entailment da molti
scrittori inglesi, a partire da Moore che l’ha illustrata dal modo seguente: «
Saremo in grado di dire veramente che °p entails (involve) g” quando e solo
quando siamo in grado di dire veramente che ‘9 segue da p’ o ‘è deducibile da
p° nel senso in cui la conclusione di un sillogismo in Barbara segue dalle due
premesse prese come una proposizione congiuntiva » (Philosophical Studies,
1922, cap. IX; ed. 1960, pag. 291). Carnap a sua volta ha distinto la
C-implicazione, o I. sintattica che è quella materiale di cui si è detto, dalla
L-implicazione o I. semantica che corrisponde all’I. stretta di Lewis
(Introduction to Semantics, 8 9, 14). Nella logica medievale il termine I. era
usato soltanto per indicare una forma della restrizione (v.): IMPLICITO come
nell’esempio « l’uomo, che è bianco, corre » nel quale l’I. è costituita dalla
proposizione « che è bianco», che restringe ai bianchi gli uomini che corrono.
Nei manuali di logica del sec. xvi la parola implicat fu adoperata come
abbreviazione per implicat contradictionem e l’uso ricorre anche nel De
Intellectus Emendatione (1662) e nei Cogitata Metaphysica (1663) di Spinoza
(cfr. W. KNEALE and M. KNEALE, The Development of Logic, 1962, ag. 300).
IMPLICITO (ingl. Implicit; franc. Implicite; ted. Verflechten). Questo
aggettivo ha tre significati principali: 1° I., nel senso logico della
implicazione (v.) e in questo senso si riferisce esclusivamente a enunciati,
proposizioni o asserzioni; 2° non esplicito, cioè suggerito da un certo
contesto di discorso, come quando si dice «x ha implicitamente ammesso che...
»; 3° potenziale o virtuale. Questo ultimo uso è improprio. IMPOSIZIONE (lat.
Impositio; ingl. Imposition; franc. Imposition). Nella Logica medievale è
l’atto per il quale un nome viene destinato a significare una cosa (cfr. Pietro
Ispano, Summul. Logic., 6.03). IMPOSSIBILE. V. PossiBILE. IMPREDICATIVA,
DEFINIZIONE (inglese Zmpredicative Definition; franc. Definition
imprédicative). Poincaré indicò con questa espressione la definizione del
membro di una classe che fa riferimento alla totalità dei membri della classe,
e che pertanto contiene un circolo vizioso. Da tali definizioni sorgono le
antinomie logiche che Poincaré voleva evitare stabilendo il principio che non
consente tali definizioni (PorNcARÉ, in « Revue de Métaphysique et de Morale»,
1906, pag. 294-317; cfr. anche Dernières Pensées, 1913, IV) (v. ANTINOMIA).
IMPRESSIONE (gr. tinwar; lat. Impressio; ingl. Impression; franc. Impression;
ted. Eindruck). La teoria che la conoscenza consista in una impronta o
impressione fatta dalle cose sull’anima nasce con gli Stoici. Essi infatti
dicevano che: « l’immagine è un’impronta nell’anima », prendendo il nome dalla
figura che il sigillo imprime sulla cera (Droa. L., VII, 45). Cicerone cercò di
togliere all’I. il suo carattere fisico (7usc. Disp., I, 61). Il termine fu
diffuso nella filosofia e nel linguaggio moderno da Hume che intese per I. «
tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, alla loro prima apparenza
nell’anima » (7reatise, I, 1, 1). E distinse le I dalle idee che sono copie
sbiadite di esse (/bid., I, 1, 2). IMPROPRIO, SIMBOLO. V. SINCATEGOREMATICO.
IMPULSO (ingl. Impulse, Urge; franc. Impulsion; ted. Impuls). Una spinta subitanea,
tempoINCONCEPIBILITÀ ranea, e difficilmente controllabile, ad un’azione
determinata. «Impulsivo» dicesi chi è soggetto frequentemente a spinte di
questo genere. Il termine non va confuso nè con istinto (v.) nè con «tendenza
+, che corrisponde al termine tradizionale appetizione (v.). IMPUTABILITÀ (gr.
altia; lat. Imputatio; ingl. Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zu-’
rechenbarkeit). La possibilità di riferire un’azione a un agente come a sua
causa, in quanto diversa dalla responsabilità (v.). INAUTENTICO. V. AUTENTICO.
INCARNAZIONE (lat. Incarnatio; ingl. Incarnation; franc. Incarnation; ted.
Menschwerdung). L’unità della natura divina e della natura umana nella persona
di Cristo. È questo uno dei due dogmi fondamentali del Cristianesimo, l’altro
essendo quello della Trinità. Dopo le discussioni patristiche che portarono nel
sec. v ad alcune interpretazioni che la Chiesa condannò come eretiche, questo
dogma è stato nella Scolastica uno dei banchi di prova della capacità delle
filosofie di servire all’interpretazione e alla difesa delle credenze
religiose. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che la maggiore capacità in
questo senso sia stata dimostrata dal tomismo che ha dato la più semplice ed
elegante interpretazione del dogma. S. Tommaso prende lo spunto polemico
appunto dalle due eresie simmetriche e opposte del sec. v. L’interpretazione di
Eutichio, insistendo sull’unità della persona di Cristo, riduceva anche le due
nature ad una sola e precisamente a quella divina, considerando semplicemente
apparente la natura umana rivestita da Cristo. L’interpretazione di Nestorio
invece, insistendo sulla dualità delle nature ammetteva in Cristo anche due
persone coesistenti insieme, la persona umana come strumento o rivestimento di
quella divina. La distinzione reale tra l'essenza e l’esistenza nelle creature
e la loro unità in Dio forniscono a S. Tommaso la chiave dell’interpretazione.
L'essenza o natura divina è in Dio identica con l’essere; dunque Cristo, che ha
natura divina, sussiste come Dio, cioè come persona divina ed è una sola
persona, quella divina. Dall'altro lato, la separabilità della natura umana
dall’esistenza fa sì che Cristo possa assumere la natura umana (che è anima
razionale e corpo) senza essere persona umana (Contra Gent., IV, 49; S. Th.,
III, q. II, a. 6). Questa interpretazione tomistica costituisce la dottrina
ufficiale della Chiesa cattolica. INCETTIVA, PROPOSIZIONE (franc. Proposition
inceptive ou désistive). La Logica di Portoreale chiamò così la proposizione
che afferma che una cosa ha cominciato o ha cessato di essere tale; per es.:
«La lingua latina ha cessato di essere volgare in Italia da molti secoli »
(ARNAULD, Log., II, 10, 4). 475 INCLINAZIONE. V. TENDENZA. INCLUSIONE (ingl.
Inelusion; franc. Inclusion; ted. Einschliessung). Nella Logica delle classi,
il rapporto di I. tra due classi a e f (simbolo ta > 8») sussiste quando
tutti gli elementi della classe « appartengono anche alla classe 8, ma non
necessariamente viceversa (l’I. è riflessiva e transitiva, ma non simmetrica).
Al rapporto di I. corrisponde un rapporto di implicazione tra i concetticlasse
corrispondenti. Per es., la classe uomo è inclusa nella classe mortale perchè
tutti gli uomini sono mortali. G. P. INCOERENZA. V. CorrENZA. INCOMPATIBILITÀ.
V. COMPATIBILITÀ. INCOMPLETO, SIMBOLO (ingl. Incomplete Symbol). In logica
matematica si chiama così un simbolo che non ha significato per suo conto ma
acquista significato solo in un contesto, al cui significato a sua volta
contribuisce. INCOMPLEXUM. V. CompLesso. INCONCEPIBILITÀ (ingl.
/nconceivability; franc. Inconcevabilité; ted. Unbegreiflichkeit). Il criterio
cartesiano di accettare per vero tutto ciò che è evidente per la ragione ha,
come suo correlativo negativo, il criterio di rigettare ciò che non appare tale
o che, in generale, è incompatibile con la ragione. Questo è propriamente il
criterio delle inconcepibilità. Di esso si avvalse soprattutto Leibniz, che
esplicitamente lo difese; «Io riconosco in verità, egli scrisse, che non è
permesso di negare ciò che non s’intende, ma aggiungo che si ha il diritto di
negare (almeno nell’ordine naturale) ciò che non è assolutamente nè
intellegibile nè esplicabile.. La concezione delle creature non è la misura del
potere di Dio ma la loro concepibilità o forza di concezione è la misura del
potere della natura, giacchè tutto ciò che è conforme all’ordine naturale può
essere concepito o inteso da qualche creatura» (Nouv. Ess., Avant-Propos., Op.,
ed. Erdmann, pag. 202). In altri termini si può ammettere che sia reale in natura
ciò che non s'intende (cioè che non si sa spiegare) ma non ciò che è
inconcepibile, cioè « incompatibile con la ragione ». Ma che cosa poi debba
intendersi per incompatibilità con la ragione, non fu spiegato da Leibniz; come
non fu spiegato da coloro (e sono moltissimi), che hanno fatto riferimento allo
stesso criterio. Una critica del quale si trova per la prima volta nella Logica
di Stuart Mill, a proposito dell’uso che di esso avevano fatto Hamilton
(Lectures on Metaphysics and Logic, 1859-60) e Spencer (Principles of
Psychology, 1855). Stuart Mill notava come gli antipodi erano dichiarati
impossibili dagli antichi che trovavano inconcepibile che ci fossero persone
che avessero la testa nella direzione dei nostri piedi; e che uno dei più
diffusi argomenti contro il sistema 476 copernicano era stata l’I. dell'immenso
spazio vuoto richiesto da quel sistema (Logic, V, 3, $ 3; cfr. II, 5,86; 7,8
1-3). In realtà, l’incompatibilità con la ragione, che è la definizione
dell’I., non può avere altro signifi cato preciso se non quello di
incompatibilità con il sistema di credenze cui si fa riferimento. Ovviamente
una tale incompatibilità non può valere come criterio di giudizio per
l’attendibilità di una nozione qualsiasi. Se poi per I. si intende la
contraddittorietà (come talora accade) bisogna ricordare che il giudizio sulla
contraddittorietà o meno di due asserzioni deve fare riferimento a un campo
determinato, nel quale siano implicitamente o esplicitamente definite le regole
della coerenza o della compatibilità. Può darsi, ad es., che non sia
contraddittorio in fisica ciò che sarebbe contraddittorio in matematica o
viceversa; e, per es., la fisica non ritiene contraddittorio concepire i
fenomeni elettromagnetici insieme come corpuscolari e come ondulatori. Ma per
questi significati ristretti e specifici della contraddittorietà, la parola I.,
con il suo significato assoluto, è completamente inadatta. Pertanto la
filosofia contemporanea l’ha messa in disparte, insistendo, non sull’antitesi
razionaleinconcepibile, ma piuttosto su quella significanzainsignificanza (v.
SIGNIFICATO). INCONDIZIONATO (ingl. Unconditioned; frane. Inconditionné; ted.
Unbedingt). Hamilton (Discussions on Philosophy, 1852) e Mansel (7fe Philosophy
of the Conditioned, 1866), hanno chiamato I. l’Infinito o l’Assoluto, cioè Dio
in quanto sfugge a tutte le limitazioni del pensiero umano ed è perciò
inconcepibile. Per il significato generico del termine v. ConDIZIONE.
INCONOSCIBILE (ingl. Unknowable, Incognizable; franc. Inconnaissable; ted. Unerkennbar).
Termine adoperato da Hamilton per indicare l’ Assoluto o Infinito, in quanto
ritenuto al di là di ogni possibilità di conoscenza e oggetto solo di fede. «
Pensare è condizionare, diceva Hamilton (Discussions on Philosophy, 1852, pag.
13) e una limitazione condizionale è una legge fondamentale delle possibilità
del pensiero... L’Assoluto non è concepibile che come una negazione della
concepibilità ». Tuttavia la sfera della credenza è più estesa di quella della
conoscenza: sicchè l’Infinito per quanto non possa essere conosciuto, può e
deve essere creduto (Lectures on Metaph., II, pag. 530-31). Questa nozione fu
ripresa da Spencer il quale anch’egli affermò l’inconoscibilità dell’Assoluto e
nello stesso tempo la necessità di ammetterlo per rendere possibile il relativo
(First Principles, 1862, $ 26). La nozione dell’I. divenne così correlativa con
quella di agnosticismo (v.); e come quest’ultima fu estesa INCONDIZIONATO anche
a designare la dottrina di Kant della cosa in sè e della inconoscibilità di essa.
Kant tuttavia non ammetteva l’inconcepibilità della cosa in sè, come faceva
Hamilton rispetto all’Assoluto; e non ammetteva quella specie di corrispondenza
ipotetica tra l’I. e il fenomeno che Spencer chiamava realismo trasfigurato
(Ibid., $ 50). Il concetto di I. non ha mai superato i confini del positivismo
evoluzionistico di stampo spenceriano (v. Cosa IN SÉ). INCONSCIO (ingl.
Unconscious; franc. Inconscient; ted. Unbewusst). Il primo ingresso di questa
nozione nella filosofia è dovuto a Leibniz che sottolineò l’importanza delle «
percezioni insensibili + o «piccole percezioni» cioè delle percezioni non
accompagnate dalla consapevolezza o riflessione. Sono tali percezioni che
secondo Leibniz « formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle
qualità sensibili, chiare nell’insieme ma confuse nelle parti; quelle
impressioni che i corpi che ci circondano fanno su di noi e che involgono
l’infinito; quel legame che ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo
» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 197). L'esistenza di questa
zona inconscia divenne un luogo comune nella scuola wolfiana (cfr. WoLFF,
Psychol. rationalis, $ 58 sgg.) e fu ammessa da Kant: il quale rispondeva
all’obiezione di Locke che non si possono avere rappresentazioni di cui non si
è coscienti perchè l’averle significa precisamente l’esserne coscienti (Saggio,
I, 1, 5) affermando che « possiamo essere coscienti mediatamente di una
rappresentazione di cui non siamo coscienti immediatamente + (Antr., $ 5). Ma fu
soltanto con Schelling che l’L divenne l'elemento fondamentale di una
costruzione metafisica cioè uno degli aspetti essenziali dell’Assoluto come
Identità di natura e spirito (cioè per l’appunto di I. e coscienza). « Questo
eterno I., diceva Schelling, che, come il sole eterno del regno degli spiriti,
si nasconde nel suo proprio lume sereno e, benchè non divenga mai oggetto,
imprime alle azioni libere la sua identità, è lo stesso per tutta
l’intelligenza ed è insieme la radice invisibile di cui tutte le intelligenze
non sono che le potenze; è l’eterno intermediario tra il soggettivo, che si
autodetermina in noi, e l’oggettivo o intuente; ed è il fondamento
dell’uniformità nella libertà e della libertà nell’uniformità oggettiva»
(System der transzendentalen Idealismus, IV, F; trad. ital., pag. 280). Ancora
più radicalmente Schopenhauer riteneva I. quella volontà di vivere che
costituisce il noumeno del mondo. «La volontà, egli diceva, considerata in se
stessa è I.: è un cieco, irresistibile impeto, quale noi già vediamo apparire
nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vegetativa della
nostra vita» (Die Welt, I, $ 54). E come sintesi dello Spirito assoluto di
Hegel, della INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI Volontà di Schopenhauer e dell’I.
di Schelling, Eduardo Hartmann presentava il principio della sua filosofia: un
principio che egli chiamava per l'appunto l’I. e del quale lo spirito e la
materia sarebbero state due diverse manifestazioni (Philosophie des
Unbewussten, 1869). Si può considerare appartenente a questa stessa linea di
pensiero la filosofia di Bergson: il quale difendeva I’I. osservando che la
ripugnanza a concepire stati psicologici inconsci viene dal fatto che si
considera la coscienza come la proprietà essenziale degli stati psichici. « Ma,
egli osservava, se la coscienza è soltanto il segno caratteristico del
presente, di ciò che è attualmente vissuto, ovvero di ciò che agisce, allora
ciò che non agisce potrà cessare d’appartenere alla coscienza senza cessare
necessariamente di esistere in qualche modo» (Matière et mémoire, cap. III,
pag. 147). Con l’I. così inteso s’identifica per Bergson il ricordo puro cioè
la corrente della coscienza che è poi lo stesso slancio vitale. Ma mentre così
l’I. veniva utilizzato nella metafisica e mentre, dall’altro lato, la
psicologia lo ammetteva, sia pure malvolentieri, come un dato di fatto, esso
riceveva un contenuto completamente nuovo ad opera di Freud. Lo stesso Freud
così presentava le due tesi fondamentali della psicanalisi: «La prima di queste
premesse è che i processi psichici sono in se stessi inconsci e che quelli
coscienti sono soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale ». La
seconda proposizione che la psicanalisi proclama come una delle sue scoperte è
l’affermazione che tendenze le quali possono essere qualificate solo come
sessuali, nel senso ristretto o largo della parola, agiscono come cause
determinanti di malattie nervose o psichiche e che le stesse emozioni sessuali
hanno una parte importante nelle creazioni dello spirito umano nei campi della
cultura, dell’arte e della vita sociale » (Einfirung in die Psychoanalyse,
1917, Intr.; trad. franc., pag. 32-33). In tal modo la psicanalisi toglieva
all’I. il carattere indeterminato o amorfo che esso aveva sino a quel momento
conservato nelle interpretazioni dei filosofi e degli psicologi per acquistare
un contenuto preciso ed identificarsi con le tendenze sessuali inibite o negate
o comunque camuffate o nascoste. Dapprima l’estesissima voga, poi l’importanza
scientifica che la psicanalisi ha conservato e conserva nel mondo contemporaneo
(v. PSICANALISI), hanno fatto passare in seconda linea la difficoltà teorica
connessa con lo stesso riconoscimento dell’esistenza dell’inconscio.
Ovviamente, l’obiezione di Locke, tante volte ripetuta, che « esistere », per
uno stato mentale significa «esser percepito » o «esser oggetto di coscienza »
e che pertanto uno stato mentale incosciente è una contraddizione nei termini,
ha perduto tutto il suo valore. Uno stato mentale, per es., 477 un’emozione,
una tendenza, una volizione, può «esistere », anche se non viene « percepita»,
nel senso che essa può essere opportunamente posta in luce e riconosciuta, con
procedimenti appropriati (che sono quelli appunto adoperati dalla psicanalisi),
come la condizione di una situazione psichica normale o patologica. Freud
stesso ha insistito a questo proposito sulla nozione di sintomo: « Un sintomo,
egli dice, si forma a titolo di sostituzione al posto di qualche cosa che non è
riuscito a manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto
svilupparsi normalmente, in modo da arrivare sino alla coscienza, hanno dato
luogo a un sintomo nevrotico » (/bid., trad. franc., pag. 303). L’I. quindi
esiste in primo luogo a titolo di sintomo. Si tratta della stessa soluzione
teorica che Kant aveva visto dicendo che l’I., pur non essendo percepito
immediatamente, può essere percepito mediatamente; ma questa soluzione teorica
è assai migliorata perchè in Freud l’I., come sintomo, non ha neppure bisogno
di essere « percepito +: è un fatto che l’osservazione clinica può constatare.
INCONSEGUENZA (ingl. Inconsistency; francese Inconséquence; ted.
Folgewidrigkeit). L'assenza di compatibilità (v.) delle proposizioni
costituenti un sistema simbolico. Ad es., un insieme di proposizioni è
inconseguente quando esso implica una contraddizione cioè quando da esso deriva
formalmente sia una certa proposizione p sia la negazione di p. In generale, si
può dire che l’I. di un sistema qualsiasi è la possibilità di una contraddizione
nel sistema stesso. INCONSISTENZA. V. COMPATIBILITÀ. INDAGINE. V. Ricerca.
INDEFINITO (ingl. /ndefinite; franc. Indéfini; ted. Unbegrenzi). Ciò che non ha
limiti nello spazio o nel tempo e che è quindi infinito nel senso negativo del
termine. Questo è almeno il significato della parola che fu stabilito da
Cartesio, il quale pertanto distingueva l’indefinitezza delle cose dalla
infinità di Dio il quale « non ha limiti nelle sue perfezioni » ed è perciò il
solo essere infinito (Prince. Phil., I, 27; I Résp., X capoverso). La parola
equivale pertanto a illimitato (v.). Non viene invece usata per dire « non
definito » cioè non espresso da una definizione. INDETERMINATO. V.
DETERMINAZIONE. INDETERMINAZIONE (ingl. Indetermination; franc.
Indétermination; ted. Unbestimmtheit). 1. L'assenza della determinazione logica
(v. DETERMINAZIONE). Talvolta lo stesso che vaghezza (vedi VAGO). 2. L’assenza
della determinazione causale (vedi INDETERMINISMO). INDETERMINAZIONE, RELAZIONI
DI (ingl. Uncertainty Relations; franc. Relations d’in478 détermination; ted.
Unbestimmtheitsrelationen). Con questa espressione o con quella di « principio
di I. + si indica, dal 1927, il riconoscimento, nella fisica subatomica,
dell'azione reciproca tra l’oggetto e l’osservatore e pertanto la perturbazione
che l’osservazione produce sullo stesso oggetto osservato. Fu Heisenberg a
mettere in luce per primo questo aspetto essenziale della fisica quantistica.
Ecco come egli stesso lo esprime: « Nelle teorie classiche l’interazione tra
l'oggetto e l’osservatore veniva considerata o come trascurabilmente piccola o
come controllabile, in modo da poterne eliminare l’influenza per mezzo di
calcoli. Nella fisica atomica invece tale ammissione non si può fare perchè, a
causa della discontinuità degli eventi atomici, ogni interazione può produrre
variazioni parzialmente incontrollabili e relativamente grandi. Questa
circostanza ha come conseguenza il fatto che, in generale, le esperienze
eseguite per determinare una grandezza fisica rendono illusoria la conoscenza
di altre grandezze ottenute precedentemente; esse infatti influenzano il
sistema su cui si opera in modo incontrollabile, quindi i valori delle
grandezze precedentemente conosciute ne risultano alterati. Se si tratta questa
perturbazione in modo quantitativo, si trova che in molti casi esiste, per la
conoscenza contemporanea di diverse variabili, un limite di esattezza finito,
che non può essere superato» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie,
1930, I, $ 1). Per l’influenza che la scoperta delle relazioni di I. ha avuto
nel campo scientifico-filosofico v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE. INDETERMINISMO
(ingl. /Indeterminism; franc. Indéterminisme; ted. Indeterminismus). Termine
introdotto nel linguaggio filosofico nella seconda metà del sec. xvm per
designare la dottrina che nega il determinismo dei motivi cioè la
determinazione della volontà umana da parte dei motivi stessi (v.
DETERMINISMO). Diceva Leibniz: «Quando si pretende che un avvenimento libero
non può essere previsto, si confonde la libertà con l’indeterminazione o con
l'indifferenza piena o di equilibrio; e quando si vuole che la mancanza della
libertà impedirebbe all'uomo d’essere colpevole si allude a una libertà priva,
non di determinazione o di certezza, ma di necessità e di costrizione »
(77iéod., III, 369). Kant a sua volta affermava: «Non c’è alcuna difficoltà nel
conciliare il concetto della libertà con l’idea di Dio in quanto essere
necessario: perchè la libertà non consiste nella contingenza dell’azione (nel
fatto che l'azione non è determinata da alcun motivo cioè nell’I.) ma
nell’assoluta spontaneità, la quale soltanto è in pericolo col predeterminismo,
giacchè per esso il motivo determinante dell’azione è antecedente nel tempo,
quindi l’azione non è più INDETERMINISMO attualmente in mio potere ma nella
mano della natura ed io sono da tale motivo irresistibilmente determinato »
(Religion, I, Osservazione generale, Nota). L’I. inteso in questo senso, cicè
come negazione del determinismo dei motivi, è uno dei tratti salienti dello
spiritualismo francese (Ravaisson, Lachelier, Boutroux, Hamelin, Bergson, ecc.
Confronta A. LEvI, L'I. nella filosofia francese contemporanea, Firenze, 1904)
(v. LIBERTÀ). INDICE (ingl. Index). Termine adoperato da Peirce per indicare la
relazione oggettiva (non mentale) tra il segno e il suo oggetto. Indici in
questo senso sono tutti i segni naturali e i sintomi fisici. «Chiamo I. uno di
tali segni, dice Peirce, perchè un I. puntato è il tipo della classe » (Co//.
Pap., 3.361). INDIFFERENTI. V. ADIAFORÀ. INDIFFERENZA, LIBERTÀ DI. V. LiBERTÀ.
INDIFFERENZA, PRINCIPIO DI (inglese Principle of Indifference; franc. Principe
d’indifférence; ted. Indifferenzprinzip). Con questo nome o con quello di «
principio di equiprobabilità » o di « principio di nessuna ragione in contrario
» si indica l’enunciato che gli eventi hanno la stessa probabilità quando non
c’è ragione di assumere che uno debba accadere a preferenza dell'altro. Questo
principio fu esposto nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) di Laplace
come secondo principio del calcolo delle probabilità (cap. 2); ed è a
fondamento della teoria a priori della probabilità, cioè della teoria che cerca
di definire la probabilità indipendentemente dalla frequenza degli eventi cui
essa si riferisce. Il principio è stato pertanto abbandonato da alcune teorie
moderne sulla probabilità (Lewis, Analysis of Knowledge, 1946, cap. X; REICHENBACH, Theory of
Probability, 1949, $ 68) (v. PROBABILITÀ). INDIMOSTRABILE (ingl.
Undemonstrable; franc. Indémontrable; ted. Unerweislich). 1. Ciò che non ha bisogno di
dimostrazione perchè la sua verità è evidente. In questo senso sono I. i
princìpi primi della logica di Aristotele (v. ASssioMI) e gli anapodittici
degli Stoici (v. ANAPODITTICO). 2. Le proposizioni primitive o in generale gli
antecedenti di un qualsiasi sistema simbolico in quanto tali antecedenti sono a
fondamento delle regole di dimostrazione proprie del sistema. In questo senso,
sono indimostrabili gli assiomi, le definizioni e le regole di trasformazione di
ogni sistema simbolico. 3. Le proposizioni indecidibili cioè le proposizioni
che non possono essere dette vere o false nell’ambito di un dato sistema
simbolico ma possono essere decise in sistema più vasto, nel quale però
rinascono in altra forma. In questo senso, sono indimostrabili le proposizioni
costituenti le antinomie INDIVIDUALITÀ logiche (v.); ed è I. la non
contraddittorietà della matematica e in generale dei sistemi simbolici (vedi
ANTINOMIE; MATEMATICA; SISTEMA). 4. Ogni credenza o pretesa che non possa
essere suffragata da prove. Questo è il significato più generale e
indeterminato col quale il termine viene adoperato frequentemente nel
linguaggio comune. Così si chiamano I. certe credenze religiose; e si chiama I.
la pretesa di un credito se non è appoggiata da documenti o testimonianze.
Asserzioni concernenti fatti sono spesso dichiarate I. per la stessa ragione.
INDIPENDENTE (ingl. Independent; francese /Indépendant; ted. Unabhdngig). Ciò
che non deriva da altro il suo essere, la sua validità o la sua capacità
d’azione. Così un uomo o uno Stato si dice I. quando la sua vita o la sua
condotta non dipende da quella di un altro uomo o di un altro Stato. Un evento
si dice I. da un altro quando non dipende causalmente da quest’altro. E una
proposizione qualsiasi è I. da un’altra proposizione o da un sistema di
proposizioni se non è derivabile dall’una o dall'altro. Il requisito
dell’indipendenza reciproca si richiede per la determinazione degli assiomi di
un sistema simbolico. Difatti sarebbe inutile assumere come assioma una
proposizione che si potesse derivare dagli altri assiomi del sistema (v.
ASSIOMA). INDISCERNIBILI. V. IDENTITÀ DEGLI. INDISTINTO. Termine adoperato da
Ardigò per definire l'evoluzione, in sostituzione dell’ omogeneo » di Spencer.
L’evoluzione sarebbe il passaggio dall’I. al distinto: termini che sono desunti
dall’esperienza psichica, mentre quelli di Spencer erano desunti dalla biologia
(ArRDIGÒ, Opere, II, pag. 189 e passim). INDIVIDUALE, PSICOLOGIA. V.
PsicoLOGIA, E). INDIVIDUALISMO (ingl. Individualism; francese Individualisme;
ted. Individualismus). Ogni dottrina morale o politica che riconosca
all’individuo umano un prevalente valore di fine rispetto alle comunità di cui
fa parte. L’estremo di questa dottrina è ovviamente la tesi che l’individuo ha
valore infinito e la comunità valore nullo. Tale è la tesi dell’anarchismo
(v.). Ma l’I. è abitualmente assunto nell’accezione più moderata che si è
proposta; e in tal senso è il fondamento teoretico che il liberalismo si è dato
al suo primo affacciarsi nel mondo moderno. È difatti il presupposto comune del
giusnaturalismo, del contrattualismo, del liberismo e della lotta contro lo
Stato che costituiscono gli aspetti fondamentali della prima fase del
liberalismo (v.). 1° Il giusnaturalismo consiste nel riconoscere all'individuo
diritti originari e inalienabili che egli conserva, sia pure in forma diversa o
limitata, in 479 tutti i corpi sociali che entra a comporre (v.
GIUSNATURALISMO). 2° Il contrattualismo consiste nel considerare la società
umana e lo Stato come risultato di una convenzione fra gli individui: dottrina
che nell’età moderna cioè a cominciare dalle Vindiciae contra tyrannos (1579)
dei Calvinisti di Ginevra è stata spesso adoperata come negazione
dell’assolutismo statale o strumento per limitarlo (v. CONTRATTUALISMO). 3° Il
liberismo economico, proprio dei fisiocratici e della scuola classica
dell'economia politica, è la lotta contro l’ingerenza dello Stato negli affari
economici e la rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica. Questo è
un aspetto caratteristico del liberalismo individualistico (v. EcoNOMIA;
LIBERALISMO). 4° La lotta contro lo Stato e la tendenza a stabilire limiti
all’azione dello Stato è il carattere globale dell’individualismo. In questo senso
uno dei più significativi documenti del liberalismo moderno è l’opera di
SPENCER, L’uomo contro lo Stato (1884) nel quale viene combattuta l’ingerenza
dello Stato (quindi anche del Parlamento) anche nel dominio dell’igiene e
dell’istruzione pubblica, oltrechè nel dominio economico. Il postulato
soggiacente a tutti questi diversi aspetti dell’I. è la coincidenza
dell'interesse dell’individuo con l'interesse comune o collettivo. L'ordine
naturale che Adamo Smith riteneva nella Ricchezza delle Nazioni (1776) esser
proprio dei fatti economici, serviva appunto a garantire quella coincidenza. In
questa stessa coincidenza credevano Geremia Benthan e Giacomo Mill. Quando, con
l’osservazione delle anomalie dell’ordine economico e con il riconoscimento che
la semplice limitazione dei poteri dello Stato non elimina nè queste anomalie
nè il disordine o le disuguaglianze sociali, questa credenza cominciò a
scuotersi, la fase individualistica del liberalismo venne al termine e s’iniziò
quella che si appellava all’azione dello Stato e tendeva perciò ad esaltare lo
Stato stesso. Da questo nuovo punto di vista l’I. fu contrassegnato e
criticato: come «atomismo» perchè pretendeva far nascere la società da un
insieme di atomi sociali, gli individui; come «anarchismo» perchè pretendeva
che l’individuo non sottostasse all’azione dello Stato; e come «egoismo» perchè
voleva che le attività economiche si volgessero secondo le direttive
dell’interesse privato. In tal modo però venivano trascurati i motivi storici
che avevano provocato l'indirizzo individualistico del liberalismo e veniva
inconsapevolmente preparata la via a nuove vittorie dell’assolutismo
statalista. INDIVIDUALITÀ (lat. Individualitas; ingl. Individuality; franc.
Individualité; ted. Individualitàt). 480 Termine di origine medievale: il modo
d’essere dell’individuo. INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio; inglese
Individuation; franc. Individuation; ted. Individuation). Il problema dell’I. è
il problema della costituzione dell’individualità a partire da una sostanza o
natura comune: per es., della costituzione di questo uomo o questo animale a
partire dalla sostanza «uomo»? o sostanza «animale». Il primo a formulare il
problema fu Avicenna (v. ARABA, FiLosoria) dal quale fu trasmesso alla
Scolastica cristiana. Il presupposto da cui esso nacque è il principio della
necessità della sostanza, che Avicenna esprime dicendo: « Tutto ciò che è, ha
una sostanza per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l’essere
di ciò che è» (Logica, I, ed. Venezia, 1508, fol. 3 v.). In base a questo
principio, «l’animale è in sè qualcosa ed è la stessa cosa, sia che sia
percepito sia che sia appreso dall'intelletto; ed in sè non è nè universale nè
singolare » (/bid., III, fol. 12 r.). Ma se è così, che cosa lo fa essere
individuale, cioè che cosa fa della sostanza « animale» questo o quell’animale?
Ecco, secondo Avicenna, il problema dell’individuazione. Ed Avicenna trovava
nello stesso Aristotele la risposta al problema: l’individualità dipende dalla
materia. Aristotele infatti aveva detto: « Tutte le cose che sono numericamente
molte hanno materia: giacchè il concetto di tali cose, per es., dell’uomo, è
uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia) è unico +» (Mer.,
XII, 8, 1074 a 33). Questa soluzione viene accettata da Avicenna (/n Met., XI,
1) e attraverso quest’ultimo da Alberto Magno (/n Mer., III, 3, 10) e da molti
altri scolastici. S. Tommaso presentò una variante di questa soluzione,
affermando che il principio di I. non è la materia comune (giacchè tutti gli
uomini hanno carne e ossa e quindi non si diversificano in questo); ma la
materia signata o, come egli anche dice, «la materia considerata sotto
determinate dimensioni» (De ente et essentia, 2). In altri termini, un uomo è
diverso dall'altro perchè unito a un determinato corpo, diverso per le
dimensioni, cioè per la sua situazione nello spazio e nel tempo, da quello
degli altri uomini (S. 7A., III, q. 77, a. 2). Questo stesso tipo di soluzione
si trova riprodotto nell’età moderna da Schopenhauer che, considerando la
volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il principio
d’I. nello spazio e nel tempo. « Infatti, egli disse, per mezzo dello spazio e
del tempo, ciò che è tutt'uno nell’essenza e nel concetto apparisce invece
diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi» (Die Welt, I, $ 23).
Dall’altro lato, la corrente agostiniana della scolastica fu portata a
riconoscere il principio di I. INDIVIDUAZIONE nella forma, più che nella
materia, delle cose. Bonaventura riteneva che la forma è l’essenza che
restringe e definisce la materia ad un determinato essere; e poneva il
principio d’I. nella comunicazione (communicatio) tra la materia e la forma in
quanto l’individuo è un hoc aliquid in cui l’hoc è costituito dalla materia,
l’aliguid dalla forma (In Sent., III, d. 10, a. 1, q. 3). Allo stesso tipo di
soluzione appartiene l’interpretazione che molti scolari di Duns Scoto dettero
della haecceitas come di una forma finale che completa e integra una serie di
forme costitutive dell’oggetto naturale (cfr. Herveus NATALIS, De pluralitate
formarum, 5). Infine una terza soluzione del problema è quella autenticamente
scotistica. Duns Scoto nega che la materia o la forma possano valere come
principio d’individuazione. La materia, che è il soggetto indistinto, non può
essere il principio della distinzione e della diversità (Op. Ox., II, d. 3, q.
5, n. 1). La forma è poi la stessa sostanza o natura comune che è antecedente
(e indifferente) sia all’universalità che all’individualità. L’individualità
consiste invece in una « ultima realtà dell’ente » la quale determina e contrae
la natura comune all’individualità, ad esse hanc rem. Quest'ultima realtà, o
come egli anche la chiama «entità positiva » (/bid., II, d. 3, q. 2), è la
determinazione ultima e compiuta della materia, della forma e del loro
composto. Da questo punto di vista l’individuo non è caratterizzato dalla
semplicità della sua costituzione ma piuttosto dalla complessità e ricchezza
delle sue determinazioni. Come si è detto, il problema dell’I. nasce dal
carattere privilegiato attribuito alla sostanza comune che esisterebbe in
qualche modo prima e indipendentemente dagli individui. Il problema pertanto
sparisce quando viene negato il carattere privilegiato della sostanza comune:
il che accade col nominalismo empiristico dell’ultima scolastica. Ockham
riconosce nella sostanza comune una forma dell’universale e la coinvolge nella
negazione recisa di ogni realtà universale: « Nessuna cosa fuori dell’anima, nè
di per sè nè per alcunchè di reale o di mentale che le venga aggiunto, e
comunque la si consideri o la s’intenda, è universale: giacchè tanta è
l’impossibilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualche modo universale
(se non per convenzione arbitraria, al modo in cui la voce ‘uomo che è singolare
diventa universale) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi
considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino» (In Sent., I, d. 2, q.
7, S-T). Da questo punto di vista il problema stesso dell’I. si dissolve. Dice
ancora Ockham: « È da ritenersi indubitabilmente che qualsiasi cosa esistente
immaginabile, di per sè, senza che nulla le venga aggiunto, è una cosa
singolare ed una di INDIVIDUO numero: sicchè nessuna cosa immaginabile è
singolare per qualcosa che le venga aggiunta, ma la singolarità è una proprietà
che appartiene immediatamente a ogni cosa, perchè ogni cosa è di per sè o
identica o diversa dall'altra » (Expositio aurea. Liber Predicabilium,
Proemium). Quando Leibniz in uno dei suoi primi scritti affermava che « ogni
individuo è individuato dalla sua totale entità » non faceva che esprimere in
termini scotistici la stessa posizione di Ockham, come egli stesso riconosceva
(De Principio Individui, 1663, $ 4): giacchè l’entità totale non è altro che la
stessa cosa esistente in quanto tale. B la stessa implicita negazione del
problema dell’individuazione si può scorgere nella soluzione apparente che a
questo problema dà Wolff: « Il principio d’I. è la determinazione completa di
tutte le cose che sono inerenti a un ente in atto» (Ontolog., $ 229). D'altra
parte Locke aveva detto: «Da ciò che si è detto è facile scoprire cosa sia il
principium individuationis intorno al quale tanto si è indagato: è chiaro che
esso è l'esistenza stessa, la quale determina un essere, di qualunque specie,
in un particolare tempo e in un particolare luogo, incomunicabili a due esseri
della medesima specie » (Saggio, II, 27, 4). Queste sedicenti «soluzioni » in
realtà sono negazioni del problema: il quale sparisce completamente (salvo che
in rare eccezioni) nella filosofia moderna per l’avvenuta dissoluzione del suo
presupposto: la priorità ontologica della sostanza comune. INDIVIDUO (gr.
&topov; lat. Individuum; inglese /ndividual; franc. Individu; ted.
Individuum). In senso fisico: l’indivisibile, ciò che non può essere
ulteriormente ridotto con un procedimento di analisi. In senso logico:
l’impredicabile, ciò che non si può predicare di più cose. Per Aristotele VI.
è, nel primo senso, la specie, in quanto, risultando dalla divisione del
genere, non può essere a sua volta divisa (Anal. Post., II, 13, 96b 15; Mer.,
V, 10, 1018 b 5). Alla determinazione della indivisibilità, i logici del v
secolo aggiunsero, per caratterizzare l’I., quella della impredicabilità. Dice
Boezio: «Si dice I. ciò che non si può dividere per nulla, come l’unità o la
mente o ciò che non si può dividere per la sua solidità, come il diamante; o
ciò che non si può predicare di altre cose simili, come Socrate » (Ad Isag.,
II, in P. L., 64, col. 97). Questa notazione divenne fondamentale per la logica
medievale che l’utilizzò per definire I°I.: «I. è ciò che si predica di una
sola cosa, come Socrate e Platone», dice Pietro Ispano (Summ. Log., 2.09). S.
Tommaso parla di un I. vago (vagum), che corrisponde all’individualità della
specie e di un I. singolo: «L’I. vago, per es., l’uomo, significa una natura
comune con un determinato modo d'essere che compete alle cose 31 — ADDAGNANO,
Dizionario di filosofia. 481 singole, cioè che sia sussistente per sè e
distinto dagli altri. Ma l’I. singolo significa invece qualcosa di determinato
e che distingue; così il nome Socrate significa questa carne e questo volto »
(S. 7h., I, q. 30, a. 4). L’I. vago non è ovviamente che l’unità solo
numericamente distinguibile da altre unità. E così infatti lo definiva Duns
Scoto: « I., cioè uno di numero, si dice ciò che non è divisibile in molte cose
e si distingue numericamente da ogni altra » (Ir Met., VII, q. 13, n. 17).
Tuttavia nello stesso Duns Scoto ci sono le premesse di un concetto diverso
dell’individuo. Questo è caratterizzato, nel suo modo d'essere cioè nella sua
singolarità, da una determinazione ultima o « ultima realtà » della natura che
lo costituisce (vedi INDIVIDUAZIONE): sicchè include un insieme illimitato di
determinazioni, in virtù delle quali la natura comune si contrae sino a
diventare questo determinato ente. Da questo punto di vista, l’I. non è
caratterizzato dalla sua indivisibilità ma dalla infinità delle sue
determinazioni. Questo concetto venne espresso chiaramente da Leibniz. « Per
quanto possa sembrare paradossale, egli diceva, ci è impossibile avere la
conoscenza degli I. e trovare il mezzo di determinare esattamente
l’individualità di una cosa, a meno di non considerarla in se stessa. Infatti,
tutte le circostanze possono ritornare; le differenze minime ci sono
insensibili; il luogo © il tempo ben lungi dall’essere determinanti, hanno
bisogno essi stessi d’essere determinati dalle cose che contengono. Ciò che v'è
di più considerevole in questo è che l’individualità involge l’infinito e che solo
colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio di
individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a comprenderlo
sanamente, dall’influenza che tutte le cose dell'universo hanno l’una
sull’altra. È vero che non sarebbe così, se ci fossero gli atomi di Democrito;
ma allora non ci sarebbe neppure differenza tra due I. diversi della stessa
figura e della stessa grandezza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 6). Il presupposto di
questa dottrina è che in natura esistono soltanto I. cioè cose singole:
presupposto che, insieme con gli altri punti principali, fu espresso con tutta
chiarezza da Wolff. Questi comincia con l’affermare che I’I. è «ciò che
percepiamo col senso interno o col senso esterno o che possiamo immaginare, in
quanto è una cosa singola» (Log., $ 43), per procedere a definire l’I. come «
l’ente che è determinato sotto tutti i rapporti (ens omnimode determinatum)
cioè nel quale sono determinate tutte le cose che ad esso ineriscono » (/bid.,
$ 74). Questa nozione dell’I. come di ciò che è assolutamente o infinitamente
determinato è stata spesso utilizzata dalla metafisica moderna. È stata per
l'appunto questa nozione che ha permesso ad 482 Hegel (e a molti altri dopo il
suo esempio) di parlare di «I. universale» senza avvolgersi in una
contraddizione nei termini. « Il compito di accompagnare l’I. dal suo stato
incolto fino al sapere, dice Hegel, era da intendersi nel suo senso generale e
consisteva nel considerare l'I. universale, lo Spirito autocosciente, nel suo
processo di formazione. Per ciò che concerne la relazione di quei due modi di
individualità, nell’I. universale ogni momento si mostra nell’atto in cui
guadagna la forma concreta e la sua propria configurazione. L’I. particolare è
lo spirito non compiuto: una figura concreta, in tutto il cui essere
determinato domina una sola determinatezza e nella quale le altre sono presenti
soltanto di scorcio» (Phanomen. des Geistes, Pref. II, $ 3; trad. ital., I,
pag. 24). Dal punto di vista del concetto di I. come infinità di determinazioni,
Hegel poteva certamente parlare di I. universale: giacchè un'infinità di
determinazioni può essere proprio solo di un I. assoluto o infinito. Di fronte
ad esso, l’I. finito è, come dice Hegel, quello caratterizzato da una sola
determinazione e a cui le altre sono presenti solo di scorcio. Allo stesso
concetto dell’I. fa riferimento Bergson quando afferma che « l’individualità
comporta una infinità di gradi e che in nessuna parte, neanche nell’uomo, essa
è realizzata pienamente » (Évo/. Créatr., cap. I, ed. 1911, pag. 13).
Ovviamente, questo concetto dell’I. porta o ad ipostatizzare l’individualità di
un I. assoluto, come ha fatto Hegel o a dichiararla irraggiungibile, come ha
fatto Bergson. Ma questo appunto dimostra che si tratta di un concetto inservibile.
Nella filosofia contemporanea pertanto l’I. (come la nozione analoga di
elemento [v.]) viene definito rispetto alle esigenze prevalenti in questo o
quel campo d'indagine, o meglio rispetto a questa o a quella esigenza
analitica. Nel campo morale o politico l'’I. è la persona. Nel campo biologico,
l’I. può essere per certi scopi l’organismo, per altri scopi la cellula. Ma è
soprattutto nel campo delle scienze storiche che la nozione di I. è stata
utilizzata dalla filosofia e dalla metodologia contemporanea. Windelband
(Praludien, II, pag. 145) e Rickert (Grenzen der naturwissenschaftlichen
Begriffsbildung, pag. 420) hanno messo in luce il carattere individualizzante
delle scienze dello spirito, di fronte al carattere generalizzante delle
scienze naturali. La conoscenza storica mira a rappresentare l'I. nel suo
carattere singolare e irrepetibile, cioè non come il caso particolare di una
legge, ma come irriducibile agli altri I. con cui è in connessione causale.
L'I., che è in questo caso l'evento storico (fatto, persona, istituzione, ecc.)
è caratterizzato, da questo punto di vista, da due caratteristiche: la
singolarità e la irrepetibilità (v. STORIA). INDUZIONE INDUZIONE (gr. trayovh;
lat. Inductio; inglese /nduction; franc. Induction; ted. Induktion). « L’I. è
il procedimento che dai particolari porta all’universale »: questa definizione
di Aristotele (Top., I, 12, 105a 11) ha trovato concordi tutti i filosofi.
Aristotele stesso vede nell’I. una delle due vie attraverso le quali riusciamo
a formare le nostre credenze; l’altra è la deduzione (sillogismo) (An. Pr., II,
23, 68 b 30). Egli inoltre attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto i «
ragionamenti induttivi » (Met., XIII, 4, 1078 b 28). Tra VI. e il sillogismo,
Aristotele stabilisce tuttavia una grande differenza di valore. Nel sillogismo
deduttivo (« Tutti gli uomini sono animali, Tutti gli animali sono mortali,
Dunque tutti gli uomini sono mortali») il termine medio (animale) costituisce
la sostanza o la ragion d'essere della connessione necessaria tra i due
estremi: gli uomini sono mortali perchè sono sostanzialmente animali. Nel
ragionamento induttivo invece (s L'uomo, il cavallo e il mulo sono longevi,
L’uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza fiele, Dunque gli animali senza
fiele sono longevi »), il termine medio (l’essere senza fiele) compare nella
conclusione: il che vuol dire che esso non è un perchè sostanziale ma un
semplice fatto (An. Pr., II, 23, 68b 15). L’induzione è quindi priva di valore
necessario o dimostrativo, per quanto sia più chiara del sillogismo; e il suo
ambito di validità rimane quello del fatto cioè della totalità dei casi in cui
è stata effettivamente riscontrata valida. Essa può perciò essere usata a fini
di esercizio, nella dialettica, o a fine di persuasione, nella retorica (Rher.,
I, 2, 1356b 13): ma non costituisce scienza, perchè la scienza è
necessariamente dimostrativa (An. Post., I, 2, 71 b 19). Nella filosofia
post-aristotelica gli Epicurei ritennero l'I. l'unico procedimento d’inferenza
legittima, mentre gli Stoici ne negarono il valore. Il De Signis di Filodemo ci
dà un preciso resoconto della polemica che ci fu a questo proposito tra le due
scuole. Gli Stoici dicevano che non basta constatare che gli uomini che ci sono
intorno sono mortali per dire che in ogni dove gli uomini sono mortali:
bisognerebbe stabilire che gli uomini sono mortali proprio in quanto uomini,
per dare a quell’inferenza la sua necessità (De Signis, III, 35; IV, 10; De
Lacy, Philodemus on Methods of Inference, 1941, pag. 31). Il problema dell’I.
si affacciava già in questa difficoltà proposta dagli Stoici. Ad essi gli
Epicurei opponevano che, finchè niente si oppone alla conclusione, la
generalizzazione induttiva è valida (Z/bid., VI, 1-14; XIX, 25-36; De Lacy,
pag. 34, 66). Sesto Empirico non faceva che ripresentare in forma più radicale
la critica degli Stoici, partendo dalla distinzione tra I. completa e I.
incompleta. « Poichè vogliono, egli diceva, confermare per via dell’I.
l’universale INDUZIONE movendo dai particolari, faranno questo percorrendo o
tutti i particolari o soltanto alcuni. Se soltanto alcuni, l’I. sarà incerta,
rimanendo possibile che all’universale contrasti qualcuno dei particolari
tralasciati nell'induzione. Se tutti, intraprenderanno una fatica impossibile
perchè i particolari sono infiniti e illimitati » (Jp. Pirr., II, 204). Era
stato Aristotele ad affermare che l’I. si facesse movendo da tutti i casi
particolari possibili (Ar. Pr., II, 23, 68 b 29); mentre gli Epicurei avevano
affermato il valore dell’I. incompleta. Bacone pertanto non fece che riprendere
l'alternativa epicurea quando dichiarò puerile l’I. completa o per
enumerationem simplicem. «Questa I., dice Bacone, può essere rovesciata da una
qualsiasi istanza contraria; inoltre considera sempre le stesse cose e non
raggiunge il suo fine. Per le scienze occorre invece una forma d’I. che vagli
le esperienze e concluda necessariamente, dopo le debite esclusioni ed
eliminazioni » (Nov. Org., Distrib. Op.). Questa forma di I. che Bacone, sia
pure dubitativamente, fa risalire a Platone (/bid., 105) deve invertire
l’ordine della dimostrazione. « Finora, dice Bacone, si usava trapassare di
volo dai dati del senso e dalle cose particolari alle generalissime, come a
poli fissi della disputa, facendo poi da queste derivare tutte le altre, per
via delle cose intermedie. È questa una scorciatoia, ma troppo scoscesa, per la
quale non si incontra mai la natura, ma soltanto questioni. Si devono invece
estrarre gli assiomi per gradi successivi; e solo da ultimo giungere a quelli
generalissimi i quali non sono semplici nozioni ma fatti ben determinati e tali
che la natura li riconosce veramente per suoi e inerenti all’essenza delle cose
» (/bid., Distrib. Op.). In altri termini la certezza dell’I. consiste, secondo
Bacone, nel fatto che da ultimo l’I. mette capo alla determinazione della forma
della cosa naturale, intendendosi per forma «la differenza vera o natura
naturante o fonte di emanazione » che spieghi il processo latente e lo
schematismo occulto dei corpi (2bid., II, 1). In tal senso, la forma non è che
la stessa «sostanza » aristotelica: il principio o ragion d’essere della cosa.
Aristotele riteneva che tale sostanza si potesse cogliere col procedimento
sillogistico cioè intuitivo-dimostrativo; Bacone ritiene che essa si può
cogliere con un procedimento induttivo che sceveri e ordini le esperienze. La
vera differenza pertanto tra Bacone e Aristotele è che Bacone crede che la
nuova disciplina del procedimento induttivo da lui proposta (disciplina che
consiste nella formazione di tavole che scelgano e classifichino gli
esperimenti e nella istituzione di esperimenti di controllo) renda possibile
attingere con certezza quella sostanza cui, secondo Aristotele, l’I. può solo
avvicinare in modo incerto o appros483 simativo, e che può essere attinta nella
sua necessità solo dal procedimento deduttivo. Per questa interpretazione del
procedimento empiristico nei termini della metafisica aristotelica, Bacone ha
potuto riconoscere all’I. incompleta quella « necessità » che Aristotele
riconosceva al procedimento sillogistico. Da questo punto di vista, il problema
dell’I., nei termini in cui l’aveva prospettato la critica degli Stoici e di
Sesto Empirico non sorgeva neppure. Dall’altro lato il cartesianesimo non era
interessato a porsi il problema dell’I., riservando ad essa quella stessa
funzione preparatoria e subordinata che Aristotele le aveva riconosciuto. «
L’I. da sola, dice la Logica di Portoreale, non è mai un mezzo certo per
acquistare una scienza perfetta perchè la considerazione delle cose singole è
solo una occasione per il nostro spirito di fare attenzione alle sue idee
naturali, secondo le quali giudica della verità delle cose in generale. Così è
vero, per es., che io non avrei mai preso in considerazione la natura del
triangolo se non avessi visto un triangolo che mi ha dato occasione di
pensarci; tuttavia non è stato l’esame particolare di questi triangoli a farmi
concludere generalmente e certamente che l’area di tutti i triangoli è uguale
al rettangolo costruito sulla base diviso la metà dell’altezza (giacchè
quest’esame è impossibile) ma la sola considerazione di ciò che è incluso
nell’idea del triangolo, che trovo nel mio spirito» (ARNAULD, Log., III, 19, $
9). Pertanto, solo dopo che le scienze avevano incominciato ad usare ampiamente
il procedimento induttivo, come avvenne nella seconda metà del ’600, il
problema dell’I. come problema della validità del procedimento induttivo e del
diritto di usarlo, fu di nuovo posto ed affrontato. A porlo chiaramente fu, allora,
il dubbio scettico di Hume. Diceva Hume: « Tutte le inferenze tratte
dall’esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro rassomiglierà
al passato e che poteri simili saranno uniti a simili qualità sensibili. Se ci
fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il
passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe
inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza o conclusione. È
impossibile perciò che argomenti tratti dall’esperienza possano provare la
rassomiglianza del passato con il futuro: giacchè tutti gli argomenti siffatti
sono fondati sulla supposizione di quella rassomiglianza. Sia pure ammesso che
il corso delle cose è stato sempre regolare: questo solo, senza alcun argomento
o inferenza nuova, non prova che per il futuro continuerà così» (Ing. Conc.
Underst., IV, 2). In questi termini il problema dell’I. è stato costantemente
posto nel mondo moderno. Ad esso sono state date tre soluzioni fondamentali:
484 1° la soluzione oggettivistica; 2° la soluzione soggettivistica; 3° la
soluzione pragmatica. Quest’ultima soluzione segna il passaggio dalla
concezione necessitaristica (presupposta dalle altre due) ad una concezione
probabilistica dell’induzione. 1° La soluzione oggettivistica consiste nel
ritenere che esiste un’uniformità della natura che consente la generalizzazione
delle esperienze uniformi. Questa soluzione è assai antica perchè si trova
sostenuta da Filodemo nella sua polemica contro gli Stoici. « Dal fatto che
tutti gli uomini della nostra esperienza, diceva Filodemo, sono simili anche
rispetto alla mortalità, noi inferiamo che tutti gli uomini universalmente sono
soggetti alla morte, dato che nulla si oppone a questa inferenza o ci mostra
che gli uomini non siano suscettibili di morte. Facendo appello a questa
simiglianza, dichiariamo che, nei rispetti della mortalità, gli uomini fuori
della nostra esperienza sono simili a quelli che si manifestano nella nostra
esperienza » (De Signis, XVI, 16-29; De Lacy, /bid., pag. 58 sgg.). In questo
passo ovviamente il diritto dell’inferenza induttiva viene fondato sulla
uniformità rivelata dalle somiglianze. In modo analogo, alla fine della
Scolastica, Duns Scoto e Ockham ponevano a base dell’I. il principio di
causalità. Duns Scoto diceva: « Delle cose conosciute per esperienza io dico
che, sebbene l’esperienza non si abbia di tutte le cose singolari nè sempre ma
solo per lo più, l’esperto tuttavia conosce infallibilmente che è così, sempre
e in tutti i casi, sulla base di questa proposizione esistente nell'anima:
tutto ciò che deriva per lo più da una causa non libera è l’effetto naturale di
questa causa » (Op. Ox., I, d. 3, q. 4, n. 9); nel qual passo, effetto narurale
significa effetto uniforme perchè necessario. Ockham a sua volta poneva come
fondamento dell’I. il principio « Cause della stessa natura (ratio) hanno
effetti della stessa natura » (/n Sent., Prol., q. 2 G). E la medesima
soluzione veniva riproposta nel sec. xrx da Stuart Mill. Il fondamento dell’I.
è il principio delle uniformità delle leggi di natura e tale principio non è
che lo stesso principio di causalità. Questo a sua volta, non potendo essere
ridotto a un istinto infallibile del genere umano o a un'intuizione immediata,
non può essere che il prodotto di un’induzione. « Noi arriviamo a questa legge
generale, dice Stuart Mill, mediante generalizzazione da molte leggi di
generalità inferiore. Non avremmo mai avuto la nozione della causazione (nel
significato filosofico del termine) come condizione di tutti i fenomeni, se molti
casi di causazione o in altre parole molte parziali uniformità di successione
non ci fossero diventate precedentemente familiari. La più ovvia delle
uniformità particolari suggerisce e rende evidente l’uniformità generale e
l’uniformità generale, INDUZIONE una volta stabilita, ci permette di dimostrare
le altre uniformità particolari dalle quali risulta » (Logic, III, 21, $ 2).
L’uniformità della natura non è quindi che una semplice I. per enumerationem
simplicem. Il circolo vizioso è evidente. A questo circolo si riduce ogni
analoga soluzione del problema. 2° La seconda soluzione del problema dell’I. è
quella soggettivistica o critica propria del kantismo. Essa fu prospettata
dallo stesso Kant come risposta al dubbio di Hume sulla possibilità della generalizzazione
scientifica; e consiste nell’ammettere l’uniformità della struttura categoriale
dell’intelletto e perciò della forma generale della natura che da esso dipende.
Dice Kant: « Ogni percezione possibile, perciò tutto quello che può giungere alla
coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura quanto alla loro
unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura,
considerata semplicemente come natura in generale, come dal principio
originario della sua necessaria conformità a leggi (quale natura formaliter
spectata). Ma neanche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere,
mediante le sole categorie, più leggi di quelle sulle quali riposa una natura
in generale come regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo ». Le leggi
particolari devono quindi essere desunte dall’esperienza (Crif. R. Pura, $ 26).
Questo significa che la natura nella sua conformità alle leggi cioè nella sua
uniformità, dipende dalle categorie cioè dalla struttura uniforme
dell’intelletto; e che pertanto le uniformità o leggi che si possono ritrovare
nell’esperienza sono garantite dall’uniformità della forma comune
(intelletto-natura). Questa dottrina è simmetrica e opposta a quella
dell’uniformità naturale, ma il suo significato è lo stesso. Una trascrizione
in termini spiritualistici della stessa tesi fondamentale è quella di Lachelier
(Fondamento dell’I., 1871), secondo la quale la possibilità dell’I. poggia
sull'ordinamento finalistico dell’universo cioè sul fatto che l’ordine della
natura è stabilito dallo spirito (Fondement de l’induction, Paris, 1907, pag.
12). A questo tipo di soluzione si riducono tutte le giustificazioni
spiritualistiche o idealistiche. 3° La giustificazione pragmatica è stata
avanzata, nella filosofia contemporanea quando si è riconosciuta
l’impossibilità di una giustificazione teoretica ma non si è giunti a negare la
legittimità del problema cioè della richiesta di una giustificazione. La
giustificazione è stata, in questa direzione, cercata mediante un’interpretazione
probabilistica dell’induzione. La più semplice espressione della regola dell’I.
probabilistica è forse quella data da Kneale: « Quando abbiamo osservato un
numero di cose « e trovato che la frequenza della cose B INDUZIONE fra esse è
f, assumiamo che P (a, 8) = f, cioè che la probabilità che una cosa a sia 8
dev'essere fa» (Probability and Induction, Oxford, 1949, pag. 230). Espressioni
più complicate della stessa regola sono state date da Lewis (Analysis of
Knowledge, 1946, pag. 272) e da Reichenbach (Theory of Probability, 1949, pag.
446; cfr. pure Experience and Prediction, Chicago, 1938, pag. 339 sgg.). Ma
tutte equivalgono a dire che, quando un determinato carattere ricorre in una
certa proporzione dei campioni esaminati, si può assumere che questa proporzione
valga per tutti gli altri esempi del caso, salvo prova in contrario. Quando la
proporzione è uguale al cento per cento dei campioni esaminati, cioè quando il
carattere in questione ricorre in tutti, si ha il caso della generalizzazione
uniforme o completa. È questo il caso quando si afferma che «tutti gli uomini
sono mortali » per il fatto che l’essere mortale si è sempre trovato
costantemente congiunto con l’essere uomo. Dall'altro lato quando il valore
numerico di quella proporzione si assume come misura della possibilità che il
carattere in questione ricorra in un nuovo esempio, si ha un giudizio di
probabilità (v.). Ovviamente la generalizzazione completa o il giudizio di
probabilità sono aspetti della generalizzazione statistica. Stando ciò, la
giustificazione dell’I. da un punto di vista pragmatico può essere fatta
asserendo: a) che l’I. è il solo mezzo di ottenere previsioni; 5) che essa è il
solo metodo suscettibile di autocorrezione. a) Dice Kneale: « L’I. primaria è
una direttiva razionale non perchè sia certo che essa conduce al successo ma
perchè è il solo modo di tentare di fare ciò di cui abbiamo bisogno, cioè
previsioni esatte» (Op. cif., pag. 235). Contro questo argomento, che è
condiviso da molti (cfr., per es., REICHENBACH, Op. cif., pag. 475), Black
osserva che, se l’I. è l’unico mezzo per ottenere previsioni, il successo delle
previsioni stesse non la conferma, come non la confuta l’insuccesso di esse
(Problems of Analysis, 1954, pag. 174 sgg.). L'argomento, come quello analogo
che I’I. è il solo metodo per controllare gli altri metodi di previsione, ha la
pretesa, osserva Black, di giustificare deduttivamente l’I. stessa cioè di
giustificarla sulla base di argomenti che hanno, come i loro stessi proponenti
riconoscono (REICHENBACH, Op. cit., pag. 479; J. O. Wispom, Foundations of
Inference in Natural Science, 1953, pag. 229) carattere analitico o
tautologico. Gli argomenti genuinamente pratici, osserva ancora Black, non sono
deduttivi. Nella vita quotidiana, in una situazione che esige una decisione,
gli indizi indicano, con qualche grado di sicurezza, quella che dovrebbe essere
l’azione adatta; ma questa non è deducibile da quella indicazione nè la
condotta contraria implica contraddizione (Pro485 blems of Analysis, pag. 185).
Questo tipo di argomento non ha pertanto valore come giustificazione del
procedimento induttivo. b) Il secondo argomento fondamentale per la
giustificazione pratica dell’I. è la sua capacità di autocorrezione. Peirce per
primo ha insistito su questo carattere, scorgendo in esso l’essenza stessa
dell’I. (Coll. Pap., 2.729). E Reichenbach ha detto: «Il procedimento induttivo
ha il carattere di un metodo di rrial and error così progettato che per le
serie che abbiano un limite delle frequenze esso condurrà automaticamente al
successo in un numero finito di passi. Può essere chiamato un metodo
autocorrettivo o asintotico » (Op. cit., pag. 446, $ 87; cfr. KNEALE, Op. cit.,
pag. 235). Contro questo argomento Black ha osservato che il termine
autocorrettivo non è esatto, giacchè è vero che l’I. include la possibilità
costante della revisione ma per dire che le revisioni siano correzioni, sarebbe
necessario mostrare che esse sono progressive cioè dirette in un’unica
direzione e in quella buona. Ma è proprio questa sicurezza che manca (Problems
of Analysis, pag. 170). Ora si può concedere a Black che neanche questo
argomento sia veramente una «giustificazione » dell’I. nel senso universale o
deduttivo della parola « giustificazione ». Ma che l’autocorreggibilità sia il
carattere del procedimento induttivo come di ogni procedimento scientifico è
cosa che non può essere messa in dubbio; ed è d'altronde il carattere al quale
lo stesso Black fa appello per caratterizzare il metodo scientifico (Op. cit.,
pag. 23). La revisione, che l’I. rende possibile e a cui anzi l’intero suo
procedimento è intrinsecamente subordinato, è una correzione nel senso preciso
del termine, cioè come eliminazione di un errore rivelato dal procedimento
stesso. Una modificazione che non fosse revisione o correzione in questo senso
non sarebbe richiesta ed effettuata dall’induzione. Con tutto ciò, lo stato
attuale del problema dell’I. sembra bene espresso dalla conclusione di Black
che una giustificazione dell’I. non solo è impossibile, ma che il problema di
essa è privo di senso, se per giustificazione s’intende la dimostrazione della
validità infallibile del procedimento induttivo. « Insistere che vi dev'essere
una conclusione sarebbe come dire che, poichè un buon giocatore di scacchi
conosce i movimenti da farsi in una partita di scacchi, egli dev’essere anche
capace di sapere i movimenti da farsi in una scacchiera con un solo pezzo. Ma
questo non è un problema di scacchi e non c’è niente che il giocatore di
scacchi debba risolvere. Il problema di ciò che dobbiamo inferire quando
conosciamo solo che alcuni A sono B non è un genuino problema induttivo e non
c’è modo di risolverlo salvo che riconoscendo 486 che sarebbe inopportuno
tentarlo » (Op. cit., pagine 188-89; cfr. Language and Philosophy, 1952, cap. IM.
In altri termini, il problema dell’I. in generale come problema di inferire il
futuro dal passato o i casi non osservati da quelli osservati, è un problema
privo di senso per mancanza di dati. Se questi dati sono forniti, non esiste
più un problema dell'I. ma problemi appartenenti ai domini delle singole
scienze. Si deve aggiungere tuttavia che l’eliminazione del problema dell’I.
nella sua forma classica non esime il filosofo dall’analisi dei procedimenti
induttivi adoperati dalle singole scienze, dal confronto di tali procedimenti e
dalle generalizzazioni che da tale confronto possono nascere. È chiaro tuttavia
che quest'ordine di ricerche, a tutt'oggi non ancora intraprese, non condurrà
mai a una giustificazione dell’induzione. La giustificazione infatti, se fosse
raggiunta, avrebbe per suo effetto immediato la eliminazione di ogni rischio
dei procedimenti induttivi e la riduzione di questi procedimenti alla certezza
e alla necessità di quelli deduttivi. In realtà i procedimenti scientifici e in
generale i comportamenti e le direttive razionali dell’uomo, consistono nel
limitare il rischio cioè nel renderlo calcolabile: non nell’eliminarlo. I
problemi filosofici non possono quindi essere posti in modo che la loro
soluzione significherebbe l’eliminazione del rischio. Il carattere chimerico di
una simile impostazione fa vedere, meglio di ogni altra cosa, l’illegittimità
del problema della giustificazione dell’induzione. In forma estrema questa tesi
è stata espressa da Popper che ha considerato l’I. come un semplice mifo, che
non è un fatto psicologico, nè un fatto della vita ordinaria nè una qualsiasi
procedura scientifica; e ha ritenuto che la scienza procede col metodo del
trial and error cioè salta di colpo, anche da una singola osservazione, a una
congettura o a un’ipotesi che poi cerca di confutare e che viene mantenuta
finchè la confutazione non è riuscita (Conjectures and Refutations, 1965,
pagine Sl sgg.). INDUZIONE MATEMATICA (ingl. Mathematical Induction; franc.
Induction mathématique; ted. Mathematische Induktion). Si indica con questo
nome il principio che serve a stabilire la verità di un teorema matematico in
un numero indefinito di casi. Si chiama anche principio di ricorrenza o
ragionamento per ricorrenza (Porncaré, La science et l’hypothèse, I, $ 3).
Peano ha così definito il principio: « Sia S una classe, supponiamo che O
appartenga a questa classe e che tutte le volte che un individuo appartenga a
questa classe, anche quello seguente vi appartenga; allora tutti i numeri
appartengono a questa classe. Si chiama principio d’I. questa proposizione »
(Formul. Mat., $ 10). Il principio non ha niente in comune con l’I. scientifica
INDUZIONE MATEMATICA salvo il carattere di generalizzazione (cfr. MORRIS R.
CoHen-ERNEST NagEL, The Nature of a Logical or Mathematical System, $ 6, in
Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 144). INERENZA. V. Essere, 1, A).
INERZIA (ingl. Inertia; franc. Inertie; tedesco Tragheit). La storia di questo
concetto fondamentale della meccanica moderna deve molto alla filosofia. Alla
fisica di Aristotele questo concetto era estraneo perchè essa riteneva valido
un teorema che lo esclude: il teorema che «tutto ciò che si muove è mosso
necessariamente da qualche cosa » (Fis., VII, 1, 241b 24). È ovvio che, se
questo principio è vero, un corpo non può persistere nel suo stato di movimento
senza l’azione di un altro corpo. La teoria dell’imperus, esposta dagli
Scolastici del sec. xIv, costituisce la prima critica del principio
aristotelico e il primo affacciarsi della nozione di inerzia. A] principio
aristotelico, Ockham aveva opposto l’esempio della freccia, o di qualsiasi
altro proiettile, a cui viene comunicato un impulso che il proiettile conserva
senza che il corpo che glielo ha comunicato lo accompagni nella sua traiettoria
(Zn Sent., II, q. 18, 26). Un discepolo di Ockham, Buridano (sec. xiv) riprende
questa dottrina e l’applica al movimento dei cieli: questi possono benissimo
essere mossi da un impeto loro comunicato dalla potenza divina, impeto che si
conserva perchè non viene diminuito o distrutto da forze opposte (/n Phys.,
VIII, q. 12). Nicola di Oresme e Alberto di Sassonia che appartennero anch’essi
alla corrente ockhamistica che fiorì nel sec. xIv nell’Università di Parigi
riprendono e difendono questa teoria. Da questa tradizione scolastica la
nozione di I. passò nei fondatori della scienza moderna, Leonardo e Galilei.
Quest’ultimo si serve della nozione costantemente e la appoggia a una specie di
esperimento mentale. Parlando del movimento di una palla perfetta su un piano
assai liscio egli chiede: «Or ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile
sopra una superficie che non fosse nè acclive nè declive »; e risponde che
«esso sarebbe perpetuo 1 (Op., VII, 273; cfr. VIII, pag. 243). Ma per quanto
Galilei si servisse correttamente della nozione di I., egli non ne formulò
esplicitamente il relativo principio; e il primo a formularlo fu in realtà
Cartesio che stabili come «prima legge della natura» il principio « Ciascuna
cosa particolare continua ad essere nel medesimo stato fintanto che può e non
lo cambia se non per il suo incontro con altre cose » (Princ. Phil., II, $ 37).
Alcuni decenni dopo, accolto da Newton come primo principio della dinamica nei
Principi matematici della filosofia naturale (1687), il principio d’I. faceva
il suo definitivo ingresso nella scienza moderna, per la quale esso fu e
rimane, più che una «legge di natura+?, nel INFINITO senso in cui Cartesio
intendeva il termine, o una verità sperimentale, un postulato o principio
strumentale che permette il calcolo della forza (v.) o dell’energia (v.). Sulla
teoria dell’impetus, cfr. DUHEM, Études sur Léonard de Vinci, Parigi, 1909.
INESPRIMIBILE (lat. Ineffabilis; ingl. Inexpressible; franc. Inexprimable; ted.
Unaussprechlich). Nella teologia mistica, a partire dalle antiche religioni
misteriosofiche, I. è ciò che si rivela nel punto culminante dell’esperienza
mistica, cioè nell’entusiasmo o nell’estasi (cfr. PLOTINO, Enn., VI, 9, 1l;
Pseupo-DIONIGI, Myst. Theol., I, 1; S. BONAVENTURA, /tinerarium Mentis in Deum,
VII, 5; ecc.) Nella filosofia contemporanea Wittgenstein, nella chiusa del
Tractatus logico-philosophicus (1922) ammetteva l’esistenza dell’I.: « C'è
veramente l’inesprimibile. Esso si mostra, è ciò che è mistico» (Tract., 6.
522). « Noi sentiamo, egli diceva, che se tutte le possibili domande della
scienza avessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero
nemmeno sfiorati. Certo non rimarrebbe allora alcuna domanda; e questa è
appunto la risposta » (/bid., 6, 52). E il Tractatus si chiudeva con
l’affermazione: « Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (/bid., 7).
Dall'altra parte, Carnap parlava di una « mitologia dell’I.» e considerava
questa parola particolarmente pericolosa perchè atta a produrre confusioni e
incertezze. L'enunciato « Vi sono oggetti I. », tradotto in linguaggio formale,
suona, per Carnap, semplicemente « Vi sono designazioni di oggetti che non sono
designazioni di oggetti» o « Vi sono enunciati che non sono enunciati »
(Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 81; trad. ingl., pag. 314). INFERENZA
(ingl. Inference; franc. Inférence; ted. Inferiren). Nel latino medievale si
trova presso molti logici il termine inferre per indicare il fatto che, in una
connessione (o consequentia) di due proposizioni, il primo (antecedente)
implica (0 meglio contiene per « implicazione stretta ») il secondo
(conseguente). Nella filosofia moderna il termine «I.» (preferito dagli
Anglosassoni) è di solito usato come sinonimo di « illazione » (preferito dagli
Italiani), peraltro in un senso molto sciolto, che va da quello di implicazione
(v.), per es., in Jevons e in genere nei logici inglesi dell’800, a quello di
processo mentale operativo mediante il quale, partendo da certi dati, si arriva
per implicazione, o anche per induzione, ad una conclusione (Stebbing, Dewey).
Dice, ad es., Stuart Mill: « Inferire una proposizione da una o più
proposizioni antecedenti; assentire o credere ad essa come conclusione da
qualche cosa d’altro, questo è ragionare nel più esteso significato del termine»
(Logic, II, 1, 1). Nello stesso senso generalissimo la parola viene adoperata
da Peirce (Chance, Love and Logic, 487 cap. VI) e da molti logici
contemporanei, Lewis, Reichenbach, ecc. Dewey ha distinto l’I. come relazione
tra segno e cosa significata dall’implicazione che sarebbe la relazione tra i
significati che costituiscono le proposizioni (Logic, Introduzione; trad.
ital., pag. 96); ma questa proposta non ha avuto sèguito. a. P. INFINITESIMALE
(lat. Infinitesimus; inglese Infinitesimal; franc. Infinitésimal; ted.
Infinitesimal). Una grandezza che può essere resa più piccola di ogni grandezza
assegnabile; o, come anche, meno propriamente, si dice, una grandezza tendente
a zero. Questo concetto fu conosciuto dai Greci che l’utilizzarono spesso. Esso
è presupposto dagli argomenti di Zenone di Elea contro il movimento (v.
ACHILLE; DicoroMia; FRECCIA; STADIO); e fu chiaramente espresso da Anassagora
che disse: 4 Rispetto al piccolo non c'è un minimo ma c’è sempre un più piccolo
perchè ciò che esiste non può venire annullato » (Fr. 3, Diels). Lo stesso
concetto veniva espresso da Aristotele (Fis., III, 7, 207 b 35). Gli ultimi
scolastici ripresero questi concetti (cfr. per tutti OCKHAM, /n Sent., I, d.
17, q. 8), che fu poi messo da Leibniz a fondamento del calcolo I., il cui
primo documento importante è la memoria dello stesso Leibniz intitolata Nuovo
metodo per î massimi e i minimi (1682). INFINITO (gr. &respov; lat.
/nfinitum; ingl. Infinite; franc. Infini; ted. Unendlich). Il termine ha i
seguenti significati principali che sono tra loro variamente imparentati: 1°
l’I. matematico che è la disposizione o la qualità di una grandezza; 2° l’I.
teologico che è l’illimitatezza di potenza; 3° I’I. metafisico che è l’assenza
di compiutezza. 1° La concezione matematica dell’I. ha elaborato due diversi
concetti di esso e cioè: a) il concetto dell’I. potenziale come limite di certe
operazioni sulle grandezze; 5) il concetto dell’I. attuale come una specie
particolare di grandezza. a) Il concetto dell’I. potenziale è stato elaborato
da Aristotele. Aristotele negava che I'I. potesse essere arruale cioè reale sia
come realtà a sè (sostanza) sia come attributo di una realtà (Fis., III, 5,
204a 7 sgg.). Questo vuol dire che l’I. non è sostanza nè proprietà o
determinazione sostanziale ma «esiste soltanto in modo accidentale » (/bid.,
204 a 28): cioè come disposizione delle grandezze. Quale disposizione?
Aristotele dà due significati fondamentali dell’I.: per il primo, VI. è «ciò
che per natura non può essere percorso » nel senso in cui la voce è ciò che non
può essere visto. Nel secondo, l’I. è ciò che si può percorrere, ma non tutto,
perchè è senza fine; e in questo senso è I. per composizione o per divisione o
per entrambe le cose (/bid., III, 4, 204a 3). Ora VI. in senso matematico è
soltanto quest’ultimo cioè l’I. che 488 si può percorrere ma mai
esaurientemente o completamente. In questo senso l’I. è tale «che si può
prendere sempre qualcosa di nuovo, e ciò che si prende è sempre finito ma
sempre diverso. Sicchè non bisogna prendere l’I. come un singolo essere, per
es., un uomo o una cosa, ma nel senso in cui si parla di una giornata o di una
lotta, il cui modo d’essere non è una sostanza ma un processo e che, se pure è
finito, è incessantemente diverso » (/bid., III, 6, 206 a 27). Non è pertanto
I. ciò al di fuori di cui non c’è nulla, come si ritiene comunemente, ma ciò al
di fuori di cui c’è sempre qualcosa; per conseguenza l’I. rientra più nel
concetto di parte che in quello di tutto (Zbid., IIl, 6, 206b 32; 207 a 27).
Questo concetto aristotelico veniva utilizzato da Lucrezio per difendere la
dottrina epicurea dell’infinità dello spazio ed espresso con l'immagine di una
freccia lanciata a partire dall'estremo confine dell’universo, ipoteticamente
ammesso: sia che la freccia incontri un ostacolo, sia che proceda al di là,
l’estremo confine dell’universo non è più tale perchè è solo il punto di
partenza della freccia (De rer. nat., I, 967-982). Anche in quest'immagine l’I.
è ciò di cui si può prendere sempre una parte, e ciò che si prende è sempre
finito ma sempre diverso. Questo concetto dell’I. è essenzialmente negativo:
consiste nella non esauribilità di certe grandezze sottoposte a determinate
operazioni che sono quelle della composizione, cioè dell’aggiunta di una parte
sempre nuova, e della divisione in parti sempre nuove. La prima operazione
tende all’infinitamente grande, la seconda all’infinitamente piccolo (cioè
all'infinitesimo [v.])): entrambe definiscono il concetto dell’I. come
inesauribilità di parti dentro parti. Ma così inteso il concetto è ovviamente
negativo: caratterizza l’inesauribilità o incompletezza di una serie.
Giustamente a questo proposito Plotino osservava che l’I. è ciò che non può
essere esaurito nella sua grandezza o nel numero delle sue parti (Enn., VI, 9,
6). E Kant, dallo stesso punto di vista, diceva: « Il vero (trascendentale)
concetto dell’infinità è che la sintesi successiva dell’unità nella misurazione
d'un quantum non può essere mai compiuta » (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. 2, sez.
2). Questa specie di I. è quella che i logici del Medioevo avevano chiamato I.
sincategorematico (syncategorematicum): che è l’I. inteso come disposizione
(non qualità) di un soggetto e distinto dall’I. caregorematico che sarebbe l’I.
come qualità o come sostanza (Pietro IsPanO, Sum. Log., 12.57; OCKHAM, In
Sent., I, d. 17, q. 8). Era questo anche l’I. che nella matematica del
"700 e della prima metà dell’800 fu definito mediante il concetto di
limite (cioè come il campo delle serie, delle successioni, ecc.) ma al quale i
matematici di quel tempo non ricoINFINITO nobbero il rango di un tipo di
grandezza a sè stante. Diceva Gauss in una lettera del 1831: « Protesto contro
l’uso di una grandezza I. come qualcosa di completo, uso che non venne mai
ammesso nella matematica. L’I. è soltanto una facon de parler; a voler essere
rigorosi si parla invece di limiti cui alcuni rapporti vengono vicini quanto si
vuole, mentre ad altri rapporti è permesso crescere oltre ogni misura + (cfr.
GEYMONAT, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, 1947, pag. 174-75). I
Paradossi dell’I. (1851) di Bernardo Bolzano segnano il primo avviamento
decisivo verso un nuovo concetto dell’infinito. 6) Il secondo concetto dell’I.
è quello dell’I. categorico o (come meno propriamente si dice) attuale, cui
solo la matematica moderna ha dato forma rigorosa. A questo concetto tuttavia
essa stessa è stata avviata dalle discussioni tradizionali sui cosiddetti
paradossi dell’infinito. Già Ruggero Bacone, per confutare l’infinità del
mondo, faceva vedere che, se si ammette l’I., si deve concludere che la parte è
maggiore del tutto cui appartiene (Opus tertium, ed. Brewer, 41, pag. 141-42).
E argomenti simili furono ripetuti frequentemente nella Scolastica del ’300. Ma
tale Scolastica ci offre anche, con Ockham, una risposta a tali argomenti che
indica la via la quale sarà poi seguita dalla matematica della seconda metà
dell’800. Afferma infatti Ockham: « Non è incompatibile che la parte sia uguale
o non minore del suo tutto perchè ciò accade ogni qualvolta una parte del tutto
è I... Ciò accade anche nella quantità discreta o in una qualunque
molteplicità, una parte della quale abbia unità non minori di quelle contenute
nel tutto. Così in tutto l’universo non ci sono parti in numero maggiore che in
una fava, perchè in una fava ci sono infinite parti. Sicchè il principio che il
tutto è maggiore della parte vale soltanto per i tutti composti di parti
integranti finite » (Cenr. Theol., 17 C; Quodl., I, q. 9). Questa coraggiosa
limitazione del valore di un assioma, che appariva allora evidente, non ebbe
tuttavia séguito per molto tempo. Lo stesso Galilei, per evitare la possibilità
di una eguaglianza tra la parte e il tutto (a proposito del rapporto fra i
quadrati e la serie naturale dei numeri) affermò « gli attributi di ‘ eguale *,
‘ maggiore ’, e ‘ minore’ non aver luogo negli I. ma solo nelle quantità
terminate» (Scienze nuove, Op., VIII, pag. 79) lasciando così inalterata la
verità del preteso assioma. Esso veniva a cadere e dichiarato frutto di una generalizzazione
fallace (cfr. RUSSELL, Principles of Mathematics, 1903, pag. 360) solo quando
Giorgio Cantor (nei Mathematische Annalen, fra il 1878 e il 1883) e Dedekind
(Continuità e numerì irrazionali, 1872; Che cosa sono e che cosa debbono essere
i numeri, 1888) enunciarono un INFINITO nuovo concetto dell’infinito. Questo
consiste nell’assumere come definizione dell’I. esattamente quello che era
apparso sin allora come il « paradosso + dell’I. stesso: l'equivalenza della
parte e del tutto. Si può illustrare questa concezione ricorrendo all’esempio
fatto da Royce (The World and the Individual, 1900-01; cfr. il Saggio
complementare « L’uno, i molti e l’I. » aggiunto al vol. I dell’opera).
Supponiamo che ci sia una carta geografica idealmente perfetta, tale cioè che,
se A è l’oggetto riprodotto ed A° la carta geografica, questa stia in
corrispondenza con A in modo tale che per ogni particolare elemento di A, cioè
a, è, c, possa essere determinato in A’ qualche corrispondente elemento a’,
bd’, c’, conformemente al sistema di proiezione prescelto. Poniamo inoltre che
questa carta geografica sia disegnata entro e sopra una parte della superficie
della regione riprodotta, per es., dell’Inghilterra. Se questa carta è, come
dev'essere per ipotesi, idealmente perfetta, deve rappresentare tutto ciò che
c’è sulla superficie dell’Inghilterra, quindi la stessa carta geografica. La
rappresentazione di quest’ultima, essendo a sua volta perfetta, dovrà contenere
come parte di sè la rappresentazione di sè; e così via senza limite. Un sistema
simile è chiaramente I., non in quanto inesauribile, ma in quanto
autorappresentativo, o come meglio si dice autoriflessivo. In termini
matematici, un insieme autoriflessivo è quello che si può mettere in
corrispondenza biunivoca con qualche suo sotto-insieme. Questo è proprio il
caso della serie naturale dei numeri che si può mettere in corrispondenza
biunivoca con i suoi sotto-insieme, per es., con i quadrati, con i numeri
primi, ecc. La potenza comune di due insiemi tra i quali esista una
corrispondenza biunivoca è, secondo Cantor, il «numero cardinale» dei due
insiemi. Questo numero si dirà transfinito quando l’insieme risulta equipotente
ad una sua propria parte o sottoinsieme. In tal modo, il concetto di numero
cardinale I. che era stato sempre negato come contraddittorio faceva il suo
ingresso nella matematica. Esso doveva rivelarsi ben presto fonte di nuove
difficoltà e problemi: difficoltà e problemi che costituiscono i « paradossi »
della logica moderna, per quanto anch’essi non fossero del tutto sconosciuti
allo logica antica (v. ANTINOMIE). Ma il concetto dell’I. matematico non è
stato modificato dalla trattazione di questi paradossi e dalle soluzioni per
essi proposte. 2° Il secondo concetto di I. è di natura teologica ed è sorto
nell’ultimo periodo della filosofia greca con Filone e Plotino. Quest’ultimo
aveva distinto l’infinità del numero che è « inesauribilità » (Enn., VI, 6, 17)
dall’infinità dell’Uno che è invece « l’illimitatezza della potenza» (/bid.,
VI, 9, 6). Con 489 minor precisione di linguaggio, questo concetto viene
espresso frequentemente nella Scolastica medievale. S. Tommaso, dopo aver
osservato che i primi filosofi ebbero ragione a ritenere I. il principio delle
cose « considerando che le cose derivano dal primo principio all’I. »,
distingue l’I. della materia che è imperfezione perchè la materia senza forma è
incompiuta, e l’I. della forma che invece è perfezione perchè è proprio di
quella forma che non riceve l’essere da altro ma da se stesso, cioè di Dio (S.
7A., I, q. 7, a. 1). Chiamare I. la forma di per sè sussistente sembra voler
significare che l’I. è ciò che, per essere, non ha bisogno di altro, ed è
perciò illimitata potenza di essere. Non molto diverso è il senso che sembra
avere la tesi di Duns Scoto sull’infinità come modo d’essere proprio di Dio.
Duns osserva che se si dice che Dio è sommo, gli si dà una determinazione che
gli compete rispetto alle cose che sono diverse da lui: è sommo fra tutte le
cose esistenti. Ma se si dice che è I., si intende che è sommo nella sua natura
intrinseca, cioè che trascende ogni grado possibile di perfezione (Op. Ox., I,
d. 2, q. 2, n. 17). L’infinità sembra esprimere qui il «quo maius cogitari
nequit» di S. Anselmo, cioè l’essere le perfezioni di Dio al di là di ogni
grado raggiungibile dalle perfezioni finite. La distinzione cartesiana tra I. e
indefinito (v.) che riserva soltanto a Dio l’attributo dell’infinità, sembra
coincidere anche meglio con la distinzione fra II. teologico e l’I. matematico:
distinzione che si trova anche in Locke (Saggio, II, 17, 1) e Leibniz (Nouv.
Ess., II, 17, 2). Ma nella filosofia moderna il concetto dell’I. come
illimitatezza della potenza fa veramente il suo ingresso con Fichte. Per
Fichte, l’Io è I. in quanto «è posto dalla sua propria assoluta attività » cioè
in quanto la sua attività non trova limiti od ostacoli. Ponendo, nel contempo,
un non-Io, l’Io si limita e diventa finito. Ma da ultimo « la finità deve
essere annullata: tutti i limiti devono sparire e deve restare solo l'Io I., come
Uno e come Tutto» (Wissenschafislehre, 1794, II, $ 4, D). La contrapposizione
hegeliana tra « cattivo I.» e «vero I. + costituisce la migliore illustrazione
di questa nozione di I. nella filosofia moderna. La falsa infinità è l’infinità
matematica del progresso all’I.; giacchè questo « si arresta alla dichiarazione
della contraddizione contenuta nel finito, che questo, cioè, è tanto qualcosa,
quanto l’altra cosa » (Enc., $ 94). Il progresso all'I. rinvia a/ di /è del
finito ma non raggiunge mai questo al di là; perciò la sua negazione del finito
è un « dover essere? che non è mai un «essere». Il vero I. scioglie questa
contraddizione: nega la realtà del finito come tale e lo risolve in sè. Il vero
I. in altri termini è ciò che è, è la realtà. Esso «è ed è determinatamente,
c’è, è presente. Solo il cattivo I. è l’al di là, essendo 490 soltanto la
negazione del finito come tale... La vera infinità presa così in generale,
quale un esserci che è posto come affermativo contro l’astratta negazione, è la
realtà in un senso più elevato che non quella che dapprima si era determinata
quale semplice realtà. La realtà ha acquistato qui un contenuto concreto. Non
il finito è reale, ma IL» (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, C;
trad. ital., pag. 161-62). In questo senso l’I. è, per usare una frase dello
stesso Hegel, la « forza dell’esistenza + (Fil. del Dir., $ 331, Zusatz), cioè
la forza per la quale la ragione abita il mondo e lo domina ed è pertanto
illimitatezza di potenza (Enc., $ ©). È ben noto l'uso che Hegel stesso e tutta
la filosofia romantica dell’800 hanno fatto di questo concetto dell’I.: esso è
servito a giustificare la realtà in quanto tale, il fatto, e a respingere la
pretesa dell’intelletto « astratto » di giudicare la realtà stessa, di opporsi
ad essa e di inserirsi in essa con un impegno di trasformazione. La nozione
della infinità di potenza infatti è quella per la quale la realtà, ogni realtà
è, in qualsiasi momento, tutto ciò che dev'essere: dato che il principio che la
regge non difetta della potenza necessaria alla propria integrale
realizzazione. 3° Il terzo concetto dell’I. è il corrispettivo metafisico del
concetto matematico tradizionale dell’I. stesso. Si è già visto che per
Aristotele l’I. non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un
fuffo; esso è parte, cioè incompiutezza e inesauribilità. Aristotele dava
pertanto torto a Melisso che aveva chiamato I. il tutto e ragione a Parmenide
che l’aveva ritenuto finito (Fis., 6, 207 a 15). Ma tali determinazioni sono
quelle che già Platone aveva riconosciuto proprie dell’I.: I. è ciò che è privo
di numero o di misura, che è suscettibile del più e del meno e perciò esclude
l'ordine e la determinazione (Fil, 24a-25b). È questo il concetto metafisico
dell’I. che fu proprio dei Greci perchè fu strettamente connesso col loro
ideale morale dell’ordine e della misura. Storicamente parlando, questo
concetto non ha superato i confini della Grecia dell’età classica. INFINITO,
GIUDIZIO (ted. Unendlich Urtei). Kant chiamò così le proposizioni in cui il
predicato è costituito da una negazione, per es., « l’anima è non-mortale »
(Logik, $ 22; Crir. R. Pura, $ 9). Il termine I. era già adoperato dalla logica
medievale per indicare i nomi negativi, per es., non-uomo (cfr. Preto Ispano,
Summ. Log., 1.04). INFLUSSO (lat. /nfluxus, Influentia; ingl. Influx; franc.
Influence; ted. Einfluss). L’azione esercitata da ciò che è incorporeo su ciò
che è corporeo. Cardano distingueva l’I. in questo senso dal mutamento che è
l’azione di un corpo su un altro corpo e dall’afffaro che è l’azione
dell’incorporeo INFINITO, GIUDIZIO sull’incorporeo e si svolge esclusivamente
nell’anima (De Subrilitate, XXI, in Opera, 1663, III, pag. 669 b670 a). Il
termine è stato adoperato per indicare: 1° l’azione determinante degli astri
sul destino e le vicende degli uomini, come mediatrice dell’azione divina
(cfr., ad es.: Cusano, De Docta Ignor., II, 12; PICO DELLA MIRANDOLA, Adv.
Astrologiam, VI, 2 e passim); 2° l’azione di governo di Dio sul mondo. In
questo senso Campanella parla dei tre « grandi I.» in cui si concreta l’azione
di Dio e che sono la necessità, il fato e l’armonia (Mer., IX, 1; Theol., I,
17, a. 1); 3° l’azione dell'anima sul corpo. In questo senso la parola fu
adoperata nei sec. XVII e xvIn. Dice Leibniz: « Volendo sostenere questa
opinione volgare dell’I. dell'anima sul corpo con l’esempio di Dio che opera
fuori di lui, si fa rassomigliare troppo Dio all’anima del mondo» (IV Lettre è
Clarke, $ 34). « Sistema dell’I. fisico » chiama questa dottrina Baumgarten (Mer.,
$ 761). E alla stessa «opinione volgare » fa cenno, per rigettarla, anche Kant
(De mundi sensibilis, etc., IV, $ 17). INFORMAZIONE. V. CIBERNETICA. INGEGNO
(lat. /ngenium; Ingl. Ingenuity, Wit; franc. Genie; ted. Witz). Riprendendo uno
dei significati tradizionali del termine, Giambattista Vico chiamò I. la
facoltà inventiva della mente umana. Egli contrappose pertanto l’I. alla
ragione cartesiana; e analogamente contrappose all’arte cartesiana della
critica fondata sulla ragione, la topica come l’arte che disciplina e dirige il
procedimento inventivo dell’ingegno. L’I. ha tanta più forza produttiva
rispetto alla ragione, quanto meno ha, nei suoi confronti, di capacità
dimostrativa (De nostri temporis studiorum ratione, $ 5). Kant a sua volta
intendeva per I. il talento cioè «la superiorità del potere conoscitivo che
dipende dalla disposizione naturale del soggetto e non dall’insegnamento » e lo
distingueva in I. comparativo e in I. logicizzante (Antr., I, $ 54). V. ToPICA.
INGENUITÀ (ingl. Naivete; franc. Nalveté; ted. Naivetàt). Nel sec. xvi questo
termine cominciò ad essere adoperato per indicare un certo modo di espressione
estetica. « L’I., diceva Kant, è l’espressione dell’originaria sincerità
naturale dell'umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda natura »
(Crit. del Giud., $ 54). L’I. non va scambiata con la franca semplicità che non
dissimula la natura solo perchè non comprende che cosa sia l’arte di vivere in
società. È piuttosto una natura che si affaccia o si rivela nell’arte stessa
(Z/bid., $ 54). A questi concetti si ispirò Schiller nel saggio Sulla poesia
ingenua e sentimentale (1795-96). « L’ingenuo, diceva Schiller, è Ia
rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per noi ciò che c’è
INQUIETUDINE di più caro e perciò ci riempie di una certa tristezza ed è
insieme quella della suprema perfezione dell’ideale che perciò ci eccita in una
sublime emozione » (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 108). Alla poesia ingenua in
questo senso si contrappone la poesia sentimentale: il poeta ingenuo è natura;
il poeta sentimentale cerca la natura (/bid., pag. 125). Fuori del dominio
dell’estetica, il termine è stato talora usato per caratterizzare le credenze
filosofiche dell'uomo comune. « Realismo ingenuo» è stato detto e si dice la
credenza comune nella realtà delle cose. E per quanto l’aggettivo abbia, in
quest’uso, un certo tono dispregiativo, la critica più recente ha mostrato che
non sempre le credenze ingenue sono le più deboli (v. REALISMO).
ININTELLIGIBILE (lat. Znexplicabilis; ingl. Unintelligible; franc.
Inintelligible; ted. Unverstîindlich). 1. Propriamente, ciò di cui non si
giunge ad afferrare il perchè nè il come; ossia ciò di cui la causa o
condizione o significato è inafferrabile: l’inesplicabile (cfr. CicER., Acad.,
II, 29, 95). Il termine ha pertanto un significato diverso e più preciso che
inconcepibile (v.) il quale indica soltanto una generica incompatibilità con la
ragione. Leibniz stesso stabiliva la differenza tra ciò che non s’intende e ciò
che è inconcepibile (Nouv. Ess., Avant propos, Op., ed. Erdmann, pag. 202). Una
differenza analoga è stabilita fra i due termini da Peirce (Chance, Love and
Logic, II, 2; trad. ital., pag. 137). 2. Detto di discorsi scritti o parlati:
oscuro, confuso, non bene esposto ai fini della comunicazione. INNATISMO (ingl.
Inratism; franc. Innatisme; ted. Nativismus). La dottrina che esistono
nell’uomo conoscenze o princìpi pratici innati, cioè non acquisiti con
l’esperienza o dall’esperienza, ed anteriori ad essa. Il modello di ogni I. è
la dottrina platonica dell’anamnesi (v.): « Poichè l’anima è immortale ed è
nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente
che essa non abbia appreso: sicchè non fa meraviglia che possa ricordare, sia
intorno alla virtù sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva » (Men., 81
c). Ma la forma con cui l’I. è passato nella tradizione filosofica è stata data
ad esso dagli Stoici. Essi ammettevano come criterio della verità, accanto alla
rappresentazione catalettica, l’anticipazione che è «la nozione naturale
dell’universale » (Dioc. L., VII, 54). Cicerone così esponeva il loro punto di
vista: « La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati da
cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo in modo da far scomparire il
lume della natura. E invero nella nostra indole sono innati i germi della
virtù, e se fosse loro possibile svilupparsi, la natura stessa ci guiderebbe ad
una vita felice» (Tusc., III, 1, 2). Questa specie 491 di I. si ricollega alla
teoria dell’istinto (v.) propria degli Stoici e viene ripresa da dottrine che
hanno l’intento di mettere al riparo dal dubbio certe credenze fondamentali di
natura teoretica o pratica. In questo senso l’I. fu ripreso dal platonismo
rinascimentale di cui si può considerare una continuazione il platonismo
inglese del sec. xvi contro le cui tesi fondamentali è diretta la critica del
primo libro del Saggio di Locke. LI. è poi ripreso in Inghilterra nel secolo
successivo dalla scuola scozzese del senso comune (v.) e cioè da Reid e Dugald
Stewart. Ma già Cartesio e Leibniz avevano dato all’I. un significato nuovo.
Per Cartesio alcune idee sono innate come «capacità di pensare e di comprendere
le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose » (Méd., III; Lettre à Mersenne,
16-vi-1641, Cuvr., III, 383). E Leibniz similmente considerava innate le verità
che si rivelano immediatamente tali al lume naturale, senza aver bisogno di
altra verifica (Nouv. Ess., I, 1, 21). In questo senso l’innatezza non era più
una specie di scultura che l’anima porta con sè nascendo, secondo l’immagine
che Cicerone aveva adoperato (De nat. deor., II, 4, 12). Al vecchio adagio
scolastico: « Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu», Leibniz
aggiungeva la limitazione « nisi ipse intellectus» intendendo dire con ciò che
l’anima dispone per suo conto di categorie, come l’essere, la sostanza, l’uno,
lo stesso, la causa, la percezione, il ragionamento, ecc.; che i sensi non
potrebbero fornirle (Nouv. Ess., II, 1, $ 2). Non grande è la distanza tra
questa forma di I. e la dottrina kantiana (che tuttavia si è soliti non
designare con questo termine) della non-derivazione dall’esperienza delle forme
a priori della conoscenza. L’I. appartiene, oggi, al novero di quelle dottrine
che non si dibattono più perchè non si dibattono più i problemi di cui esse
costituiscono le soluzioni. Nella filosofia moderna, quando si ammette che
qualcosa precede l’esperienza (come fa, per es., l'idealismo hegeliano) questo
qualcosa non è un complesso di idee o di virtualità, ma tutta la ragione o
tutto lo spirito (cfr. A PRIORI). INQUIETUDINE (ingl. Uneasiness; francese
Inquiétude; ted. Unruhe). Al termine ha dato un significato filosofico preciso
Locke, intendendo per esso il disagio del bisogno inappagato (Saggio, II, 20,
6). Nella seconda edizione del Saggio Locke vide nell’I. così intesa il movente
principale della volontà umana. « Dopo averci ripensato, diceva Locke, sono
portato a ritenere che non sia, come generalmente si pensa, il maggior bene che
si abbia in vista, bensì un qualche disagio (e per lo più quello più gravoso da
cui l’uomo sia attualmente afflitto) ciò che determina la volontà... Questo
disagio possiamo anche chiamarlo desiderio, che è 492 un disagio dello spirito
per la mancanza di qualche bene» (/bid., II, 21, 31). Leibniz accoglieva con
favore questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 20, $ 6); che fu accolta e
utilizzata anche da Condillac (Traité des sensations, I, 3, $ 2). IN SÈ (gr. aùrs; lat. In se;
ingl. In itself; francese En soi; ted. An sich). Ciò che si considera senza riferimento ad altro e
cioè: 1° indipendentemente dalle relazioni con altri oggetti; 2°
indipendentemente dalla relazione col soggetto considerante. 1° Platone e
Aristotele usano l’espressione nel primo senso. Platone parla del « bello
stesso », della «somiglianza stessa», ecc. (espressioni che di solito sono
state tradotte nelle lingue moderne come «bello in sè», «somiglianza in sè»,
ecc.) per indicare il bello, la somiglianza, ecc., fuori delle loro relazioni
con le cose che ne partecipano (Fed., 65d, 75c; Parm., 130b, 150c, ecc.).
Aristotele adopera l’espressione nello stesso senso per indicare una qualità o
una sostanza, per es., « animale » che si consideri indipendentemente dalle
relazioni con le sue specie (cfr., ad es., Mer., VII, 14, 1039 b 9). Questo
significato è anche alla base del valore che Hegel dette all’espressione
indicando con essa ciò che è astratto e immediato, privo di sviluppo, di
riflessione, di relazione. «In sè» è pertanto il concetto nella sua immediatezza,
quale è considerato dalla prima parte della logica cioè dalla Dottrina
dell’essere (Enc., $ 83), nel senso che non è per sè (v.) cioè non è risolto
nella coscienza. In tal senso Hegel dice: « Le cose si dicono essere in sè in
quanto si astrae da ogni esser per altro, il che in generale significa: in
quanto sono pensate senza alcuna determinazione o come dei nulla »
(Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, B, a; trad. ital., pag. 124).
In riferimento a questo significato Hegel usò l'espressione per indicare ciò
che è in potenza, cioè che non si è ancora sviluppato e che solo perciò può
essere considerato indipendentemente dalle relazioni con le altre cose. Il
contrario dell’iîn sè è in questo senso il per sè che è l’attualità o
l’effettualità di una cosa per cui la cosa stessa, nel suo svolgimento si
arricchisce mediante le sue relazioni con le altre. (Cfr. Geschichte der
Philosophie, I, Intr., A, 2). 2° Nell’età moderna, a cominciare da Cartesio,
l’espressione assunse prevalentemente il significato di «indipendentemente
dalla relazione col soggetto conoscente +, soprattutto nell'espressione Cosa in
sè (v.). Analogamente Sartre ha inteso per « essere in sè » l'essere oggettivo,
in quanto esterno e indipendente dalla coscienza; mentre ha chiamato la
coscienza essere per sè (L’étre et le néant, pag. 30, 115 sgg.). In senso più
ristretto, N. HartIN SÈ mann ha inteso l’essere in sè dei valori come la loro
«indipendenza dall’opinare del soggetto » (Ethik, 2% ediz., 1935, pag. 149). Un
significato, questo, abbastanza frequente nell’uso filosofico: Bolzano aveva
parlato di una «proposizione in sè », della «rappresentazione in sè» e della
«verità in sè » intendendo per « in sè » in queste espressioni il puro
significato logico-obiettivo della proposizione, della rappresentazione o della
verità, indipendentemente dal loro esser pensate od espresse
(Wissenschaftslehre, 1837, $ 19, 25, 48). INSIEME (ingl. Ser, Oggaegate; franc.
Ensemble; ted. Menge). Georg Cantor il fondatore della teoria degli insiemi, defini
l’I. come + l’aggregazione in un unico tutto di oggetti definiti e separati
della nostra intuizione o del nostro pensiero: oggetti che sono detti elementi
dell’I. » (Beitràge zur Begrilndung der Transfinite Mengenlehre, 1895, $ 1).
Questa nozione (già implicita nei precedenti lavori di Cantor, a partire dal
1878) attribuisce agli insiemi le seguenti caratteristiche: 1° L’I. esiste ogni
volta che un molteplice si lascia pensare come uno cioè ogni volta che un
molteplice può essere legato I. mediante una regola. 2° L’I. è internamente
dererminato, nel senso che, in virtù della regola che lo costituisce e del
principio del terzo escluso, si può sempre decidere se un oggetto qualsiasi
appartiene o no all’insieme stesso. 3° L’I. è una molteplicità coerente nel
senso che gli elementi di esso possono stare insieme (zusammensein) senza
contraddizione. In questo senso la «totalità di tutti gli oggetti pensabili»
non è un I. perché è contraddittoria. 4° L'esistenza dell’I. è oggertiva cioè
indipendente dal pensiero o dal linguaggio che lo esprime. 4° Come unità, l'I.
può sempre costituire l'elemento di un altro insieme. In base a tali caratteri,
Cantor paragonava VI. all’idea di Platone, che è anch'essa l’unità oggettiva di
una molteplicità (v. IpeAa). Cantor utilizzò la teoria degli I. come fondamento
del concetto dell’infinito attuale (v. INFINITO); e da Cantor in poi essa è
stata adoperata per l’assiomatizzazione della matematica. Mentre i logici in
generale non stabiliscono differenze tra I. e classe (v.), tranne che per
sottolineare il carattere astratto della classe nei confronti del carattere
concreto dell’I. (come fa per es. QuINE, From a Logical Point of View, VI, 3)
alcuni indirizzi dell’assiomatica moderna (von Neumann, Gédel), ritengono che
il concetto di I. è più ristretto di quello di classe, cioè che esistono classi
che non sono insiemi. Da questo punto di vista, mentre gli insiemi sono entità
logiche ben determinate, le classi sono estensioni di predicati, cioè totalità
aperte che possono essere continuamente arricchite mediante operazioni
astrattive effettuate sul mondo INTELLETTO degli I. (Cfr. BetH, Les fondements
logique des mathématiques, 1955, V). INSOLUBILIA. Con questo nome o con quello
di Impossibilia si chiamarono nella logica medievale a partire dal sec. x1v,
quelli che nella logica megarico-stoica erano chiamati ragionamenti ambigui o
convertibili e furono anche chiamati dilemmi (v.) e più tardi antinomie (v.).
INSTABILITÀ (ingl. Instability). Precarietà. Uno dei tratti fondamentali
dell’esistenza secondo alcune correnti contemporanee. Dice, ad es., Dewey:
«L’uomo si trova a vivere in un mondo aleatorio; la sua esistenza implica, per
dirlo crudamente, un azzardo. Il mondo è la scena del rischio: e incerto,
instabile, terribilmente instabile. I suoi pericoli sono irregolari,
incostanti, non possono essere riportati a un tempo ed a una stagione
determinata » (Experience and Nature, cap. 2). INTEGRAZIONE (ingl. Integration;
francese Intégration; ted. Integration). Questo termine ha significati specifici
diversi in diverse branche del sapere. In matematica, è il processo al limite
col quale si determina il valore di una grandezza come somma di parti
infinitesimali assunte in numero sempre crescente. In biologia, significa il
grado di unità o di solidarietà fra le varie parti di un organismo cioè il
grado nel quale tali parti sono dipendenti l’una dall’altra. Analogamente, in
psicologia significa il grado di unità o di organizzazione della personalità; e
in sociologia il grado di organizzazione di un gruppo sociale. Spencer nei
Primi Principi (1862) vedeva nell’I. una delle caratteristiche fondamentali
dell’evoluzione cosmica in quanto passaggio da uno stato indifferenziato,
amorfo e indistinto a uno stato differenziato, formato e unificato (First Principles,
$ 94). INTELLETTIBILE (lat. Intellectibilis). Ciò che non è sensibile e non ha
rapporto con ciò che è sensibile; e in questo è diverso dall’inze/ligibile (v.)
che può somigliare al sensibile o essere appreso in esso (In Porphirium I, P.
L., 64, col. 11). La distinzione, stabilita da Boezio, fu ripresa da Ugo di San
Vittore. L’I. è il divino o ciò che di divino c’è nell'uomo, per es., l'anima
(Didascalion, II, 3, 4). INTELLETTO (gr.
vodc; lat. Intellectus; inglese Understanding; franc. Intelligence; ted. Verstand). Il termine è stato
costantemente usato dai filosofi in un duplice significato e cioè: 1° in un
significato generico come facoltà di pensare in genere e 2° in un significato
specifico come una particolare attività o tecnica del pensare. In questo
secondo significato il termine è stato inteso a sua volta in tre modi diversi e
cioè: a) come I. intuitivo; b) come I. operativo; c) come I. comprendente o
intelligenza. 493 1° Platone e Aristotele definiscono in generale l’I. come
facoltà di pensare. Platone infatti dà il nome di I. all’attività che pensa
(Sof., 248 e-249 a) e che pertanto dà limiti, ordine e misura alle cose (Fil.,
30c; Tim., 48 a) e chiama pensiero (vénoic) l’insieme della scienza e della
dianoia cioè le attività superiori dell'anima in quanto contrapposte alla
congettura e alla credenza, raccolte insieme sotto il nome di opinione (Rep.,
VII, 534 a). A sua volta Aristotele dichiara di intendere per I. «ciò per cui
l’anima ragiona e comprende » (De An., INI, 4, 429a 23). Questo significato
generico era d’altronde già stato dato al termine da Parmenide (Fr. 16, Diels)
e da Anassagora (Fr. 12, Diels). Ed è ovvio che tutti coloro che, come
Anassagora, Platone e Aristotele, attribuirono all’I. la funzione di ordinatore
dell’universo lo intesero, non come una specifica attività o tecnica, ma nel
significato più generico di attività pensante cioè capace di scegliere,
coordinare e subordinare. La stessa contrapposizione, così frequente negli
antichi e già presente nella sua forma estrema in Parmenide (Fr. 8, Diels) tra
l’I. ed i sensi, implica che all’I. si attribuisca il significato generico di
facoltà di pensare. Analogamente la sostanzializzazione che l’I. subisce ad
opera del neoplatonismo è quella della facoltà di pensare in genere, in tutte
le sue molteplici forme (confronta, per es., PLOTINO, Enn., III, 8, 9-10).
Questo significato generico si è conservato nella tradizione filosofica fino al
Romanticismo. San Tommaso lo esprimeva contrapponendo l’I. ai sensi, «Il nome
di I., egli diceva, implica una certa conoscenza intima; infelligere è quasi un
leggere dentro (intus legere). Questo è evidente a chi considera la differenza
tra I°I. e i sensi: la conoscenza sensibile concerne le qualità sensibili
esterne, la conoscenza intellettiva penetra sino all’essenza della cosa » (.S.
7A., II, 2, q. 8, a. 1). Dall'altro lato lo stesso significato generico si ha
quando il termine è contrapposto a volontà, come accade, per es., in Locke: «La
capacità di pensare è ciò che si chiama I. e la capacità di volere è ciò che si
chiama volontà: due capacità o disposizioni dell’anima alle quali si da il nome
di facoltà» (Saggio, II, 6, 2). Leibniz a sua volta intendeva per I. «la
percezione distinta unita alla facoltà di riflettere, che non c'è nell’anima
delle bestie » (Nouv. Ess., II, 21, 5). Questa nozione fu poi assunta da Wolff
(Psychol. empirica, $ 275). La definizione dell’I. come «facoltà di pensare» è
un luogo comune nel *700; e Kant non fa che ripeterlo. L’I. è per Kant «la
facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile », (Crit. R. Pura,
Logica, Intr., I) o «il potere di conoscere in generale » (Antr., I, $ 6, 40).
494 Ma improvvisamente, con il Romanticismo, l’I. cessa di avere il valore di
facoltà di conoscere in generale: si scopre la «immobilità » dell’intelletto.
Questa scoperta viene per la prima volta effettuata da Fichte. «L’I., egli
dice, è I. solo in quanto qualcosa è fissato in esso; e tutto ciò che è fissato
è fissato soltanto nell’intelletto. L’I. si può definire come l’immaginazione fissata
dalla ragione o come la ragione provvista di oggetti dall’immaginazione. L’I. è
una facoltà spirituale in riposo, inattiva, è il puro ricettacolo di ciò che è
stato prodotto dall’immaginazione ed è stato determinato o è ancora da
determinare dalla ragione » (Wissenschaftslehre, 1794, II, Deduzione della
rappresentazione, III; trad. ital., pag. 184). Ma colui che ha fatto prevalere
nella filosofia la nozione di un I. « immobile », « rigido », « astratto » è
stato Hegel: « Come I., egli dice, il pensiero si ferma alla determinazione
rigida e alla differenza di essa verso altre: questo prodotto astratto e
limitato vale per l’I. come per sè stante ed esistente » (Enc., $ 80). L’I. è
caratterizzato dall’immobilità delle sue determinazioni: esso « determina e
tiene ferme le determinazioni » (Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1 ediz.;
trad. ital., pag. 5). Questa immobilizzazione è una falsificazione, come appare
chiaro nel modo in cui l’I. intende il rapporto tra infinito e finito, dando
luogo al « cattivo infinito ». « La falsificazione che l’I. intraprende con il
finito e l’infinito consistente nel tener ferma come una diversità qualitativa
la relazione dell’uno con l’altro, nell’affermarli nella loro determinazione
come separati e precisamente come separati in maniera assoluta, si fonda sulla
dimenticanza di quel che è per l’I. stesso il concetto di questi momenti »
(/bid., I, I, sez. I, cap. 2, C, c.; traduzione ital., I, pag. 157). In tal
modo il « fissare », « l’immobilizzare +, il «tener fermo», il « determinare
assolutamente » divengono le operazioni con cui si descrive l’attività dell’I.:
al quale viene contrapposta come attività autentica del pensiero la ragione,
che toglie la fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali e le
fluidifica e relativizza. Questa contrapposizione diventa un luogo comune in
buona parte della filosofia dell’800: l’I. pertanto decade dal suo rango di
facoltà di pensare per assumere quello secondario o subordinato di facoltà del
pensare astratto cioè del falso pensare. La persistenza di questo luogo comune,
privo di qualsiasi seria giustificazione, si può vedere nel fatto che ai
princìpi del ’900 Bergson riproponeva nell’Evoluzione creatrice (1907) la
critica dell’I., ritenuto, secondo lo schema hegeliano, come la facoltà che ha
per oggetto specifico ciò che è immobile, inerte, rigido e morto e che pertanto
è radicalmente incapace di comINTELLETTO prendere il movimento e la vita. In
tal modo alla contrapposizione hegeliana I.-ragione veniva sostituita la
contrapposizione I.-vita o I.-coscienza, che ha ispirato e ancora ispira alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea. Tuttavia, anche al di fuori di
queste antitesi stereotipate, la nozione dell’I. come facoltà di pensare in
generale non ricorre più nella filosofia contemporanea nella quale essa è stata
piuttosto sostituita dalla nozione di pensiero o ragione (v.). 2° Il
riconoscimento del significato generico di I. è andato talora congiunto e
talora no col ricoscimento di un significato specifico. Si possono distinguere
tre interpretazioni fondamentali della funzione specifica dell’I. e cioè: a)
l’/. intuitivo; b) 1°I. operativo; c) ’I. comprendente o intelligenza. a) La
nozione dell’I. intuitivo fu elaborata da Aristotele. Per Aristotele l’I.,
oltre che essere in generale la facoltà « per cui l’anima ragiona e comprende
», è anche una particolare virtù dianoetica, cioè un abito razionale specifico.
Come tale, è la facoltà di intuire i princìpi delle dimostrazioni: princlpi che
non possono essere appresi nè dalla scienza, che è soltanto un abito
dimostrativo nè dall’arte e dalla saggezza che concernono « le cose che possono
essere altrimenti », cioè che sono prive di necessità (Er. Nic., VI, 6, 1140b
31 sgg.). Oltre che tali « definizioni prime », l’I. ha anche il compito di
intuire «i termini ultimi» cioè i fini ai quali dev'essere subordinata l’azione
(/bid., VI, 11, 1143 b). Ed insieme con la scienza, l’I. costituisce la
sapienza « che è insieme scienza e I. delle cose più eccelse per natura +»
(/bid., VI, 7, 1151b 2) e che è perciò la più alta realizzazione dell’uomo.
Questa funzione specifica dell’I., di intuire i princìpi comuni del
ragionamento, fu ammessa da San Tommaso (S. 7%., I, q. 8, a. 1) e da molti
altri scolastici, accanto a quella generica del « pensare». Kant a sua volta
esplicitamente distingueva dall’I. nel senso generico un I. come facoltà
specifica che sta accanto al giudizio e alla ragione. «La parola I., egli
diceva, viene intesa anche in un senso più particolare quando viene
subordinato, come membro di una divisione, all’I. inteso in senso più generale
cioè alla facoltà superiore di conoscere costituita da /, giudizio e ragione»
(Antr., I, $ 40). In questo senso specifico, l’I. è la facoltà di giudicare; e
il giudizio che gli compete è il giudizio determinante, cioè il giudizio le cui
leggi entrano a costituire l’oggetto naturale in generale (e precisamente la
forma di tale oggetto). Queste leggi sono all’I. « prescritte a priori +, cioè
date nel suo stesso funzionamento (Crif. R. Pura, Analitica dei concetti, sez.
I; Critica del Giudizio, Intr., $ IV). In questo senso specifico, come facoltà
di giudicare, l’I. non è intuitivo nel senso di esINTELLETTO ATTIVO sere in
rapporto diretto con l’oggetto: esso anzi è in rapporto mediato con l’oggetto
perchè, in quanto giudizio su una rappresentazione è, secondo l’espressione di
Kant, «la rappresentazione di una rappresentazione ». Ma è intuitivo nello
stesso senso in cui è intuitivo l’I. specifico di Aristotele: è in rapporto
immediato con leggi o principi fondamentali che entrano a costituire
l’organizzazione della scienza e la struttura dei suoi oggetti. La differenza
tra il punto di vista aristotelico e il punto di vista kantiano si può
esprimere nel modo seguente. Dal punto di vista aristotelico l’I. ha il compito
di formulare i princìpi primi che vengono utilizzati dalla scienza
dimostrativa, e di percepirne l’evidenza. Dal punto di vista kantiano, l’I.
nell’effettuare il suo compito, che è quello di giudicare, mette in opera i
princìpi che lo costituiscono anche senza bisogno di formularli esplicitamente.
Queste due alternative sono le sole che si sono storicamente presentate
nell’interpretazione dell’I. come facoltà intuitiva specifica. b) La concezione
operativa dell’I. è stata presentata da Bergson, che l’ha innestata sul
concetto romantico dell’I. inteso come facoltà dell’immobile. Da questo punto
di vista, l’I. è «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare
utensili per fare utensili, e di variarne indefinitamente la fabbricazione »
(Evol. créatr., 1911, 83 ediz., pag. 151). Essa è pertanto la soluzione di un
problema che, su un altra linea evolutiva, ha portato all’istinto: inteso,
quest’ultimo come la facoltà di utilizzare strumenti organizzati. Data la sua
funzione operativa, l’intelligenza tende a cogliere non le cose, ma i rapporti
fra le cose, perciò non la materia di esse ma la loro forma; ha per oggetto
principale il solido inorganico cioè immobile ed è caratterizzata da una
incomprensione naturale del movimento e della vita (/bid., pag. 179). Questa
analisi di Bergson ha influenzato largamente la filosofia contemporanea, la
quale, nelle sue correnti spiritualistiche e idealistiche, ha spesso utilizzato
le conclusioni di essa per affermare che «1’I. astratto » è, tutt’al più,
efficace nel dominio della scienza che è conoscenza anch'essa « astratta » ma
che poco o nulla vale nel dominio della conoscenza effettiva, che sarebbe
quella filosofica. Ma anche fuori di queste intenzioni denigratorie che
involgono insieme l’I. e la scienza, la funzione operativa dell’I. cioè la
funzione per cui esso è la capacità di affrontare con successo le situazioni
biologiche, sociali, ecc., in cui l’uomo viene a trovarsi è rimasta a
caratterizzare l’I. stesso; nel quale pertanto difficilmente si può oggi
scorgere un organo puramente teoretico. Il pragmatismo ha contribuito
certamente alla formazione di questo punto di vista, che è diventato un luogo
comune della filosofia contemporanea. 495 c) Il terzo significato specifico di
I. è quello per cui esso significa comprensione e per il quale la parola
intelligenza è più appropriata (com'è più appropriato in francese la parola
entendement e in tedesco Verstehen). Questa accezione del termine può a sua
volta essere articolata in due significati. a) Un significato comune e generico
per il quale intendere significa afferrare il significato di un simbolo, la
forza di un argomento, il valore di un’azione, ecc. In tutti questi casi la
parola esprime la possibilità di effettuare correttamente un'operazione determinata.
Per es., l’intelligenza di un segno consiste nella possibilità di effettuare
correttamente, cioè in base all’uso stabilito o alla regola opportuna, il
riferimento del segno al suo referente. L'intelligenza di un argomento
consisterà nella possibilità di effettuare il collegamento tra le sue parti in
modo tale che l’argomento risulti probante, ecc. L'intelligenza, in questi
casi, ha significati tanto diversi fra loro come sono diversi gli oggetti o le
situazioni cui si fa riferimento. In generale tutto ciò che può dirsi da questo
punto di vista è che l’intelligenza designa una certa capacità di inserirsi nel
contesto di tali situazioni e di orientarsi in esso. B) Un significato più
ristretto e specifico per il quale l’intelligenza significa la comprensione di
un certo tipo di oggetti, per es., di un uomo o di una situazione storica. Per
tale significato del termine, v. COMPRENDERE. INTELLETTO ATTIVO (gr. vods
romtiés; lat. Intellectus Agens; ingl. Active Intellect; francese Intellect
Actif; ted. Active Intellekt). Nozione di origine aristotelica che ha dato
luogo ad un problema a lungo dibattuto dai commentatori antichi di Aristotele,
dalla Scolastica araba, dalla Scolastica cristiana e dall’Aristotelismo
rinascimentale. Il problema nasce dalla distinzione aristotelica tra I.
potenziale e I. attuale. « Come in tutta la natura, dice Aristotele, c'è
qualcosa che fa da materia a ciascun genere e qualcosa invece che è causalità e
attività, anche nell'anima devono necessariamente esserci queste due cose diverse.
Difatti da un lato c'è I’I. che ha la potenzialità di essere tutti gli oggetti,
dall’altro c’è l’I. che li produce, il quale ultimo si comporta come la luce:
anche questa infatti fa passare all’atto i colori che sono solo in potenza.
Questo I. è separato e impassibile e senza mescolanza, perchè la sua sostanza è
l’atto stesso + (De an., III, 5, 430a 10). Aristotele aggiunge che soltanto
questo I. attuale e attivo è «immortale ed eterno ». Di qui il problema:
appartiene tale I. all'anima umana o fa parte, per la sua incorruttibilità,
eternità e attualità perfetta, della stessa divinità? Tre sono state le
soluzioni 496 principali di questo problema, e precisamente le seguenti: 1° La
separazione dell’I. attivo dall’anima umana. È questa la soluzione difesa
nell’antichità dal commentatore di Aristotele, Alessandro di Afrodisia (sec. m)
che identificò l’I. attivo con la causa prima cioè con Dio; e ritenne proprio
dell’anima umana: a) l’I. fisico o materiale (ilico) che è l’I. potenziale,
simile all'uomo che è capace di apprendere un’arte ma non è ancora in possesso
di essa; 5) l’I. acquisito (imiximitéo, adeptus) che è il perfezionamento o il
compimento del precedente cioè l’insieme delle abilità proprie nell'uomo
educato ed è simile all’artista che è giunto a possedere la sua arte (De an.,
I, ed. Bruns., pag. 138-39). Questa soluzione, negando all’anima umana il solo
I. immortale ed eterno che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità
dell’anima stessa, dall’altra accentua la dipendenza dell’attività intellettuale
umana dai sensi. Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia. La
riprende infatti il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. rx), Al Farabi (sec.
rx) e Avicenna (sec. x1): il quale ultimo tuttavia non riteneva questa
soluzione contraria all’immortalità dell’anima giacchè ammetteva che la
dipendenza dell’anima dall’I. attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo
la separazione dell’anima dal corpo e bastasse a dare all’anima l’immortalità
(De an., 10). Ammettevano egualmente questa dottrina Avempace (secolo x) e Mosé
Ben Maimon (sec. x) il più famoso dei filosofi giudaici del Medioevo (Guide des
égarés, I, 50-52). L’ammetteva pure Ruggero Bacone (Opus Maius, ed. Bridges,
pag. 143). Nel Rinascimento, la stessa soluzione veniva difesa da Pietro
Pomponazzi: che insisteva sulle condizioni sensibili del funzionamento dell’I.
umano e riteneva impossibile la dimostrazione dell’immortalità (De
Immortalitate animae, 9). 2° La separazione dell’I. attivo e dell’I. passivo
dall’anima umana. Questa fu la soluzione proposta da Averroè. L’I. materiale o
ilico, che i sostenitori della precedente soluzione attribuivano all’uomo,
viene anch’esso ritenuto da Averroè separato dall’anima umana. Nell’anima
umana, l’I. materiale non è che una semplice disposizione comunicata dall’I.
attivo; e precisamente una disposizione ad astrarre dalle immagini sensibili i
concetti e le verità universali. All’uomo non rimane pertanto, che l’I.
acquisito, che Averroè chiama pure speculativo e consiste nella conoscenza delle
verità universali (De an., fol. 165 a). Questa dottrina divenne tipica
dell’averroismo medievale: fu difesa da Sigieri di Brabante (sec. x11) nello
scritto De anima intellectiva (edito in Mandonnet, Siger de Brabante et
l’averrolsme latin au XIII‘ siècle, II, Lovanio, 1908). Numerpsi seguaci ebbe
questa soluzione nelINTELLETTUALISMO l’aristotelismo del Rinascimento (cfr.
BRUNO NARDI, Sigierì di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, 1945).
3° L’unità dell’I. attivo e passivo con l’anima umana. Questa tesi fu sostenuta
nel sec. Iv dal commentatore di Aristotele, Temistio (De an., 103, 6; trad.
ital., pag. 233) in polemica con Alessandro e più tardi (sec. vi) dall’altro
commentatore Simplicio, anch’egli neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. xi, durante
la polemica contro l’averroismo che si svolse nella scolastica latina di quel
tempo. Alberto Magno e S. Tommaso polemizzano contro la separazione
averroistica e alessandristica dell’I. dall’anima umana. Essi ammettono bensì
che c’è al di sopra dell'anima umana l’I. separato di Dio; ma ritengono che
l’uomo partecipa di questo I. e che l’I. attivo fa parte della sua anima come
unaluce che è accesa in questa dall’I. divino (ALBERTO, De intellectu et
intelligibili, II, 1-2; S. Tommaso, S. Th., I,q.79,a. 4). Contro uno scritto di
Sigieri era probabilmente diretto il De unitare intellectus contra Averroistas
di S. Tommaso; al quale è a sua volta una risposta lo scritto De anima
intellectiva di Sigieri. La principale obiezione di S. Tommaso è che, se l’I. fosse
una sostanza separata, non sarebbe l’uomo stesso a intendere ma tale sostanza;
al che Sigieri risponde che l’I. agisce nell’uomo, non come un motore ma
operans in operando cioè come principio direttivo della sua attività. Nel
Rinascimento, fu soprattutto Marsilio Ficino a difendere l’unità dell’I. con
l’anima umana (7heologia platonica, XV, 14). Il problema dell’I. attivo è
specifico dell’aristotelismo e non ha senso fuori di esso. Pertanto, cessa di
essere dibattuto quando l’aristotelismo cessa di fornire il quadro generale
della filosofia. Già tra la fine del sec. xm e i principi del x1v ci sono
filosofi che esplicitamente negano l’I. attivo ed evitano quindi di proporsi il
problema relativo. Durando di S. Pourgain dice che, come non si pone un « senso
attivo », così è inutile porre un I. attivo (In Sent., I, d. 3, q. 5, 26); e
Ockham afferma che la funzione di astrarre, per la quale s’invoca l’I. attivo,
si svolge naruraliter cioè come un effetto delle nozioni sensibili e non
richiede l’I. attivo, la cui nozione rimane pertanto poggiata solo
sull’autorità di santi e filosofi (Z Senr., II, q. 25). Questo punto di vista è
senz'altro prevalso sin dai princìpi della filosofia moderna, che abbandona
completamente la nozione in esame. INTELLETTUALISMO (ingl. Intellectualism;
franc. Intellectualisme; ted. Intellektualismus). Con questo termine Hegel
designava la filosofia di Plotino, interpretando l’estasi come uscita dalla
coscienza sensibile e « puro pensare ». « L'idea della filosofia plotiniana,
egli diceva, è dunque un I. o INTENSIONE E ESTENSIONE un superiore idealismo
che certamente dal lato del concetto non è ancora idealismo perfetto»
(Geschichte der Philosophie, I, sez. III, Plotino; trad. ital., III, pag. 41).
Il termine è ora usato polemicamente dalle filosofie della vita e dell’azione
per designare l’indirizzo ad esse contrario cioè quello per il quale
l'intelletto (o il pensiero o la ragione) ha una funzione dominante nella
conoscenza e nella condotta dell’uomo. Questo termine è stato frequentemente
usato dall’intuizionismo bergsoniano, dalla filosofia dell’azione, dal
modernismo, dal pragmatismo cioè da tutte quelle filosofie le quali tendono a
svalutare il valore dell’intelletto come via d'accesso alla verità o come guida
della condotta e a ritenere assai più importante l'intuizione, la simpatia,
l'istinto, la vita, la volontà, ecc. Talvolta il termine è stato contrapposto a
vo/ontarismo (v.) per indicare la prevalenza attribuita all’intelletto sulla
volontà; ed è stato in questo senso adoperato anche allo scopo di
caratterizzare storicamente certi punti di vista. Si è parlato così dell’I. di
S. Tommaso e del volontarismo di Duns Scoto, alludendo al diverso peso che
hanno, per questi filosofi, le due attività umane fondamentali. Si tratta
tuttavia di significati e caratterizzazioni poco precisi. INTELLIGIBILE (gr.
vontéc; lat. /ntelligibilis; ingl. Intelligible; franc. Intelligible; ted.
Intelligibel). In generale, l'oggetto dell’intelletto. Aristotele aveva detto «
tutti gli enti sono o sensibili o I. » (De An., III, 8, 431b 21). L'I. è
l’oggetto dell’intelletto come il sensibile è l'oggetto dei sensi. Questa
simmetria viene mantenuta da tutti i filosofi che ammettono la distinzione tra
sensibilità e intelletto. Platone chiamò I. la sfera del conoscere che
comprende la dianoia e la scienza, in quanto distinta dalla sfera dell’opinione
che comprende la congettura e la credenza (Rep., VII, 534 a). Per il
neoplatonismo, il mondo I. comprende le tre prime ipostasi, cioè l’Uno,
l’Intelletto e l’Anima del mondo (PLoTINO, Enn., II, 9, 1). Secondo Kant, il
mondo I. è quel mondo di cui l’uomo fa parte come « attività pura » cioè in
quanto non è influenzato dalla sensibilità ma agisce in base alla spontaneità
della ragione. « Da una parte, dice Kant, l’uomo, in quanto appartenente al
mondo sensibile, è sottomesso alle leggi della natura; dall’altra parte, come
appartenente al mondo I. è sottomesso a leggi che sono indipendenti dalla
natura, quindi non empiriche, ma fondate unicamente nella ragione» (Grundlegung
zur Metaphysik der Sitten, IID. In questo senso il mondo I. è il mondo morale.
In senso più specifico, I. si dice ciò che può essere inteso o compreso,
corrispondentemente ai significati 2°, c, di Intelletto (v.). INTENDIMENTO. Lo
stesso che Intelligenza Iv. INTELLETTO, 2°, c)]. 32 — Annaanano, Dizionario di
filosofia. 497 INTENSIONE e ESTENSIONE (ingl. /ntension and Extension; franc.
Intension et extension; ted. Sinn und Bedeutung). Questa coppia di termini fu
introdotta da Leibniz per esprimere la distinzione che la Logica di Portoreale
aveva espresso con la coppia comprensione-estensione (v.)e la logica di Stuart
Mill esprimerà con la coppia connotazione-denotazione (v.). Dice Leibniz: «
L'animale comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più
forme; l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più
estensione l’altro ha più I.» (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9). L’uso di questi due
termini fu adottato da Hamilton: « L’interna quantità di una nozione, la sua /.
o comprensione è costituita dai differenti attributi di cui il concetto è la
somma, cioè dai vari caratteri connessi dal concetto stesso in un singolo tutto
pensato. La quantità esterna di una nozione o la sua estensione è costituita
dal numero di oggetti che sono pensati mediatamente attraverso il concetto »
(Lecrures on Logic, 2* ediz., 1866, I, pag. 142). L’uso di questi due termini
prevale anche nella logica contemporanea, che li ha riferiti alla distinzione
stabilita da Frege tra senso e significato. « Pensando ad un segno, aveva detto
Frege, dovremo collegare ad esso due cose distinte: e cioè non soltanto
l’oggetto designato, che si chiamerà significato di quel segno, ma anche il
senso del segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato » (4
Ùber Sinn und Bedeutung», 1892, $ 1; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag.
218). Ovviamente, l’oggetto è l’estensione, il senso è l’intensione. La
distinzione viene ripetuta o presupposta da quasi tutta la logica
contemporanea. L’I. di un termine è definita da Lewis come «la congiunzione di
tutti gli altri termini ciascuno dei quali deve essere applicabile a ciò cui il
termine è correttamente applicabile ». In tal senso l’I. (o connotazione) è
delimitata da ogni corretta definizione del termine e rappresenta l’intenzione
di chi lo usa, perciò il significato primo di « significato ». L'estensione,
invece, o denotazione di un termine è la classe delle cose reali alle quali il
termine si applica (Lewis, Analysis of Knowledge and Valuation, 1950, pag.
39-41). Le stesse determinazioni sono date da Quine: l’I. è il significato, la
estensione è la classe delle entità alle quali il termine può essere attribuito
con verità (From a Logical Point of View, II, 1). Analogamente sono usati gli
aggettivi inrersionale ed estensionale: quest’ultimo essendo applicato a punti
di vista che prendono in considerazione la denotazione delle proposizioni e
prescindono, per quanto è possibile, dai loro significati intensionali. D'altra
parte, l’aggettivo intensionale, soprattutto applicato al calcolo delle
proposizioni o delle fun498 zioni proposizionali (v.) significa che si prende
in considerazione la modalità delle proposizioni da cui invece prescinde la
considerazione estensionale che si limita a prendere in esame le funzioni di
verità delle proposizioni stesse (CARNAP, Logica! Syntax of Language, $ 67;
RUSSELL, Inquiry into Meaning and Truth, 1940, cap. 19) (v. ESTENSIONALITÀ,
TESI DELLA). INTENZIONALITÀ (lat. Intentionalitas;
inglese /ntentionality; franc. Intentionnalité; ted. Intentionalitàt). Il
riferimento di un qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sè: per es., di
un’idea o rappresentazione alla cosa pensata o rappresentata, di un atto di
volontà o di amore alla cosa voluta od amata, ecc. La nozione è stata dapprima
adoperata nei confronti dell’attività pratica: donde il significato, ancor oggi
prevalente, della parola intenzione (v.) che designa appunto il riferirsi della
attività pratica al suo oggetto. Il neoplatonismo arabo l’ha per la prima volta
estesa a designare il rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto, chiamando
intenzioni i concetti. Avicenna, nel determinare la differenza tra la logica e
le scienze reali, affermò che mentre queste ultime hanno per oggetto le prime
intenzioni (intensiones primo intellectae) cioè concetti che si riferiscono a
cose reali, la logica ha per oggetto le seconde intenzioni (intentiones secundo
intellectae) cioè concetti che si riferiscono ad altri concetti (Mer., I, 2).
Alberto Magno riproduceva questa distinzione (In Mer., I, 1, 1), che diveniva
familiare ai filosofi del sec. xm. S. Tommaso, a sua volta, considerava
l’intenzione come «la similitudine della cosa pensata » (Contra Gent., IV, 11):
talvolta distinguendola dalla specie intelligibile per la sua indifferenza
all’assenza o alla presenza dell’oggetto e per il suo astrarre dalle condizioni
materiali senza le quali quest’ultima non esiste in natura (/bid., I, 53);
talvolta invece identificandola con la stessa specie intelligibile (S. 77., I,
q. 85, a. 1, ad 4°). Ma il concetto di I. non acquistò un rilievo proprio se
non quando tra la fine del sec. xmi e il principio del sec. xIV si cominciò a
mettere in dubbio la dottrina della specie (v.) come intermediaria della
conoscenza e si cessò di vedere nell’atto conoscitivo una « similitudine + cioè
una copia o immagine della cosa. Durando di S. Pourgain affermava che l’oggetto
stesso, e non la specie, è presente al senso e all’intelletto (Ir Sent., II, d.
3, q. 6, n. 10). E Pietro Aureolo osservava a questo proposito che, se la
specie fosse l’oggetto del conoscere, questo sarebbe non la realtà ma solo
l’immagine di essa. Aureolo perciò riteneva che l’oggetto della conoscenza
fosse la stessa cosa nel suo essere intenzionale od obiettivo, cioè assunta
come termine dell’I. conoscitiva (In Sent., I, d. 23, a. 2). L’esse
intentionale o esse apparens, INTENZIONALITÀ come anche Aureolo lo chiama, è il
manifestarsi della cosa all’I. conoscitiva della mente (/bid., I, d. 9, a. 1).
Questo sembrava ad Ockham ancora un inutile schermo tra l’intelletto e la cosa
(/n Sent., I, d. 27, q. 3 CC). Per Ockham l’atto conoscitivo è un infentio nel
senso che si riferisce direttamente alla cosa significata. Come intenzione, il
concetto non è che un segno che sta in luogo di una classe di oggetti: uno
qualsiasi dei quali può essere sostituito al concetto stesso nei giudizi e
ragionamenti nei quali ricorre (/bid., I, d. 23, q. 1, D; Quodl., IV, q. 35;
Summa Log., I, 12). L'I., come riferimento all’oggetto, era stata in tal modo
ridotta, dalla scolastica medievale, al riferimento del segno al suo designato;
e per molto tempo cessa di essere utilizzata come nozione autonoma. Soltanto
nel sec. x1x, Francesco Brentano riesumava questa nozione per assumerla come
caratteristica dei fenomeni psichici (Psychologie vom empirischen Standpunkt,
1874). Questi si possono classificare secondo le caratteristiche della loro I.,
cioè del loro riferimento all’oggetto: nella rappresentazione, l’oggetto è
semplicemente presente, nel giudizio viene affermato o negato, nel sentimento
viene amato od odiato. Tutti e tre questi atti si riferiscono ad un «oggetto
immanente» e sono atti intenzionali; ma la loro I., cioè il loro riferimento
all’oggetto, è diverso per ciascuno di essi. Dapprima Brentano ritenne che
l’oggetto dell’I. potesse essere indifferentemente reale o irreale; in seguito,
nella X/assification der psychischen Phinomene (1911) affermò che l’oggetto
dell’I. è sempre reale e che il riferimento ad un oggetto irreale è indiretto
cioè effettuato per il tramite di un soggetto che affermi o neghi l’oggetto
stesso. A_ queste idee di Brentano si ispirava Husserl assumendo la nozione di
I. non più come contrassegno dei fenomeni psichici intesi come un gruppo di
fenomeni che coesistano insieme con altri fenomeni detti fisici, ma come la
definizione dello stesso rapporto tra il soggetto e l’oggetto della coscienza
in generale. Dice Husserl a questo proposito: «La caratteristica delle
esperienze vissute (Erlebnisse) che può essere indicata addirittura come il
tema generale della fenomenologia orientata oggettivamente, è l’intenzionalità.
Essa rappresenta una caratteristica essenziale della sfera delle esperienze
vissute in quanto tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità...
L'I. è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di
indicare la corrente dell’esperienza vissuta come corrente di coscienza e come
unità di coscienza » (Ideen, I, $ 84). In seguito Husserl stesso ha parlato di
«intenzionalità fungente » per la quale l’esperienza vissuta si riferisce non
soltanto al suo oggetto ma anche a se stessa ed è perciò consapevolezza di
INTERESSE sè (v. FUNGENTE). Comunque, nell’ambito della fenomenologia l’I.
veniva assunta come la caratteristica fondamentale della coscienza; e come tale
essa è rimasta in buona parte della filosofia contemporanea e specialmente
nella fenomenologia e nell’esistenzialismo (v. Coscienza). Il concetto di
rascendenza (v.), mediante il quale Heidegger ha definito il rapporto tra
l’uomo e il mondo, non è altro che una generalizzazione della intenzionalità.
Dice Heidegger: « Se si considera ogni rapportarsi all’ente come intenzionale,
allora l’I. è possibile solo sul fondamento della trascendenza; ma, si badi
bene, nè I. e trascendenza si identificano nè questa si fonda in quella» (Vom
Wesen des Grundes, I; trad. ital., pag. 24). INTENZIONE (lat. /ntentio; ingl.
Intention; franc. Intention; ted. Gesinnung). Propriamente, l’intenzionalità
nel dominio pratico cioè il riferimento di un’attività pratica (desiderio,
aspirazione, volontà) al suo proprio oggetto. In questo significato
l’intenzionalità dell’atto morale può essere riconosciuta da qualsiasi dottrina
morale. Tuttavia l’insistenza sul valore dell’I. come condizione della moralità
è uno dei tratti caratteristici dell’etica del fine, in quanto distinta
dall’etica del movente (v. Etica). Nell’etica del movente infatti la moralità
dell’azione si giudica sul fondamento della sua efficienza a produrre il
benessere, la felicità, ecc. Nell'’etica del fine, invece, la bontà dell’azione
si misura sul fondamento della direzione che il soggetto imprime all’azione,
che è per l'appunto l’intenzione. San Tommaso giustamente dice a questo
proposito che «l’I. è il nome dell’atto della volontà, essendo presupposto
l’ordinamento della ragione che ordina qualche cosa ad un fine +; e che «l’I.
appartiene primariamente e principalmente a ciò che muove verso un fine » per
cui essa è propriamente «l’atto della volontà » (S. 7%., II, 1, q. 12, a. 1).
In questo senso l’I. è propria dell’etica del fine. Pertanto la nozione di essa
non si trova nell’etica aristotelica nella quale l’analisi dell’atto morale è
fatta in base a un'etica del movente; e non si trova in tutte le etiche dello
stesso genere, per es., nell’utilitarismo. Dall’altro lato, soprattutto la
morale teologica tende ad insistere sul valore dell’intenzione. Abelardo
diceva: « Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si
fanno; e il merito ed il valore di colui che agisce non consiste nell’azione ma
nell’I. » (Scito te ipsum, 3). La stessa morale kantiana, soprattutto nei suoi
aspetti di predicazione laica ed edificatoria, insiste fortemente sul valore
dell’I.: l’esaltazione della « buona volontà » con cui s’inizia la Fondazione
della metafisica dei costumi è in realtà un’esaltazione dell’intenzione. E la
prima parte della Critica della Ragion Pratica 499 si conclude anch'essa con
l'esaltazione della «I. veramente morale e consacrata immediatamente alla legge
». Per contro, la differenza tra l’etica dell’I. e l’etica oggettiva è stata
ben espressa da Max Weber: « Nella sfera della condotta personale vi sono
problemi etici specifici che l’etica non può risolvere sulla base dei suoi
propri presupposti. C’è anzitutto la fondamentale questione: a) se l’intrinseco
valore della condotta etica — la ‘ pura volontà * o ‘1’I.* come si suole
chiamarla — basti alla sua giustificazione secondo la massima cristiana: “il
cristiano agisce bene e lascia a Dio le conseguenze della sua azione” o 5) se
la responsabilità delle conseguenze prevedibili dell’azione dev'essere presa in
considerazione. Ogni atteggiamento politicamente rivoluzionario e specialmente
il sindacalismo rivoluzionario, hanno il loro punto di partenza nel primo
postulato; ogni politica realistica nel secondo. Entrambi invocano massime
etiche. Ma queste massime sono tra loro in eterno conflitto, un conflitto che
non può essere risolto per mezzo della sola etica + (« Der Sinn der
Wertfreiheit der soziologischen und 6konomischen Wissenschaften », 1917; trad.
ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 16). L’etica moderna e
contemporanea, in quanto è prevalentemente un’etica del movente (v. Erica) dà
la prevalenza a quello che Weber ha chiamato il secondo postulato. Dall'altro
lato lo scetticismo assai diffuso nella filosofia contemporanea circa la
possibilità di conoscere, con sufficiente probabilità, ciò che accade
nell’intimo della coscienza individuale, ha condotto la psicologia del
comportamento a considerare l’I. come l'operazione (o la parte di una
operazione) che costituisce l’esecuzione di un piano o progetto di condotta. In
questo caso la frase «Ho l’I. di vedere Giacomo significa semplicemente che
sono impegnato nella esecuzione di un piano di cui è parte l’incontro con
Giacomo (MILLER, GALANTER, PRIBRAM, Plans and the Structure of Behavior, 1960,
pag. 61). INTERAZIONE. TRANSAZIONE. INTERESSANTE (ingl. Interesting; franc.
Intéressant; ted. Interessant). Kierkegaard ha sottolineato l’importanza di
questo concetto, considerato da lui come « una categoria limite ai confini
dell’estetica e dell’etica e perciò come la categoria del punto critico ».
Socrate fu, per es., il più I. degli uomini che siano vissuti e la sua vita la
più I. delle vite vissute. Ma quella esistenza gli fu assegnata dalla divinità
e nella misura in cui dovette conquistarla da sè, dovette conoscere pene e
dolori (Furcht und Zittern, in Werke, III, 131). INTERESSE (ingl. Interest;
franc. Intérét; tedesco Interesse). La partecipazione personale ad V. AZIONE
RECIPROCA; 500 una situazione qualsiasi e la dipendenza che ne deriva per la
persona interessata. Si tratta di un concetto moderno, che Kant utilizza nel
dominio dell’estetica, allo scopo di affermare il carattere « disinteressato »
del piacere estetico. Dice Kant: « È detto I. il piacere che noi congiungiamo
con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha
sempre relazione con la facoltà di desiderare o in quanto causa determinante di
esso o in quanto necessariamente attinente a tale causa. Ma quando si tratta di
giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro
importi o possa importare la sua esistenza, ma solo come la giudichiamo
contemplandola » (Crit. del Giud., $ 2). Hegel a sua volta definendo l’I. come
« il momento dell’individualità soggettiva e della sua attività » intendeva con
esso la presenza del soggetto all’azione (Enc., $ 475). La nozione di I. è
stata soprattutto utilizzata nel dominio della pedagogia. L’I. è qui la
partecipazione dell’educando al sapere, per la quale il sapere appare all’educando
stesso come utile. Era stata questa una delle regole proposte per l’educazione
nell’Emilio di Rousseau. Ma è stato Herbart a utilizzare sistematicamente la
nozione di 1., indicando come fine dell’educazione la plurilateralità degli
interessi. Secondo Herbart, 1’I. sta in mezzo tra l’essere spettatore dei fatti
e l’intervenirvi; è, in altri termini, una partecipazione non ancora totalmente
attiva o impegnata. L’I. poi si distingue dal desiderio in quanto, mentre
l’oggetto di quest’ultimo non esiste ancora, l’oggetto dell’I. è già presente e
reale (A//gemeine Pidagogik, 1873, lI, 1, 2, $ 3). Fra i pedagogisti
contemporanei Dewey ha insistito sul valore dell’I., definendolo come
«l'accompagnamento dell’identificazione, attraverso l’azione, dell'io con qualche
oggetto o idea, per via della necessità di tale oggetto od idea per il
mantenimento dell’autoespressione » (Educational Essays, ed. by J. J. Findlay,
pag. 89). Da questo punto di vista, lo sforzo, che si suole talvolta, in
pedagogia, contrapporre all’I., implica una separazione tra l’io e l'oggetto
che deve essere appreso o padroneggiato. I caratteri dell’I. sono, secondo
Dewey, l’attività, la proiettività e la propulsività. Per il primo, l’I. è
dinamico cioè spinge all’azione. Per il secondo, l’I. ha il proprio fine fuori
di sè, in qualche oggetto o scopo al quale esso si attacca. Per il terzo, l’I.
significa una realizzazione interna o un sentimento di valore (/bid., pag.
90-91). Questa concezione dell’I., che è uno dei punti focali della pedagogia
di Dewey, ha fortemente influenzato la teoria e la pratica dell'educazione in
tutti i paesi dell'Occidente. INTERFENOMENO (ingl. Interphenomenon). Termine
creato da H. Reichenbach per indicare gli INTERFENOMENO eventi subatomici non
osservabili cioè non immediatamente inferibili dall’osservazione: per es., il
movimento di un elettrone o di un raggio luminoso dalla sorgente sino
all’incontro con un'altra materia. « Eventi di questa specie vengono introdotti
attraverso catene di inferenze di tipo molto più complicato. Essi sono
costruiti sotto forma di un’interpolazione entro il mondo dei fenomeni, e la
distinzione tra fenomeni e I. è l’analogo, nella meccanica quantistica, della
distinzione tra cose osservate e quelle non osservate» (Philosophic Foundations
of Quantum Mechanics, I, 6). INTERIORITÀ. V. ESTERIORITÀ. INTERMUNDI (gr.
peraxsopia; lat. Inter mundia). Gli spazi fra i mondi, nei quali, secondo
Epicuro, abitano gli Dei (Diog. L., X, 89; CiceRONE, De Div., II, 17, 40; De
nat. deor., 16-19). INTERPRETANTE, INTERPRETE (inglese Interpretant,
Interpreter). Nella semiotica contemporanea, i due termini significano
rispettivamente: la disposizione a rispondere a un segno e colui (in generale
l’organismo) che adopera il segno o si esprime con esso (Morris, Foundations of
a Theory of Signs, $ 3) (v. SEMIOTICA). INTERPRETAZIONE (gr. tpunvela; lat.
Znterpretatio; ingl. Interpretation; franc. Interprétation; ted.
Interpretation, Auslegung). In generale, la possibilità di riferire un segno al
suo designato; o anche l’operazione con cui un soggetto (interprete) riferisce
un segno al suo oggetto (designato). Aristotele chiamò I. il libro in cui
studiava il rapporto dei segni linguistici con i pensieri e dei pensieri con le
cose. Egli infatti considerava le parole come «segni delle affezioni dell'anima
che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti che sono
identici per tutti» e considerava inoltre come soggetto attivo di questo
riferimento l’anima o l’intelletto (De Interpr., 1, 16 a, 1 sgg.). Boezio, per
il tramite del quale la dottrina è passata nella Scolastica latina, intendeva
per I. «qualsiasi voce che significa qualcosa di per se stessa » includendo
perciò fra le I. i nomi, i verbi e le proposizioni ed escludendone le
congiunzioni, le preposizioni e in generale i termini del discorso che non
significano nulla di per se stessi. Il riferimento del segno al suo designato
era perciò, per lui, l’essenziale dell’interpretazione. (In librum de interpr.
editio prima, I, in P.L., 64, col. 295). In questa concezione, l’I. è il
riferimento dei segni verbali ai concetti (le « affezioni della mente +) e dei
concetti alle cose. Le caratteristiche della dottrina possono essere così
fissate: 1° l’I. è un evento che accade «nell'anima» cioè un evento mentale; 2°
il segno verbale o scritto è diverso dall’affezione della mente o concetto e si
riferisce a INTROIEZIONE questo; 3° il rapporto tra il segno verbale e il
concetto è arbitrario e convenzionale mentre il rapporto tra il concetto e
l’oggetto è universale e necessario. Questi capisaldi sono rimasti per lungo
tempo immutati. Nonostante gli sviluppi che la teoria dei segni ha ricevuto
dalla logica stoica, medievale e moderna, la dottrina dell’I. ha continuato a
considerare per molto tempo il processo interpretativo come proprio dell’anima
o della mente cioè come un processo mentale. Solo nella filosofia contemporanea
si è prospettata un’altra alternativa, secondo la quale esso è un abito o
comportamento. Per quanto non manchi anche oggi chi consideri l’I. un processo
mentale (C. K. OpGEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1952 [1 ediz.,
1923], pag. 57; Ducasse, in Journal of Symbolic Logic, 1939, n. 4), la
semiotica americana ha presentato l’altra dottrina fondamentale dell’I. che è
quella comportamentistica. I presupposti di questa dottrina si trovano
nell’opera di Carlo Peirce, che intese l’I. come un processo triadico,
intercedente fra un segno, il suo oggetto, il suo interpretante, intendendosi
per quest’ultimo il rapporto tra il primo e il secondo termine (Coll. Pap.,
5.484). Per quanto in Peirce rimangono ancora molti presupposti della vecchia
dottrina, egli intese l’I., non come un atto semplicemente mentale, ma come un
abito d’azione cioè come la risposta abituale e costante che l'interprete del
segno dà al segno stesso (/bid., 5.475 sgg.). Questo è il punto di vista che
Carlo Morris ha fatto prevalere nella semiotica contemporanea (Foundations of a
Theory of Signs, 1938; Signs, Language and Behavior, 1946). Da questo punto di
vista l’I. ha i seguenti caratteri: 1° non è (o non è soltanto) un abito
mentale ma un comportamento (v.) cioè la risposta oggettivamente osservabile e
costante di un organismo ad uno stimolo; 2° non esiste differenza tra segni
mentali e segni verbali, nel senso che i primi siano suscettibili di un’I.
necessaria e gli altri no; 3° il riferimento dei segni ai loro oggetti non è nè
necessario nè arbitrario, ma è determinato dall’uso (nei linguaggi comuni) o da
convenzioni opportune (nei linguaggi speciali). Le notazioni precedenti
concernono la teoria dell’I. nella semiotica (v.). Bisogna però osservare che
la parola ha, nel linguaggio scientifico e filosofico odierno, usi specifici
diversi, che solo indirettamente si possono riportare a quello chiarito. Si
parla di I. nella scienza quando si fa corrispondere a un sistema assiomatico
un determinato modello (v. ASsioMaATIZZAZIONE, MODELLO): cioè un esempio
concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal
sistema assiomatico. In questo senso la geometria ordinaria può 501 essere l’I.
di un certo sistema assiomatico, per es., dell’assiomatica di Hilbert. Un altro
uso del termine è quello che si fa nelle discipline storiche, quando si parla
dell’I. di un certo evento o complesso di eventi o di un periodo. In questo
caso ’I. è un aspetto della scelta storiografica; e consiste nella scelta delle
caratteristiche storiche che si assumono come dominanti e centrali, rispetto
alle quali le altre vengono a situarsi in un rango subordinato e secondario. In
questo senso si parla, per es., di I. materialistica della storia, quando si
assumono come primari e fondamentali gli aspetti materiali (o economici) della
storia stessa (v. StoRrIOGRAFIA). L’I. può avere altri sensi specifici in altri
campi di ricerca e può avere anche quello di spiegazione (come quando si parla,
per es., dell’I. di un fenomeno fisico o, come faceva Bacone Nov. Org., I, 26)
della natura in generale. Indipendentemente da tutti i significati richiamati,
Heidegger l’ha definita come lo sviluppo e la realizzazione effettiva della
comprensione: « L’I. non è la presa di cognizione del compreso, ma
l’elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione » (Sein und
Zeit, $ 32). Questo concetto non è utilizzabile per l’analisi dell'uso del
termine nei vari campi. INTERROGAZIONE MULTIPLA (gr. 16 tà melo tpotiuata Ev
rotetv; modvtanthote; lat. Plurium interrogationum fallacia; ted.
Heterozetesis). Una delle fallacie extra dictionem enumerate da Aristotele e
precisamente quella che consiste nella riduzione di parecchie domande a una
sola, giocando così sull’unicità della risposta che l’avversario è tentato di
dare (ARIST., EI. .Sof., 30, 181 a 30; Pretro Ispano, Sumun. Logicales,
7.627.64; JunGIus, Logica Hamburgensis, VI, 12, 16; GENOVESI, Ars
Logico-critica, V, 11, 12; ecc.) (v. FALLACIA). INTERSOGGETTIVO (ingl.
/ntersubjective; franc. Intersubjectif; ted. Intersubjektiv). Termine usato
nella filosofia contemporanea per designare: 1° ciò che concerne i rapporti tra
i vari soggetti umani, come quando si dice « esperienza I. +; 2° ciò che è
valido per un soggetto qualsiasi, come quando si dice «concetto I.+ o «verifica
I.» (v. UNIVERSALE, 2). INTIMISMO (franc. Intimisme). L'atteggiamento che
consiste nel concentrarsi sulle proprie vicende interiori. Si dice soprattutto
di poeti e letterati, e in senso leggermente dispregiativo di filosofie che
intendono la filosofia come una specie di autobiografia mascherata (v.
EGOCENTRISMO; EGOTISMO). INTRINSECO. V. EstRINSECO. INTROIEZIONE (ingl.
/ntrojection; ted. Introjektion). Termine introdotto da Riccardo Avenarius
(Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) per 502 designare il processo col quale,
falsificando l’esperienza, si riduce l’oggetto a una rappresentazione interna
dell’io e si ammette che anche gli altri individui hanno una simile
rappresentazione interna. Tale processo, che è una interiorizzazione
dell’oggetto, dà origine alla divisione ingannevole tra esperienza interna ed
esperienza esterna, mentre l’esperienza, secondo Avenarius, è una sola ed è
sempre un rapporto diretto tra un oggetto e un organismo. INTROSPEZIONE (ingl.
Introspection; francese /ntrospection; ted. Introspektion). L’auto-osservazione
interiore cioè l'osservazione che l’io fa dei propri stati interni. Il termine
fu messo in uso dalla psicologia dell’800, che indicò con esso il metodo
psicologico fondamentale, ritenuto insostituibile sino all'avvento del
comportamentismo (v.). Comte aveva elevato contro l’I. un’obiezione di
principio: « L’individuo pensante, aveva detto, non può dividersi in due, di
cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare. L’organo osservato e
l’organo osservatore essendo in questo caso identici, come potrebbe
l'osservazione aver luogo?» (Cours de phil. positive, 1830, I, Sez. I, $ 8).
Comte aveva concluso perciò all’impossibilità della psicologia e l’aveva
espunta dalla sua enciclopedia delle scienze. Nel 1868, Peirce rispondeva
negativamente alla questione «se abbiamo una facoltà di I.» e concludeva che
«il solo modo di investigare una questione psicologica è l’inferenza dai fatti
esterni» (Coll. Pap., 5.244-249; 7.418 sgg.). Questa conclusione di Peirce è il
primo accenno dell’avviarsi dell'indagine psicologica verso il comportamentismo
(v.). INTUIZIONE (gr. emo; lat. Insuitus, Intuitio; ingl. Intuition; franc.
Intuition; ted. Anschauung). Il rapporto diretto (cioè privo di intermediari)
con un oggetto qualsiasi: rapporto che perciò implica la presenza effettiva
dell’oggetto. Così l’intuito è stato costantemente inteso nella storia della
filosofia, a cominciare da Plotino che usa il termine per designare la
conoscenza immediata e totale che l’Intelletto divino ha di sè e dei suoi
propri oggetti (Enn., IV, 4, 1; IV, 4, 2). In questo senso l’I. è una forma di
conoscenza superiore e privilegiata; giacchè ad essa, come alla visione sensibile
su cui si modella, l’oggetto è immediatamente presente. Boezio parlava dell’
intuito divino » che è il colpo d’occhio con cui Dio abbraccia le cose senza
mutarle (Phil. Cons., V, 6). E S. Tommaso diceva riferendosi a Dio: «Il suo
intuito verte su tutte le cose in quanto sono davanti a lui nella loro
presenzialità» (S. 7A., I, q. 14, a. 13; cfr. q. 14, a. 9). La conoscenza
divina si distingue per questo suo carattere dalla conoscenza umana, che
procede componendo e INTROSPEZIONE dividendo cioè mediante atti successivi di
affermazione e negazione (/bid., I, q. 85, a. 5). Il carattere intuitivo della
conoscenza divina si contrappone qui al carattere discorsivo della conoscenza
umana (v. DIANOIA; DISCORSIVO). Ma già la filosofia medievale adoperò il termine
per indicare una forma particolare e privilegiata della stessa conoscenza umana
e in primo luogo la conoscenza empirica. Ruggero Bacone diceva che «l’anima non
s’acqueta nell’inzuito della verità se non la trova per via dell'esperienza»
(Opus Maius, VI, 1). Duns Scoto privilegiava come conoscenza intuitiva
(cognitio intuitiva) quella che « si riferisce a ciò che esiste o a ciò che è
presente in una certa esistenza attuale +, distinguendola dalla conoscenza
astrattiva (v. ASTRATTIVA) che astrae dall’esistenza attuale (Op. Ox., II, d.
3, q. 9, n. 6). Questa nozione veniva accettata da Durando di S. Pourgain (In
Sent., Prol., q. 3 F) e da Ockham che, come Bacone, identificava la conoscenza
intuitiva con l’esperienza (/n Sent., Prol., q. 1 Z). Da questo momento in poi,
e fino a Kant, il significato specifico del termine è per l'appunto quello di
esperienza (v.). Ma nello stesso tempo il termine conserva il suo significato
generico di rapporto immediato con un oggetto qualsiasi. In tal senso Cartesio
parlava dell’intuito evidente (evidens intuitus) come di una delle due vie che
conducono alla conoscenza certa (l’altra è la « deduzione necessaria +):
intendendo per esso l’apprensione immediata di un qualsiasi oggetto mentale. «
L’intuito della mente, egli diceva, si estende sia alle cose, sia alla
conoscenza delle loro reciproche connessioni necessarie, sia infine a tutto ciò
che l’intelletto sperimenta con precisione in se stesso o nell’immaginazione »
(Regulae ad directionem ingenii, 12). Nello stesso senso, Locke chiamava
intuitiva la conoscenza che percepisce la concordanza o la discordanza tra due
idee immediatamente, cioè senza l’intervento di altre idee (Saggio, IV, 2, 1);
e chiamava I., proprio per la sua immediatezza, la conoscenza che abbiamo della
nostra propria esistenza (Ibid., IV, 9, 3). Ancora nel medesimo senso Leibniz
diceva che si conoscono per I. le «verità primitive» sia di ragione sia di
fatto (Nouv. Ess., IV, 2, 1), cioè le verità che l’intelletto apprende o
possiede senza la mediazione di altre. Questo significato veniva accettato da
Stuart Mill: «Le verità, egli diceva, ci sono conosciute in due modi: alcune
sono conosciute direttamente o di per se stesse; altre attraverso la mediazione
di altre verità. Le prime sono oggetto dell’I. o coscienza; le seconde
dell’inferenza » (Logic, Intr., $ 4). Kant a sua volta si riferiva al senso
tradizionale del termine affermando che «l’I. è la rappresentazione quale
saINTULZIONE rebbe per la sua dipendenza dall’immediata presenza dell’oggetto »
(Pro/., $ 8). L’I. è perciò in generale per Kant la conoscenza alla quale
l’oggetto stesso è direttamente presente. Ma Kant distingue una I. sensibile e
una I. intellettuale. L’I. sensibile è quella di ogni essere pensante finito, a
cui l’oggetto è dato: essa è perciò passività, affezione (Crit. R. Pura, Anal.
dei concetti, sez. I). L’I. intellettuale è invece originaria e creativa; è
quella per la quale l’oggetto stesso è posto o creato ed è perciò propria
soltanto dell’Essere creatore, di Dio (/bid., $ 8, in fine; passim). L’I.
intellettuale, è, in altri termini, l’intuito divino della filosofia
tradizionale: la presenza dell’oggetto a questo intuito è inevitabile e
necessaria perchè l’oggetto è creato dall’intuito stesso. Questa distinzione
kantiana fu conservata dal Romanticismo, ma solo allo scopo di rivendicare per
l’uomo II. intellettuale o creativa che Kant e gli antichi riservavano a Dio. E
la cosa s'intende: giacchè, per i Romantici, la conoscenza umana è la stessa
conoscenza con cui lo Spirito assoluto o creatore conosce se stesso, o è almeno
un aspetto o un momento di essa. Così Fichte intende per I. intellettuale «la
coscienza immediata che io opero e di ciò che io opero e che è ciò per cui l’Io
sa in quanto fa» (Werke, I, pag. 463). A sua volta Schelling afferma che «la
filosofia trascendentale dev'essere costantemente accompagnata dall’I.
intellettuale » e che l’io stesso è « una continua I. intellettuale » in quanto
« produce se stesso ». « Come senza l’I. dello spazio, egli aggiunge, sarebbe
assolutamente incomprensibile la geometria, perchè tutte le sue costruzioni non
sono che forme e maniere svariate per limitare quell’I., così pure senza l’I.
intellettuale sarebbe impossibile la filosofia perchè tutti i suoi concetti non
sono che limitazioni diverse del produrre che ha per oggetto se stesso cioè
dell’I. intellettuale » (System der transzendentalen Idealismus, sez. I, cap.
I; trad. ital., pag. 39). Hegel a sua volta identificava I. e pensiero. «Il
puro intuire, egli diceva, è il medesimo del puro pensare... Fede e I. debbono
essere prese in senso più alto, come fede in Dio, come I. intellettuale di Dio:
vale a dire si deve astrarre proprio da ciò che forma la differenza dell’I. e
della fede dal pensiero. Non si può dire che fede e I. trasportate in questa
più alta regione siano ancora diverse dal pensiero » (Enc., $ 63). La stessa
tesi è sostenuta da Schopenhauer che identifica intelletto e I. e pretende che
anche le connessioni logiche siano ridotte ad elementi intuitivi (Die Welt, I,
$ 15). Allo stesso ceppo di concetti appartiene la nozione di un’I. come
ricorre in Rosmini, quale apprensione immediata dell’idea dell’essere in
generale (Nuovo saggio, $ 1159; Antropologia, $ 40, 505; Psicologia, 503 $ 13).
E sebbene Gioberti polemizzasse con Rosmini circa il carattere indeterminato e
vuoto dell’idea dell’essere, accettava tuttavia la nozione di intuito come
rapporto immediato, totale e nccessario della mente umana con Dio e con la sua
azione creatrice (/ntr. allo studio della fil., II, pag. 46). Questa era ancora
e sempre una « I. intellettuale ». Ma è un'I. intellettuale anche l’I. di cui
parla Bergson per quanto carica di polemica anti-intellettualistica o
anti-razionalistica. Essa infatti, come organo proprio della filosofia,
possiede i caratteri della romantica I. intellettuale: un rapporto immediato o
diretto con la realtà assoluta, cioè con la durata della coscienza o con lo
slancio creativo della vita. L’I., dice Bergson, « è la visione dello spirito
da parte dello spirito ». «I. significa dapprima coscienza ma coscienza
immediata, visione che si distingue appena dall’oggetto visto, conoscenza che è
contatto e perfino coincidenza » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag.
35-36). Gli stessi caratteri formali possiede l’I. eidetica o I. delle essenze
di cui parla Husserl: «L'essenza è un oggetto di nuova specie, egli dice. Come
il dato dell’I. individuale empirica è un oggetto individuale, così il dato
dell’I. eidetica è un’essenza pura. Non si tratta di un’analogia esterna, bensì
di una radicale affinità. Anche l’I. eidetica è un’I. come l’oggetto eidetico è
un oggetto. La generalizzazione dei concetti correlativi ‘ I.’ e ‘oggetto ’ non
è arbitraria ma richiesta necessariamente dalla natura delle cose» (/deen, I, $
3). Infine, l’I. che Croce identifica con l’arte ha gli stessi caratteri
formali: è conoscenza originaria e immediata che perciò non distingue tra reale
e irreale; ha carattere o fisionomia individuale ed esprime direttamente
l’oggetto (Estetica, cap. 1). Ricapitolando i caratteri comuni e quelli
differenziali che I’I. ha rivestito nella storia della filosofia, si possono
fissare i primi nel modo seguente. L’I. è un rapporto con l’oggetto
caratterizzato: 1° dalla immediatezza del rapporto stesso; 2° dalla presenza
effettiva dell’oggetto. Costantemente, in base a questi caratteri, l’I. è
considerata come una forma di conoscenza privilegiata. D’altra parte, i suoi
caratteri differenziali possono essere distinti così: 1° l’I. può essere
riservata a Dio e considerata come la conoscenza che il creatore ha delle cose
create; 2° può essere attribuita all'uomo e considerata come l’esperienza in
quanto conoscenza immediata di un oggetto presente e in questo senso non è che
percezione (v.); 3° può essere attribuita all'uomo e considerata una conoscenza
originaria e creativa nel senso romantico. Tutte e tre queste alternative hanno
perduto buona parte del loro interesse nella filosofia contemporanea. La prima
infatti appartiene alla sfera delle specula504 zioni teologiche. La seconda
tende ad essere sostituita dal concetto dell’esperienza come metodo o come
insieme di metodi (v. EspeRrIENZA). La terza è strettamente legata alla
metafisica del Romanticismo (vecchio e nuovo) e sta e cade con esso. Nel 1868
Peirce sottoponeva a critica il concetto di I., negando: 1° che essa potesse
servire a garantire il riferimento immediato di una conoscenza al suo oggetto;
2° che essa potesse costituire la conoscenza evidente che l’Io ha di se stesso;
3° che potesse rendere capaci di distinguere gli elementi soggettivi di conoscenze
differenti. Nello Stesso tempo, Peirce affermava l'impossibilità di pensare
senza segni e di conoscere senza ricorrere al legame reciproco delle conoscenze
medesime (Coll. Pap., 5.213-263). Queste negazioni e affermazioni di Peirce
sono state e sono largamente accettate dalla filosofia contemporanea. All’I.
oggi fanno appello, più che i filosofi, gli scienziati e in particolare i
matematici o i logici quando vogliono sottolineare il carattere inventivo della
loro scienza. Diceva Claude Bernard: «L’I. o sentimento genera l’idea o
l'ipotesi sperimentale cioè l’interpretazione anticipata dei fenomeni della
natura. Tutta l’iniziativa sperimentale è nell’idea giacchè essa sola provoca
l’esperienza. La ragione o il ragionamento servono solo a dedurre le conseguenze
di questa idea e a sottoporle all’esperienza » (Zntr. d l’étude de la médecine
expérimentale, 1865, I, 2, $ 2). Poincaré ripeteva, con riferimento alle
matematiche, ciò che Bernard aveva detto a proposito delle scienze
sperimentali: « Con la logica si dimostra, ma solo con l’I. si inventa... La
facoltà che ci insegna a vedere è l'intuizione. Senza di essa, il geometra
sarebbe come uno scrittore forte in grammatica ma privo di idee » (Science et
méthode, 1909, pag. 137). Nelle matematiche l’esigenza logica porta secondo
Poincaré all’impostazione analitica, quella intuitiva all'impostazione
geometrica. « Così, la logica e l’I. hanno ciascuna il suo compito. Entrambe
sono indispensabili. La logica, che sola può dare la certezza, è lo strumento
della dimostrazione: l’I. è lo strumento dell’invenzione » (La valeur de la
science, 1905, pag. 29). In questo senso, come è stato talora osservato, l’I.
ha più un carattere negativo che positivo: essa anticipa ciò che mon risulta
dall’osservazione empirica o non può essere dedotto dalle conoscenze già
possedute. Non sembra designare, pertanto, che un certo grado di libertà del
ricercatore e non ha niente a che fare con il significato filosofico
tradizionale del termine. Ad esso invece si riconduce l’uso che fanno del
termine i matematici intuizionisti (v. INTUIZIONISMO, 49). INTUIZIONE DEL MONDO
(ted. Weltanschauung). Sulla filosofia come «I.» o « visione del INTUIZIONE DEL
MONDO mondo », v. FiLosoria. K. Jaspers ha scritto una Psicologia delle visioni
del mondo, distinguendo l’immagine spazio-sensoriale del mondo, quella psichico
culturale e quella metafisica (Psychologie der Weltanschauungen, 1925; trad.
ital., Roma, 1950). INTUIZIONISMO (ingl. Intuitionism; francese Intuitionnisme;
ted. Intuitionismus). Con questo termine vengono indicati atteggiamenti
filosofici o scientifici diversi che hanno in comune il ricorso all’intuizione
nel senso più generale del termine. In particolare, vanno sotto il nome di I. i
seguenti indirizzi: 1° la filosofia scozzese del senso comune in quanto ammette
che la filosofia si fonda su certe verità primitive e indubitabili, conosciute
per intuizione (v. SENSO COMUNE); 2° la dottrina di Bergson secondo la quale
l’intuizione è l’organo proprio della filosofia; 3° la dottrina di N. Hartmann
e di Scheler secondo la quale i valori sono oggetto di un’intuizione che
s’identifica col sentimento (v. VALORE); 4° l’indirizzo matematico fondato da
L. E. J. Brouwer e che si ispira alle idee di Leopoldo Kronecker (1923-91): il
quale riteneva dato all’intuizione umana il concetto di numero naturale
asserendo che i numeri naturali li ha fatti Dio e gli altri li ha fatti l’uomo.
Le tesi tipiche dell'I. di Brouwer sono le seguenti: 1° l’esistenza degli
oggetti matematici è definita dalla possibilità di costruzione degli oggetti
stessi: perciò « esistono + solo enti matematici che si possono costruire; 2°
il principio del terzo escluso non è valido rispetto a proposizioni in cui
ricorre il riferimento a grandezze infinite; 3° le definizioni impredicative non
sono valide. Il rigetto del principio del terzo escluso implica il rigetto
della doppia negazione quindi del metodo della prova indiretta. Questo metodo è
invece a fondamento dell’indirizzo formalistico della matematica, patrocinato
da Hilbert; e in conformità di esso basta a stabilire l’esistenza di un’entità
matematica la dimostrazione che essa non implica contraddizione (cfr. A.
HerTING, Mathematische Grundlagenforschung, Intuitionismus und Beweistheorie,
Berlin, 1934). INVARIANTE (ingl. Invariant; franc. Invariant; ted. Invariante).
Una proprietà costante: più in particolare, nella teoria dei gruppi, una
proprietà che rimane la stessa sotto un gruppo di trasformazioni (v. GRUPPO;
TRASFORMAZIONE). INVENZIONE (ingl. Invention; franc. Invention; ted. Erfindung).
«Inventare qualcosa, disse Kant, è del tutto diverso dallo scoprire. La cosa
che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non era ancora
conosciuta, come l’America prima di Colombo; quella invece che si inventa, come
la polvere da sparo non esisteva affatto prima di colui che la inventò» (Antr.,
I, $ 57). La capacità inventiva si chiama, tradizionalmente, genio (v.). I
problemi relativi all’I. assumono aspetti diversi nei vari campi. Nella logica
sono stati talora dibattuti a proposito della ropica (v.) o dell’intuizione
(v.). Nell’arte a proposito del genio (v.). INVOLGERE (lat. Involvere; ingl.
Involve; ted. Involvieren). Implicare, contenere. Così Spinoza diceva,
riferendosi alla Causa prima, che «la sua essenza involge l’esistenza» (Er., I,
Def. 1). Il termine corrisponde esattamente all’ingl. To entail, usato per
indicare l’implicazione stretta o formale. V. IMPLICAZIONE. INVOLUZIONE (lat.
/Involutio; ingl. Involution; franc. Involution; ted. Involution). 1. L’opposto
di evoluzione. La parola fu adoperata da Kant per indicare la teoria biologica
opposta a quella della preformazione individuale, teoria che egli chiamava
dell’evoluzione (Crit. del Giud., $ 81). Oggi, col nome di I. si indicano i
fenomeni opposti a quelli di evoluzione cioè i fenomeni regressivi
dell'evoluzione. A. Lalande ha sostenuto la tesi che il progresso in ogni campo
dipende, non dal passaggio dall’omogeneo all’etereogeneo, come voleva Spencer,
ma dal passaggio dall’etereogeneo all’omogeneo che è la dissoluzione o I.
(L’idée directrice de la Dissolution opposée a celle de l'Évolution dans la
méthode des sciences physiques et morales, 1898, 28 ediz., col titolo Les
Illusions évolutionnistes, 1931). 2. Nella logica simbolica, il procedimento
che corrisponde all’elevazione a potenza dell’aritmetica (cfr. PEIRCE, Coll.
Pap., 3.614-15). IO (lat. Ego; ingl. /, Self; franc. Moi; ted. Ich). Questo
pronome, con cui l’uomo designa se stesso, è diventato oggetto di
investigazione filosofica dal momento in cui il riferimento dell’uomo a se
stesso, come riflessione su di sè o coscienza, è stato assunto a definizione
dell’uomo. Ciò è avvenuto con Cartesio; e da Cartesio appunto il problema
dell’io è stato per la prima volta posto in termini espliciti. « Che cosa
dunque sono io?, chiedeva Cartesio. Una cosa che pensa. Ma che cos'è una cosa
che pensa? È una cosa che dubita, concepisce, afferma, nega, vuole o non vuole,
immagina e sente. Certo non è poco se tutte queste cose appartengono alla mia
natura. Ma perchè non le apparterrebbero?... È di per sè evidente che sono io
che dubito, che intendo e che desidero e che non c'è bisogno di aggiungere
nulla per spiegarlo » (Med., II). Come si vede la posizione del problema
dell’io è qui subito accompagnata dalla sua soluzione: l’io è coscienza cioè
rapporto con se stesso, soggettività. Questa è la prima delle interpretazioni
storicamente date dell’io. Possono poi enumerarsi le altre interpretazioni
seguenti: IO 505 l'io come autocoscienza; l’io come unità; l’io come rapporto.
1° La definizione cartesiana dell’io come coscienza fu immediatamente accolta e
incorporata nella tradizione filosofica. Locke la faceva sua e la rielaborava
allo scopo di giustificare una caratteristica formale dell’io: l’unità o
identità. Egli diceva: « Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo, tocchiamo,
meditiamo o vogliamo una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade
sempre nel caso delle nostre sensazioni e percezioni attuali; e in tal modo
ognuno è a se stesso ciò che egli chiama se stesso: e in questo caso non si
prende in considerazione il fatto che il medesimo io si continui nelle stesse
sostanze o in sostanze diverse. Poichè la consapevolezza sempre accompagna il
pensiero ed essendo quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se
stesso e in tal modo distingue se stesso da tutte le altre cose pensanti, in
ciò solo consiste l’identità personale » (Saggio, II, 27, 11). In altri
termini, secondo Locke, l’identità dell'io non è fondata sull’unità o
semplicità della sostanza-anima ma unicamente sulla coscienza; ed è, anzi,
questa coscienza in quanto si riconosce nella diversità delle sue
manifestazioni. Leibniz, pure insistendo sulla importanza di quella che egli
chiamava coscienza o sentimento dell’io, non riteneva che essa sola costituisse
l’identità personale e vi aggiungeva « l’identità fisica e reale » (Nouv. Ess.,
II, 27, 10). Questo punto di vista si trova frequentemente espresso nella
filosofia moderna e contemporanea, che talora ha accentuato il carattere attivo
o volitivo della coscienza. Così ha fatto, per es., Maine de Biran. «La
causalità o la forza cioè l’io, egli ha detto, resa manifesta a se stessa
mediante il suo solo effetto o il sentimento immediato dello sforzo che
accompagna ogni movimento o atto volontario, è precisamente come il primo
raggio diretto, la prima luce che la vista interiore della mente coglie» (Nouv.
Ess. d’Anthropologie, II, 1). L’io è così, per Maine de Biran, la coscienza
originaria dello sforzo. Ma la migliore espressione della dottrina dell’io come
coscienza è stata data da Kant. Diceva Kant: «Io, come pensante, sono un
oggetto del senso interno, e mi chiamo anima. Ciò che è oggetto del senso
esterno si chiama corpo. Pertanto l’espressione io, come essere pensante,
designa già l’oggetto della psicologia che può dirsi la dottrina razionale
dell’anima, quando io dell'anima non voglio sapere più di quanto,
indipendentemente dall’esperienza (la quale mi determina più da vicino e in
concreto) può essere concluso da questo concetto dell’io presente in ogni
pensiero » (Crir. R. Pura, Dialettica, II, cap. 1). Accanto a quest’io come
«oggetto del senso interno » cioè coscienza (cfr. Prol., $ 46) Kant am506 mette
poi un’altra specie di io che segna il passaggio a una seconda interpretazione
di questo concetto. L’interpretazione dell’io come coscienza è rimasta
frequente nella filosofia moderna e contemporanea. Diceva Rosmini: « La parola
io al concetto generale dell’anima unisce ancora la relazione dell’anima a se
stessa, relazione di identità; ella contiene dunque un secondo elemento
distinto dal concetto dell’anima, è un’anima che percepisce se stessa, si
pronuncia, si esprime » (Psicol., $ 6). 2° L’'interpretazione dell’io come
Autocoscienza nasce dalla distinzione che Kant aveva fatto tra l'io come
oggetto della percezione o del senso interno e l’io come soggetto del pensiero
o dell’appercezione pura, cioè l’io della riflessione (Antr., I, $ 4, nota;
cfr. AUTOCOSCIENZA). Questa distinzione che in Kant non avrebbe mai potuto
condurre ad una sostanzializzazione metafisica dell’io, data la funzionalità
che Kant attribuisce all’io stesso, doveva essere assunta, da Fichte, come
punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto, L’io della riflessione o
della appercezione pura è. secondo Kant, la condizione ultima del conoscere;
Fichte ne fa il creatore della realtà. «In quanto è assoluto, egli dice, l’Io è
infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è
(per esso; ma al di fuori di esso non c’è nulla). Ma tutto ciò che esso pone,
esso lo pone come Io; ed esso pone l’Io come tutto ciò che esso pone. Quindi,
in questo riguardo, l’Io abbraccia in sè tutta la realtà, cioè una realtà
infinita ed illimitata» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, II; trad. ital,
pag. 207). Queste tesi venivano fatte proprie e amplificate da Schelling per
opera del quale divennero una delle espressioni caratteristiche del
Romanticismo. Nello scritto L’Zo come principio della filosofia o
l’incondizionato nel sapere umano (1795), egli identifica l’Io di Fichte con la
Sostanza di Spinoza. « Io sono diventato spinozista, scriveva in occasione di
questo scritto Schelling a Hegel; vuoi sapere come? Per Spinoza il mondo è
tutto, per me tutto è l’Io ». E per quanto Hegel negasse questa tesi
considerando come sapere assoluto (e quindi anche come realtà assoluta) un
sapere in cui la distinzione tra l’Io e il non Io, tra il soggettivo e
l’oggettivo, è venuta a sparire, anch’egli tuttavia condivide la tesi del
carattere infinito dell’Io. « L’Io, egli dice, questa immediata coscienza di
sè, appare in primo luogo anch’esso da un lato come immediato, dall’altro poi
come noto in un senso molto più elevato che qualsiasi altra rappresentazione.
Ogni altro noto appartiene infatti certamente all’Io, ma nello stesso tempo è
ancora diverso da esso e però è subito un contenuto accidentale; l’Io invece è
la semplice certezza di sè. Ma l’Io in generale è anche nello stesso IO tempo
un concreto o meglio l’Io è il concretissimo, la coscienza di sè come di un
mondo infinitamente molteplice » (Wissenschaft der Logik, I, libro I; trad.
ital., I, pag. 65-66). Gentile non faceva che riecheggiare la posizione
fichtiana e romantica quando diceva: « L’io è, sì, l’individuo, ma l’individuo
come soggetto, il quale non ha nulla da contrapporre a se stesso e che trova
tutto in sè; e perciò è il concreto attuale universale. Orbene questo Io, che è
lo stesso assoluto, è in quanto si pone; è causa sui » (Teoria generale dello
spirito, XVII, $ 7). 3° Già nell’interpretazione dell’io come coscienza e come
autocoscienza si insiste talora su un carattere formale dell’io, cioè sulla sua
wnirà o identità. Si è visto che per Locke l’io è la coscienza in quanto fonda
l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è « l’unità
dell’appercezione pura» (Cri. R. Pura, $ 16; v. APPERCEZIONE). Hume stesso
aveva visto in una certa forma di unità, sia pura fittizia, il carattere
fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato ad una repubblica, che può
mutare negli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle
sue leggi, senza perdere la sua identità. L'uomo, allo stesso modo, può mutare
le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io (7reatise, I, 4, 6).
Tuttavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine, l’unità dell’io non
è assoluta o rigorosa; è un’unità formale e approssimativa, fondata sulla
relativa costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io. Questo
punto di vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigorosa
unità dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell'esperienza
effettiva. 4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del
più vistoso carattere con cui l’io si presenta a questa esperienza: il
carattere della problematicità per cui esso è una formazione instabile e può andare
soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di rapporto è difatti più
generica e meno impegnativa della nozione di unità. L'unità è una forma di
rapporto necessaria, immutabile ed assoluta; un rapporto può essere più o meno
saldo e può rompersi. Proprio sotto l’angolo visuale della « malattia mortale»
dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come « un rapporto che
si rapporta a se stesso ». L'uomo è una sintesi d'anima e di corpo, d’infinito
e difinito, di libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un rapporto; e il
ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con se stesso, è
l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap. 1). Kierkegaard aggiungeva
che proprio in quanto rapporto con se stesso, l’io è rapporto con altro: cioè
con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Su questo secondo rapporto
insistono talora i IPOSTASI filosofi contemporanei. Diceva Santayana: « Quando
dico io, il termine suggerisce un uomo, uno fra i molti che vivono in un mondo
che è in contrasto con il suo pensiero il quale tuttavia lo domina »
(Scepticism and Animal Faith, 1923, ed. 1955, pag. 22). Da un punto di vista
diverso, Scheler giunge a un analogo concetto dell’io: « Con la parola io, egli
dice, è connesso un accenno da una parte a un rw, dall’altra ad un mondo
esterno. Dio, ad es., può essere una persona ma non già un io giacchè per lui
non ci sono nè un tu nè un mondo esterno» (Formalismus, ecc., pag. 405). E
proprio del rapporto si avvale Heidegger per definire l’io. « La stessa assunzione
dell” Jo penso qualcosa’ non può ricevere una adeguata determinazione se il ‘
qualcosa * resta indeterminato. Se invece il ‘ qualcosa * viene inteso come
ente intramondano, allora porta con sè inespressa la presupposizione del mondo.
Ed è proprio questo il fenomeno che determina la costituzione dell’essere
dell'io, quando almeno esso debba poter essere qualcosa come un ‘Io penso
qualcosa ’. Il dire io si riferisce all’ente che io sono in quanto:
io-sonoin-un-mondo » (Sein und Zeit, $ 64). In forma solo apparentemente
paradossale, Sartre affermava in un saggio del 1937: « Noi mostreremo che l’io
non è nè formalmente nè materialmente nella coscienza; esso è fuori, nel mondo.
Esso è un essere del mondo, come l’io di un altro» (Recherches Philosophiques,
1936-37; trad. ingl., The Transcendence of the Ego, New York, 1958, pag. 32).
Nello stesso senso, Merleau-Ponty afferma: « La prima verità, è, sì ‘io penso *
ma a condizione che s’intenda con ciò ‘io sono a me stesso * essendo nel mondo
» (Phenomenologie de la perception, 1945, pag. 466). Considerato nel suo
rapporto con il mondo, l’io viene talora determinato in base al suo carattere
attivo, alla sua capacità di iniziativa, al suo potere progettante o
anticipante. Dice Dewey: « Dire in modo significante ‘ Jo penso, credo,
desidero ’ invece di dire soltanto ‘Si pensa, si crede, si desidera’ significa
accettare e affermare una responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa
che l’io è l’origine o l’autore del pensiero o dell’affermazione o la sua sede
esclusiva. Significa che l’io, come organizzazione accentrata di energie,
identifica se stesso (nel senso di accettarne le conseguenze) con una credenza
o sentimento di origine esterna e indipendente » (Experience and Nature, pag.
233). Proprio tali caratteri costituiscono oggi lo schema generale per lo
studio sperimentale della personalità che è uno degli oggetti principali della
psicologia. Dalla personalità, che è l’organizzazione dei modi con cui
l’individuo intelligente progetta i suoi comportamenti nel mondo, l’io si
distingue soltanto come quella parte della personalità stessa 507 che è nota
all’individuo interessato e a cui pertanto egli fa riferimento nel dire «io».
La personalità, dall’altro lato, è più vasta: essa include anche le zone oscure
o in penombra, le sfere di ignoranza più o meno voluta o non voluta, che
caratterizzano il progetto totale delle relazioni dell'individuo col mondo (v.
PERSONALITÀ). IO PENSO. V. Cocrro. IO TRASCENDENTALE (ingl. Trascendental Ego;
franc. Moi trascendental; ted. Transzendentales Ich). Lo stesso che Io assoluto
(v. Io). IPERBOLICO. V. DuBgio. IPERORGANICO (franc. Hyperorganique). Termine
con il quale gli scrittori positivisti hanno caratterizzato il mondo
propriamente umano cioè psichico e sociale. IPERURANIO (gr. ùrepovpdvioc). La
regione «al di là del cielo» nella quale, secondo il mito di Platone nel Fedro
(247 c sgg.), risiedono le sostanze immutabili che sono l’oggetto della
scienza. Si tratta di una regione non spaziale; giacchè il cielo racchiudeva
per gli antichi tutto lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio.
L'espressione è quindi puramente metaforica; nella Repubblica, Platone stesso
prende in giro coloro che si illudono di vedere gli enti intelligibili
guardando in alto. « Per mio conto, egli dice, non posso riconoscere ad altra
scienza il potere di far sì che l’anima guardi in su se non a quella che
s’occupa dell’essere e dell’invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere
qualcosa di sensibile, guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa, io dico
che costui non apprenderà niente perchè non c’è scienza delle cose sensibili e
che la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche se egli studi restando
sul dorso a terra o in mare» (Rep., VII, 529 b-c). IPOLEMMA (ingl. Hypolemma).
Così è stata detta da W. Hamilton la premessa minore del sillogismo, in quanto
viene sussunta alla premessa maggiore o lemma (Lectures on Logic, I, pag. 283).
IPOSTASI (gr. sréotacw; ingl. MHypostasis; franc. Hypostase; ted. Hypostase).
Con questo termine Plotino chiamò le tre sostanze principali del mondo
intellegibile cioè l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima (Emn., III, 4, 1; V, 1, 10),
che egli paragonava rispettivamente alla luce, al sole e alla luna (Ibid., V,
VI, 4). La trascrizione latina del nome è «sostanza », che tuttavia è stato
usato dalla tradizione filosofica in un significato totalmente diverso (v.
Sostanza). Nelle discussioni trinitarie dei primi secoli, il termine in
questione fu preferito a quello di persona (mpécwrov) che, significando
propriamente maschera, sembrava evocare l’immagine di qualcosa di fittizio. Da
queste discussioni, il nome di I. rimase fissato a designare la sostanza
individuale cioè per l’appunto la persona. Dice S. Tom508 maso: «Secondo alcuni
la sostanza, nella definizione della persona, sta per la sostanza prima, che è
l’I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale; giacchè con il nome di
I. o di sostanza prima si esclude il rapporto tra l’universale e la parte. Non
diciamo infatti che sia I. il concetto di uomo o la mano» (S. 7A., I, q. 29, a.
1). Nel linguaggio moderno e contemporaneo, il termine viene usato (ma
raramente) in senso peggiorativo: per indicare la trasformazione fallace o
surrettizia di una parola o un concetto in sostanza cioè in una cosa o in un
ente. In questo senso si parla anche di ipostatizzare (franc. Aypostasier) e di
ipostatizzazione). IPOTESI (gr. sré0e015; ingl. Hypothesis; francese Hypothèse;
ted. Hypothese). In generale, un enunciato (o insieme di enunciati) che possa
essere messo a prova, attestato e controllato solo indirettamente, cioè
attraverso le sue conseguenze. La caratteristica dell'I. è pertanto che essa
non include nè una garanzia di verità nè la possibilità di una verifica
diretta. Una premessa evidente non è un’I. ma, nel senso classico del termine,
una assioma. Un enunciato verificabile è una legge o una proposizione empirica,
non un’ipotesi. Un’I. può essere vera; ma la sua verità può risultare soltanto
dalla verifica delle sue conseguenze. In questo senso intendeva l’I. Aristotele
che, pur adoperando qualche volta il termine nel senso generalissimo di
premessa di una dimostrazione (confronta, ad es., Mer., V, 1, 1013a 16; 1913b
20; Fis., II, 3, 195a 18), la definiva nel suo significato specifico
escludendola dal campo delle premesse necessarie: « Ciò che è necessario che
sia ed è necessario che appaia necessario, non è nè un'I. nè un postulato »
egli dice (An. Post., I, 10, 76 b 23). Assiomi e definizioni costituiscono le
premesse necessarie del sillogismo; I. e postulati quelle non necessarie. In
particolare, le I. stabiliscono l’esistenza delle cose definite. Le
definizioni, egli dice, debbono solo farci comprendere ciò di cui si parla; le
I. ne stabiliscono l’esistenza, per dedurne le conclusioni (/bid., I, 10, 76b
35 sgg.). Per conseguenza i ragionamenti fondati su I. presuppongono una specie
di convenzione o accordo preliminare (An. Pr., I, 44, 50a 33) e non hanno il
valore probativo di quelli fondati sulle definizioni (ibid., I, 23, 40b 22).
Questa determinazione dell’I. come premessa di grado o qualità inferiore, cioè
priva della necessità che è propria delle premesse autentiche, è caratteristica
della posizione di Aristotele. Essa non si trova in Platone. Secondo Platone le
premesse devono essere scelte in base a un giudizio comparativo, che si orienta
su quella che è « la più forte » o «la migliore » tra esse (Fed., 100 a; 101
d). Alle IPOTESI matematiche e in generale alle discipline propedeutiche,
Platone fa l'appunto, non di muovere da I., ma di «lasciarle immobili per non
esser capaci di dar ragione di esse » (Rep., VII, 533 c). E I. sono chiamate
nel Parmenide tutte le possibili vie della ricerca, senza che qualcuna sia
privilegiata con un nome diverso (Parm., 135 e). Platone dichiara talora di
«indagare per via d’I.» come fanno i geometri cioè ragionando su questa base:
«Se si verificano alcune condizioni, si otterrà un certo risultato, ma se non
si verificano, il risultato sarà diverso » (Men., 87a). L’uso delle I. in
filosofia stabilisce una differenza importante tra la filosofia di Platone e
quella di Aristotele, per ciò che concerne il procedimento della filosofia
stessa e in generale del sapere scientifico. Tale differenza cade però
all’interno della nozione generale di I., come sopra espressa. E nell'ambito di
tale nozione si possono distinguere i seguenti significati specifici: 1°
L’antecedente di una proposizione ipotetica o condizionale o di un ragionamento
anapodittico o di un sillogismo ipotetico. La logica stoica, a differenza da
quella aristotelica, privilegiò le proposizioni ipotetiche e i ragionamenti
anapodittici, conformamente all'impostazione generale della logica come
dialettica (v. LOGICA; DIALETTICA; ConDIZIONALE; CONSEGUENZA; IMPLICAZIONE). 2°
Una proposizione originaria assunta a fondamento di un discorso scientifico,
per es., un postulato o assioma della matematica. Di tali postulati o assiomi
infatti non si afferma nè si nega la verità, ma si riconoscono validi se e
nella misura in cui rendono possibili il discorso matematico. In tal senso le
matematiche sono chiamate « sistemi ipotetico-deduttivi ». Ma proposizioni
analoghe ai postulati o assiomi delle matematiche e, com’essi, assunte
ipoteticamente si possono ritrovare in tutte le scienze che hanno raggiunto un
certo grado di elaborazione concettuale. 3° Una condizione qualsiasi. Tale è il
significato del termine nell’espressione ex Aypothesi. Aristotele parla di ciò
che è « necessario per I.» cioè in virtù di una determinata condizione (Fis.,
II, 9, 199 b 34 sgg.). 4° La spiegazione causale dei fenomeni. In questo senso
la parola fu adoperata spesso nei sec. xvII e xv. Locke avvertiva di «aver cura
che il nome di princìpi non ci inganni né ci si imponga, facendoci accogliere
come verità incontestabile quella che, nel miglior caso, non è che una
congettura dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle I. della
filosofia naturale: e quasi stavo per dire tutte» (Saggio, IV, 12, 13): dove è
ovvio che per Locke 1’I. è quella che enuncia i «princìpi» cioè le cause dei
fenomeni. Ancora più esplicitamente Leibniz diceva: « L’arte di scoIPSITÀ prire
le cause dei fenomeni, o le vere I., è come l’arte di decifrare, nella quale
spesso una congettura ingegnosa abbrevia di molto il cammino» (Nouv. Ess., IV,
12, 13): dove «I. vere» e « cause dei fenomeni» sono identificate. La rinuncia
di Newton « liypotheses non fingo » si riferisce appunto a questo significato
di ipotesi. Ecco infatti il testo di Newton: « Non ho potuto dedurre finora dai
fenomeni le ragioni di queste proprietà della gravità, e non immagino ipotesi.
Tutto ciò che non si deduce dai fenomeni è infatti da chiamarsi I.; e le I. o
metafisiche o fisiche, sia di qualità occulte sia meccaniche, non hanno posto
nella filosofia sperimentale ». A_ queste I. egli contrappone le cause vere che
sono quelle « necessarie per spiegare i fenomeni» (Philosophiae naturalis
Principia mathematica, 1687, in fine). E nell’Ortica (1704), Newton faceva
consistere l’I. nell’appello alle qualità occulte assunte come cause dalla
metafisica aristotelica: alle quali egli contrapponeva i principi (la gravità,
la fermentazione, la coesione) « che, egli diceva, io considero non come
qualità occulte, che si suppongano risultare dalle forme specifiche delle cose,
ma come leggi generali di natura, dalle quali le cose stesse sono formate e la
cui verità ci è manifesta dai fenomeni, anche se le loro cause non siano state
scoperte» (Opricks, III, 1, q. 31). La rinuncia di Newton alle I. non è dunque
che la rinuncia alla spiegazione in favore della descrizione. Alla metà del
sec. xIx l’opposizione tra descrizione e spiegazione ipotetica veniva ribadita
dal fisico inglese J. Macquorn Rankine. « Secondo il metodo astratto, egli
diceva, una classe di oggetti e di fenomeni è definita per descrizione cioè
facendo vedere che un certo insieme di proprietà è comune a tutti gli oggetti o
fenomeni della classe e considerandole quali i sensi ce le fanno percepire,
senza introdurre niente d’ipotetico e solo assegnando loro un nome o un
simbolo. Secondo il metodo iporetico, la definizione di una classe di oggetti o
di fenomeni si deduce da una concezione congetturale circa la loro natura ». E
Rankine prevedeva l’abbandono graduale delle teorie ipotetiche e la loro
sostituzione con le teorie astratte (Ouslines of the Science of Energetics,
1865, in Miscellaneous Scientifics Papers, pag. 210; cfr. P. DuHEM, La théorie
physique, 1906, pag. 80-81). 5° Uno speciale procedimento, che sostituisce
l’induzione, per la formulazione di princìpi da essere verificati
sperimentalmente. Secondo Stuart Mill, il procedimento scientifico è composto
di tre parti: induzione, raziocinazione e verificazione. Ora «il metodo
ipotetico sopprime il primo di questi tre passi, l'induzione, per accertare la
legge e si limita alle altre due operazioni, raziocinazione e verificazione: la
legge in base alla quale si ragiona 509 è assunta invece di essere provata»
(Logic, III, 14, 4). Nello stesso senso Peirce mette l’I. accanto alla
deduzione e all’induzione come un tipo di ragionamento valido che si distingue
dall’induzione perchè mentre questa « procede come se tutti gli oggetti che
hanno certi caratteri fossero conosciuti », l’I. è «l’inferenza la quale
procede come se tutti i caratteri richiesti alla determinazione di un certo
oggetto o classe fossero conosciuti ». « Mentre l’induzione può essere considerata
come l’inferenza della premessa maggiore del sillogismo, l’ipotesi può essere
considerata come l’inferenza della premessa minore dalle altre due» («Some
Consequences of Four Incapacities », in Values in a Universe of Chance, pag. 44
sgg.). Questo significato del termine è rimasto raro. 6° L'argomento di un
discorso, in quanto posto o enunciato al principio del discorso stesso
(ARISTOTELE, Rer. ad Al., 30, 1436a 36; Rer., II,18,1391b 13). 7° Una teoria
scientifica o parte di una teoria scientifica. In questo senso Mach dice: «
Chiamiamo I. una spiegazione provvisoria che ha per scopo quello di far
comprendere più facilmente i fatti, ma che sfugge alla prova dei fatti»
(Erkenniniss und Irrtum, cap. 14; trad. franc., pag. 240). Per questo significato,
v. TEORIA. IPOTETICO (gr. iro0erix6s; lat. Ayporheticus; ingl. Hypothetical;
franc. Hypothétique; ted. Hypothetisch). Questo termine ha significati
corrispondenti a quelli del sostantivo. Per proposizione ipotetica, v.
CATEGORICO. Per ragionamento ipotetico, v. SILLOGISMO; ANAPODITTICO;
RAGIONAMENTO; CONDIZIONALE; CONSEGUENZA. IPOTIPOSI (gr. srotirwar; ted.
Ayporypose). Questo termine che significa schizzo o lineamenti (in questo senso
ricorre nel titolo dell’opera di Sesto EMPIRICO, /. Pirroniane) fu adoperato
dai retori per indicare la figura per la quale un argomento è vividamente
delineato in parole (QUINTILIANO, /nst., IX, 2, 40). In senso analogo ha
adoperato la parola Kant per esprimere il rapporto tra la bellezza e la
moralità: la bellezza, come simbolo della moralità, è l’I. di essa cioè la sua
vivida manifestazione intuitiva. Mentre le parole e gli altri segni sono
semplici espressioni dei concetti, le I. sono esibizioni o manifestazioni del
concetto stesso in forma intuitiva (Crit. del giud., $ 59). IPSE DIXIT (gr.
abròs tpa). Frase con cui i Pitagorici solevano rispondere alla richiesta di
delucidazioni sulla loro dottrina: «L'ha detto lui». Il lui era Pitagora.
Cicerone adduce questa usanza come esempio della prevalenza dell’autorità sulla
ragione (De nat. deor., I, 5, 10). IPSITÀ (lat. Ipseitas; franc. Ipséité).
Termine usato da Duns Scoto per indicare la singolarità della cosa individuale
(v. ECCEITÀ). 510 IRASCIBILE. V. FACOLTÀ. IRONIA (gr. elpuvela; lat. Zronia;
ingl. Zrony; franc. Ironie; ted. Ironie). In generale l’atteggiamento che
consiste nel dare un’importanza assai minore del giusto (o di quella che si
ritiene tale) a se stessi o alla propria condizione o situazione o a cose o
persone che hanno stretto rapporto con se stessi. La storia della filosofia
conosce due forme fondamentali d’I.: 1° I’I. socratica; 2° l’I. romantica. 1°
L’I. socratica è la sottovalutazione che Socrate fa di se stesso nei confronti
degli avversari con cui discute. Quando nella discussione sulla giustizia
Socrate dichiara: «Io ritengo che l’indagine è al di là delle nostre
possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di noi piuttosto che
arrabbiarvi con noi», Trasimaco risponde: «Ecco la solita I. di Socrate» (Rep.,
I, 336e337 a). Aristotele non fa che enunciare genericamente questo
atteggiamento socratico quando vede nell’I. uno degli estremi
nell’atteggiamento di fronte alla verità. Il veritiero è nel giusto mezzo; chi
esagera la verità è il millantatore e chi invece tenta di diminuirla è
l’ironico. L’I., dice Aristotele, è, sotto questo aspetto, simulazione (Er.
Nic., II, 7, 1108 a 22). Cicerone si rifaceva a questo concetto affermando che
« Socrate spesso nella disputa abbassava se stesso ed alzava coloro che voleva
confutare; e così, parlando diversamente da come pensava, adoperava volentieri
quella simulazione che i Greci chiamano I.» (Acad., IV, 5, 15) E a questo
concetto del termine faceva riferimento S. Tommaso che la esamina come un forma
(lecita) di menzogna (S. 7A., II, 2, q. 113, a. 1). 2° L’I. romantica poggia
sul presupposto dell'attività creatrice dell’Io assoluto. Identificandosi con
l’Io assoluto, il filosofo o il poeta (che molto spesso coincidono, per i
Romantici) è portato a considerare ogni realtà più salda come un’ombra o un
gioco dell’Io: è portato cioè a sottovalutare l’importanza della realtà, a non
prenderla sul serio. Secondo Federico Schlegel, l’I. è la libertà assoluta di
fronte a qualsiasi realtà o fatto. « Trasferirsi arbitrariamente ora in questa
ora in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l’intelletto e con
l’immaginazione ma con tutta l’anima; rinunciare liberamente ora a questa ora a
quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente a un’altra; cercare
e trovare il proprio uno e tutto ora in questo, ora in quell’individuo e
dimenticare volutamente tutti gli altri: questo può solo uno spirito che
contiene in sè come una pluralità di spiriti e tutto quanto un sistema di
persone, e nel cui intimo l’universo che, come si dice, è in germe in ogni
mondo, s’è dispiegato ed è pervenuto alla sua maturità » (Fragmente, 1798, $
121). Queste notazioni sull’I. trovarono una sistemazione IRASCIBILE
concettuale nell’opera di C. G. F. SOLGER, Erwin (1815) nella quale l’I. veniva
interpretata dal punto di vista della soggettività che comprende se stessa come
cosa suprema e che perciò abbassa a un puro nulla tutte le altre cose, anche
ciò che c’è di più alto. Pur polemizzando contro qualche particolare, definito
« platonico» della dottrina di Solger, Hegel la faceva sua nel descrivere l’I.
nel modo seguente: « Prendete una legge, e schiettamente qual è in sè e per sè:
io ne sono perciò anche al di là e posso fare così e così. Non la cosa è
superiore, ma sono io superiore e sono il padrone, che al di sopra della legge
e della cosa, scherza con esse come con il suo piacere e in questa coscienza
ironica, nella quale lascio perire il Sommo, godo soltanto di me» (Fil. del
dir., $ 140). L'I. così intesa, come coscienza della Soggettività assoluta, la
quale, come tale, è tutto e di fronte alla quale perciò tutte le altre cose
sono nulla e pertanto come coscienza dell’assoluto arbitrio di tale
soggettività è, secondo Hegel, un risultato della filosofia di Fichte quale è
stata intesa e interpretata da Federico Schlegel (Fi/. del dir., $ 140,
Zusatz). «Qui il soggetto si sa in sè medesimo come l’Assoluto e non dà alcun
peso a tutto il resto: esso sa distruggere sempre di nuovo tutte le
determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a
intendere a sè ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia,
sfrontatezza. L’I. sa di dominare qualsiasi contenuto: essa non prende nulla
sul serio, scherza con tutte le forme» (Geschichte der Phil., III, sez. 3, C,
3; trad. ital., III, 2, pag. 370-71). Quel concetto è rimasto a contrassegnare
uno degli aspetti fondamentali del romanticismo tedesco. Di esso Kierkegaard ha
dato un’interpretazione attenuata o metaforica, da un lato concependo l’I.
socratica come la superiorità di Socrate sopra la nequizia del mondo (Diario,
X*, A, 254); dall’altro lato intendendo in generale l’I. come «
l’infinitizzazione dell’interiorità dell’io » ma come infinitizzazione
«interiore», in un significato che non ha più la portata che Fichte attribuiva
all’infinità stessa. «Cos'è l’I.? egli scrive. L’unità di passione etica, che
accentua in interiorità il proprio io infinitamente, e di educazione la quale
nel suo esteriore (nel commercio con gli uomini) astrae infinitamente dal
proprio io. L’astrazione fa sì che nessuno s’accorga della prima unità vissuta
ed in ciò sta l’arte per la vera infinitizzazione dell’interiorità» (Diario,
VI, A, 38, trad. Fabro). Poichè l’infinità dell'io è qui soltanto un'infinità «
interiore », cioè l’accentuazione all’infinito del valore dell’io nella
coscienza, ma non è l’infinità effettiva e creativa dell’Io assoluto dei
romantici, l’I. non ha più il suo significato romantico: è solo il conISONOMIA
511 trasto tra la coscienza esaltata che l’io ha di sè e la modestia delle sue
manifestazioni esterne. IRRAZIONALISMO (ted. /rrationalismus). Termine con il
quale in italiano e in tedesco si designano le filosofie della vita o
dell’azione cioè quelle filosofie che, come, ad es., quella di Schopenhaver,
considerano il mondo come la manifestazione di un principio non razionale (v.
AZIONE, FILOSOFIA DELL’; VITA, FILOSOFIA DELLA). IRREVERSIBILE (ingl.
Zrreversibile; franc. Irréversible; ted. Irreversibel). Carattere delle
relazioni non simmetriche e dei processi che hanno un senso determinato.
Platone, nel mito del Politico, affermò la reversibilità del divenire cosmico
affermando che il mondo, una volta raggiunta la misura del tempo che gli è
stato assegnato, «riprende a girare in senso contrario » cioè inverte l’ordine
del tempo. Ciò accade perchè il mondo è da un lato la cosa più perfetta
possibile, ma dall’altro è corpo e come tale soggetto al mutamento. « Perciò
ebbe in sorte di rifare il suo giro in senso inverso, essendo questa ‘ la
minima mutazione possibile del suo movimento * » (Pol., 269 c-e). Questo
concetto, che la reversibilità del processo cosmico è dovuta all’esigenza di
realizzare la massima possibile identità con se stesso, veniva espresso da
Leibniz nei termini della scienza del suo tempo. Diceva Leibniz: « La saggezza
suprema di Dio gli ha fatto scegliere soprattutto le leggi del movimento meglio
adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche. Si conserva
nell’universo la stessa quantità di forza totale assoluta o di azione; la
stessa quantità di forza rispettiva o di reazione; la stessa quantità di forza
direttiva. In più l’azione è sempre uguale alla reazione e l’effetto intero è
sempre equivalente alla sua causa piena» (Princ. de la nature et de la gréce,
1714, Op., ed. Erdmann, pag. 716). Questa perfetta equivalenza tra la causa e
l’effetto significa la reversibilità del processo causale. La meccanica
classica ammette questa reversibilità. Le equazioni che esprimono il
comportamento dei fenomeni meccanici non dànno nessuna indicazione sul senso in
cui scorre il tempo. Il # di queste equazioni è una variabile continua che non
ha un senso determinato, e questo significa che ogni fenomeno meccanico è
reversibile. L’irreversibilità dei fenomeni fu per la prima volta introdotta
con la scoperta del secondo principio della termodinamica (detto Principio di
Carnot, 1824), secondo il quale il calore passa soltanto dal corpo più caldo al
corpo più freddo. In tal caso, quando, con questo passaggio, si è raggiunto
l’equilibrio della temperatura, è impossibile tornare indietro. Dal sistema in
equilibrio non si può tornare al sistema dello squilibrio termico che solo
rende possibile il passaggio del calore e quindi il lavoro meccanico. Un
sistema in equilibrio termico non può quindi fornire lavoro meccanico. Con ciò
si viene a stabilire l’irreversibilità dei fenomeni naturali i quali, sotto un
certo rispetto, sono tutti fenomeni termici. Il Principio di Carnot ha quindi
esclusa l’immagine di un divenire del mondo che, come pensavano gli antichi, si
svolga ciclicamente e ritorni su se stesso. L’irreversibilità dei fenomeni
naturali ha fatto pensare alla morte inevitabile dell’universo, per il
raggiungimento dell’equilibrio termico che renderebbe impossibile ogni
trasformazione e quindi ogni vita. E numerose sono state anche le dottrine che
hanno avanzato ipotesi destinate a lasciare intravedere per il nostro universo
una sorte diversa (cfr. su di esse MEvYERSON, De /’explication dans les
sciences, 1927, pag. 203 sgg.).. Ma in verità sia la previsione della
catastrofe sia quella delle possibili vie di salvezza vanno molto al di là di
ciò che è consentito dalla portata del principio di Carnot e in generale da un
principio scientifico. Questo infatti vale soltanto per sistemi chiusi o almeno
relativamente isolati; ed è uno strumento di previsione nell’ambito di tali
sistemi e non per l’universo o il mondo, cioè per una totalità aperta o
infinita. In un senso diverso e positivo il significato filosofico
dell’irreversibilità è stato illustrato da E. Paci, Tempo e relazione, 1954,
cap. VI e assim (v. ENTROPIA). ISOLARE (ted. /solieren). Nel senso di astrarre,
come adoperato da Kant; v. ASTRAZIONE. Wundt distingue l’astrazione isolante
che consiste nel separare una parte determinata da un’apparenza complessa,
dall’astrazione generalizzante che consiste nel lasciar da parte, intenzionalmente,
alcune note concettuali (Logik, II, pag. 11 sgg.). ISOMORFISMO (ingl.
Isomorphism; franc. Isomorphisme; ted. Isomorphie). Termine adoperato in logica
e in matematica per indicare la relazione fra relazioni omogenee di due o più
termini e che consiste nella corrispondenza di termine a termine fra i termini
delle relazioni (cfr. R. CARNAP, Lopical Syntax of Language, $ 71 c; A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, $ 55). ISONOMIA (gr. icovoplia; lat.
Zsonomia). Secondo Alcmeone di Crotone, è il perfetto equilibrio della
proprietà che costituiscono il corpo, cioè la salute; il contrario di essa è la
monarchia cioè la prevalenza di una proprietà sulle altre, che costituisce la
malattia (Fr. 4, Diels). Secondo Epicuro, il perfetto equilibrio e la perfetta
corrispondenza di tutte le parti o gli elementi del tutto nell’infinito. « Da
essa deriva la conseguenza che, se così grande è la moltitudine dei mortali,
non minore è quella degli immortali, e se gli elementi di distruzione sono
innumerevoli anche quelli di conservazione devono essere infiniti » (CIcER., De
nat. deor., I, 19, 50). 512 ISTANTE. V. ATTIMO. ISTANZA (gr. tvotaoi; lat.
Instantia; ingl. Instance; franc. Instance; ted. Instanz). 1. Nella logica
aristotelica, l’I. è «una premessa che è contraria a un’altra premessa » (An.
Pr., II, 26, 69 a 36). Aristotele enumera quattro I. fondamentali: l’attacco
alla premessa dell’avversario; una nuova premessa; una premessa contraria a
quella dell'avversario; l'appello a precedenti decisioni (Top., VII, 10, 161a
1; Rer., II, 25, 1402a 34). 2. Bacone chiamò I. i casi particolari sperimentali
di un determinato fenomeno, per es., del calore; e chiamò «tavole delle I.»
l’elenco di tali casi (Nov. Org., II, 10 sgg.) (v. TavoLE). Stuart Mill ha
talora seguito questa terminologia (Logic., III, 9, 1, passim). ISTINTO (gr. spui; lat.
Znstinctus; ingl. Instinct; franc. Instinct; ted.
Instinkt). Una guida naturale, cioè non acquisita nè scelta e poco
modificabile, della condotta animale ed umana. L’I. si distingue dalla tendenza
(v.) per il suo carattere biologico, in quanto è diretto alla conservazione
dell’individuo e della specie ed è legato ad una struttura organica
determinata; e dall’impulso per il suo carattere stabile. Esistono due
concezioni fondamentali dell’I.: 1° quella metafisica, per cui l’I. è la forza
che garantisce l'accordo delia condotta dell’animale con l’ordine del mondo; 2°
quella scientifica per cui l’I. è un tipo di disposizione biologica. 1° La
teoria metafisica dell’I. è stata fondata dagli Stoici. Per essi, l'ordine
provvidenziale del mondo, che tutti gli esseri sono destinati a mantenere,
dirige la condotta animale mediante l’istinto. « L’I. primario dell’animale in
quanto l’animale è sin da principio diretto dalla natura, è quello di prendersi
cura di sè, dice CrisiPPO nel primo libro Dei Fini. Dice infatti che la cosa
che sta più a cuore a ciascun animale è la propria costituzione e la coscienza
di questa costituzione. Non è verisimile che l’animale si estranei da sè o che
comunque faccia in modo di estraniarsi da sè o di non prendersi cura di sè.
Occorre dunque che la natura stessa lo costituisca in modo che egli abbia cura
di sè, sicchè fugga le cose nocive e persegua quelle favorevoli. Dal che appare
falso ciò che alcuni dicono e cioè che il piacere sia l’I. primario degli
animali» (Diog. L., VII, 85). Attraverso l’I. la natura conduce l’animale a
prendersi cura di sè e a conservarsi, contribuendo così a mantenere l'ordine
del tutto. Cicerone esprimeva il concetto stoico nei termini seguenti: « Ogni
specie animale, al fine di conservare se stessa, la propria vita ed il proprio
corpo, evita per natura quanto appare nocivo e desidera e si procaccia tutto
quanto è necessario alla vita come il cibo, il ricovero, e ISTANTE tutto il
resto. È del pari comune a tutti gli esseri animale l’I. sessuale al fine della
procreazione ed una certa qual cura delle loro creature » (Tusc., I, 4, 1l; De
fin., III, 7, 23; De off, I, 28, 101). A un I. così inteso fu talora assimilato
il diritto di natura, in quanto comune non soltanto agli uomini ma anche agli
animali. Nel sec. n, Ulpiano distingueva dal diritto delle genti, che è proprio
soltanto degli uomini, il diritto naturale, che è «quello che la natura ha
insegnato a tutti gli animali e perciò è proprio non solo del genere umano ma è
comune a tutti gli animali che vivono in terra, in mare e in cielo. Da questo
diritto dipendono il matrimonio, la procreazione e l’educazione dei figli,
tutte cose di cui anche gli animali sono esperti » (Dig., I, 1, 1-4). Questa
concezione dell’I. è rimasta sempre legata al presupposto metafisico di un
ordine provvidenziale di cui l’I. stesso sarebbe la manifestazione negli
animali e negli uomini. S. Tommaso adduceva a prova della tesi che la
provvidenza si occupa anche delle cose singolari contingenti, l’I. naturale da
cui gli animali sono dotati e che appare manifesto nelle api e in molti altri
animali (Contra Gent., III, 75). Dante esprimeva perfettamente questa
concezione dell’I.: « In noi seminata e infusa dal principio della nostra
generazione, nasce un rampollo, che gli Greci chiamano lormen cioè appetito
d'animo naturale... E questo appare chè ogni animale, siccome ello è nato, sì
razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui
sono contrarie e quelle odia » (Conv., IV, 22; cfr. Par., I, 112-14). Kant
ancora parlava dell’I. come della «voce di Dio cui tutti gli animali
obbediscono » e che « dovette originariamente guidare sulle prime l’uomo
primitivo » (Mutmasslicher Anfang der Menschengeschichte, 1786). I caratteri
dell’I. in questa concezione restano fissati nel modo seguente: 1° la
provvidenzialità; 2° l’infallibilità, che deriva dal precedente carattere e per
la quale si ritiene che l’I. è in ogni caso adatto a garantire la vita
dell'animale e la continuazione della specie; 3° l’immutabilità che deriva dai
due caratteri precedenti e che si ritiene consistere nella non perfezionabilità
dell’I.; 4° la cecità nel senso che l’I. sfugge al controllo dell’animale e lo
guida senza alcuna sua iniziativa diretta. Alcuni di questi caratteri sono
stati talora assunti o mantenuti anche nella concezione scientifica
dell’istinto. Essi sono però propri della concezione metafisica, essendo
caratteri presunti, dedotti dalla funzione che si attribuisce all’I. nel cosmo
e tutti in contrasto con i dati dell’osservazione. Questi caratteri sono anche
ammessi e difesi, abitualmente, dai filosofi che hanno una concezione
provvidenzialistica del mondo biologico, per es., dai ISTINTO filosofi
spiritualisti. Hegel ha anche parlato di un «I. della ragione» (Phénomen. des
Geistes, I, cap. V, « L’osservazione della natura »; trad. ital., I, pag. 222,
225, ecc.), attribuendo a tale I. i caratteri generali sopra elencati. Una
teoria metafisica dell’I. è anche quella di Freud, specialmente com’è formulata
nei suoi ultimi scritti. Gli I. sono «l’ultima causa di ogni attività e sono di
natura conservatrice: da ogni stato raggiunto da un essere, sorge una tendenza
a ristabilire tale stato quando sia stato abbandonato ». Gli I. possono essere
molteplici e possono cambiare mèta e sostituirsi l’uno all’altro; ma da ultimo
si possono riconoscere due I. fondamentali in lotta fra loro: l’Eros o I. di
vita e Thanatos I. di distruzione (Abriss der Psychoanalyse, 1940, cap. II). V.
PSICOANALISI. 2° Le teorie scientifiche dell’I. sono di due specie: A) teorie
esplicative; 8) teorie descrittive. A) Esistono tre fondamentali teorie
esplicative: a) quella che lo spiega ricorrendo all’azione riflessa; 5) quella
che lo spiega ricorrendo all’intelletto; c) quella che lo spiega ricorrendo al
sentimento (simpatia). a) La dottrina che spiega l’I. ricorrendo all’azione
riflessa è la più antica. Essa fu difesa da SPENCER nei suoi Principi di
Psicologia (1855). « Mentre nelle forme primitive dell'azione riflessa, egli
diceva, una singola impressione è seguita da una singola contrazione; mentre
nelle forme più sviluppate dell’azione riflessa una singola impressione è
seguita da una combinazione di contrazioni; in questa che noi distinguiamo come
I., una combinazione di impressioni è seguita da una combinazione di
contrazioni; e più alto è l'I., più complesse sono le coordinazioni direttive
ed esecutive » (Princ. of Psychology, $ 194). Questa tesi fu, accettata
sostanzialmente e modificata da Darwin nel senso che lo sviluppo degli I.
sarebbe dovuto alla selezione naturale degli atti riflessi che costituiscono
gli I. più semplici. «La maggior parte degli I. più complessi, diceva Darwin,
sembra essere stata acquisita mediante la selezione naturale delle variazioni
di atti più semplici. Tali variazioni sembrano risultare dalle stesse cause
sconosciute che occasionano le variazioni leggere o le differenze individuali
nelle altre parti del corpo, agiscono anche sull’organizzazione cerebrale e
determinano mutamenti che, nella nostra ignoranza, consideriamo spontanei»
(Descent of Man, 1871, I, cap. 3; trad. franc., pag. 69). Questa spiegazione
dell’I. è rimasta quella accettata non solo dai darwiniani e dai neodarwiniani
ma anche da coloro che hanno elaborato la teoria dei riflessi condizionati, i
quali hanno considerato l’I. come un riflesso condizionato complesso (cfr.
PAvLOV, 33 — ARBAGNANO, Dirionario di filosofia. 513 I riflessi condizionati;
trad. ital., pag. 273). Il difetto della teoria è che le variazioni casuali difficilmente
potrebbero spiegare la formazione di I. così perfezionati e complessi, come
quelli degli insetti. b) La seconda teoria esplicativa ha per l’appunto in
vista la formazione di questi I. più complessi e considera l’I. come
intelligenza degradata o meccanizzata. Questa dottrina, presentata da Romanes
(Mental Evolution in Animals, 1883), è stata largamente accettata nella
psicologia della fine del secolo scorso. Essa equivale a fare dell’I.
un’abitudine che si è formata e perfezionata attraverso lo sviluppo di una
specie animale. Wundt specialmente ha contribuito alla diffusione della
dottrina. «Gli I., egli dice, sono movimenti che originariamente derivano da
semplici o composti atti di volontà e che poi, durante la vita individuale o
nel corso di uno sviluppo generale, vengono in tutto o in parte meccanizzati »
(Grundzijge der physiologischen Psych., 4% ediz, 1893, II, pag. 510 sgg.; cfr.
System der Phil., 2* ediz., 1897, pag. 590). Questa concezione è stata talora
utilizzata dai filosofi, in vista di una metafisica spiritualistica (cfr., per
es., RENOUVIER, Nouvelle Monadologie, 1899, pag. 83); ma contro di sè ha il
fatto bene accertato che le abitudini acquisite non sono trasmissibili per
eredità (v. EREDITÀ) e che non basta a spiegare la formazione di I.
perfezionati la ereditarietà della disposizione a contrarre più facilmente
abitudini, che sembra provata in alcuni casi (MacDougall). c) La terza teoria
esplicativa è quella che riporta l’I. al sentimento e in particolare alla
simpatia. «I. è simpatia» dice Bergson. « Nei fenomeni del sentimento, nelle
simpatie e antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, sotto una forma
ben più vaga e ancora troppo penetrata d'intelligenza, qualcosa di ciò che deve
avvenire nella coscienza di un insetto che agisce per istinto. L’evoluzione ha
allontanato l’uno dall’altro, per svilupparli sino in fondo, elementi che
all’origine si compenetravano » (Évo/. créatr., 1911, 8% ediz., pag. 190-91).
L’evoluzione vitale ha allontanato fra loro intelligenza ed I. specificando
l’I. nel compito di utilizzare o anche di costruire strumenti organizzati e
l’intelligenza invece in quella di fabbricare e adoperare strumenti
inorganizzati (/bid., pag. 152). La specializzazione dell’I. dipende, secondo
Bergson, dal fatto che l’I. è per l'appunto l’utilizzazione, per un fine
determinato, d'uno strumento determinato: di uno strumento il quale per di più
è di una enorme complessità di dettaglio per quanto semplicissimo di
funzionamento. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza sono invece assai
meno perfetti ma possono continuamente mutare di forma e adattarsi alle nuove
circostanze. 514 Questo spiega anche perchè l’I. non sia cosciente o sia
cosciente in minima parte: la coscienza infatti misura lo scarto tra la
rappresentazione e l’azione (cioè tra le diverse possibilità d’agire e l’azione
effettiva): nell’I. questo scarto è minimo perchè una minima parte è lasciata
alla scelta (Ibid., pag. 157). Scheler, facendo riferimento a questa dottrina
di Bergson, in quanto tende a dar ragione degli I. più complicati (per es., di
quello degli imenotteri che paralizzano pungendoli ma senza ucciderli ragni o
scarabei per deporvi le loro uova, cfr. FABRE, Souvenirs entomologiques, I, 35
ediz., 1894, pag. 93 sgg.), dichiara di considerare probabile che « negli atti
istintivi di questa specie, nei quali ci si trova in presenza di una
concatenazione finalistica, logica, delle fasi di attività di più esseri, non
si tratti che di una esagerazione anormale di ciò che è la vera fusione
affettiva nella sfera dell’attività umana» (Sympathie, cap. I; trad. franc.,
pag. 50). Questa è una sostanziale accettazione del punto di vista di Bergson
con la correzione che ciò che Bergson chiama simpatia è piuttosto da intendersi
come fusione affettiva (per la differenza fra le due cose, v. SIMPATIA). La
dottrina di Bergson è stata accettata ampiamente dai filosofi, mentre ha
trovato scarsa accoglienza presso fisiologi e psicologi. Essa rimane come una
delle possibili alternative per una spiegazione dell’istinto. Questo infatti
può venir riportato o all’una o all'altra nelle due attività che comunemente si
assume dirigano la condotta umana: cioè o all'intelligenza o al sentimento.
L’interpretazione 5) cerca di ricondurre l’I. all’intelligenza;
l’interpretazione c) cerca di ricondurlo al sentimento. B) Nella psicologia
contemporanea, l’influsso dell’indirizzo gestaltista, mentre determina il
definitivo abbandono della teoria dei riflessi, che tendeva a risolvere l’I. in
attività elementari (che sarebbero appunto le azioni riflesse), ha anche
favorito l’abbandono di ogni teoria esplicativa e il ricorso a teorie
descrittive, fondate su ampia base di osservazioni. Da questo punto di vista,
la descrizione dell’I. più comunemente adottata è quella data da G. E. Muller,
che ha opportunamente modificata una definizione di MacDougall: « L’I. è una
disposizione psico-fisica, dipendente dall’eredità, spesso completamente
formata subito dopo la nascita, altre volte solo dopo un certo periodo di
sviluppo, disposizione che guida l’animale a fare particolare attenzione ad
oggetti di una certa specie o in un certo modo e a sentire, dopo averli
percepiti, una spinta verso un’attività determinata, in connessione con essi +
(cfr. D. Katz, Mensch und Tier, 1948; trad. ingl, pag. 171). Definizioni di
questa specie rendono inutile perfino il nome di I. che infatti alcuni
psicologi tendono a sostituire ISTINTO con altri termini, meno compromessi da
un uso secolare (propensione, tendenza, erg). Talvolta si insiste sul carattere
totalitario della disposizione istintiva considerandola come uno +*schema
unitario », che cresce e diminuisce come un tutto (cfr. R. B. CATTELL,
Personality, New York, 1950, pag. 195). L’etologia comparata distingue nell’I.
ciò che Konrad Lorenz ha chiamato i/ meccanismo innato scatenante, che è
l’insieme delle condizioni che fanno da stimolo alla condotta istintiva, e
l’atto consumatorio che è costituito da uno schema o piano, gerarchicamente
ordinato, di movimenti, che è il vero e proprio comportamento istintivo. Questo
ordinamento gerarchico del comportamento istintivo diventa meno flessibile a
misura che ci si avvicina al livello della condotta in atto. Tinbergen ritiene
che questa flessibilità dipende dai cambiamenti del mondo esterno (The Study of
Instinct, 1951, pag. 110). Lorenz ritiene che lo scatenamento della condotta
istintiva possa anche essere provocato da un accumulo di energia endogena e
ritiene che, nell’animale come nell’uomo, questo accumulo di energia
(prevalentemente di natura fisico-chimica) costituisce un /. di aggressione
che, se abbandonato a se stesso conduce gli uomini alla distruzione reciproca,
ma che può essere disciplinato o convogliato verso mète che non mettano in
pericolo la convivenza umana. Lo sfogo dell'aggressione sopra oggetti costitutivi
sarebbe il privilegio dell’uomo, che può essere capace di mutare la direzione
del suo impulso istintivo (Das sogenannte Bose, 1963, cap. XII). Questa
dottrina continua tuttavia ad attribuire all’I. la parte prevalente nella
determinazione del comportamento umano, come di quello animale, ma dall’altra
parte si è pure dubitato che si possa per spiegare tale comportamento usare il
concetto di I. (cfr. il simposio su questo argomento nel British Journal of
Educational Psychol., novembre 1941). Oppure si prospetta una concezione «
statistica » dell’I., per la quale esso è soltanto « il fattore di un gruppo
innato e conativo » (BURT, « The Case for Human Instincts » nella Riv., cit.,
3* parte; cfr. J. FLucEL, Studies in Feeling and Desire, London, 1955). Tale negazione
dell’I. riguarda soprattutto l’uomo. Katz aveva detto: « Nell’uomo gli I.
determinano solo la forza di una spinta all’azione e il suo schema generale.
Questo schema è indefinito e varia da occasione a occasione e da un individuo
all’altro. Per es., in tutti i bambini l’I. del gioco si sviluppa e fiorisce a
un certo tempo e poi muore. Ma il modo in cui i bambini realmente giocano varia
enormemente. Ciò non di meno, proprio nell’infanzia l'uomo è più soggetto
all’influenza degli istinti. Più tardi, la sua condotta di vità è così
controllata dalle forze esterne che la sua base ISTITUZIONE istintiva può
difficilmente esser distinta. A differenza degli animali, egli non passa la sua
vita dentro la sicurezza degli I.; ma ha la capacità di formarseli da sè »
(Animals and Men, cit., pag. 173). Nella sociologia, l’I. è stato talora
invocato come fattore formativo dominante della cultura o dei suoi aspetti
fondamentali. AIl’I. Pareto riportava le azioni « non logiche » (Sociologia
generale, 1923, $ 157). Thorstein Veblen, ricorreva, nelle sue spiegazioni
sociologiche, frequentemente all’I.: per esempio, all’I. dell’efficienza,
all’I. animistico, ecc. (cfr. The
Instinct of Workmanship and the State of Business Enterprise, 1904). Questo punto di vista è oggi spesso contraddetto: «La
cultura non è istintiva sotto nessun aspetto: essa è esclusivamente appresa. A
partire dalla pubblicazione dell’Z. di BERNARD nel 1924, è stato impossibile
accettare ogni teoria degli I. come la spiegazione dello schema culturale
universale o come la soluzione di qualche problema culturale » (G. P. MurDOCK,
in R. LinToN, The Science of Man in the World Crisis, New York, 73 ediz., 1952,
pag. 126127). 515 ISTITUZIONE (lat. Institutio; ingl. Institution; franc.
Institution; ted. Anstalt). 1. Nella logica terministica medievale, è
l’adozione di un nuovo vocabolo nel corso della discussione e per il tempo che
essa dura (cfr. OcKHaM, Summ. Log., III, 3, 38). Lo scopo di questa adozione è
quello di rendere il linguaggio più conciso; o quello di discutere di una cosa
sconosciuta; o quello di ingannare l’interlocutore o di permettergli di
rispondere più facilmente alle obiezioni. In quest’ultimo senso è una delle
obbligazioni (v.). 2. Nella sociologia contemporanea, il termine è di uso
frequente ed è stato assunto, per es., da Durkheim come l’oggetto specifico
della sociologia definita per l'appunto come «scienza delle istituzioni »
(Régles de la méthode sociologique, 2* ediz., pag. xxm). L'istituzione è stata
talvolta intesa come un insieme di norme che regolano l’azione sociale (come fa
per l'appunto Durkheim); talaltra, in senso più generale, come « qualsiasi
atteggiamento sufficientemente ricorrente in un gruppo sociale » (cfr.
ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, IV, 2). K K. Nella logica di
Lukasiewicz la lettera K viene usata per indicare la congiunzione che più
comunemente è simboleggiata con un punto «.». Cfr. A. CHURCH, /ntroduction to
Mathematical Logic, n. 91. KABBALA. Una delle fonti della filosofia giudaica
medievale. Xabalah (= tradizione) è una dottrina segreta che fu dapprima
trasmessa oralmente, poi esposta da alcuni rabbini in un certo numero di
trattati, di cui due ci sono giunti interi o quasi Il libro della Creazione
(Yessjrah) e il Libro dello Splendore (Zohar). Questi libri (di cui non si
conosce la data della composizione), espongono una dottrina simile a quella dei
neoplatonici e dei neopitagorici dei primi secoli dell’era volgare. Dio è in sè
inaccessibile, sfugge ad ogni conoscenza e rifiuta ogni determinazione: è la negazione
di ogni cosa determinata, il niente di ogni cosa. La luce divina si concentra e
si proietta in raggi che costituiscono le sostanze emanate o Numeri (Sephirot)
che formano gli esseri intermedi e il mondo. Le prime due sostanze sono la
Saggezza (Hochma) e l’Intelligenza (Logos) che, con Dio, formano le prime tre
ipostasi nonchè il mondo invisibile che è modello di quello visibile. I due
mondi sono legati insieme dall’amore: il mondo inferiore tende al superiore e
in risposta a quest’impulso il mondo superiore desidera e ama quello inferiore.
— La K. ebbe molta fortuna anche nel periodo del Rinascimento, soprattutto fra
i platonici. In particolare Pico della Mirandola che cercò di unificare e
organizzare in un nuovo spirito l’intero sapere tradizionale, vide nella K. lo
strumento adatto a penetrare nei misteri divini e perciò la guida per
l’interpretazione delle Sacre Scritture. Egli perciò considerava le dottrine
della K. in accordo non solo con il cristianesimo, ma anche con le dottrine di
Pitagora e di Platone, delle quali essa avrebbe rappresentato il precedente
antichissimo (De hominis dignitate, fol., 138 r). Sulla K. confronta H.
Sérouva, La Kabbale, 1947; 23 ediz., 1957). KALOKAGATIA (gr. xadQoxaya0la).
L'ideale greco della perfetta personalità umana. Si possono trovare due
definizioni di questo ideale: 1° come virtù intera, e in questo senso è
l’ideale platonico. Platone non usa il termine o lo usa (forse conformemente al
significato corrente), per indicare i ricchi (Rep., 569 a); ma il suo punto di
vista viene riferito nell’Erica Eudemia (VIII, 15) e nei Magna Moralia dove si
dice: « Non a torto si chiama K. ciò che è perfettamente buono. Buono e bello
chiamano infatti chi è compiutamente bravo, cioè coraggioso e ha tutte le altre
virtù... L'uomo bello e buono non è corrotto dagli altri beni, per es., dalla
ricchezza e dalla potenza » (Magna Mor., II, 9, 1207 b); 2° come virtù
magnanima (v. MAgNANIMITÀ). Dice Aristotele: « È difficile essere magnanimi:
non è possibile infatti senza K.» (Er. Nic., IV, 3, 1124a 4). KANTISMO. V.
CRITIcISMO. KARMAN. V. Buppismo. KENNETICO (Ingl. Kenneric). Neologismo coniato
da A.F. Bentley e tratto (dallo scozzese ken o kenning che significa conoscere)
per contrassegnare l’indagine transazionale (/nquiry into Inquiries, 1954) (v.
TRANSAZIONE). È L. Posposto o anteposto a termini come concetto, verità, ecc.,
significa /ogico. In generale, come dice Carnap, un L-termine, per es., «
L-vero + si applica ogni volta che il termine radicale corrispondente, per es.,
«vero», si applica sulla base di ragioni semplicemente logiche, in contrasto
con ragioni di fatto (Introduction to Semantics, $ 14). LAICISMO (ingl.
Laicism; franc. Lalcisme). Con questo termine si intende il principio
dell’aufonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si
svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno,
per fini o interessi diversi da quelli cui esse si inspirano. Questo principio
è universale e può essere legittimamente invocato in nome di qualsiasi attività
umana legittima: intendendosi per attività « legittima » ogni attività che non
ostacoli, distrugga o renda impossibile le altre. Pertanto esso non può essere
inteso solamente come la rivendicazione dell’autonomia dello Stato di fronte
alla Chiesa o per meglio dire al clero; giacchè è servito anche, come la sua
storia dimostra, alla difesa dell’attività religiosa contro quella politica e
serve anche oggi in molti paesi a questo scopo; come serve a quello di
sottrarre la scienza o in generale la sfera del sapere alle influenze estranee
e deformanti delle ideologie politiche, dei pregiudizi di classe o di razza,
ecc. Papa Gelasio I che alla fine del v secolo esponeva in un trattato e in
alcune lettere la teoria detta delle « due spade» fu probabilmente il primo a
fare appello con chiarezza al principio del L.: il quale rimase sconosciuto
all’antichità classica per il fatto che essa non conobbe alcun conflitto di
principio fra le varie attività umane. La teoria delle due spade cioè di due
poteri distinti, entrambi derivanti da Dio, quello del papa e quello
dell’imperatore, serviva a Gelasio I per rivendicare l'autonomia della sfera
religiosa nei confronti di quella politica. Essa rimase per molti secoli la
dottrina ufficiale della chiesa e ancora nel sec. x il canonista Stefano di
Tournai la esprimeva con estrema nettezza (Summa Decretorum, Intr.). Il
principio espresso in questa dottrina rimane lo stesso, quando le parti
s’invertono o la dottrina viene invocata a difendere il potere politico contro
quello ecclesiastico: come fa Giovanni di Parigi nel suo trattato Su/la potestà
regia e papale (1302-3); come farà Dante, alcuni anni più tardi, nel De
monarchia; e come fecero Marsilio da Padova nel Defensor pacis (1324) e
Guglielmo di Ockham nei suoi scritti politici. Certamente le dottrine politiche
ed ecclesiastiche di questi scrittori erano differenti e qualche volta opposte;
ma è chiaro che la teoria dei due poteri non è altro che l’appello
all'autonomia delle sfere rispettive di attività e che quest’ultimo non trae la
sua forza dalla particolarità delle dottrine ma dal riconoscimento
dell’autonomia, che è il principio del laicismo. Questo principio divenne
un'esigenza fondamentale nella vita civile nei comuni italiani, francesi, belgi
e tedeschi (cfr. SALVEMINI, Studi storici, Firenze, 1901; PIRENNE, Les Villes
du moyen dge, Bruxelles, 1927; DE LAGARDE, La naissance de l’esprit lalque, au
déclin du moyen dge, Louvain-Paris, 38 ediz., 1956); il Rinascimento e
l’Illuminismo non sono che due tappe successive della sua progressiva
prevalenza nella vita politica e civile dell'Occidente. Ma, come si è detto, il
principio del L. non vale soltanto nei rapporti tra l’attività politica e
quella religiosa. Nella prima metà del sec. x1v Guglielmo di Ockham rivendicava
con energiche parole l’autonomia della ricerca filosofica. A proposito della
condanna di alcune proposizioni di San Tommaso fatta dal Vescovo di Parigi nel
1277 egli diceva: «Le asserzioni principalmente filosofiche, che non concernono
la teologia, non debbono essere da alcuno condannate o interdette, giacchè in
esse chiunque dev'essere libero di dire liberamente ciò che gli piace »
(Dialogus inter magistrum et discipulum de imperatorum et pontificum potestate,
I, II, 22). Questa è stata la prima e certo una delle più energiche
affermazioni del principio del L. in filosofia; è dovuta a un 518 frate
francescano del *300. Nel sec. xvm Galilei affermava lo stesso principio nei
confronti della scienza, polemizzando contro i limiti e gli impacci che possono
venire alla scienza dall’autorità ecclesiastica. La Sacra Scrittura e la
natura, egli diceva, procedono entrambe dal Verbo divino; ma mentre la parola
di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli uomini ai quali si
rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non trascende i termini
delle leggi impostegli perchè non si cura che le sue recondite ragioni siano o
non siano comprese dagli uomini: sicchè « quello degli effetti naturali che o
la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni
ci concludono, non debba in conto alcun esser revocato in dubbio, non che
condannato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso
sembiante » (Lett. alla Grand. Cristina, in Op., V, pag. 316). Galilei
rivendicava così l'autonomia della scienza, negli stessi termini in cui Ockham
aveva rivendicato l’autonomia della filosofia. Il principio del L. è stato il
fondamento della cultura moderna ed è indispensabile alla vita e allo sviluppo
di tutti gli aspetti di questa cultura. I soli autentici avversari del L. sono
gli indirizzi politici totalitari cioè quegli indirizzi che intendono
impadronirsi del potere politico e esercitarlo a/ solo scopo di conservarlo per
sempre. Tali indirizzi pretendono infatti di impadronirsi del corpo e
dell’anima dell’uomo, per impedirgli ogni critica o ribellione. Per quanto il
romanticismo ottocentesco abbia incoraggiato la persistenza o la reviviscenza
di tali indirizzi, essi si trovano oggi contrastati dalla stessa situazione
oggettiva che esige in ogni campo lo sviluppo del sapere positivo: questo
sapere a sua volta esige l'autonomia delle sue regole, cioè il laicismo.
D’altra parte un indirizzo politico totalitario può essere agevolmente
riconosciuto proprio dal suo atteggiamento nei confronti del principio L.: sia
che si appoggi a una confessione religiosa, sia che si appoggi ad un’ideologia
razzista o classista o ad altra qualsiasi, esso tende in primo luogo a
sminuire, ed al limite a distruggere, l'autonomia delle sfere spirituali, come
tende a diminuire e a distruggere i diritti di libertà dei cittadini. Il L.
difatti è, sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che la
libertà è sul piano dei rapporti degli uomini fra loro: è il limite o la misura
che garantisce a quelle attività la possibilità di organizzarsi e svilupparsi,
come la libertà è il limite e la misura che garantisce ai rapporti umani la
possibilità di mantenersi e svilupparsi. Riconosciuto nella sua struttura
concettuale e storica, il principio del L. non mostra alcun carattere di
antagonismo con alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo. In
primo luogo, esso è servito spesso ai cattolici per difendere l’autonomia
LAMARCHISMO della loro attività; e tuttora costituisce la politica ufficiale
del cattolicesimo nei paesi in cui esso non ha un partito politico a sua
disposizione, per es., nei paesi anglosassoni. In secondo luogo, è interesse
dei cattolici, come di tutti, che l'amministrazione dello stato, le scienze, la
cultura, l'educazione e in generale le sfere dell’attività umana, si
organizzino e reggano su princìpi che possano essere riconosciuti da tutti,
cioè che siano indipendenti dalla inevitabile disparità delle credenze e delle
ideologie, e perciò rendano efficaci e feconde le attività che su di essi si
fondano. È abbastanza ovvio che un’amministrazione politica la quale favorisca
certi gruppi di cittadini a danno degli altri, in vista delle loro credenze
religiose, è semplicemente un’amministrazione inefficiente e corrotta e non può
rivendicare meriti «religiosi ». Allo stesso modo, un potere giudiziario che
non applichi con scrupolo ed equità la legge valida dello stato, non offre
garanzie per nessuno, perchè è, parimenti, inefficiente e corrotto. Una scienza
che serva gli interessi di partiti, credenze e ideologie, non può a nessun
titolo considerarsi meritoria: non è affatto una scienza. Essa sarebbe simile a
un’arte medica che assumesse come criterio di diagnosi, prognosi e cura i
desideri del paziente o di altre persone; o più esattamente un’arte medica
siffatta sarebbe un caso di scienza « non laica + cioè clericale o partitica.
Il L. non è nell’interesse di questo o quel gruppo politico, religioso o
ideologico; è nell’interesse di tutti. Posto, s’intende, che l’interesse di
tutti sia lo sviluppo armonico delle attività che assicurano la sopravvivenza
dell'uomo nel mondo. LAMARCHISMO. V. EvoLUZIONE. LASSISMO. V. Ricorismo.
LATENTE (lat. Latens). F. Bacone chiamava L. il processo naturale che va dalla
causa efficiente della materia sensibile sino alla forma: cioè il processo di
costituzione della forma (Nov. Org., II, 1). I processi psichici latenti di cui
parlava la psicologia del secolo scorso sono quelli che oggi si chiamano
inconsci o subconsci. LATITUDINARIO (ingl. Latitudinarian; francese Latitudinaire;
ted. Latitudinarier). Kant chiamò con questo termine colui che ammette in
alcuni casi la neutralità morale cioè l’esistenza di atti o caratteri umani
indifferenti dal punto di vista morale. « Costoro, egli dice sono o L. della
neutralità, che ammettono cioè che l’uomo non è nè buono nè cattivo e si
possono chiamare indifferentisti; o L. della coalizione che ammettono che
l’uomo è insieme buono e cattivo e si possono chiamare sincretisti ». L’opposto
di L. è rigorista cioè colui il quale non ammetta alcuna neutralità morale
(Religion, I, Osservazione). Il nome aveva originariamente indicato i
sostenitori, nella chiesa inglese del sec. xvi, di una più lata interpretazione
dei dogmi tradizionali. LAVORO LAVORO (gr. révos; lat. Labor; ingl. Labor; franc.
Travail; ted. Arbeit). L'attività diretta a utilizzare le cose naturali o a
modificare l’ambiente per l’appagamento dei bisogni umani. Il concetto di L.
implica perciò: 1) la dipendenza dell’uomo, quanto alla sua vita e ai suoi
interessi, dalla natura: il che costituisce il bisogno (v.); 2) la reazione
attiva a questa dipendenza, costituita da operazioni più o meno complesse
dirette all’elaborazione o all’utilizzazione degli elementi naturali; 3) il
grado più o meno elevato di sforzo, pena o fatica, che costituisce il costo
umano del lavoro. Soprattutto su quest’ultimo aspetto si fonda la condanna che
la filosofia antica e medievale ha pronunciata sul L. manuale (v. BanAUSIA).
Per questo stesso aspetto, il L. fu considerato dalla Bibbia come parte della
maledizione divina che fa séguito al peccato originale (Genesi, III, 19). E
nello stesso testo famoso di San Paolo il precetto: «Chi non vuol lavorare, non
mangi» è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la fatica e la pena
del lavoro (// Tessal., III, 8-10). Nello stesso senso veniva prescritto il L.
da Sant’Agostino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San Tommaso (S. Th., II,
II, q. 187 a. 3) come precetto religioso. Dalla esigenza di distribuire fra
tutti la pena e la degradazione del L. manuale sono ispirate l’Utopia (1516) di
Tommaso Moro e la Città del sole (1602) di Campanella, che prescrivono per
tutti i membri delle loro città ideali l’obbligo del lavoro. Su questa base, la
contrapposizione tra L. manuale e attività intellettuale, tra arti meccaniche e
arti liberali, rimaneva salda; ed anche nel Rinascimento la difesa quasi
unanime che letterati e filosofi fanno della vita attiva di fronte a quella
contemplativa e l’unanime condanna dell’ozio (al quale è tolto il carattere,
che l’età classica gli attribuiva, di disponibilità per attività superiori) non
sempre conducono ad una rivalutazione del L. manuale. Un passo di Giordano
Bruno afferma che la provvidenza ha disposto che l’uomo « vegna oceupato ne
l’azione delle mani, e contemplazione per l’intelletto, de maniera che non
contemple senza azione, e non opre senza contemplazione » (Spaccio della bestia
trionfante, 1584, in Op. Ital., II, pag. 152). Ma è soprattutto negli scritti
scientifici e tecnici che si afferma, a partire dal 400, la dignità del L.
manuale. Galileo esplicitamente riconosceva il valore delle osservazioni fatte
dagli artigiani meccanici ai fini della ricerca scientifica (Discorsi intorno a
due nuove scienze, in Op., VIII, pag. 49). Bacone poneva a fondamento del suo
sperimentalismo le «arti meccaniche», che agiscono sulla natura e
s’arricchiscono della luce dell’esperienza (Nov. Org., I, 74) e riteneva
pertanto indispensabili 519 le operazioni materiali o manuali per il
raggiungimento di un sapere che è nello stesso tempo un potere sulla natura in
vista dei bisogni e degli interessi umani (/b., I, 83). Se Cartesio dava poca
importanza alla parte tecnica o strumentale della scienza (che per lui rimaneva
un sistema rigidamente deduttivo) e così al L. manuale, Leibniz insisteva
invece sull'importanza del L. degli artigiani, dei contadini, dei marinai, dei
mercanti, dei musicisti, non solo ai fini della scienza, ma anche a quelli
della vita e della civiltà umana (Phil. Schriften, VII, pag. 180 sgg.). Queste
idee divennero predominanti nell’Illuminismo soprattutto per opera di Bacone e
di Locke; quest’ultimo riconosceva nella ricerca sperimentale, diretta a
determinare le proprietà dei corpi fisici, l’unico strumento di cui
l’intelletto umano dispone per accrescere la conoscenza dei corpi stessi, la
cui sostanza rimane sconosciuta (Saggio, IV, II, 25). L’articolo « Arr» di
Diderot nell’Encyclopedie, criticava sulle orme di Bacone la distinzione delle
arti in liberali e meccaniche, considerandola un pregiudizio tendente «a
riempire le città di ragionatori orgogliosi e di contemplativi superflui e le
campagne di tirannelli oziosi, pigri e altezzosi ». L’Illuminismo in generale
segna la rivendicazione della dignità del L. manuale; dal quale Rousseau voleva
che Emilio acquistasse la prima idea della solidarietà sociale e degli obblighi
che essa impone (Émile, [1762], IV). Kant, pur distinguendo il L. dall’arte non
riteneva possibile una netta separazione perché anche nelle arti liberali « è
necessario qualcosa di costretto o come si dice un meccanismo senza del quale
lo spirito non acquisterebbe corpo e svaporerebbe del tutto » (Crit. del Giud.,
$ 43). Ma solo con il Romanticismo si cominciò a stabilire il rapporto tra il
L. e la natura stessa dell’uomo. Fichte affermava che anche l’occupazione
ritenuta più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione
e la libera attività degli esseri morali, è santificata allo stesso modo
dell’azione più elevata (Sirrenlehre, III, $ 28). Ed Hegel ha dato la prima
dottrina filosofica del L., che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith
nell’economia politica (v.). Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel
considerava il L. come « la mediazione tra l’uomo e il suo mondo »; difatti, a
differenza degli animali, l’uomo con consuma immediatamente il prodotto
naturale ma elabora, nei modi e per i fini più diversi, la materia fornita
dalla natura, dando così a tale materia il suo valore e la sua conformità allo
scopo (Fil. del dir., $ 196). Soltanto nella soddisfazione dei bisogni per mezzo
del L., l’uomo è veramente tale: perché si educa sia teoricamente, attraverso
le conoscenze che il L. richiede, sia praticamente perché si abitua all’oc520
cupazione, adegua la propria attività alla natura della materia e acquista
attitudini universalmente valide. Perciò a differenza del barbaro che è pigro,
l’uomo incivilito è educato alla consuetudine e al bisogno dell'occupazione
(/5., $ 197 e Zusatz). Attraverso il L., «l’egoismo soggettivo si converte
nell’appagamento dei bisogni di tutti gli altri » sicché mentre «ciascuno
acquista, produce e gode per sé appunto perciò produce e acquista per il
godimento degli altri » (/b., $ 199). Hegel ha anche messo in luce la crescita
indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del L. e il rilievo che
acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib., $$ 195,
241, 245). Ha visto pure che la divisione del L. porta alla sostituzione della
macchina all'uomo. Difatti, con quella divisione, si accresce sì la facilità
del L. e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una sola abilità
e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso sociale.
L'abilità stessa diventa così meccanica e ne deriva la possibilità di surrogare
al L. umano la macchina (Enc., $ 526). Questi capisaldi hegeliani sono
accettati da Marx, il quale però insiste sul carattere naturale o materiale del
rapporto che il L. stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il carattere
spirituale che Hegel gli aveva riconosciuto e che gli permetteva di considerarlo
come un momento o una manifestazione della coscienza. Gli uomini cominciarono a
distinguersi dagli animali, secondo Marx, quando « cominciarono a produrre i
loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro
organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini
producono indirettamente la loro stessa vita materiale » (/deologia tedesca, I,
A; trad. it. pag. 17). Il L. non è quindi solo il mezzo con cui gli uomini si
assicurano la loro sussistenza: è la stessa estrinsecazione o produzione della
loro vita è un modo di vita determinato. La produzione e il L. non sono perciò,
una condanna per l’uomo: sono l’uomo stesso, il suo modo specifico di essere e
di farsi uomo. Attraverso il L. la natura diventa «il corpo inorganico
dell’uomo » e l’uomo può assurgere alla coscienza di sé, non tanto come
individuo, ma come «specie di natura universale + (Manoscritti
economico-politici del 1844, I, trad. it. pag. 230 sgg.). Il L. fa anche
dell’uomo un ente sociale perché lo mette in rapporto oltreché con la natura,
con gli altri individui: sicché i rapporti di L. e di produzione costituiscono
la trama o la struttura autentica della storia, della quale sono un riflesso le
varie forme della coscienza. Questo accade tuttavia nel L. non alienato, cioè
non divenuto merce, quale è invece nella società capitalistica: giacché in
questo caso insorge il contrasto tra la personalità del singolo proletario e il
L. come conLAVORO dizione di vita che gli è imposta dai rapporti in cui entra
come oggetto e non più come soggetto (Ideologia tedesca, I, C; trad. it. pag.
75). Dal punto di vista di un’etica religiosa, Kierkegaard affermava a sua
volta la stretta connessione del L. con la dignità dell’uomo. « Quanto più
basso è il gradino in cui sta la vita umana, egli diceva, tanto meno si mostra
la necessità di lavorare; quanto più in alto sta, tanto più questa necessità si
manifesta. Il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano e lo
esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio con il
L. l’uomo si rende libero; il L. signoreggia la natura, con il L. egli mostra
che sta più in alto della natura » (Entweder-Oder, II, in Werke, III, pag.
301). Questa stretta connessione del L. con l’esistenza umana, che nobilita il
L. stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della
filosofia e in generale della cultura contemporanea. E anche al di fuori
dell'ambito marxista, il carattere penoso del L. è messo sul conto, non del L.
stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società
industriale. Dice Dewey: «È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a
trovare una via d'uscita e il trovarla è in sé soddisfacente perché segna una
riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente
insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti
a impegnarsi in essa, questo fatto è un’ampia prova che le condizioni sotto le
quali il L. è svolto impediscono il complesso delle attività invece di promuoverle,
irritano e frustrano le tendenze naturali invece di indirizzarle verso la
fruizione » (Human Nature and Conduct, II, 3, pagg. 123-24). Nietzsche tuttavia
aveva già visto nel L., un tradimento alla spiritualità gioiosa e contemplativa
che dovrebbe essere propria dell’uomo. Aveva scritto a proposito degli
americani: «Il loro furibondo L. senza respiro — il vizio peculiare del Nuovo
mondo — comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a
estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità ». Aveva notato
come solo il L. dà «la buona coscienza» e che invece l’inclinazione alla gioia,
chiamata «bisogno di creazione» comincia a vergognarsi di sé (Die Froehliche
Wissenschaft, 1882, $ 329). E aveva visto in un L. così concepito «la miglior
polizia, che tiene tutti soggiogati ed è in grado di impedire vigorosamente lo
sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza »
(Morgenròthe, 1881, $ 173). A queste idee di Nietzsche si rifanno
implicitamente o esplicitamente, coloro che contrappongono il gioco al L. o
vogliono trasformare il L. in gioco. «Il gioco è improduttivo e inutile, ha
LEGGE scritto Marcuse, proprio perché cancella i tratti repressivi e
sfruttatori del L. e dell’agio; esso * semplicemente gioca * con la realtà». Ma
dall’altro lato lo stesso Marcuse afferma che un ordine « non repressivo » del
L. è un ordine di abbondanza che si ha «quando tutti i bisogni fondamentali
possono soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in
un tempo minimo.» (Eros e civiltà, cap. 9, trad. it. pagg. 212-13). AI fondo
della negazione del valore del L. sta, più che la condanna delle forme alienate
e meccanizzate che il L. ha assunto nella civiltà contemporanea, la nostalgia
di una vita puramente contemplativa, la fede in una vita istintiva che, se non
è repressa dal L., riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto.
LEGALISMO (ingl. Lepalism; franc. Lépalisme; ted. Legalismus). L’atteggiamento
che insiste sulla osservanza letterale della legge. In morale, è lo stesso che
rigorismo (v.). Fuori della morale, consiste nel dare eccessivo valore alle
prescrizioni o ai procedimenti formali. LEGALITÀ (ingl. Legality; franc.
Légalité; ted. Legalitàt, Gesetzlichkeit). La conformità di un’azione alla legge.
Kant distinse la L. così intesa dalla vera e propria moralità. «Il puro accordo
o disaccordo di un’azione con la legge, egli disse, senza riguardo al movente
dell’azione stessa, si chiama L. (conformità alla legge); quando invece l’idea
del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo movente dell’azione si ha
la moralità (dottrina morale)» (Met. der Sitten, Intr., $ III; cfr. Crit. R.
Prat., I, cap. III. Questa distinzione era stata, in forma più attenuata,
introdotta per la prima volta da Tomasio per distinguere la norma giuridica
dalla norma morale (v. Diritto); e allo stesso scopo se ne avvale Kant nella
Metafisica dei costumi. LEGGE (gr. vépoc; lat. Lex; ingl. Law; francese Loi;
ted. Gesetz). Una regola dotata di necessità, intendendosi per necessità: 1°
l'impossibilità (o l’improbabilità) che la cosa regolata accada altrimenti;
oppure 2° una forza che garantisca la realizzazione della regola. La nozione di
L. è distinta da quella di regola e da quella di norma. La regola (che è
termine generalissimo) può anche essere infatti priva di necessità; e regole
sono non solo le L. naturali o le norme giuridiche ma anche le prescrizioni
dell’arte o della tecnica. La norma poi è una regola che concerne soltanto le
azioni umane e non ha di per sè valore necessitante: pertanto non sono norme le
leggi naturali e le regole tecniche; ed una norma, ad esempio di natura morale,
non è costrittiva allo stesso modo di una legge giuridica. Da questo punto di
vista esistono solo due specie di L.: le L. di natura e le L. giuridiche.
Poichè la nozione 521 di L. giuridica è stata analizzata sotto la voce DiRITTO,
rimane qui da analizzare la nozione di L. naturale. Si possono distinguere le
seguenti fondamentali interpretazioni di essa: 1° la L. come ragione; 2° la L.
come uniformità; 3° la L. come convenzione; 4° la L. come relazione simbolica.
1° La nozione della L. come ragione è sorta nella Grecia antica dal
trasferimento al mondo naturale di quel concetto di giustizia o di ordine
ch’era stato elaborato nei confronti del mondo umano (cfr. JAEGER, Paideia, I,
cap. 6; trad. ital., I, pag. 212 ag.). Anassimandro per primo trasferì la
nozione di dike dal mondo della polis al mondo della natura e intese il legame
causale nel nascere e nel perire delle cose come la L. che presiede a una
contesa giudiziaria nella quale tutti gli esseri, egli dice: « debbono
reciprocamente pagarsi il fio della loro ingiustizia nell’ordine del tempo»
(Fr. 9, Diels). Eraclito a sua volta concepiva questa L. come la stessa ragione
o Logos: del quale, come egli diceva «si nutrono tutte le L. umane» (Fr. 114,
Diels). Per quanto Platone (cfr. Tim. 83€) e Aristotele (De Cael., I, 1, 268 a
13) usino solo eccezionalmente l’espressione « L. di natura », il concetto
della razionalità della natura e della esprimibilità di tale razionalità in
proposizioni universali e necessarie è stato fatto prevalere proprio da loro
nella storia della filosofia. Lucrezio si servì dell’espressione « patto di
natura» (foedus naturae; De nat. rer., V, 57, 924; VI, 906). E il concetto
stoico del destino o della provvidenza è l’espressione dello stesso punto di
vista (Diog. L., VII, 149). Plotino ammetteva, anche per le cose che si
sottraggono al destino, una legge che deriva per esse direttamente
dall'Intelletto divino (Enn., IV, 3, 15). La soggettivazione delle L. di natura
operata da Kant nel tentativo di vedere la loro « sorgente » nell'intelletto e
precisamente nelle forme a priori dell’intelletto (categorie) non muta molto il
concetto di L. naturale che rimane, anche per Kant, l’espressione della
razionalità della natura e sia pure di una razionalità che nella natura (come
fenomeno) è introdotta dallo stesso intelletto. « Le L. naturali, dice Kant, se
vengono considerate come princìpi dell’uso empirico dell’intelletto hanno insieme
l'impronta della necessità e quindi almeno la presunzione di una determinazione
derivante da princìpi valevoli in sè a priori e antecedentemente ad ogni
esperienza. Tutte le L. della natura, senza distinzione, sottostanno ai
principi superiori dell’intelletto e applicano tali princìpi a casi particolari
del fenomeno. Questi princìpi soltanto dànno il concetto che contiene la
condizione, e per così dire l’esponente di una regola in generale; ma
l’esperienza dà il caso che è sottoposto alla regola» (Crir. R. Pura, Analitica
dei Princ., cap. II, sez. 3). Schelling interpretava la 522 formulazione delle
L. naturali come la progressiva trasfigurazione della natura in razionalità.
«La scienza della natura, egli diceva, toccherebbe il sommo della perfezione se
giungesse a spiritualizzare perfettamente tutte le L. naturali in L. della
intuizione e del pensiero. I fenomeni (il materiale) debbono scomparire
interamente e rimanere soltanto le L. (il formale). Accade perciò che, quanto
più nel campo della natura balza fuori la L., tanto più si dissipa il velo che
l’avvolge, gli stessi fenomeni si rendono più spirituali e infine spariscono
del tutto. I fenomeni ottici non sono altro che una geometria le cui linee sono
tracciate per mezzo della luce e questa luce stessa è già di dubbia materialità
» (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag.
8-9). Si può dire che ogni interpretazione razionalistica della scienza faccia
proprie, in un certo grado, queste tesi di Schelling. La L. non è da questo
punto di vista che l’espressione della razionalità della natura; e la sua
formulazione, da parte della scienza, non ha che lo scopo di ridurre la natura
a ragione. 2° La concezione della L. naturale come di un rapporto costante tra
i fenomeni è stata proposta per la prima volta da Hume. La L. naturale è,
secondo Hume, il risultato di « un’esperienza fissa e inalterabile » (Ing.
Conc. Underst., X, 1): l’esperienza della « congiunzione costante di oggetti
simili», alla quale si riduce il rapporto causale. La connessione abituale e
costante tra eventi diversi è quella che autorizza a parlare di causalità,
consente la previsione degli eventi futuri ed esclude il miracolo (/bid., VII,
2). Questa concezione veniva adottata da Comte e con lui dalla scienza positivistica.
«Il carattere fondamentale della filosofia positiva, diceva Comte, è di
considerare tutti i fenomeni come soggetti a L. naturali invariabili, la cui
scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero possibile sono lo scopo di
tutti i nostri sforzi ». Queste L. consistono non già nell’esporre «le cause
generatrici dei fenomeni » ma solo esprimono ciò che connette i fenomeni gli
uni con gli altri mediante « relazioni normali di successione e di simiglianza»
(Cours de phil. positive, I, lez. I, $ Il). Dallo stesso punto di vista, Stuart
Mill considerava le L. come casi speciali dell’uniformità della natura. «Le
varie uniformità, egli diceva, quanto sono accertate da ciò che è considerata
come un’induzione sufficiente sono dette, nel comune linguaggio, L. di natura.
Scientificamente parlando, il titolo è adoperato in senso più ristretto per
designare le uniformità che sono state ridotte alla loro espressione più
semplice » (Logic, III, 4, $ 1). Questa concezione ha dominato l’intero
positivismo classico ed è entrata in crisi soltanto col riconoscimento del
carattere economico delle L. naturali, effettuato da Mach. LEGGE 3° Il concetto
di L. naturale come convenzione nasce sul fondamento della funzione economica
che alla conoscenza scientifica aveva riconosciuto Mach. Egli aveva, a questo
proposito, affermato il carattere soggettivo delle L. naturali. Solo i nostri
concetti e la nostra intuizione, egli diceva, prescrivono L. alla natura. « Le
L. naturali sono le restrizioni che noi, guidati dall'esperienza, prescriviamo
alla nostra aspettazione dei fenomeni » (Erkenniniss und Irrtum, cap. 23; trad.
franc., pag. 368). Il progresso della scienza conduce a una restrizione
crescente delle possibilità di previsione cioè alla loro crescente determinazione
e precisione. Questo riconoscimento del carattere economico o utilitario della
scienza è stato, in filosofia, largamente incoraggiato dalla filosofia di
Bergson e dal pragmatismo. La prima, attribuendo all’intelligenza soltanto la
funzione vitale di fabbricare oggetti e di orientarsi nel mondo naturale,
faceva della scienza, che è la creazione dell’intelligenza, « l’ausiliaria
dell’azione » (BERGSON, La penseé et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158) e
non poteva riconoscere alle L. scientifiche alcuna validità teoretica. Il
pragmatismo, a sua volta, generalizzando la tesi della strumentalità della
conoscenza, incoraggiava l’interpretazione delle L. scientifiche come semplici
strumenti dell’orientazione pratica dell’uomo nel mondo. Alcune forme dello spiritualismo
e dell’idealismo hanno interpretato questa funzione economica della scienza
come segno dell’inferiorità teoretica della scienza stessa (talvolta
dell’intero pensiero discorsivo) nei confronti della filosofia e dei suoi
organi specifici. Eduardo Le Roy, portando all’estremo la critica di Bergson,
affermò il carattere convenzionale della scienza e perciò la natura arbitraria
delle sue leggi. Il compito della scienza è, secondo Le Roy, quello di trovare
costanti utili; ed essa le trova perchè l’azione umana non comporta una
precisione assoluta ma esige solo che la realtà sia approssimativamente
rappresentata, nei suoi rapporti con noi, da un sistema di costanti simboliche
chiamate L. (Science et philosophie, 1899-1900). La stessa tesi, in
un’esagerazione quasi caricaturale, si può trovare espressa da Croce: « Appunto
perchè queste L., egli diceva, sono nostre costruzioni e dànno come fisso il
mobile, non solamente esse non sono ineccepibili e patiscono talvolta
eccezioni, ma addirittura non vi ha fatto reale che non sia eccezione alla sua
L. naturalistica ». Ciò accade perchè non ci sono uniformità rigorose e un
orsacchiotto non è mai del tutto simile ai suoi genitori. « Onde si potrebbe
definire: le L. inesorabili della natura sono L. che a ogni attimo vengono
violate; e, per converso, le L. filosofiche sono quelle che vengono in ogni
attimo osservate... Le scienze naturali, che non forniscono conoscenze vere,
hanno ancora minore LEMMA diritto (se è lecito esprimersi così) a parlare di
previsione » (Logica, II, cap. 5; 4* ediz., 1920, pag. 218). Contro la natura
convenzionale delle L. si espresse Poincaré polemizzando contro Le Roy. La L.
non è una creazione arbitraria dello scienziato, ma è l’espressione,
approssimativa o provvisoria, di una costanza d’azione che permette la
previsione. È ben vero che talvolta qualche L. viene elevata a principio e così
sottratta al controllo dell’esperienza e all’incessante revisione che essa
comporta; ma in tal caso la L. cessa di essere vera o falsa per diventare soltanto
comoda; e il controllo continua ad essere esercitato sulle relazioni che
esprimono «il fatto bruto dell’esperienza» (La valeur de la science, pag. 239).
Poincaré osserva pure che «lo scienziato crea nel fatto soltanto il linguaggio
nel quale lo enuncia » ma che, una volta enunciato una predizione in un
determinato linguaggio « non dipende evidentemente da lui che la predizione
stessa si realizzi o non si realizzi » (/bid., pag. 233). La stessa critica
veniva rivolta alla tesi del carattere convenzionale delle L. scientifiche da
Moritz Schlick. Utilizzando la distinzione tra enunciato e proposizione la
quale è un enunciato dotato di significato (in quanto compie realmente la
funzione della comunicazione) Schlick ritenne che «il contenuto proprio di una
legge naturale consiste nel fatto che a certe regole grammaticali (per. es., di
una geometria) corrispondono alcune proposizioni definite come descrizioni vere
della realtà ». Poichè questo fatto è completamente invariante rispetto a ogni
arbitrario mutamento delle regole grammaticali, non si può effettuare la
riduzione delle L. di natura a mere convenzioni linguistiche. «Solo le
proposizioni sono vere o false, non gli enunciati. Gli enunciati infatti sono
soggetti a modificazioni arbitrarie ma questo non concerne chi si preoccupa
della conoscenza dei fatti. Con l’aiuto delle regole dei simboli (la cui
grammatica egli deve certo conoscere perchè senza di essa gli enunciati
sarebbero privi di senso per lui) egli può sempre giungere sino alle
proposizioni genuine la cui verità non dipende dalle predilezioni dei simboli »
(Gesetz, Kausalitàt, und Wahrscheinlichkeit, Vienna, 1948; ora in Readings in
Phil. of Science, 1953, pag. 181 sgg.). 4° Le critiche di Poincaré e Schlick
alla tesi della natura convenzionale della L. scientifica muovono da quella che
si può chiamare la quarta concezione fondamentale della L. stessa, cioè la
concezione della L. come rapporto simbolico tra i fatti. Questa tesi è stata
espressa per la prima volta da Duhem nel suo libro sulla Teoria fisica e veniva
da lui riassunta così: « Una L. di fisica è una relazione simbolica la cui
applicazione alla realtà concreta esige che si conosca e si accetti tutto un
insieme di teorie » (Théorie physique, 1906, pag. 274). Questo 523 vuol dire
che i termini simbolici, che una legge mette in relazione, sono astrazioni
prodotte dal lavoro lento, complicato e consapevole che è servito a elaborare
le teorie fisiche; e che questo lavoro non è mai definitivamente compiuto. «
Ogni L. fisica, dice Duhem, è una L. approssimata: di conseguenza, per il
logico rigoroso, essa non può essere nè vera nè falsa; ogni altra L. che
rappresenti le stesse esperienze con la stessa approssimazione può pretendere,
con lo stesso diritto della prima, al titolo di L. vera, o per parlare più
rigorosamente, di L. accettabile » (Ibid., pag. 280). Questi concetti sono
rimasti sostanzialmente immutati nella filosofia contemporanea. Le osservazioni
di Schlick contro la convenzionalità delle L. naturali e in favore del
carattere simbolico delle L. stesse, costituiscono una conferma sostanziale dal
punto di vista di Duhem. Una L. è pur sempre un enunciato grammaticale e
presuppone pur sempre la grammatica del linguaggio in cui si esprime; ma per
quanto tale grammatica possa essere considerata convenzionale, non lo è il
significato della L. in quanto si riferisce a rapporti tra fatti,
verificabilmente costanti e tali da rendere possibile una previsione probabile.
Per quanto la teoria di Duhem sia stata formulata anteriormente al
riconoscimento del carattere probabilistico della scienza, quella che egli
chiamava « approssimazione delle L. di natura » lasciava la via aperta a quello
che oggi si chiama carattere probabilistico delle L. stesse. Piuttosto, la
funzione che la metodologia delle scienze tende oggi a riconoscere sempre più
come predominante alla L. scientifica è la capacità di previsione. « Una
proposizione, ha detto Peirce, non può essere chiamata ‘legge di natura’ finchè
la sua capacità di previsione non sia stata messa a prova e confermata in modo
tale che nessun dubbio rimanga su di essa » (Values in a Universe of Chance,
pag. 290). Una L. è in generale una formula per la previsione. Da questo punto
di vista la L. cessa di avere la necessità che la prima e la seconda
interpretazione le riconoscevano. La sua validità si misura dalla sua
efficienza; e questa efficienza dalla possibilità di ottenere con essa
previsioni che risultino sufficientemente corrette. LEGGE BIOGENETICA. V.
BIOGENETICA. LEGGE DEI TRE STADI. V. Posirivismo. LEGGE DELLA MINIMA AZIONE.
Vedi AZIONE MINIMA. LEGGE MODALE. V. MODALE. LEGGE PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA,
b). LEIBNIZIANISMO. V. CARATTERISTICA; SPIRITUALISMO. LEKTON. V. SignIFICATO.
LEMMA (gr. Xfuua; ingl. Lemma; francese Lemme; ted. Lemma). 1. La proposizione
che si assume come prima premessa di un ragionamento 524 (ARisT., Top., VIII,
1, 156 a, 21; Dio. L. VII, 76; Cicer. De Div., II, 53, 108). In questo senso
Kant chiamava L. la proposizione che una scienza assume senza dimostrazione,
desumendola da un’altra scienza (Crit. del Giud., $ 68; Logik, $ 39). 2. Un
teorema matematico laterale o subordinato, fuori della catena deduttiva
(LEIBNIZ, Nouv. Ess., IV, 2, 8). LENINISMO. V. Comunismo. LETIZIA (gr.
eòpposivn; lat. Laetitia). V. Giora. LEVIATANO (ingl. Leviathan). Dal nome di
un biblico mostro (Giob., 40, 20) Hobbes chiamò così « lo stato, in latino
civitas, che è un uomo artificiale, benchè di più grande statura e forza
dell’uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu ideato » (Leviath.,
Intr.); e dette questo titolo alla sua opera politica fondamentale (1561).
LIBERALISMO (ingl. Liberalism; franc. Libéralisme; ted. Liberalismus). La
dottrina che si assunse la difesa e la realizzazione della libertà nel campo
politico. Tale dottrina nasce e s’afferma nell'età moderna e può essere
considerata divisa in due fasi: 1° La fase settecentesca, caratterizzata
dall’individualismo; 2° la fase ottocentesca caratterizzata dallo statalismo.
1° La prima fase è caratterizzata dai seguenti indirizzi dottrinali che
costituiscono gli strumenti delle prime affermazioni politiche del L.: a) Il
giusnaturalismo (v.) che consiste nel riconoscere all’individuo diritti
originari e inalienabili; 5) Il contrattualismo (v.) che consiste nel
considerare la società umana e lo stato come frutto di una convenzione fra
individui; c) Il L. economico, proprio della scuola fisiocratica, che combatte
l'intervento dello stato nelle faccende economiche e vuole che queste seguano
esclusivamente il loro corso naturale (v. ECoNOMIA); d) Come conseguenza globale
delle precedenti dottrine: la negazione dell’assolutismo statale e la riduzione
dell’azione dello stato in limiti definiti, mediante la divisione dei poteri
(v. SATO). Il postulato fondamentale di questa fase del L. è la coincidenza
dell’interesse privato con l'interesse pubblico. Un giusnaturalista e moralista
come Bentham crede che basti al singolo seguire intelligentemente il proprio
piacere perchè persegua, contemporaneamente, il piacere di tutti gli altri. E
la dottrina economica di Adamo Smith è fondata sul presupposto analogo della
coincidenza tra il beninteso interesse economico del singolo e l’interesse
economico della società (v. INDIVIDUALISMO). 2° La seconda fase del L. s’inizia
quando questo postulato entra in crisi. Tale crisi ha i suoi precedenti nelle
dottrine politiche di Rousseau, Burke, e Hegel nonchè nel fatto che il L.
individualistico sembrava, sul terreno politico ed economico realizzare la
difesa di una classe determinata di cittadini (la LENINISMO borghesia) anzichè
della totalità dei cittadini stessi. Il Contratto sociale (1762) di Rousseau
costituisce già il capovolgimento dell’individualismo. I diritti che il
giusnaturalismo aveva riconosciuti agli individui appartengono, secondo
Rousseau, soltanto al cittadino. « Ciò che l’uomo perde per il contratto
sociale è la sua libertà naturale e il diritto illimitato a tutto ciò che lo
tenta e che può ottenere; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà
di tutto ciò che possiede ». Ma in realtà solo « l'obbedienza alla legge che ci
si è prescritta è la libertà »: cosicchè solo nello stato l'uomo è libero
(Contrat social, I, 8). L’affermata infallibilità della « volontà generale »
che risulta dalla « alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi
diritti a tutta la comunità » (/bid., I, 6) trasforma quella che per
l’individualismo è la coincidenza dell'interesse singolo con l’interesse comune
nella coincidenza, preliminare e garantita, dell’interesse statale con
l’interesse singolo. In tal modo si veniva riaffermando quella superiorità
dello stato sull’individuo contro la quale il L. era insorto nella sua prima
fase. Tale superiorità viene riconfermata anche da Burke. «La società è un
contratto, egli diceva. Ma se i contratti per oggetti di interesse occasionale
possono essere sciolti a piacere, non si può considerare lo stato come niente
di meglio che un accordo di parti in un commercio di pepe e caffè... Si deve
considerarlo con reverenza perchè non è la partecipazione a cose che servono
soltanto all’esistenza animale...: è una società in tutte le scienze, in tutte
le arti, in tutte le virtù e in ogni perfezione » (Reflections on the
Revolution in France, 1790; Works, II, pagina 368). Ma il culmine di questo
nuovo riconoscimento dello stato si ha con la dottrina di Hegel per la quale
esso è « l’ingresso di Dio nel mondo + e per cui il suo fondamento è «la
potenza della ragione che si realizza come volontà» (Fil. del Dir., $ 258,
Zusatz). Concordava con questa esaltazione dello stato l’altra branca del
romanticismo ottocentesco, il positivismo. Questo, con Comte, preconizzava uno
statalismo egualmente assolutistico di quello hegeliano (Systéme de politique
positive, 1851-54; IV, pag. 65) e con Stuart Mill, pur senza indulgere a
concessioni assolutistiche, faceva larga parte all’azione dello stato proprio
in quel dominio che il liberalismo classico voleva riservato esclusivamente
all’iniziativa individuale: il dominio economico (Principles of Political
Economy, 1848). Il saggio Su/la Libertà (1859) di Stuart Mill tendeva, nello
stesso tempo, a togliere la libertà dal novero delle condizioni indispensabili
per l’esercizio dell'attività morale giuridica economica, ecc. (secondo la
concezione del L. classico) e a farne un ideale o un valore in sè cioè
indipendente dalle possibilità che offre. Ciò non toglie che lo scritto LIBERTÀ
sia uno delle più nobili e appassionate difese della libertà stessa. Il sec. xx
nei suoi primi decenni ha visto la continuazione di questo L. statalista.
Idealismo inglese e idealismo italiano insistettero sul carattere divino dello
stato. Così fece Bernardo Bosanquet nello scritto The Philosophical Theory of
the State (1899) e così fece Gentile identificando lo stato con l’Io assoluto
(Genesi e struttura della società, postumo, 1946). L'ispirazione hegeliana
prevaleva d’altronde anche nella dottrina di Croce il quale tuttavia rimaneva
fedele all’ideale classico della libertà, cui rendeva pratica testimonianza nel
periodo del fascismo. Per Croce infatti il L. è la stessa dottrina dello
svolgimento dialettico della storia, che tutto assolve e giustifica, anche
l’assolutismo e la negazione della libertà (Etica e politica, 1931, pag. 290).
Di questa stessa forma di L. (al quale direttamente si collega attraverso
Hegel) si può considerare una manifestazione lo stesso socialismo marzxistico
(v. MATERIALISMO). I partiti politici che dai primi dell’ottocento in poi hanno
innalzata la bandiera liberale si sono ispirati all’uno o all’altro degli
indirizzi fondamentali ora espressi cioè o all’individualismo o allo statalismo.
Pertanto un coacervo di indirizzi politici disparati e talora opposti hanno
potuto richiamarsi al L. (su di essi vedi DE RucGiERO, Storia del L. europeo,
1925). Si sono infatti richiamati ad esso partiti che hanno negato il valore
dello stato (come il radicalismo inglese del secolo scorso) e partiti che lo
hanno esaltato (come la cosiddetta « destra storica » nell'Italia
postrisorgimentale); partiti che hanno negato ogni ingerenza dello stato in
materia economica (come fanno tuttora alcuni partiti liberali europei) e
partiti che invece invocano l'intervento dello stato nell’iniziativa e nella
direzione degli affari economici; infine partiti che hanno ritenuto la libertà
condizione operante d’ogni attività umana e partiti che l’hanno relegata nell’empireo
dei puri « valori ». Questi contrasti sono la manifestazione evidente del
carattere composito della dottrina liberale. E a sua volta questo carattere
composito dipende dal modo approssimativo e confuso con cui è stata trattata la
nozione che dovrebbe essere fondamentale per il L.; quella di libertà. Il
ricorso casuale o surrettizio all’uno o all’altro dei concetti di libertà che
sono stati elaborati nella storia del pensiero filosofico ha reso l’idea
liberale in politica confusa e oscillante e l'ha talora condotta alla difesa o
alla accettazione della non libertà (v. LIBERTÀ). LIBERO ARBITRIO. V. LiBERTÀ.
LIBERTÀ (gr. #ev0epla; lat. Libertas; inglese Freedom, Liberty; franc. Liberté;
ted. Freiheit). Il termine ha tre significati fondamentali, corrispon525 denti
a tre concezioni che si sono intersecate nel corso della sua storia e che
possono essere caratterizzate nel modo seguente: 1° la concezione della L. come
autodeterminazione o autocausalità, secondo la quale la L. è assenza di
condizioni e di limiti; 2° la concezione della L. come necessità, che si fonda
sullo stesso concetto della precedente, cioè su quello di autodeterminazione,
ma attribuisce l’autodeterminazione stessa alla totalità (Mondo, Sostanza,
Stato) cui l'uomo appartiene; 3° la concezione della L. come possibilità o
sceltà, secondo la quale la L. è limitata e condizionata, cioè finita. Non
costituiscono concetti diversi di L. le forme che la L. assume nei vari campi,
per es., la L. metafisica, la L. morale, la L. politica, la L. economica, ecc.
Le dispute metafisiche, morali, politiche, economiche, ecc., intorno alla L.
sono infatti dominate dai tre concetti in questione, ai quali pertanto sono
riconducibili le forme specifiche di L. intorno a cui tali dispute vertono. 1°
La prima concezione della L., quella per cui essa è assoluta, incondizionata e
quindi non subisce limitazioni e non ha gradi, è stata espressa dicendo che è
libero ciò che è causa di se stesso. Questa concezione è stata per la prima
volta affacciata da Aristotele. Sebbene l’analisi aristotelica della
volontarietà delle azioni, sembra che faccia appello al concetto della L.
finita, la definizione di ciò che è volontario è quella della L. infinita:
volontario è cioè che è « principio di se stesso ». Aristotele comincia col dire
che la virtù dipende da noi e così pure il vizio. « Nelle cose infatti, egli
prosegue, in cui l’agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e
là dove siamo in grado di dir no, possiamo anche dir si. Sicchè se il compiere
un’azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un’azione
brutta » (Er. Nic., III, 5, 1113 b 10). Questo è quanto già Platone aveva detto
nel mito di Er. Ma per Aristotele questo significa che «l’uomo è il principio e
il padre dei suoi atti, come dei suoi figli » (/bid.). Difatti «solo per colui
che ha in se stesso il suo proprio principio, l’agire o il non agire dipende da
se stesso » (/bid., III, 1, 1110 17); sicchè l’uomo «è il principio dei suoi
atti » (/bid., III, 3, 1112 b 15-16). Questa nozione di « principio di se
stesso » è la definizione della L. incondizionata. Essa ricorre, per es., in
Cicerone. « Per i moti volontari dell'anima, egli dice, nonèda richiedersi una
causa estranea giacchè il movimento è in nostro potere e dipende da noi: nè perciò
è senza causa, dato che la sua causa è la sua stessa natura » (De Fato, 11). La
nozione di L. aveva in Epicuro lo stesso significato di autodeterminazione
assoluta: autodeterminazione che egli faceva risalire agli atomi cui attribuiva
il potere di deviare dalla propria traiettoria. Dice Lucrezio: « Noi possiamo
deviare i nostri movimenti 526 senza essere determinati nè dal tempo nè dal
luogo ma secondo che ci ispira lo spirito; giacchè senza dubbio è la volontà il
principio di quegli atti e da essa. il movimento si espande in tutte le membra»
(De nat. rer., II, 260). La nozione della L. come autocausalità o
autodeterminazione (aòrtorpayia) è a fondamento anche del concetto della L.
come necessità. Gli Stoici ammettevano che fossero libere le azioni che hanno
in se stesse la loro causa o il loro principio: « Solo il sapiente è libero,
essi dicevano, e tutti i malvagi sono schiavi, giacchè la L. non è altro che
l’autodeterminazione, mentre la servitù è la privazione dell’autodeterminazione
» (Diog. L., VII, 121). Epitteto, conseguentemente chiamava «libere » le cose
che sono «in nostro potere » cioè gli atti dell'uomo che hanno il loro
principio nell'uomo stesso (Diss., I, 1). Questo concetto si è trasmesso per
tutto il Medio Evo. Origene lo ha per primo difeso nel mondo cristiano,
chiarendolo nel senso che la L. consiste non soltanto nell'avere in sè la causa
dei propri movimenti ma nell’essere questa causa. Questa definizione, che si
applica a tutti gli esseri viventi, privilegia l’uomo perchè la causa dei movimenti
umani è ciò che l’uomo stesso sceglie come movente, in quanto giudice e arbitro
delle circostanze esterne (De Princ., III, 5). Considerazioni analoghe
ricorrono nel De Libero arbitrio di Sant'Agostino (cfr. ad es.: I, 12; III, 3;
III, 25). «Sente che l’animo si muove da sè colui che sente in sè la volontà »
dice egli altrove (De div. quaest. 83, 8). Alberto Magno chiamava libero l’uomo
che è causa di sé e che il potere altrui non può costringere (S. Th., II, 16,
1). E per San Tommaso: « Il libero arbitrio è la causa del proprio movimento
perchè l’uomo, per il libero arbitrio, determina se stesso ad agire ». San
Tommaso aggiunge che non è necessario, affinchè ci sia L., che l’uomo sia la
prima causa di se stesso e difatti non lo è, perchè tale prima causa è Dio. Ma
la Prima causa non toglie nulla alla autocausalità dell’uomo (S. Th., I, q. 83,
a. 1; cfr. Contra Gent., II, 48). L’ultima scolastica, mantenne questo concetto
di L.; accentuò anzi l’indifferenza della volontà rispetto ai suoi possibili determinanti.
Duns Scoto afferma che «la L. della nostra volontà consiste nel potersi
determinare ad atti opposti, sia successivamente che nel medesimo istante »
(Op. Ox., I, d. 39, q. 5, n. 16). E questa determinabilità ad atti opposti
esprime la perfetta indifferenza della volontà rispetto ad ogni motivazione
possibile. Ockham, pur negando la possibilità simultanea di atti opposti,
sottolinea ugualmente l'indifferenza assoluta della volontà: «Per L., egli
dice, s'intende il potere per il quale posso indifferentemente e
contingentemente porre cose diverse, sicchè posso causare e non causare lo
stesso effetto, senza che ci sia nessuna diversità LIBERTÀ tranne che in questo
potere» (Quod/., I, q. 16). Ockham non ritiene tuttavia che si possa dimostrare
che la volontà sia libera in questo senso. La L. si può solo conoscere per
esperienza giacchè « l’uomo sperimenta che, per quanto la ragione gli detti
qualcosa, la volontà può tuttavia volerla e non volerla » (/bid., I, q. 16).
Buridano osservava a questo proposito che la L. non consiste nel poter non
seguire il giudizio dell’intelletto; giacchè se l’intelletto riconoscesse con
evidenza due beni come perfettamente uguali, non potrebbe decidersi nè per
l’uno nè per l’altro; consiste invece nel poter sospendere o impedire il
giudizio dell’intelletto (/Zn Eth., II, q. 1-4). Così poneva le premesse del
caso che si chiamò dell’Asino di Buridano (v.): il quale, non avendo L., muore
di fame nella condizione in cui l’uomo, invece, può sospendere il giudizio ed
effettuare arbitrariamente la scelta. Il concetto di autopraghia o causa sui
ricorre frequentemente nella filosofia moderna e contemporanea. « La sostanza
libera, dice Leibniz, si determina da se stessa cioè seguendo il motivo del
bene appercepito dall’intelligenza, che la inclina senza necessitarla: tutte le
condizioni della L. sono comprese in queste poche parole » (Théod., III, $
288). Questo stesso concetto persuase Kant ad ammettere il carattere «
noumenico » della libertà. « Se si deve ammettere la L., egli dice, come
proprietà di certe cause dei fenomeni, essa deve, in rapporto ai fenomeni come
eventi, essere la facoltà di iniziare da sé (sponte) la serie dei propri
effetti, senza cioè che l’attività della causa debba avere un inizio e senza
che abbisogni di un’altra causa che determini tale inizio » (Proleg., $ 53). La
« facoltà di iniziare da sè un evento +, è esattamente la causa sui del
concetto tradizionale di libertà. Questa è anche chiamata nello stesso senso
«spontaneità assoluta» cioè attività che non riceve altra determinazione che da
se stessa (Crit. R. Prat., I, libro I, cap. III, Delucidazione critica). Ma
proprio come causa sui o spontaneità assoluta, «la causa libera non può essere
nei suoi stati sottomessa a determinazioni di tempo, non dev’essere un fenomeno,
dev'essere una cosa in sè e soltanto i suoi effetti sono da ritenersi fenomeni
+ (Proleg., $ 53). Kant ha voluto conciliare la L. umana, come potere di
autodeterminazione, con il determinismo naturale che per lui costituisce la
razionalità stessa della natura; perciò ha considerato la L. come noumeno,
ritenendo che ciò che da un punto di vista (quello dei fenomeni) può
considerarsi come necessità, da un altro punto di vista (quello del noumeno)
può considerarsi come libertà. Ma il concetto di L. non è stato per nulla
innovato da questo artificio kantiano. Lo stesso concetto si trova espresso da
Fichte: « L’assoluta attività, egli dice, la si chiama anche libertà. La L. è
la rappreLIBERTÀ sentazione sensibile dell’auto-attività » (Siftenlehre, Intr.,
7, in Werke, IV, pag. 9). Allo stesso concetto fa appello anche oggi ogni forma
di indeterminismo (v.). Nelle forme spiritualistiche dell’indeterminismo (che
sono le più diffuse) l’autodeterminazione viene considerata come una esperienza
interna fondamentale, come una specie di creazione «interiore». Essa diventa la
stessa « autocreazione dell’io ». Dice Maine de Biran: « La L. o l’idea di L.,
presa nella sua sorgente reale, non è che il sentimento stesso della nostra
attività o di questo potere di agire, di creare lo sforzo costitutivo dell’io »
(Essai sur les fondements de la psychologie, 1812, in CEuvres, ed. Naville, I,
pagina 284). Una concezione analoga si può trovare nel Mikrokosmus di Lotze (I,
pag. 283 sgg.) e, con qualche attenuazione, nella Nouvelle Monadologie, di
Renouvier (pag. 24 sgg.). Lo spiritualismo francese con Sécretan, Ravaisson,
Lachelier, Boutroux, Hamelin, si attiene strettamente allo stesso concetto. «La
conoscenza delle leggi delle cose, dice Boutroux, ci permette di dominarle e
così, lungi dal nuocere alla nostra L., il meccanismo la rende efficace ».
Pertanto non solo le cose interne, come voleva Epitteto, ma anche quelle
esterne dipendono da noi (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 133, 143). Da
questo punto di vista il motivo non è la causa necessitante dell’azione umana:
la volontà dà la sua preferenza a un motivo piuttosto che a un altro e il
motivo più forte non è tale indipendentemente dalla volontà, ma proprio in
virtù di essa (La contingence des lois de la nature, 1874, pag. 124). Il
concetto bergsoniano di L. non fa che riesprimere questa stessa tesi. Bergson
afferma che il concetto che egli difende della L. è situato tra la nozione di
L. morale cioè della «indipendenza della persona di fronte a tutto ciò che non
è essa stessa » e la nozione di libero arbitrio, secondo il quale ciò che è
libero « dipende da sè come un effetto dipende dalla causa che lo determina
necessariamente ». Contro questa ultima concezione Bergson obbietta che gli
atti liberi sono imprevedibili e che perciò ad essi non può applicarsi la
causalità, secondo la quale cause uguali hanno effetti uguali. La L. rimane
perciò indefinibile; e va identificata con lo stesso processo della vita
cosciente, cioè con la durata reale (Essais sur /es données immédiates de la
conscience, 1899, pagina 131 sgg.). Ma in realtà il concetto di libero arbitrio
faceva leva proprio sulla imprevedibilità dei fatti umani (i cosidetti « futuri
contingenti +) e sulla autocausalità della volontà. La dottrina bergsoniana
nega l’indifferenza della volontà ai motivi solo per sostenere che la volontà
crea o costituisce i motivi e conferisce ad essi la forza determinante di cui
dispongono. Ma in tal modo l’autodeterminazione rimane la definizione della
libertà; e come tale ri527 mane anche nel concetto (proposto da F. LOMBARDI, La
libertà del volere e l'individuo, 1941, p. 192) di un atto 0 movimento che «si
riproduce o si produce di continuo» e che in questa autoproduzione trascina con
sè « l’intero mondo in cui opera ». Nè ha un senso diverso la dottrina di
Sartre per la quale la L. è la scelta che l’uomo fa del suo essere proprio e
del mondo. « Ma precisamente perchè si tratta di una scelta, Sartre dice,
questa scelta, nella misura in cui si effettua, designa in generale altre
scelte come possibili. La possibilità di queste altre scelte non è nè resa
esplicità nè posta, ma è vissuta nel sentimento d’ingiustificabilità e si
esprime nel fatto dell’assurdità della mia scelta e, per conseguenza, del mio
essere. Così la mia L. divora la mia libertà. Essendo libero, io progetto il
mio possibile totale, ma pongo con ciò che sono libero e che posso annientare
questo primo progetto e confinarlo nel passato » (L’érre et le néant, pag.
560). Ma una scelta che non ha nulla da scegliere, cioè non è limitata da
condizioni determinate, è una scelta solo di nome; in realtà, è
un’autocreazione gratuita. La dottrina di Sartre non fa che portare all’estremo
il vecchio concetto della L. come autocausalità. A questo concetto fanno
appello sia l’indeterminismo che il determinismo. Ciò che il determinismo nega
è ciò che l’indeterminismo afferma: la possibilità di una causa sui. Si è visto
come Kant stesso la ritenesse impossibile nel dominio dei fenomeni e la
rinviasse al dominio del noumeno: così fa pure Schopenhauer che ritiene valide
le ragioni addotte da Priestley nella sua Dottrina della necessità filosofica
(v. DETERMINISMO) e afferma che la L. come autocausalità è soltanto della
volontà come forza noumenica o metafisica, della volontà come principio cosmico
(Die Welt, I, $ 55). In generale il determinismo consiste nel ritenere
universale la portata del principio di causalità nella sua forma empirica e
pertanto nel negare la causalità autonoma. Claude Bernard in questo senso
affermava l’inerzia dei corpi viventi, come di quelli inorganici, cioè
l’incapacità di tali corpi e darsi da sè il movimento; e vedeva nel
riconoscimento di tale inerzia la condizione per il riconoscimento del
determinismo assoluto (Intr. d /’étude de la médecine expérimentale, 1865, II,
8). L’equivalente politico della concezione della L. come auto-causalità è la
nozione della L. come assenza di condizioni o di regole, rifiuto d’ogni
obbligazione e, in una parola, anarchia. Il più delle volte, questo concetto
viene utilizzato come strumento polemico per negare la L. stessa. Così fece per
primo Platone quando volle mostrare come dalla troppa L. concessa dal regime
democratico nascono la tirannide e la schiavitù. Difatti il rifiuto costante di
ogni limite e restrizione 528 « rende i cittadini così ombrosi che non appena
si propone qualcosa che sembri minacciare la loro libertà, essi si dolgono e si
ribellano e finiscono per ridersi delle leggi scritte o non scritte, perchè non
vogliono in alcun modo sottoporsi a un padrone » (Rep., VIII, 563 d). La L. qui
è intesa (non tuttavia da Platone, per il quale vedi oltre) come assenza di
misura, rifiuto di ogni norma. L’illimitato potere su tutto, nel quale secondo
Hobbes consiste la L. allo stato di natura (De cive, I, $ 7) ha lo stesso
significato. Filmer credeva infatti di esprimere il significato della dottrina
di Hobbes quando diceva: « La L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli
pare, nel vivere come gli piace, senza esser vincolato da alcuna legge »
(Observations upon Mr. Hobbes’s Leviathan, 1652, pag. 55). Ma forse la migliore
e più coerente espressione di questa nozione di L. è l'Unico di Max Stirner:
l’individuo che non ha alcuna causa fuori di sè, che è lui la sua stessa causa
e la causa di tutto. In questa forma estrema la tesi della L. anarchica viene
difesa assai raramente: assai spesso invece viene presupposta come termine
polemico ed a essa vengono in buona o mala fede ricondotte le altre concezioni
della L. politica. 2° La seconda concezione fondamentale della L. è quella che
la identifica con la necessità. Questa concezione è strettamente imparentata
con la prima. Il concetto di L. cui fa riferimento è ancora quello di causa
sui; ma, come tale, la L. viene attribuita non alla parte ma al tutto: non
all’uomo singolo ma all’ordine cosmico o divino, alla Sostanza, all’Assoluto,
allo Stato. L'origine di questa concezione è negli Stoici. Come già si è visto,
gli Stoici ritenevano che «la L. consiste nell’autodeterminazione e che
pertanto solo il sapiente è libero» (Diog. L., VII, 121). Ma perchè il sapiente
è libero? Perchè egli solo segue una vita conforme alla natura: egli solo cioè
si conforma all’ordine del mondo, al destino (Diog. L., VII, 88; StoBeo, F/or.,
VI, 19; CiceR., De Fato, 17). La L. del sapiente coincide pertanto con la necessità
dell’ordine cosmico. Crisippo tuttavia tentò di sfuggire a questa conseguenza.
Egli distingueva le cause perfette e principali dalle cause ausiliarie e
prossime. Il destino opera soprattutto attraverso le prime; ma tra le ultime
c'è l’assenso che l’uomo dà alle cose e di conseguenza la sua azione. Accade
come nel caso di un cilindro cui una piccola spinta basta per rotolare su un
piano inclinato: la natura del cilindro e del piano fanno sì che esso
continuerà a rotolare una volta che sia stato spinto, ma affinchè ciò accada
occorre la spinta. Allo stesso modo, l’ordine delle cose fa sì che un'azione
una volta iniziata continui in un certo modo; ma ad iniziarla occorre l’assenso
dell’uomo e questo assenso rimane in potere di lui (Cicer., De Fato, 18-19).
Tuttavia, LIBERTÀ anche per Crisippo la L. non è che l’adeguarsi dell’assenso
umano all’ordine del mondo: le cause ausiliarie infatti non cadono fuori
dell'ordine necessario del mondo più che non cadano fuori di esso le cause
principali, e la spinta che fa rotolare il cilindro appartiene a quell’ordine
come la forma del cilindro e il piano sul cui rotola. Da questo punto di vista,
negare che l’uomo come tale sia libero o affermare che esso è libero in quanto
manifestazione dell’autodeterminazione cosmica o divina, è la stessa cosa.
Tutto ciò appare chiarissimo nella formulazione spinoziana. Secondo Spinoza, «
si dice libera la cosa che esiste solo per la necessità della sua natura e che
da sè sola è determinata ad agire; mentre è necessaria o coatta la cosa che è
indotta ad esistere e ad agire da un’altra cosa, secondo una certa e
determinata ragione» (Er., I, def. 7). In questo senso Dio solo è libero perchè
egli solo agisce in base alle leggi della sua natura e senza essere costretto
da nessuno (/bid., I, 17, coroll. II); mentre l’uomo, come ogni altra cosa, è
determinato dalla necessità della natura divina e può credersi libero solo in
quanto ignora le cause delle sue volizioni e dei suoi desideri (/bid. I app.;
II, 48). Tuttavia l’uomo stesso può diventar libero se è guidato dalla ragione
(Ibid. IV, 66 scol.): se cioè agisce e pensa soltanto come parte della Sostanza
infinita e riconosce in sè la necessità universale di essa (/bid., V, VI,
scol.). In altri termini l’uomo diventa libero mediante l’amore intellettuale
di Dio (che è per l’appunto la conoscenza della necessità divina): amore che è
identico con quello con cui Dio ama se stesso (/bid. V, 36 scol.). Nessuna
innovazione è apportata a questo punto di vista dalla elaborazione e
amplificazione che la filosofia romantica ne ha fatto. Schelling afferma
esplicitamente la coincidenza di libertà e necessità. « L’Assoluto, egli dice,
opera per mezzo di ogni singola intelligenza, cioè la sua azione è anche
assoluta in quanto non è nè libera nè priva di L. ma l’uno e l’altro insieme:
assolutamente libera, perciò anche necessaria + (System des transzendentalen
Idealismus, IV, E). Le Ricerche filosofiche sull'essenza della L. umana (1809)
dello stesso Schelling, trasferiscono in Dio, o meglio nella natura o fondamento
di Dio, l’atto con cui l’uomo sceglie quella natura o fondamento da cui ogni
sua inclinazione o azione sarà determinata. La tendenza ad attribuire
all’Assoluto la L. e a identificarla con la necessità si chiarisce così come la
caratteristica propria della concezione romantica. Hegel, a questo proposito,
contrappone «il concetto astratto della L.» cioè la L. come esigenza o
possibilità, alla « L. concreta » che è la «L. reale» o «la realtà stessa»
dello spirito o degli uomini (Enc., $ 482; Fil. del dir., $ 33, Zusatz). Questa
L. reale che è la realtà stessa dell’uomo è lo Stato, LIBERTÀ il quale appunto
perciò è considerato da Hegel come «Iddio reale » (Fil. del dir., $ 258,
Zusatz). Lo stato è «la realtà della L. concreta» (/bid., 8 260). Ciò significa
che esso «è la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua L., in quanto però
l’individuo stesso è scienza, fede e volontà dell’universale. Così lo stato è
il centro degli altri aspetti concreti della vita cioè del diritto, dell’arte
dei costumi, degli agi. Nello stato la L. è realizzata oggettivamente e
positivamente ». Questo non significa che la volontà soggettiva del singolo si
realizza mediante la volontà universale, che sarebbe quindi un mezzo per essa;
ma piuttosto che la volontà universale si realizza attraverso i cittadini che
sotto questo aspetto sono suoi strumenti. « Sono piuttosto il diritto, la
morale, lo stato, e solo essi la positiva realtà e soddisfazione della libertà.
L’arbitrio del singolo non è libertà. La L. che viene limitata è l’arbitrio,
concernente il momento particolare dei bisogni» (Philosophie der Geschichte,
ed. Lasson, I, pag. 90). Questa coincidenza di L. e necessità che conduce ad
attribuire la L. stessa soltanto all’Assoluto o alla sua realizzazione nel
mondo, che è lo Stato, da un lato è rimasta a caratterizzare tutte le dottrine
di derivazione romantica, dall’altro è stata utilizzata, fuori dell'ambito di
tali dottrine, per la difesa dell’assolutismo statale e per il rifiuto del
liberalismo politico. Gentile e Croce condivisero quella dottrina: il primo
identificando la L. con la necessità dialettica dell’Assoluto (Teoria generale
dello spirito, XII, $ 20) il secondo identificando la L. con «la creatività
delle forze che si chiamano individuali e coincidono con l’unità dell’
Universale » (Storiografia e idealità morale, pag. 58). Ma la condivise pure
Martinetti affermando che la L. non è che la spontaneità della ragione e che la
spontaneità della ragione non è che la necessità stessa sicchè in ogni caso si
identificano L. e spontaneità, spontaneità e concatenazione necessaria (La
libertà, 1928, pag. 349). In forma diversa, la dottrina ritorna in alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea, per es., nel realismo di Nicolai
Hartmann e nell’esistenzialismo di Jaspers. Secondo Hartmann, la L. consiste
nel fatto che, per ogni piano dell’essere, al determinismo dei piani inferiori
si aggiunge il determinismo proprio del piano stesso. I piani, in altri
termini, sono contingenti l’uno rispetto all’altro in quanto ognuno ha una forma
specifica di determinismo non riducibile a quella dei piani inferiori; la L.
non è che il superdeterminismo di un piano dell’essere rispetto agli altri.
Dice Hartmann: « La L. in senso positivo non è un minus ma un plus nella
determinazione. Il nesso causale non permette un minus perchè la sua legge
afferma che una serie di effetti, una volta in corso, non può essere arrestata
in alcun modo. Ma ammette invece un plus — se questo c'è — 34 529 perchè la sua
legge non afferma che agli elementi di determinazione causale di un processo
non possano aggiungersi altri elementi di determinazione » (Erhik, pag. 649).
Sul piano dello spirito, questo plus di determinazione è costituito dalla
teleologia propria dell’uomo, che impone ai processi causali fini desunti dalla
sfera dei valori. Ma è ovvio che in questo senso la L. non è altro che
l’aggiunta di un determinismo « superiore » ai determinismi inferiori: è cioè
l’autodeterminazione dei piani, che si aggiunge alla determinazione esterna.
Nello stesso senso, Jaspers afferma l’unità di L. e necessità, espressa nella
formula « io posso perchè devo + (nel senso della necessità di fatto, /ch muss:
Phil., II, pag. 186, 195). In questo caso la L., l’autodeterminazione,
appartiene alla situazione esistenziale totale, di cui l’io è l’espressione.
Siamo sempre nell’ambito della concezione che identifica la L. con
l’autocausalità di una totalità metafisica (o politica o sociale, ecc.) cioè
con la necessità con cui tale totalità si realizza. Questa dottrina è stata
talora difesa da filosofi o scrittori di spiriti liberali, ma è in realtà
l’insegna stessa dell’antiliberalismo moderno. Difatti, sul piano metafisico,
essa riconosce come soggetto di L. soltanto l’essere, la sostanza, il mondo e
sul piano politico soltanto lo stato, la chiesa, la razza, il partito, ecc.; e
attribuisce alla totalità così privilegiata un potere di autocausalità o
autocreazione che è un altrettanto assoluto potere di coercizione sugli
individui, che ne sono considerati le manifestazioni o le parti. 3° Mentre le
prime due concezioni della L. hanno un nucleo concettuale comune, la terza non
fa appello a questo nucleo perchè intende la L. come misura di possibilità,
quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso la L. non è
autodeterminazione assoluta e non è quindi un tutto od un nulla, ma piuttosto
un problema sempre aperto: il problema di determinare la misura, la condizione
o la modalità della scelta che può garantirla. Libero, in questo senso, non è
chi è causa sui o si identifica con una totalità che è causa sui; ma chi
possiede, in un grado o misura determinata, possibilità determinate. Platone
per primo ha enunciato il concetto che la L. consista in una « giusta misura»
(Leggi, 693€); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In questo mito
si dice che le anime, prima di incarnarsi, sono condotte a scegliere il modello
di vita cui poi rimarranno legate. « Per la virtù, annuncia la parca Làchesi,
non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la
trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità è fuori causa?
(Rep., X, 617e). Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è
l’autore, e la cui causalità per ciò non può essere addossata alla divinità, è
limitata in un senso dalle possibilità oggettive, 530 cioè dai modelli di vita
disponibili, ein un altro senso dalla motivazione giacchè, come dice Platone,
«la maggior parte delle anime sceglie secondo la consuetudine della vita
precedente» (/bid., 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente
quella di una L. finita cioè di una scelta tra possibilità determinate e
condizionata da motivi determinanti. Una tale L. è delimitata: 1° dal rango
delle possibilità oggettive che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2°
dal rango dei motivi della scelta che possono ancora restringere, fino
all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto questo concetto di L.
è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la
determinazione dell’uomo da parte delle condizioni cui la sua attività
risponde, senza ammettere che a partire da tali condizioni la scelta sia
infallibilmente prevedibile. Questo concetto di L. è andato interamente
smarrito nell’antichità e nel Medio Evo per la prevalenza del concetto di L.
come causa sui. Quando si è riaffacciato, ai principi dell’età moderna, ha
assunto, in polemica con la nozione di libero arbitrio, la forma della
negazione della L. di volere e dell’affermazione della L. di fare. In questa
forma si trova espressa da Hobbes. Questi, identificando la volontà con
l’appetito, afferma che non si può non volere ciò che si vuole (non si può non
aver fame quando si ha fame, non aver sete quando si ha sete, ecc.); ma si può
fare o non fare ciò che si vuole (mangiare o non mangiare quando si ha fame,
ecc.). Esiste quindi una L. di fare, non una L. di volere (De Homine, 11, $ 2;
De Corp., 25, $ 13). Questa dottrina veniva sostanzialmente accolta da Locke,
che definiva la L. come « il fatto per cui si è in grado di agire o non agire
secondo che si scelga o si voglia» (Saggio, II, 21, 27). Ma in Locke la
dottrina stessa si complica e diventa confusa, perchè da un lato egli distingue
l’appetito dalla volontà che ritiene costituita da un potere di scelta o di
preferenza o di inibizione (cioè di sospensione del desiderio, /bid., II, 21,
48); dall’altro ammette che tale scelta o preferenza o inibizione sia
necessariamente determinata dal motivo (che egli identifica in un primo tempo
con il desiderio del bene, in un secondo tempo con il disagio proprio del desiderio,
Ibid., II, 21, 31). Non si vede pertanto come, da questo punto di vista, possa
parlarsi di L. di fare o di non fare, dato che la scelta stessa o la preferenza
accordata all’uno o all’altra di queste alternative è necessariamente
determinata. Comunque, l’intenzione della dottrina di Locke è chiara: essa
tende da un lato a garantire il determinismo dei motivi, negando il libero
arbitrio come autocausalità della volontà; dall’altro a garantire la L.
dell'uomo contro il determinismo rigoroso. Molto meglio Locke è riuscito a
esprimere questo stesso concetto sul terLIBERTÀ reno politico, negando, contro
Filmer, che la L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, e
affermando: «La L. naturale dell'uomo consiste nell’essere libero da ogni
potere superiore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all'autorità
legislativa di alcuno e nel non avere per propria norma che la legge di natura.
La L. dell’uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere
legislativo che a quello stabilito per consenso nello stato nè al dominio di
altra volontà o alla limitazione di altra legge che quella che questo potere
legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui » (Two
Treatises of Government, II, 4, 22). Nello stato di natura la L. consiste nella
possibilità di scelta limitata dalla norma di natura, che è una norma reciproca
che prescrive di riconoscere agli altri quelle stesse possibilità che si
riconoscono a sè (Ibid., II, 2, 4). Nella società, la L. consiste nella
possibilità di scelte delimitate da una legge stabilita da un potere a ciò
destinato dal consenso dei cittadini. In altri termini la L. politica suppone
due condizioni: 1° L'esistenza di norme che circoscrivino le possibilità di
scelta dei cittadini; 2° La possibilità dei cittadini stessi di controllare, in
una certa misura, lo stabilimento di queste norme. Da questo punto di vista il
problema della L. politica è un problema di misura: la misura nella quale i
cittadini devono partecipare al controllo delle leggi e la misura nella quale
tali leggi debbono restringere le loro possibilità di scelta. Questo è sempre
stato il problema del liberalismo classico e cioè di ogni liberalismo
autentico, antico e moderno. Montesquieu riproponeva la dottrina della L.
politica di Locke nell’Esprit des lois (1748, XI, 3-4). Hume e l’Illuminismo
riprendevano la dottrina della L. filosofica. Il primo affermava: « Per L. non
possiamo significare che un potere di agire o di non agire secondo la
determinazione della volontà; cioè che se deliberiamo star fermi, possiamo
farlo e se deliberiamo muoverci, lo possiamo egualmente + (Ing. Conc. Underst.,
VIII, 1); e nello stesso tempo metteva in luce il determinismo dei motivi,
senza il quale le leggi e le sanzioni sarebbero inoperanti. L’illuminismo, per
bocca di Voltaire, riprendeva la stessa dottrina: la L. di indifferenza è « una
parola priva di senso » giacchè essa significherebbe che c’è nell'uomo «un
effetto senza causa ». Si è liberi di fare quando si ha il potere di fare
(Dictionnaire philosophique, art. Liberté). Kant stesso si avvaleva del
concetto di L. finita per definire la L. giuridica o politica: essa è «la
facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne tranne che a quelle cui io ho
potuto dare il mio assenso » (Zum ewigen Frieden, II, art. 1, n. 1). La
concezione di un determinismo non necessitaristico è rimasta tradizionale
nell’orientamento empiristico. Stuart Mill mostrava come il LIBERTINISMO
fatalismo scaturisce da un concetto della necessità che non si riduce a quello
della determinazione. Questa significa soltanto « uniformità di ordine e
capacità di predizione +. Ma i sostenitori della necessità « sentono come se ci
fosse un più forte legame tra le volizioni e le loro cause: come se, quando
dicono che la volontà è governata dall’equilibrio dei motivi, si dicesse
qualcosa in più dell’affermazione che si può, conoscendo i motivi e la nostra
abituale suscettibilità ad essi, predire il modo in cui agiremo » (Logic, VI,
2, $ 2). Dewey traduce questa stessa dottrina nei termini del pragmatismo cioè
di un empirismo orientato verso il futuro. «Si assume talora, egli dice, che se
si può mostrare che la deliberazione determina la scelta ed è determinata dal
carattere e dalle condizioni, non c’è libertà. Questo è come dire che un fiore
non può portare frutti perchè viene dalla radice e dallo stelo. La questione
non concerne gli antecedenti della deliberazione della scelta ma le loro
conseguenze. Che cosa hanno esse di proprio? Questo, che ci dànno il controllo
delle possibilità future che si aprono a noi. Questo controllo è il nucleo
della nostra libertà. Senza di esso, noi siamo spinti dal didietro, con esso
camminiamo nella luce » (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 311). La L. di
cui Heidegger parla come «trascendenza + e « progettazione » dell’uomo nel
mondo è anch'essa una L. finita perchè condizionata e limitata dal mondo stesso
in cui si progetta (Vom Wesen des Grundes, 1949, III; trad. ital., pag. 64
sgg.). Questa dottrina della L. si è rafforzata ed è diventata più chiara e
coerente dacchè la scienza stessa, a partire dal quarto decennio del nostro
secolo, ha abbandonato l’ideale della causalità necessaria e della previsione
infallibile. La prevalenza del concetto di condizione su quello di causa, della
spiegazione probabilistica sulla spiegazione necessitaristica, che si è
delineata, come effetto del principio di indeterminazione, nella fisica atomica
(v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE), ha reso ovviamente anacronistico la conservazione
dello schema necessitaristico per la spiegazione degli eventi umani. Nello
stesso tempo, l’opposizione tra scienza e coscienza, tra l’esigenza della
causalità propria della prima e la testimonianza di L. propria della seconda, è
venuto a perdere il suo significato. Da un lato si è visto che la coscienza non
testimonia una L. assoluta nè può far valere assolutamente una sua qualsiasi
testimonianza in proposito; dall’altro lato, si è visto che la scienza non
esige la causalità necessaria, che autorizzerebbe la previsione infallibile
degli eventi, ma un determinismo condizionante che autorizza la previsione
probabile degli eventi stessi. La conclusione è che il concetto della L. come
autocausazione (quale ancora compare in Bergson e Sartre) è così poco
sostenibile come il 531 concetto del determinismo come necessità. Corrispondentemente,
sul piano politico, il concetto della L. come potere di fare ciò che piace e
quello della L. come potere assoluto della totalità cui l’uomo appartiene
(stato, chiesa, razza, partito, ecc.) sono egualmente mistificatori. La L. è
oggi, come ai tempi in cui ne veniva per la prima volta formulata la nozione
nel mondo moderno, una questione di misura, di condizioni e di limiti; e ciò in
qualunque campo, da quello metafisico e psicologico a quello economico e
politico. Si insiste oggi sul fatto che la L. umana è « una libertà situata,
una L. inquadrata nel reale, una L. sotto condizione, una L. relativa »
(GURVITCH, Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955, pag. 81). Si esprime
talora questo concetto dicendo che la L. non è una scelta ma piuttosto una «
possibilità di scelta»: cioè una scelta tale che una volia effettuata può
essere ancora e sempre ripetuta nei confronti di una situazione determinata
(ABBAGNANO, Possibilità e Libertà, 1956, passim). In questa forma, la L. può
essere riconosciuta propria di tutte le attività umane ordinate ed efficaci,
anche e principalmente dei procedimenti scientifici, le cui tecniche di
controllo consistono per l’appunto in possibilità di scelte nel senso suddetto.
Un procedimento valido è un procedimento che può essere da chiunque
efficacemente adoperato nelle circostanze adatte: è una « possibilità di scelta
» che si ripresenta a chiunque si trovi nelle condizioni opportune.
Analogamente, le L. politiche sono possibilità di scelta che assicurano ai
cittadini la possibilità di scegliere ancora. Un tipo di governo è libero non
già semplicemente se è scelto dai cittadini ma se consente ai cittadini in
certi limiti una continua possibilità di scelta, nel senso della possibilità di
mantenerlo o modificarlo o eliminarlo. Le cosiddette «istituzioni strategiche
della L.+, come le L. di pensiero, di coscienza, di stampa, di riunione, ecc.,
sono per l’appunto dirette a salvaguardare ai cittadini la possibilità di
scelta nel dominio scientifico, religioso, politico, sociale, ecc. Pertanto i
problemi della L. nel mondo moderno non possono essere risolti da formule
semplici e totalitarie (quali sarebbero quelle suggerite da un concetto di L.
anarchico o necessitaristico), ma dallo studio dei limiti e delle condizioni
che, in un campo e in una situazione determinata, possono rendere effettiva ed
efficace la possibilità di scelta dell’uomo. LIBERTARISMO (ingl.
Libertarianism). Lo stesso che anarchismo. Libertario (ingl. Libertarian;
franc. Libertaire): lo stesso che anarchico. (v. ANARCHISMO. LIBERTINISMO
(franc. Libertinisme). La corrente antireligiosa che si diffuse soprattutto
negli ambienti eruditi di Francia e d’Italia nella prima metà del sec. xvii e
che costituisce la reazione, in 532 gran parte sotterranea, che accompagna in
quel periodo il predominio politico del cattolicesimo. Tale corrente non ha
idee filosofiche ben determinate. Ad essa infatti appartennero: cattolici
sinceramente attaccati alla chiesa, che tuttavia ritenevano impossibile
accettarne integralmente l’impalcatura dottrinale come Gassendi, Gaffarel,
Boulliau, Launoy, Marolles, Monconys; protestanti emancipati da ogni
preoccupazione religiosa come Diodati, Prioleau, Sorbière e Lapeyrère; e
scettici dichiarati, che si rifanno alle dottrine del paganesimo classico o
almeno alla forma che esse avevano assunto nell’umanesimo rinascimentale, come
Guyet, Luillier, Bouchard, Naudé, Quillet, Trouiller, Bourdelot, Le Vayer. Non
si può pertanto parlare, a proposito del L., di un corpo di dottrine coerente,
ma piuttosto di un certo numero di temi comuni, che possono essere ricapitolati
nel modo seguente: 1° La negazione della validità delle prove dell’esistenza di
Dio e della possibilità di intendere e difendere i dogmi fondamentali del
cristianesimo. 2° La negazione della morale ecclesiastica e in genere della
morale tradizionale e l’accettazione del piacere come guida o ideale per la
condotta della vita. Il significato che la parola libertino ha nell’uso
corrente deriva appunto da questo aspetto. 3° L'accettazione della dottrina
dell’ordine necessario del mondo, quale era stata elaborata e difesa dagli
aristotelici del Rinascimento; e per conseguenza: a) la negazione della libertà
umana; b) la negazione dell'immortalità dell'anima; c) la negazione della
possibilità del miracolo, interpretato come frutto dell’immaginazione o come
fatto naturale insolito. Questi punti di dottrina collegano il L. con
l’aristotelismo del Rinascimento. 4° La tesi che la religione è, in generale,
un prodotto dell’impostura delle classi sacerdotali. S° L'accettazione del
principio della « ragion di stato » cioè del machiavellismo politico. 6° Lo
smantellamento di credenze e pratiche religiose, l’irrisione di esse e talvolta
la loro traduzione in imagini oscene. 7° Il fideismo, cioè la dichiarata accettazione,
sincera o meno, delle credenze tradizionali, in contrasto con le conclusioni
della ragione, secondo quel principio della « doppia verità» che era stato
anch’esso proprio dell’aristotelismo rinascimentale (e dell’averroismo
medievale). 8° Il carattere aristocratico attribuito al sapere e in particolare
alla riflessione filosofica e i limiti imposti alla loro diffusione e al loro
uso per evitare che entrino in urto con gli interessi dello Stato e delle
istituzioni con esso collegate. Quest’ultimo punto soprattutto stabilisce la
differenza radicale tra L. e Illuminismo (v.): il quale consiste propriamente
nel togliere ogni freno alla LIBERTISMO critica razionale, nel portarla in ogni
campo (quindi anche nel campo politico, oltre che in quello religioso) nella
volontà di far parte dei risultati di essa a tutti gli uomini e di utilizzarli
per il miglioramento dei loro modi di vivere. Tuttavia non c’è dubbio che il L.
è un anello importante di congiungimento tra lo spirito dell’Umanesimo e lo
spirito dell’Illuminismo. Il suo storico migliore, R. Pintard, così riassume il
suo giudizio su di esso: « Se si crede, come tutto conduce ad ammettere, che lo
slancio dello spirito filosofico della fine del xvIr secolo è in gran parte un
seguito del Rinascimento del xvi secolo, — bisogna anche concludere che il L.
trionfante dei Fontenelle e dei Bayle non sarebbe esistito senza il L.
militante dei Le Vayer, dei Gassendi e dei Naudé che fu anche un L. dolorante —
esitante, combattuto, imbarazzato da scrupoli e da timori e che arrivò ad
esprimersi solo rinnegandosi » (Le Libertinage érudit dans la première moitié
du XVII siècle, 1943, I, pag. 576). LIBERTISMO (franc. Libertisme). Questo
termine è stato adoperato da Bergson (in Revue de Métaph. et de Morale, 1900, pag.
661) in luogo di quello più comune «Filosofia della libertà » per indicare lo
spiritualismo francese del sec. xix nel quale si inserisce la stessa dottrina
di Bergson. LIBIDO. Termine con il quale è stata designata da Freud e dagli
psicanalisti la tendenza sessuale nella forma più generale e indeterminata.
Dice Freud: « Analoga alla fame in generale, la L. designa la forza con la
quale si manifesta l’istinto sessuale, come la fame designa la forza con la
quale si manifesta l'istinto d’assorbimento del nutrimento ? (Einfithrung in
die Psychoanalyse, cap. 21; trad. franc. pag. 336). In questo senso le prime
manifestazioni della L. si connettono ad altre funzioni vitali: nel lattante,
ad es., l’atto di succhiare procura un piacere che rimane separato da quello
dell’assorbimento del cibo e viene ricercato per suo conto. Freud pertanto
designa la zona buccolabiale come «zona erogena » e considera il piacere
procurato dall’atto di succhiare come un piacere sessuale. La L. in questo
senso può non aver niente a che fare con ciò che è in rapporto alla sfera
genitale. Freud pensa poi che non si guadagna niente a chiamare la L. col nome
di istinto, come ha fatto Jung (/bid., pag. 442 sgg.; cfr. C. G. Jung,
Wandlungen und Symbole der Libido, 1925). LICEO (gr. Avxewov). Così fu
chiamata, dal territorio in cui era situata, sacro ad Apollo Liceo, la scuola
di Aristotele o Peripato. Dopo la morte di Aristotele la scuola fu retta da
Teofrasto di Eresso, sino alla morte di costui (288 od 86 a. C.), che la
indirizzò soprattutto all’organizzazione del lavoro scientifico e alle ricerche
particolari. A Teofrasto successe Stratone di Lampsaco che la tenne LINGUA per
18 anni e dopo il quale la scuola continuò il suo lavoro attraverso numerosi
altri rappresentanti dei quali ci restano scarse notizie e frammenti. Nel primo
secolo avanti Cristo Andronico di Rodi pubblica le opere esoteriche di
Aristotele e dà inizio a una nuova forma di attività filosofica: il commento
agli scritti del maestro. In questa attività emerse specialmente Alessandro di
Afrodisia vissuto intorno al 200 d. C. (cfr. WEHRLI, Die Schule des
Aristoteles, Texte und Kommentar, Basilea, 1944 sgg.). LIMITAZIONE (lat.
Limitatio; ingl. Limitation; franc. Limitation; ted. Limitation, Begrenzung).
Nella logica del *600 cominciò a chiamarsi con questo nome ciò che nella logica
medievale era chiamato restrizione (restrictio, cfr. Pietro Ispano, Summul.
Logic., 11.01) cioè la riduzione di un enunciato a un significato più
ristretto. Dice, ad es., Jungius: «Si dice che un enunciato viene limitato
quando si sostituisce ad esso un altro enunciato il quale dichiari che il
predicato conviene al soggetto non immediatamente ma mediante una sua parte o
accidente. Ad es., ‘l’Etiope è bianco” viene limitato da ‘l’Etiope è bianco nei
denti *» (Logica Hamburgensis, 1638, II, 8, 8). Nello stesso senso si esprime
Wolff che tuttavia distingue la proposizione restrittiva da quella limitata in
quanto la L. si assume ab intrinseco cioè dalla parte stessa del soggetto come
nel caso dell’enunciato sull’Etiope, mentre la restrizione si assume ab
extrinseco come nell’enunciato «L'aria è leggera rispetto ai fluidi » (Logica,
$ 1106). Kant ha chiamato L. la terza categoria della qualità, che è «la realtà
unita con la negazione» (Crif. R. Pura, $ 11), e che corrisponde al giudizio
infinito cioè alla proposizione che afferma un predicato negativo (/bid., $ 9)
(v. INFINITO, GIUDIZIO). In tutti questi casi la L. era considerata come una
restrizione applicata al soggetto della proposizione. W. Hamilton considerò
invece la restrizione applicabile al predicato e chiamò L. la restrizione solo
in espressioni come « La virtù è la sola nobiltà + (Lectures on Logic, 2*
ediz., pag. 262). LIMITE (gr. népas;
lat. Limes; ingl. Limit; franc. Limite; ted. Grenze).
Aristotele ha perfettamente distinti ed enumerati i diversi significati del
termine (Met., V, 17, 1022a 4 sgg.), che sono i seguenti: 1° L’ultimo punto di
una cosa cioè il primo punto al di là del quale non c’è alcuna parte della cosa
e al di qua del quale c’è ogni parte di essa. Oggi questo concetto si esprime
dicendo che il L. è un punto che non può essere raggiunto; o che è una
grandezza tale che la differenza tra essa e gli elementi della serie infinita
cui appartiene sia e rimanga inferiore a ogni grandezza assegnabile (cfr.
Perrce, Coll. Pap., 4.117; JORGENSEN, A Treatise of Formal Logic, III, pag. 87
sgg.). SEGNICA 533 2° La forma di una grandezza o di una cosa che ha grandezza.
3° Il termine: sia il terminus ad quem o punto di arrivo sia, talvolta, il
terminus a quo o punto di partenza. 4° La sostanza o l’essenza sostanziale di
una cosa; giacchè questo è il L. di conoscenza della cosa e perciò anche della
cosa stessa. In questo senso L. significa condizione. Per Aristotele la
condizione della conoscenza e dell’essere stesso della cosa è la sostanza o
essenza necessaria (v. ESSENZA; SOSTANZA). Al primo significato del termine si
connette l’uso che Kant fece della parola. « Un L., egli scrisse, negli esseri
estesi, presuppone sempre uno spazio che è al di là di una certa superficie
determinata e la include in sè; il confine invece non ha bisogno di questo ma è
una pura negazione che qualifica una grandezza, in quanto non è una totalità
assoluta e perfetta. Ora la nostra ragione vede, in qualche modo, intorno a sè,
uno spazio per la conoscenza delle cose in sè, sebbene non possa mai averne
concetti determinati e sia puramente limitata ai fenomeni» (Prol., $ 57). In
questo senso Kant, chiamò concetto-limite il concetto di noumeno in quanto
serve «a circoscrivere le pretese della sensibilità e perciò di uso puramente
negativo + (Crif. R. Pura; Anal. dei Princ., cap. 3; cfr. Cosa in SÈ). Ciò che
ha L. in questo senso è il finito nel significato 4 del termine. LINGUA (lat.
Lingua; ingl. Language, Tongue; franc. Langue; ted. Sprache). Un insieme
organizzato di segni linguistici. La distinzione tra L. e linguaggio è stata
fatta prevalere da Saussure che ha definito la L. come « insieme delle
abitudini linguistiche che permettono ad un soggetto di comprendere e di farsi
comprendere » (Cours de languistique générale, 1916, pag. 114). La L. in questo
senso da un lato è un sistema o struttura (v.) dall’altro suppone una « massa
parlante » che la costituisce come una realtà sociale. Si possono distinguere
due specie di L.: 1° le L. storiche che sono quelle la cui massa parlante è una
comunità storica: per esempio l'italiano, l’inglese, il francese, ecc.; 2° le
L. artificiali che sono quelle la cui massa parlante è un gruppo distinto da
una competenza specifica; e tali sono le L. delle tecniche particolari (che
talvolta, meno propriamente, sono dette linguaggi), r es., la L. matematica, la
L. giuridica, ecc. LINGUA SEGNICA (ingl. Sign Language). Con questo termine
s’intende il linguaggio costituito da gesti il quale, secondo le cosidette
teorie psicologiche del linguaggio, costituisce la prima fase di ogni
linguaggio. Wundt ha distinto a questo proposito due specie di gesti,
l’indicativo e l’imitativo. Il gesto indicativo sarebbe derivato biologicamente
534 dal movimento di afferrare (Die Sprache, Volkspsychologie, I, 2* ediz.,
pag. 129). Sono state anche studiate particolari L. segniche, come quelle dei
napoletani di bassa classe, dei monaci trappisti (che hanno il voto del
silenzio), degli indiani d’America e di alcuni gruppi di sordomuti. LINGUAGGIO
(gr. 26y06; lat. Sermo; inglese Language, Speech; franc. Langage; ted.
Sprache). In generale, l’uso dei segni intersoggettivi. Per intersoggettivi si
intendono i segni che rendono possibile la comunicazione. Per uso si intende:
1° la possibilità di scelta (istituzione, mutazione, correzione) dei segni; 2°
la possibilità di combinazione di tali segni in modi limitati e ripetibili.
Questo secondo aspetto si riferisce alle strutture sintattiche del L., mentre
il primo si riferisce al dizionario del L. stesso. La scienza moderna del L. ha
(come si vedrà) sempre più insistito sull’importanza delle strutture
linguistiche cioè delle possibilità di combinazioni che il L. delimita.
Elementi come « Socrate » « uomo 1 «è» «er «tutti » «non», ecc., sono
egualmente parole cioè segni intersoggettivi, ma possono entrare in un discorso
solo con una funzione determinata: cioè possono combinarsi con gli altri segni
solo in modi che sono limitati e riconoscibili. Il L. si distingue dalla lingua
che è un particolare insieme organizzato di segni intersoggettivi. La
distinzione fra L. e lingua è stata fatta prevalere nella scienza del L. da
Ferdinando de Saussure, che l’esprimeva nel modo seguente: « La lingua è un
prodotto sociale della facoltà del L. e nello stesso tempo un insieme di
convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per permettere l’esercizio di
questa facoltà presso gli individui. Preso nel suo insieme, il L. è multiforme
ed eteroclito; a cavallo di domini diversi — quello fisico, quello fisiologico
e quello psichico — esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio
sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani perchè
non si sa come determinare l’unità » (Cours de /anguistique générale, 1916,
pag. 15). Dal punto di vista generale o filosofico il problema del L. è il
problema della intersoggettività dei segni cioè del fondamento di questa
intersoggettività. Non è che una forma di questo problema quello della «
orifine » del L. dibattuto nel sec. xv e nel sec. xIx: le due soluzioni tipiche
di esso non sono infatti che due modi di garantire l’intersoggettività dei
segni linguistici. Che il L. si origini dalla convenzione significa
semplicemente che quella intersoggettività è frutto di una stipulazione, di un
contratto fra gli uomini; e che il L. si origini dalla natura significa
semplicemente che quella intersoggettività è garantita dal rapporto del segno
linguistico con la cosa, o con lo stato soggettivo, cui esso si riferisce. Si
posLINGUAGGIO sono distinguere quattro soluzioni fondamentali del problema
della intersoggettività del L. e pertanto quattro interpretazioni del L.: 1° L.
come convenzione; 2° il L. come natura; 3° il L. come scelta; 4° il L. come
caso. Le prime tre di queste interpretazioni erano state già distinte e
contrassegnate da Platone. Le prime due hanno in comune l’affermazione del
carattere necessario del rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto
(quale che sia). La tesi convenzionalistica, infatti, affermando la perfetta
arbitrarietà di tutti gli usi linguistici e pertanto l’impossibilità di
confrontarli e correggerli, riconosce a tutti la stessa validità. La tesi del
carattere naturale del L. è condotta, dall’altro lato, ad ammettere le medesime
conclusioni. Poichè tutti i segni linguistici sono tali per natura e ognuno è
suscitato o prodotto dall’oggetto che esprime, tutti sono ugualmente validi ed
è impossibile confrontarli, modificarli o correggerli. Entrambe le tesi portano
alla conseguenza che è impossibile dire ciò che non è perchè dire ciò che non è
significa non dire. Megarici e Cinici che nella filosofia greca dei tempi di
Platone rappresentavano le due tesi in questione, avevano in comune questo
teorema fondamentale, ch’essi derivavano (come Aristotele testimonia) dal
principio che « niente si può predicare di una cosa salvo il suo stesso nome»,
principio che non esprime altro che la necessità del rapporto tra il segno
linguistico e il suo oggetto (Met., V, 29, 1024 b 33; per i Megarici ed in
particolare Stilpone cfr. PLUTARCO, Ad Colot., 23, 1120 a). Sarà facile
mostrare che queste tesi caratteristiche delle due dottrine necessaristiche del
L. si ritrovano ugualmente nelle forme che tali dottrine hanno assunto nel
mondo moderno. 1° L’interpretazione del L. come convenzione ha avuto origine
con gli Eleati. L’inesprimibilità dell’Fssere (come necessario e unico) doveva
condurli a vedere nelle parole nient'altro che «le etichette delle cose
illusorie » come dice Parmenide (Fr. 19, Diels). Questa concezione sembra
condivisa da Empedocle (Fr. 8-9, Diels); ma solo Democrito la giustifica con
argomenti empirici. Democrito infatti fonda la tesi della convenzionalità su
quattro argomenti: l’omonimia, per la quale cose diverse sono designate dal
medesimo nome; la diversità dei nomi per una medesima cosa; la possibilità di
mutare i nomi; e la mancanza di analogie nella derivazione dei nomi (Fr. 26,
Diels). I Sofisti insistevano con Gorgia sulla diversità tra i nomi e le cose e
sulla conseguente impossibilità che attraverso i nomi si comunicasse la
conoscenza delle cose. «Il L., diceva Gorgia, non manifesta le cose esistenti
proprio come una cosa esistente non manifesta la propria natura ad un’altra di
esse + LINGUAGGIO (Fr. 3, 153, Diels). Si è già detto come Stilpone affermasse
il teorema della impredicabilità di una cosa dell’altra: teorema che esprime la
necessità del riferimento del segno linguistico all’oggetto. Ai Megarici faceva
riferimento Platone: «O forse preferisci quel modo che dice Ermogene con molti
altri: cioè che i nomi sono convenzioni e son chiari per quelli che li hanno
stipulati e conoscono le cose cui corrispondono e che questa è la giustezza dei
nomi, sicchè non importa se si convenga secondo quanto si è già stabilito
oppure sul contrario e, per es., di chiamar grande quel che oggi chiamiamo
piccolo 0 piccolo quel che oggi chiamiamo grande? + (Crat., 433 e). Questo
convenzionalismo schietto, che afferma la pura arbitrarietà del riferimento
linguistico, viene perduto da Aristotele in poi e non si presenta di nuovo che
nel pensiero contemporaneo. Aristotele per la prima volta inserisce tra il nome
e il suo designato l’affezione dell’anima cioè la rappresentazione o concetto
mentale (o l’idea o la parola interiore o com'altro si chiamerà in seguito) che
scinde ed articola il rapporto tra il nome e il suo designato. L'inserimento di
questo termine consente di riconoscere nello stesso tempo la convenzionalità
del L. e la necessità dei suoi significati. Aristotele infatti afferma che « il
nome è una voce semantica secondo convenzione + intendendo 4 per convenzione +
che « nessuno dei nomi è tale per natura ma solo quando è diventato un simbolo»
(De Interpr., 2, 16 a 18; 26-28). Le parole, come suoni vocali o segni scritti,
non sono le stesse per tutti. Esse tuttavia si riferiscono alle « affezioni
dell’anima che sono le stesse per tutti e costituiscono imagini di oggetti che
sono gli stessi per tutti » (/bid., I, 16 a 3-8). Si ha perciò: 1° gli oggetti
sono gli stessi per tutti; 2° le affezioni dell'anima, come imagini degli
oggetti, sono le stesse per tutti; 3° le parole scritte o parlate non sono le
stesse per tutti. Sicchè il rapporto parola-imagine mentale è convenzionale
mentre il rapporto imagine mentale-cosa è naturale. Il primo può cambiare senza
che muti il secondo; e l'immutabilità o necessità del secondo determina, essa
sola, la struttura generale del L. che dipende, non dalla convenzionalità dei
segni ma dalla « unione e separazione» dei segni stessi cioè dal modo in cui
essi sono uniti e separati tra loro. Ciò stabilisce, secondo Aristotele, il
carattere privilegiato del L. apofantico: che è quello in cui hanno luogo le
determinazioni di vero e falso a seconda che l'unione o la separazione dei
segni riproduce 0 meno l’unione o la separazione delle cose. Aristotele non
nega che esistano discorsi non apofantici, per es., la preghiera (Zbid., 4, 17a
2). Ma, privilegiando il discorso apofantico, fa di esso il vero L., quello sul
quale gli altri più o meno si modellano o dal punto 535 di vista del quale
debbono essere giudicati. E difatti la poetica e la retorica, che si occupano
del L. non apofantico, sono da Aristotele trattate in connessione con
l’analitica. Ora il L. apofantico non ha più nulla di convenzionale: le sue
strutture sono naturali e necessarie perchè sono quelle stesse dell’essere, che
esso rivela. Questo convenzionalismo apparente o zoppo che può combinarsi con
la tesi del carattere apofantico del L. è la forma che il convenzionalismo
assume nel Medio Evo e nell’età moderna. Il nominalismo medievale riprende
appunto in questa forma la tesi convenzionalistica. Ockham, ad es., distingue i
segni « istituiti ad arbitrio a significare più cose + cioè le parole, dai
segni naturali che sono i concetti (Summa Log., I, 14); e questa posizione non
fa che riprodurre sostanzialmente quella aristotelica. Identica è la posizione
di Hobbes il quale, mentre insiste sull’arbitrarietà del segno linguistico,
ritiene che esso sia « una nota con la quale si possa richiamare nell’anima un
pensiero simile ad un pensiero passato » (De Corp., 2, 4). Questa
corrispondenza tra le parole e i pensieri è assunta da Locke come definizione
della funzione segnica del linguaggio. « Le parole, dice Locke, che di loro
natura erano adatte a questo scopo, vennero impiegate dagli uomini come segni
delle loro idee: non per alcuna connessione naturale che vi sia tra particolari
suoni articolati e certe idee, poichè in tal caso non ci sarebbe fra gli uomini
che un solo L., ma per una imposizione volontaria mediante la quale una data
parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea» (Saggio,
III, 2, 1). L'inserimento del « segno naturale » o « pensiero + 0 «idea +» tra
la parola e il suo designato toglie, come si è visto, alla tesi
convenzionalistica il suo carattere proprio e l’avvicina alla tesi opposta,
sino a confonderla con essa. Quella tesi si riduce infatti all’affermazione
dell’arbitrarietà del segno linguistico isolato, della parola intesa come
suono, ma non si estende all’uso vero e proprio delle parole (nel quale
propriamente consiste il L.) e pertanto alle regole di quest’uso. Essa equivale
a dire, per es., che nel gioco degli scacchi è indifferente chiamare pedina la
torre o torre la pedina, ma che è necessario che un certo pezzo (pedina o
torre) si usi in un modo e che un altro (torre o pedina) si usi in un altro
modo. Il linguaggio è il gioco di scacchi che, in questo caso, si dichiara
necessario: la convenzionalità delle parole cioè dei semplici suoni articolati
non diminuisce tale necessità. Pertanto il ripristino della tesi classica del
convenzionalismo si ha soltanto con l’eliminazione di qualsiasi intermediario
tra il segno linguistico e il suo designato; o in altri termini con la
dichiarazione di arbitrarietà non dei suoni isolati ma dell'uso di 536 tali
suoni e cioè delle regole che lo limitano. Questa è stata la posizione del
Wittgenstein della seconda maniera (nelle Philosophische Untersuchungen). Wittgenstein ha ammesso
l’arbitrarietà e perciò l’equivalenza di tutti i « giochi linguistici » in uso,
ammettendo che tali giochi possono avere caratteri e regole diversissime sicchè
anche chiamarli tutti insieme « L.» non significa altro che essi hanno l’uno
con l’altro relazioni differenti (Philosophical Investigations, I, 65). Da
questo punto di vista ritornano le tesi classiche del convenzionalismo; e in
primo luogo l’impossibilità di rettificare il L., per cui L. dev’essere
dichiarato sempre vero e perfetto 0, come Wittgenstein preferisce, in ordine: «
È chiaro che ogni enunciato del nostro L. è in ordine come esso è. Cioè, noi non
stiamo perseguendo un ideale come se i nostri enunciati ordinariamente vaghi
non avessero ancora raggiunto un senso ineccepibile e come se un L. perfetto
aspettasse di essere costruito da noi. Dall’altro lato, sembra chiaro che dove
c’è senso ci dev'essere ordine perfetto. Così ci dev'essere ordine perfetto
nella più vaga delle proposizioni + (Zbid., I, 98). Da questo punto di vista
l’ideale linguistico, la lingua perfetta è qualcosa di già esistente nell’uso.
« L'ideale, dice Wittgenstein, deve essere trovato nella realtà. Finchè non
abbiamo ancora veduto come si trova in essa, non comprendiamo la natura di
questo deve. Pensiamo che dev'essere nella realtà perchè pensiamo di averlo già
veduto » (/bid., 101). Questo punto di vista si può dire coincida con quello di
Carnap. Il « principio di tolleranza » o « di convenzionalità +, stabilito da
Carnap, esprime la perfetta equivalenza dei sistemi linguistici. « In logica,
dice Carnap, non c’è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica
cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi, deve solo indicare
come lo vuol fare, e dar regolazioni sintattiche invece di argomenti filosofici
» (Logica! Syntax of Language, $ 17). Da questo punto di vista la stessa
costruzione di un L. ideale o perfetto è fatto sulla base di ciò che un certo
tipo di L. è in linea di fatto. «I fatti, dice Carnap, non determinano se l’uso
di una certa espressione sia corretto o sbagliato ma soltanto quanto
frequentemente porta all’effetto cui tende e simili. Una questione intorno a
ciò che è corretto o sbagliato deve sempre riferirsi a un sistema di regole. A
stretto rigore, le regole che elencheremo non sono regole del L. B, come è dato
di fatto, costituiscono piuttosto un sistema linguistico in corrispondenza con
2 che chiameremo il sistema semantico B-S. Il L. B appartiene al mondo dei
fatti... Invece il sistema linguistico B-S è qualcosa di costruito da noi; ha
tutte e sole quelle proprietà che stabiliamo mediante le regole. Tuttavia noi
costruiamo 8-S non arbitrariamente ma con riLINGUAGGIO guardo ai fatti di 8.
Quindi possiamo fare l’affermazione empirica che il L. B è in una certa misura
in armonia con il sistema B-S» (Foundations of Logic and Mathematics, I, 4). Il
sistema semantico B-S ha perciò, secondo Carnap, le seguenti proprietà: 1°
costituisce il criterio in base al quale si può giudicare della correttezza o
meno del L. B; 2° le regole di B-S non sono convenzionali perchè sono scelte
sulla base di dati di fatto forniti da 8. Carnap pertanto ammette contemporaneamente
la tesi della convenzionalità dei L. e la tesi della naturalità dei sistemi
semantici cioè dei L. perfetti. 2° La dottrina che il L. sia « per natura» e
che il rapporto tra il L. e il suo oggetto (quale che sia) venga stabilito
dall’azione causale di quest’ultimo è anch’essa caratterizzata dal
riconoscimento della necessità del rapporto semantico. Mentre la precedente
dottrina affermava che il rapporto semantico è sempre esatto perchè è in ogni
caso istituito ad arbitrio, la dottrina in esame afferma che è sempre esatto
perchè sfugge all’arbitrio ed è istituito dall’azione causale dell’oggetto.
Questa tesi si può far risalire ad Eraclito (Fr. 23, Diels; 114, Diels); ma
esplicitamente fu esposta dai Cinici, e specialmente da Antistene, il cui punto
di vista è espresso da Cratilo nel dialogo omonimo di Platone: « Le cose hanno
i nomi per natura ed è artefice di nomi non uno qualsiasi ma solo colui che
guarda al nome che per natura è proprio di ciascuna cosa e che è capace di
esprimere la specie di essa in lettere e sillabe» (Crar., 390d-e). Sappiamo
d’altronde che Antistene aveva definito il L. dicendo che è «quello che
manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3); e che traeva da questa
dottrina le stesse conseguenze che i Megarici con Stilpone traevano dalla tesi
della convenzionalità: e cioè che « è impossibile contraddire o anche dire il
falso » (ARIST., Met., V, 29, 1024 b 33). Questa di Antistene è tuttavia una
soltanto delle forme che la dottrina in esame può assumere ed ha assunto nel
corso della sua storia. Queste forme sono distinguibili sul fondamento del tipo
di oggetto che si assume come designato dal linguaggio. Tutte le forme di
questa dottrina asseriscono che il L. è apofantico cioè in qualche modo
rivelativo del suo oggetto; esse differiscono tra loro nel determinare il tipo
di oggetto che il L. rivelerebbe in modo primario o privilegiato. Si possono
così distinguere: a) la teoria dell’interiezione; b) la teoria
dell’onomatopeia; c) la teoria della metafora; d) la teoria dell’immagine logica.
a) La teoria dell’interiezione che fu detta da Max Miiller (Lectures on the
Science of Language, 1861, cap. 9; trad. ital., pag. 363) teoria del pu/-puh è
stata esposta per la prima volta da Epicuro: « Le parole, egli disse, non sono
in principio create LINGUAGGIO per convenzione; ma è la stessa natura umana
che, influenzata da determinate emozioni e in vista di determinate imagini, fa
sì che gli uomini emettano l’aria in modo appropriato alle singole emozioni ed
imagini. Le parole sono dapprima diverse per la diversità delle genti, che
dipende anche dai luoghi; ma poi vengono rese comuni affinchè i loro
significati siano meno ambigui e più rapidamente comprensibili » (Dioc. L., X,
75-76). Lucrezio esprimeva più succintamente lo stesso concetto: «La natura
costrinse gli uomini a emettere i vari suoni del L. e l’utilità condusse a dare
a ciascuna cosa il suo nome» (De nat. rer., V, 1027-28). In tempi moderni la
dottrina è stata ripresa da Condillac (Sur l’origine des connaissances
humaines, 1746, I, $ 1 sgg.) ed esposta nel modo più brillante da Rousseau. «
Il primo L. dell’uomo, diceva quest’ultimo, il L. più universale e più energico
e il solo di cui aveva bisogno prima che gli occorresse di persuadere uomini
riuniti, è il grido di natura. Poichè questo grido era strappato da una specie
d’istinto nelle occasioni pressanti, per implorare soccorso nei grandi pericoli
o sollievo nei mali violenti, esso non era di grande uso nel corso ordinario
della vita in cui regnano sentimenti più moderati. Quando le idee degli uomini
cominciarono ad estendersi e moltiplicarsi e si stabill tra essi una
comunicazione più stretta, e si cercarono segni più numerosi e un L. più
esteso, essi moltiplicarono le inflessioni della voce e vi aggiunsero i gesti
che, per loro natura sono più espressivi e di cui il senso dipende meno da una
determinazione anteriore » (De /’inépalité parmi les hommes, I; cfr. pure il
saggio « Sull’origine delle lingue », in (Euvres, 1877, vol. I). Ma il problema
in cui questa dottrina si urta è proprio quello del passaggio da una lingua
costituita da semplici gridi o interiezioni a una lingua oggettiva, costituita
da termini generali o astratti. Ancora nel mondo moderno non è mancato chi ha
visto nell’interiezione l'origine di quei suoni che, gradualmente purificati e
organizzati, si trasformarono in vero e proprio linguaggio. Così pensava, ad
es., O. Jespersen (Language, its Nature, Development and Origin, 1923, pag. 418
sgg.) e più rigorosamente la stessa tesi è stata presentata da Grace de Laguna che
ha cercato di definire meglio il passaggio dall’interiezione al L. come un
processo di oggettivazione, per il quale alle espressioni emotive si vengono
via via sostituendo gli aspetti percepiti delle situazioni effettive (Speech,
its Function and Development, 1927, pag. 260 sgg.). Ma ciò che riesce difficile
a comprendersi è per l'appunto questo processo di oggettivazione e
purificazione dei gridi emotivi: tanto più che lc stesse dottrine che si
appellano ad essi hanno messo in luce ed esplicitamente riconosciuta la
differenza 537 fra le parole e le interiezioni (che non si distinguono dai
gridi animali) nonchè il fatto che le parole si affermano a danno delle
interiezioni. b) La teoria dell’onomatopeia, che Max Miiller (Lectures on the
Science of Language, 1861, cap. 9) chiamò teoria del bau-bau, è quella che
afferma che le radici linguistiche sono imitazioni di suoni naturali. La teoria
era conosciuta da Platone; il quale la critica osservando che, « in tal caso,
coloro che rifanno il verso delle pecore, dei galli e degli altri animali
darebbero il nome agli animali di cui contraffanno la voce» (Crar., 423 c). La
teoria fu difesa da Herder nel suo 7rattato sull'origine del L. (1772): egli
considerò i suoni naturali (per es., il belare di un agnello) come i segni di
cui l’anima si avvale per riconoscere l’oggetto in questione. « Il suono del
belare, notato come contrassegno distintivo, diventa il nome dell’agnello. Il
contrassegno compreso per il quale l’anima si riflette chiaramente in un’idea,
è la parola. E che cos’è l’intero L. umano se nonun insieme di tali parole?»
(Werke, ed. Suphan, V, pag. 36-37). La principale obiezione contro questa
dottrina è stata portata dai glottologi: non è vero che l'origine di tutte le
radici linguistiche è onomatopeica. Neppure nella formazione dei nomi degli
animali, nella quale il principio onomatopeico si potrebbe presumere più
efficace, esso ha veramente una funzione dominante. Contro di esso sta poi
l’obiezione filosofica, che già Platone avanzava, che altro è l’imitazione di
un suono, altro è l'imposizione di un nome. Tuttavia, il principio
dell’onomatopeia è stato molte volte utilizzato dai glottologi per spiegare la
formazione delle parole originali in questa o quella lingua e il loro
distribuirsi in gruppi distinti. Lo stesso Cassirer ammette come prima fase
dell’espressione linguistica uno stadio mimetico nel quale «i suoni sembrano
avvicinarsi all’impressione sensoria e riprodurre la sua diversità il più
fedelmente possibile» (Phil. der symbolischen Formen, 1923, I, cap. 2, $ 2;
traduzione ingl., pag. 190). c) La terza forma della dottrina della naturalità
del L. è quella che lo considera come metafora. Le tesi caratteristiche in cui
si esprime questa teoria sono le seguenti: 1° il L. non è imitazione ma
creazione. Questa tesi distingue questa teoria da quella onomatopeica; 2° la
creazione linguistica mette capo non a concetti o termini generali ma a
imagini, che sono sempre individuali o particolari; 3° ciò che la creazione
linguistica esprime non è un fatto oggettivo 0 razionale ma soggettivo o
sentimentale; e questo è propriamente l’oggetto del linguaggio. Con queste
caratteristiche la teoria fu espressa per la prima volta da Vico; il quale
affermò che «il primo parlare» non fu «un par538 lare secondo la natura delle
cose » ma « un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte
immaginate divine » (Scienza Nuova, II, Della logica poetica). I primi poeti,
secondo Vico, dettero «i nomi alle cose dalle idee più particolari e sensibili;
che sono le due fonti, questa della metonimia e quella della sineddoche» (Ibid,
Corollari d’intorno ai tropi, 2). Di conseguenza i primi uomini concepirono
l’idea delle cose « per caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli »; e
si spiegarono « con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee
(quanto, per es., lo hanno l’atto di tre volte falciare o tre spighe per
significare tre anni) ». Questo, secondo Vico, è facile a osservarsi nella
lingua latina, «che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per
proprietà naturali o per effetti sensibili »; ma « generalmente la metafora fa
il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni + (Ibid., Corollari
d’intorno ai tropi, 2). Espressa in forma assai più immaginifica, questa teoria
si ritrova nello Hamann secondo il quale il L., che è «l’organo e il criterio
della ragione +, non è una semplice collezione di segni ma «il simbolo e la
rivelazione della stessa vita divina» (Schriften, II, 19, 207, 216). Nel sec.
xtx la teoria della metafora, anche senza l’impostazione metafisica o teologica
con cui compare in Haman è il tratto comune delle dottrine che sono state
chiamate del din-don cioè del carattere risonante della natura umana. Così Max
Miller affermava che il L. è il prodotto di una «facoltà creativa la quale dà a
ciascuna impressione, nel modo che penetra per la prima volta nel cervello,
un’espressione fonetica +; e che i fonemi così creati vengono poi selezionati e
combinati naturalmente attraverso il processo storico di formazione del L.
stesso (Lectures, cit., 9; trad. ital., pag. 394). ll carattere metaforico del
L., consistendo nel ricorso a termini ambigui od equivoci, favorisce (secondo
questa teoria) l’origine e la formazione del mito. « Nel L. umano, ha detto F.
Max Milller è impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora e non
si esagera dicendo che l’intero dizionario dell’antica religione era fatto di
metafore... Di qui una sorgente continua di equivoci molti dei quali sono
consacrati nella mitologia e nella religione del mondo antico» (Contributions
on the Science of Mythology, 1897, I, 68 sgg.). Questa connessione del L. con
il mito era già stata fatta da Vico che, per di più, non aveva equiparato ad
una malattia del L. la formazione del mito. Le dottrine moderne del mito (v.)
negano questa equiparazione, ma mantengono la connessione del mito col
linguaggio. In senso analogo Croce ha stabilita la connessione del L. con
l’arte in generale. Il L. ha, per Croce, natura fantastica o metaforica ed è
quindi legato più strettamente con LINGUAGGIO la poesia che con la logica. «
L'uomo, dice Croce, parla a ogni istante come il poeta, perchè come il poeta
esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella forma che si dice di
conversazione o familiare, e che non è separata per nessun abisso dalle altre
forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche, narrative, epiche,
dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via enumerando »
(Breviario di estetica, 1913, II). Un abisso c’è tuttavia (e Croce lo ha
affermato più tardi) tra l'espressione poetica che placa e trasfigura il
sentimento ed è perciò un conoscere, dagli altri tipi di espressione (o
sentimentale o prosastica) che, vincolati strettamente al sentimento e
all’idea, non operano quella trasfigurazione che è propria dell’espressione
autentica e pertanto non possono neppure dirsi linguaggio. Fsse sono, secondo
Croce soltanto «suoni articolati » (La poesia, 1936, pag. 9 sgg.). Questa
conclusione cui Croce, non senza coerenza, ha condotto la teoria in esame,
mostra i limiti della teoria stessa. Questa si trova nell’incapacità di
spiegare il passaggio dal L. metafora al L. concettuale, dal L. che è grido o
gesto o altro « carattere poetico + (secondo l’espressione di Vico) al L. che è
struttura, organizzazione e regola. d) La quarta forma della dottrina della
naturalità del L. è quella che lo considera come la espressione o l’imagine
dell’essenza o dell’essere delle cose. Questa dottrina è assai antica perchè la
sua prima manifestazione è la teoria di Antistene secondo la quale « il L. è
quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3). Gli Stoici a loro
volta affermarono che « parlare significa pronunziare un suono che significa
l’oggetto pensato » (Sesto E., Adv. Math., VIII, 80). La caratteristica di
questa dottrina è che essa porta la sua attenzione non tanto sui singoli segni
o parole ma sulle loro connessioni sintattiche cioè sulle regole del loro uso
nelle proposizioni e nei ragionamenti e pertanto sulle strutture formali del
linguaggio. A questo indirizzo appartiene propriamente la teoria che abbiamo
chiamato del convenzionalismo apparente o zoppo: cioè la teoria che, mentre i
singoli segni linguistici sono scelti ad arbitrio, i loro modi di combinarsi
non sono arbitrari ma naturali e necessari perchè corrispondono ai modi di
combinarsi dei concetti mentali che a loro volta corrispondono ai modi di
combinarsi delle cose. Questa teoria, avanzata da Aristotele, è stata
riprodotta più volte dall’empirismo moderno e contemporaneo (v. sopra). In
questa forma la dottrina è caratterizzata dall’inserzione, tra il segno
linguistico e la cosa, del concetto mentale, attraverso il quale lo stesso
segno linguistico, nei suoi modi di combinazione, viene a partecipare della
necessità oggettiva delle cose. Un fondamento analogo ha LINGUAGGIO
l’affermazione della naturalità del L. fatta da Fichte nei Discorsi alla
nazione tedesca (1808) dove si afferma che «esiste una legge fondamentale
secondo cui ogni concetto assume, attraverso gli organi, un suono; quello e non
un altro» (IV; trad. ital., Allason, pag. 78), o quella di Hegel che «il L. dà
alle sensazioni, intuizioni e rappresentazioni una seconda esistenza, più alta
di quella immediata, un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio
della rappresentazione +» (Enc., $ 459). Ma la tesi della naturalità del L. è
stata ripresa nella sua forma rigorosa e perciò nei suoi teoremi classici
soltanto ad opera della logica matematica contemporanea. Questa difatti ha
riaffermato il principio di una corrispondenza di termine a termine tra i segni
linguistici e le cose, principio che i Cinici avevano espresso dicendo che il
L. è ciò che manifesta quello che una cosa era od è. Questo principio che fa
del L. la riproduzione pittorica della realtà o in generale dell’essere, è
stato dapprima difeso da Russell ma ha trovato la sua formulazione più rigorosa
nel Tractatus logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein. Il principio veniva
esposto da Russell nella forma seguente: «In ogni proposizione che possiamo
apprendere (cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare
ma in tutte quelle che possiamo immaginare) tutti i costituenti sono realmente
entità di cui abbiamo conoscenza diretta » (€ On Denoting », 1905, ora in Logic
and Knowledge, 1956, pag. 56; cfr. Mysticism and Logic, 1918, pag. 219, 221;
The Problems of Philosophy, 1912, pag. 91). Questo vuol dire che ad ogni
termine adoperato nelle proposizioni deve corrispondere un termine o entità
oggettiva di cui si abbia conoscenza diretta (acquaintance): o che dev’esserci
una corrispondenza di termine a termine fra gli elementi che entrano a comporre
le proposizioni e le entità di cui si ha conoscenza diretta. Russell osserva a
questo proposito che « dobbiamo attribuire un significato alle parole che
usiamo se vogliamo parlare con qualche significato e non per pura chiacchera; e
il significato che attribuiamo alle parole dev’essere qualcosa di cui abbiamo
già conoscenza» (Problems of Phil., pag. 91). Questa è semplicemente la
ripresentazione della tesi di Antistene secondo la quale parlare significa dire
qualcosa e precisamente qualcosa che è, sicchè non si può dire ciò che non è:
con l’aggiunta che ciò che è, vale a dire le entità corrispondenti ai termini
del L., dev'essere « direttamente conosciuto ». Russell fondava su questo
principio la sua teoria della denotazione: secondo la quale « quando c’è
qualcosa di cui non abbiamo conoscenza immediata ma solo una definizione per
mezzo di frasi denotanti, le proposizioni nelle quali questa cosa è introdotta
per mezzo di una frase denotante non contengono realmente la cosa 539 come
costituente ma contengono invece i costituenti espressi dalle diverse parole
della frase denotante » (€ On Denoting +, /bid., pag. 55-6). Così ad es.,
poichè non abbiamo diretta esperienza dello spirito degli altri, noi non
conosciamo, se A è uno di tali spiriti, che « A ha questa e quella proprietà 1;
ma conosciamo soltanto che « Tal dei Tali ha uno spirito che ha questa o quella
proprietà ». Tuttavia, se un linguaggio ideale ci potesse essere, esso dovrebbe
contenere unicamente elementi costitutivi ultimi sicchè in esso « non ci
sarebbe che una parola e non più di una per ogni oggetto semplice ed ogni cosa
che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole, ciascuna
delle quali starebbe per una cosa semplice » (« The Phil. of Logical Atomism+,
Logic and Knowledge, pag. 197-98). Secondo Russell il L. dei Principia
Mathematica mira ad essere un L. di questa specie: in esso c’è solo sintassi e
niente vocabolario (/b., pag. 198). E ciò lo rende uguale al L. proposto dai
dotti dell’Accademia di Lagado di cui parla Swift nei Viaggi di Gulliver. Essi
proponevano di abolire le parole perchè « dal momento che le parole sono solo
nomi per le cose, sarebbe più comodo per tutti gli uomini portare con loro le
cose che sono necessarie a esprimere le particolari faccende di cui intendono
discorrere +. Questi saggi portavano perciò con loro sacchi pieni di oggetti e
facevano conversazione mostrandosi reciprocamente gli oggetti stessi
(Gulliver’s Travels, III, cap. 5). Lo stesso ideale è stato espresso da
Wittgenstein (prima maniera) con formule semplici e precise. Eccone alcune: «Il
nome significa l’oggetto: l’oggetto è il suo significato » (Tractatus, 3.203).
« Alla configurazione dei segni semplici nella proposizione corrisponde la
configurazione degli oggetti nella situazione +» (/bid., 3.21). « Il nome è il
rappresentante dell'oggetto nella proposizione » (/bid., 3.22). Wittgenstein ha
espresso con tutta la chiarezza desiderabile il concetto del linguaggio (che non
è altro che «la totalità delle proposizioni +, /bid., 4.001) come
raffigurazione pittorica del mondo. « A prima vista, egli dice, non sembra che
la proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta sia un’imagine della
realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista
un'imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a lettere) sembra
un’imagine del nostro L. parlato. Eppure questi simboli si dimostrano anche nel
senso ordinario del termine, imagini di ciò che rappresentano » (/bid., 4.011).
Buona parte dell’empirismo logico e in generale della filosofia contemporanea
condivide o ha condiviso questa dottrina del L. come imagine logica del mondo.
L'obiezione fondamentale contro di essa è stata bene espressa da Max Black: «
Non c’è motivo che il L. debba 540 ‘ corrispondere * o © assomigliare * al ‘
mondo * più che non vi sia motivo che debba assomigliare al mondo il telescopio
con cui l’astronomo lo studia » (Language and Philosophy, V, 4; trad. ital.,
pag. 173). È interessante constatare che all’altro estremo della filosofia
contemporanea, cioè all’estremo metafisico o ultra-metafisico, si ha un
concetto analogo del linguaggio. Heidegger non ammette certo la corrispondenza
di termine a termine tra gli elementi del L. e gli elementi dell’essere; ma
afferma tuttavia, con energia uguale a quella di Wittgenstein, il carattere
apofantico del L. rispetto alla totalità dell’essere. In questo senso egli ha
chiamato il L. «la casa dell’essere ». Ed ha aggiunto: « Discorrere di casa
dell'essere non significa per nulla trasferire l’immagine della casa
all’essere; un giorno ci sarà possibile, muovendo da un adeguato pensamento
dell’essenza dell'essere, giungere a comprendere che cosa significhino casa ed
abitare (« Brief liber den Humanismus », in P/atos Lehre von der Wahrheit,
1947, pag. 112). In altri termini il L. è l'immediata rivelazione dell'essere;
e l’uomo accede all’essere attraverso il linguaggio. 3° La terza dottrina
fondamentale del L. è quella che lo interpreta come uno strumento, cioè come un
prodotto di scelte ripetute e ripetibili. Questa dottrina è stata per la prima
volta presentata da Platone. Di fronte alle due tesi opposte della
convenzionalità e della naturalità del L., Platone evita, nel Cratilo, di
decidere in favore di una di esse. «A me piace, egli dice, che, per quanto è
possibile, i nomi siano simiglianti alle cose; ma io temo che, per dirla con
Ermogene, questa attrazione della simiglianza ci porti su di un terreno
sdrucciolevole e che perciò sia necessario servirci anche di un mezzo un pò
grossolano, cioè della convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi
» (Crat., 435 c). I nomi dei numeri, ad es., difficilmente si potrebbero,
secondo Platone, ritenere naturali nel senso di essere simili a ciò che
indicano. Ma se nè la convenzione nè la natura cioè nè la dissimiglianza tra la
parola e la cosa nè la simiglianza costituisce il significato, che cosa in ogni
caso lo costituisce? L'uso. Dice Platone: « Se l’uso non è una convenzione,
sarebbe meglio dire che non la somiglianza è il modo in cui le parole
significano ma piuttosto l’uso: questo infatti, a quanto sembra, può
significare sia mediante la simiglianza sia mediante la dissimiglianza »
(Crar., 435a-b). Platone ha qui espresso una tesi fondamentale della
linguistica moderna: è soltanto l’uso che stabilisce o per dir meglio
costituisce il significato delle parole. Ma questa tesi presuppone l’altra, del
carattere strumentale del linguaggio: tesi, quest’ultima, che Platone ha
espresso dicendo che il L. è uno strumento e che, come tutti gli strumenti,
dev'essere adatto allo LINGUAGGIO scopo (Crar. 387 a). Da questo punto di
vista, l’uso è la scelta ripetuta o convalidata che ha condotto a forgiare un
determinato strumento linguistico; e come tutti gli altri strumenti, così pure
gli strumenti linguistici possono riuscire più o meno perfetti e adeguati allo
scopo. Si giustifica così quello che, secondo Platone, è il fondamentale
teorema filosofico intorno al L.: la fallibilità del L. stesso, la possibilità di
dire ciò che non è (Sof., 261 b). La caratteristica comune delle due dottrine
precedenti è, come si è visto, la negazione di questo teorema. La tesi della
convenzionalità esclude che il L. possa includere l’errore perchè una
convenzione non può avere che lo stesso valore di un’altra. La tesi della
naturalità esclude che il L. possa includere l’errore perchè deve riconoscere
che il L. rappresenta, in ogni caso, ciò che è ed è quindi sempre nel vero.
Entrambe le tesi escludono che il L. si possa giudicare o che abbia un senso il
giudizio sulla sua correttezza. La tesi del L. come operazione, uso, scelta,
include invece questa possibilità giacchè vede in esso il prodotto di
operazioni dirette a costituire uno strumento efficace e considera come non
infallibile la riuscita di queste operazioni. Il fondamento oggettivo di quella
possibilità è che «il discorso nasce dalla unione reciproca delle specie »
(.Sof. 259 d) e che le specie non sono nè tutte insieme unite nè tutte
disgiunte, ma alcune possono unirsi e altre no. Le possibilità del L. sono
pertanto limitate dalle possibilità di combinazione delle specie o forme
dell’essere (Sof., 262 c). Questa posizione platonica veniva riprodotta da
Leibniz. «Io so, egli diceva, che si suol dire nelle scuole e dappertutto che i
significati delle parole sono arbitrari (ea instituto) ed è vero che non sono
determinati da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni
naturali, in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una
scelta » (Nouv. Ess., III, 2, 1). Herder partiva dalla stessa considerazione
preliminare e definiva come astrazione la scelta che si fa di una qualità
dell’oggetto allo scopo di nominarlo. « L’uomo mette in atto la riflessione non
solo quando percepisce tutte le qualità di un oggetto vividamente e con
chiarezza ma anche quando può riconoscere una o più qualità come qualità
distintive... E con quali mezzi effettua questo riconoscimento? Attraverso la
sua capacità di astrazione » (Werke, ed. Suphan, V, pag. 35). È in questa
tradizione che Humboldt formulò quella dottrina del L. che doveva avere così
vasta influenza sulla scienza moderna del linguaggio. La formazione degli
strumenti linguistici è difatti, da questo punto di vista, la formazione di
connessioni, di symploké (come diceva Platone) e pertanto il L. non è un
complesso atomistico di parole, ma è discorso organizzato. LINGUAGGIO 541
Humboldt esprimeva chiaramente questo concetto. « Non possiamo concepire il L.,
egli diceva, come avente inizio dalla designazione degli oggetti mediante le
parole e come procedente in un secondo tempo alla organizzazione delle parole
stesse. In realtà, il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma al
contrario le parole prendono origine dall’intero discorso» (« Einleitung zum
Kawi-Werk », Werke, VII, 1, pag. 72 sgg.). Pertanto la comunicazione non è
effettuata dalla singola parola ma dalle frasi e solo queste sono gli strumenti
particolari di cui è formato il L. (/bid., pag. 169 sgg.). Queste idee hanno
dominato e continuano a dominare la scienza del linguaggio. Esse si trovano
incorporate negli stessi concetti di cui questa scienza si avvale, per es., nel
concetto di fonema. Un fonema è «l’unità minima dotata di caratteristiche
sonore distintive» ed è pertanto un’unità di significato non di suono
(BLOOMFIELD, Language, 1933, 5.4). Ogni lingua sceglie i suoi fonemi; ma questa
scelta non può essere qualificata nè come « casuale + o «arbitraria » e neppure
come « naturale » o « necessaria »: perchè una scelta condiziona o limita le
altre e ogni gruppo o serie di esse è condizionata dall’esigenza dell’efficacia
comunicativa del linguaggio. I fonemi possono pertanto essere ridotti a tipi
che la scienza del L. si propone di determinare. Le determinazione di questi
tipi fornisce il fondamento delle scelte che costituiscono le strutture
fondamentali del L., e perciò spiega, in qualche misura, tali strutture, senza
che ne giustifichi la perfezione o l’infallibilità. Nella linguistica
contemporanea, la concezione del L. come strumento è sostenuta specialmente dai
funzionalisti, che vedono nel L. «uno strumento di comunicazione» per il quale
l’esperienza umana si analizza in unità o monemi che hanno un contenuto
semantico o una forma fonica: questa forma fonica a sua volta si articola in unità
distinte e successive, « fonemi, la cui natura e i cui rapporti variano da
lingua a lingua » (MARTINET, A Functional View of Language, 1962, cap. I). 4°
La quarta concezione del L., che è quella che abbiamo chiamata del caso, è in
realtà una specifi cazione della terza o per meglio dire è una prospettiva di
studio aperta dalla terza concezione. Questa prospettiva è costituita dallo
studio statistico del linguaggio. È noto che azioni che sono individualmente
mutevoli e imprevedibili presentano uniformità e costanza se considerate in
gran numero. Non si può certo prevedere se una particolare persona si sposerà
l'anno venturo, ma si può prevedere con sufficiente approssimazione il numero
delle persone che si sposeranno l’anno venturo in una determinata comunità
sulla base delle statistiche degli ultimi anni. Allo stesso modo si possono
studiare le frequenze statistiche con la quale espressioni determinate
ricorrono in una comunità sufficientemente vasta: cioè si possono fissare certe
costanti statistiche del L. e assumerle come base per lo studio delle strutture
linguistiche. Certamente tale indagine statistica non è indispensabile per lo
studio di massa del linguaggio. C'è anche l’altro metodo, che è quello
dell’osservazione sociologica, per la quale l’osservatore linguistico può,
partecipando alla vita di una comunità, descriverne gli usi linguistici. Questo
è anzi il metodo prevalentemente seguito sin ora dai glottologi, i quali solo
raramente, e quasi esclusivamente nei confronti di opere letterarie, hanno
fatto ricorso al metodo statistico. Si può ricordare a questo proposito l’opera
di Lutoslawski sullo stile di Platone (The Origin and Growth of Plato’s Logic,
1897) che riuscì a porre su nuova e più sicura base la cronologia degli scritti
platonici. Ma non mancano oggi proposte di un ricorso sistematico al metodo
statistico in vista della soluzione di tutti i problemi della linguistica
strutturale. Dice a questo proposito G. Herdan: « Se consideriamo la lingua
come il totale dei segni linguistici più la loro probabilità di ricorrere nel
discorso individuale e perciò come i vari modi nei quali l’evento segno può
accadere insieme con le relative frequenze dei differenti segni nell’uso
effettivo, la concezione risponde a tutte le esigenze di quella che si chiama
la popolazione statistica di tali eventi o il loro universo statistico. Ogni
enunciato individuale (la parole nella terminologia di de Saussure) compie
l’ufficio di campione di quella popolazione» (Language as Choice and Change,
1956, 1.3). Da questo punto di vista, se si esaminano testi differenti di una
stessa lingua si trova per esempio che le frequenze relative con le quali un
particolare fonema è stato usato dagli scrittori sono su per giù le stesse.
Questo autorizza a considerarle come fluttuazioni della probabilità costante di
quel particolare fonema in quel linguaggio. E questo significa che il parlatore
o scrittore obbedisce a certe leggi del caso e che solo quando si considerano
grandi masse di forme linguistiche si ha l’impressione di una determinazione
causale nel loro uso. In altri termini avverrebbe qui ciò che accade nella
fisica per la quale il determinismo macroscopico è soltanto l’effetto di una
considerazione di massa degli eventi microscopici. I sostenitori di questa
concezione del L. affermano pertanto che ciò che dal punto di vista intuitivo
appare nel L. come una relazione di causa ed effetto (la determinazione delle
scelte linguistiche) è, dal punto di vista quantitativo, soltanto caso. La
teoria pertanto spiega le differenze fra i testi non con l’intenzione dei
parlanti o con un determinismo causale ma con le leggi statistiche del caso
(HERDAN, op. cif., 1.4; C. E. SHanNON and W. WerAVER, The Mathematical Theory
of Communication, Urbana, 1949). 542 LINGUAGGIO, Questo punto di vista da un
lato ha reso possibile la ricerca di una grammatica generativa cioè di un
«sistema di regole che in qualche modo esplicito e ben definito, assegnino
descrizioni strutturali agli enunciati» (CHomsky, Aspects of Theory of Syntax,
1965, pag. 8). Dall'altro lato, ha reso possibile, nello studio del L., l’uso
dei modelli (v. MopetLo) che qualche volta sono considerati come costituenti la
stessa realtà sistematica del L. (Sapir, Language, 1921) e talaltra come
costrutti cioè come strutture ipotetiche opportunamente costruite (REZvIN,
Models of Language, 1966, $ 2). V. STRUTTURA; STRUTTURALISMO. LINGUAGGIO,
ANALISI DEL. V. EmpiRISMO LOGICO. LINGUAGGIO CHIUSO. V. LingcuaggioOGGETTO.
LINGUAGGIO FORMALIZZATO. V. SiSTEMA LOGISTICO. LINGUAGGIO-OGGETTO (ingl. ObjectLanguage).
Questa nozione nasce corrispondentemente a quella di metalinguaggio (v.) ogni
qualvolta si assume che un L. è «semanticamente chiuso » cioè non contiene, in
aggiunta alle sue espressioni, anche i nomi di queste espressioni o termini
(come «vero» e «falso +) che si riferiscano ad esse. In tal caso, infatti,
bisogna distinguere il L. de/ quale si parla e che è l’argomento della
discussione e il L. con il quale si parla e con il quale desideriamo costruire
la definizione di verità per il primo linguaggio. Quest'ultimo è il
metalinguaggio; il primo è il L.-oggetto. La distinzione tra L.-oggetto e
metalinguaggio fu introdotta dai logici polacchi verso il 1919 e diffusa da
Tarski (cfr. « The Semantic
Conception of Truth », 1944, in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pag.
60). La distinzione fu accettata da Carnap
(Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 3). A volte tuttavia il
L.-oggetto e il metalinguaggio coincidono come quando, ad es., si parla in
italiano dell’italiano. La distinzione vale soprattutto per i linguaggi
formalizzati (v.). LIRICO (ingl. Lyric; franc. Lyrique; ted. Lyrisch).
Aggettivo adoperato da Croce per specificare l’espressione artistica come
espressione del sentimento. « Ciò che dà coerenza e unità all’intuizione, dice
Croce, è il sentimento: l’intuizione è veramente tale solo perchè rappresenta
un sentimento e solo da esso e sopra di esso può sorgere... Etica e lirica, o
dramma e lirica, sono scolastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre
lirica, cioè espressione etica e drammatica del sentimento » (Breviario di
Estetica, 1912, in Nuovi saggi di estetica, pag. 28). La liricità costituisce
per Croce il carattere soggettivo o romantico dell’arte. ANALISI DEL
LITIGIOSUS. Così fu chiamato il dilemma di Protagora e del suo scolaro Euatlo
(AuLo GELLIO, Noct. Att., V, 10) (v. DILEMMA). LOCKISMO (ingl. Lockianism). La
dottrina di Locke assunta come l’espressione tipica dell’empirismo (v.). LOGICA
(ingl. Logic; franc. Logique; tedesco Logik). L'etimologia stessa (da >Aéyos,
che significa « parola», « proposizione», «discorso ?, ma anche « pensiero 1) è
equivoca come è equivoca la nozione. In Aristotele, un gruppo di scritti del
quale, raccolti nell’Organon, costituiscono la prima ampia trattazione di
questa disciplina, manca qualsiasi parola per designarla. Agli inizi degli
Anglitici, lo scritto più strettamente «logico » di questa raccolta, Aristotele
definisce, senza darle un nome, la scienza che si accinge a ricercare come
scienza della dimostrazione e del sapere dimostrativo (Anal. Pr., I, 24a 10
sgg.) dove però, tra l’altro, il testo non è del tutto chiaro. I suoi oggetti
sarebbero quelli elencati nel seguito del medesimo passo: la proposizione (come
enunciato apofantico, inserito in un discorso dimostrativo), i termini di essa
(soggetto e predicato) e finalmente il sillogismo. Qui e in altri testi
(principalmente nei 7opici e nella Rerorica) Aristotele distingue due tipi di
discorso, dialettico e dimostrativo: il primo che muove dal problematico e dal
probabile e termina necessariamente nel probabile; il secondo invece che muove
dal vero e termina nel vero. Ma, a parte il valore conoscitivo della premessa,
avverte che formalmente i due discorsi sono identici, consistono sempre nel
sillogismo e nelle sue tipiche strutture. Ill termine Xoyiy) (sottinteso céeym)
si trova invece negli scritti degli Stoici per indicare l’arte del discorso
persuasivo in genere: si divide pertanto in reforica e dialettica, quest’ultima
contenendo quello che sarà l’oggetto fondamentale della L., la dottrina del
discorso dimostrativo e degli oggetti che vi si collegano (proposizione,
termini, sillogismo, ecc.). solo nei commentatori peripatetici e platonici di
Aristotele, o negli scritti di eclettici che a questi si riferiscono (come
Cicerone o Galeno), gli uni e gli altri influenzati dalla terminologia degli
Stoici, che il termine «L.», usato come stretto sinonimo di « Dialettica »,
viene introdotto come nome di quella dottrina che aveva il centro negli
Analitici aristotelici, cioè la teoria del sillogismo e della dimostrazione.
Boezio dà il nome di «L.» (anche qui, alternante con « Dialettica »)
all’insieme delle dottrine contenute nell’Organon aristotelico, cui si viene ad
aggiungere, come una specie di introduzione generale, l’/sagoge di Porfirio. E
così per tutto il Medio Evo, per lo meno a partire dal x secolo, l’esposizione,
lo studio e il commento dell’/sagoge porfiriana seLOGICA guita dai libri
dell’Organon (nell’ordine, divenuto tradizionale, di: Categorie, De
Interpretatione, Primi Analitici, Secondi Analitici, Topici, Elenchi
Sofistici), spesso con i commenti e nelle traduzioni o riduzioni boeziane,
costituisce un’ars (una delle «sette arti liberali +) detta indifferentemente
Dialettica o Logica. La differenza che in essa si viene ad introdurre durante
il sec. xl, tra ars verus e ars nova, non ha poi molto rilievo, trattandosi di
una distinzione meramente storica e scolastica tra i libri di Porfirio e di
Aristotele da tempo noti nella traduzione boeziana (/sagoge, Categorie, De
Interpretatione) e quelli resisi noti più recentemente con la diffusione di
nuove traduzioni latine dell’Organon. In sostanza, l’insegnamento di L. alla
fine dell'Età antica e nel Medio Evo comprendeva questi argomenti: 1° teoria
delle quinque voces o predicabili (genere, specie, differenza, proprio,
accidente); 2° teoria delle categorie o predicamenti (sostanza, quantità,
qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, avere, azione, passione); 3°
dottrina delle proposizioni e regole della conversione; 4° dottrina del sillogismo
categorico; 5° dottrina del sillogismo ipotetico; 6° dialettica: a) topica; 5)
dottrina dei sofismi o fallaciae. Che poi si potevano raggruppare in tre parti:
dottrina dei termini, dottrina delle proposizioni, dottrina del ragionamento
(categorico oppure ipotetico, apodittico oppure dialettico). A_ queste parti di
origine aristotelica o (tramite Boezio) stoica il pensiero medievale aggiunse
alcune dottrine che costituiscono un apporto originale alla tradizione L.
dell’Occidente — la dottrina della designazione e denotazione (de
proprietatibus terminorum), la dottrina dei segni logici e delle proposizioni
molecolari (de syncategorematibus), la dottrina dell’implicazione materiale (de
consequentiis) — tutte dottrine appartenenti a quella parte della L. che oggi
si chiama « semantica ». Per capire le trasformazioni intervenute, nel corso
dello stesso Medio Evo, non solo nella tradizione dottrinaria, ma nello stesso
ambito di oggetti coperto dal nome « L. », bisogna tener presenti alcune
considerazioni. Più preoccupato di creare la nuova disciplina che non di
fondarla, e ancora più preoccupato di crearne le dottrine fondamentali in vista
di applicazione a problemi filosofici più « concreti » (principalmente, alla
metafisica e all'etica) che non di svolgerle e di esporle sistematicamente,
Aristotele lasciò la L. non soltanto senza un nome proprio per designarla, ma
anche equivoca nel suo status come disciplina e non ben determinata nei
riguardi della sua materia subiecta. Che sono propriamente gli oggetti di cui
si occupa la Logica? Entità reali, oppure pensieri, o forme del discorso? Il
problema si pone già nella tarda Antichità. A proposito degli universali
(categorie, generi, specie) che appaiono 543 costituire propriamente gli
elementi in cui si risolve il discorso logico: gli universali sono sostanze
reali, o no? Porfirio nell’/sagoge imposta il problema, Boezio ne tenta una
soluzione che tuttavia si aggira in circolo e risulta insoddisfacente; donde
nel Medio Evo la disputa tra i realisti (Bernardo di Chartres, Guglielmo di
Champeaux, Anselmo di Aosta, ecc.), i quali affermano l’esistenza reale degli
universali e quindi fanno della L. una specie di Ontologia, e i nominalisti
(Roscellino, Abelardo, più tardi Guglielmo d’Ockham), i quali negano la sussistenza
ontologica degli universali. Abelardo discutendo la questione degli universali
per primo arriva, attraverso un profondo commento al testo boeziano, a fissare
il piano proprio della L.: questa è scientia sermocinalis; i termini della L.
sono sermones, quindi parole, discorsi, non però meri suoni (flarus vocis, come
sembra sostenesse Roscellino), bensì parole con una intenzione (intentio)
significativa, vale a dire volte a significare cose, o meglio qualità, date
nell’esperienza. Da allora si precisano nella L. medievale due correnti o
metodi (viae): la via antiqua (o antiquorum) fedele alla tradizione realistica,
quindi ontologizzante, e la via moderna (o modernorum), che sviluppa una L. «
terministica », ossia puramente sermocinalis, dove i termini del discorso sono
assunti come tali, indipendentemente da ogni ipotesi metafisica sull’esistenza
reale o meno del loro oggetto. E questo fu in sostanza il punto di vista che si
impose nella L. a partire dal sec. xn e sul quale furono impostati i testi
scolastici di questa disciplina in uso fino agli inizi dell’Età moderna, come
le Summulae Logicales di Pietro Ispano (sec. xm), essendosi oramai diffusa la
convinzione che la stessa questione degli universali appartenesse piuttosto
alla metafisica e alla gnoseologia che non alla L. propriamente detta, la quale
rimane relativamente indifferente alle eventuali risposte date a quel problema.
Tuttavia si veniva a porre un’altra distinzione, la quale in parte è arrivata
fino ai nostri giorni: quella per cui oggetto della L. sono fatti mentali (Duns
Scoto, ma anche Tommaso d’Aquino e d’altra parte alcuni nominalisti), e quella
per cui non sitrattapropriamente di atti mentali bensì di forme strutturali,
intenzionalmente dirette alla costituzione di contenuti semantici ma, come
forme, indipendenti e da tali contenuti e dagli atti mentali in cui tali
contenuti vengono appresi (Buridano e i suoi continuatori dei sec. XIV e Xv:
Alberto di Sassonia, Nicola di Autrecourt, Marsilio di Inghen, ecc.). Sarà
quest’ultima posizione che, ripresa nell’età contemporanea da E. Husserl (e in
modo meno chiaro da B. Russell e da L. Wittgenstein) determinerà l’attuale
rinascita della concezione della L. come formale pura. 544 Ma intanto si veniva
a porre un altro problema. La L. è scienza o arte? Cioè: è disciplina che,
come, per es., le matematiche, espone rapporti obiettivi sussistenti tra i suoi
oggetti (per es., tra le premesse del sillogismo e la sua conclusione), oppure
una tecnica per ottenere discorsi corretti e veri? In genere i Logici medievali
ritengono che sia una cosa e l’altra; ed anche come arte, sia insieme una
precettistica (Logica docens) e un esercizio attivo di discorso o discussione
controllato da quei precetti (Logica utens). La reazione umanistica contro la
Scolastica porta, nel campo della L., ad un’esaltazione di quest’ultimo aspetto
e ad una aspra polemica contro il formalismo tradizionale (Coluccio Salutati,
Lorenzo Valla, ecc.). Alla L. «inglese » (cioè terministica), la quale spesso
nell’insegnamento e nell’esercizio scolastico si perdeva in sterili arguzie e
cavilli disputatori (come già l’antica eristica ai tempi di Platone e di
Aristotele), si contrappone una L.-retorica, per lo più di ispirazione
ciceroniana, come ricerca dei mezzi di persuasione mediante il discorso e
insieme disciplina euristica che guidi alla ricerca delle verità nel campo
delle cose naturali ed umane (storiche ed etiche). Questo movimento di riforma
della L. culmina nel ramismo (da Petrus Ramus, cioè Pierre de la Ramée).
Accanto a questa corrente si deve ricordare anche l’altra, di ispirazione
invece peripatetica, fiorita a Padova nel sec. xvi e che ebbe i massimi
esponenti nel Fracastoro e nello Zabarella, i quali accentrarono le loro
ricerche sul problema, appena accennato nella trattazione aristotelica,
dell’inferenza induttiva, delle sue difficoltà e dei suoi presupposti. Anche in
questi logici (sebbene, naturalmente, in forma meno drastica che non nei retori
umanisti) l’interesse per le strutture formali del discorso deduttivo è
fortemente diminuito a vantaggio di una concezione pragmatica e metodologica
della scienza della logica. All’inizio del Seicento Francesco Bacone porta, in
un certo senso, a compimento questo processo, tentando con il Novum Organon (il
cui nome stesso è programmatico) una radicale riforma della L. concepita
esclusivamente come metodologia scientifica generale. Scartata quasi per intero
la tradizione L. peripatetico-scolastica (quella che aveva il suo centro nella
teoria formale del sillogismo), anche nella L. umanistica (di Ramo, ecc.)
scevera gli aspetti più propriamente metodologici, allo scopo di farne uno
«strumento» per guidare e inquadrare la ricerca scientifica. Con il che
l’antica nozione di « L.» appare interamente mutata. Il disinteresse per il
formalismo logico, e in sua vece l'interesse per problemi gnoseologici,
psicologici e metodologici di una Logica utens si accentuano nel corso dell'Età
moderna: si che nel corso LOGICA dei sec. XVII, XVII e XTX « L. » diviene il
nome scolastico di una serie eterogenea di insegnamenti filosofici, ed i
manuali di questa «materia» (di questo titolo) espongono varie e diverse cose:
accanto alla sillogistica tradizionale (spesso però ridotta a pochi cenni e
comunque conservata più per ragioni di tradizione che per un interesse reale),
contengono annotazioni metodologiche, schizzi di teoria della conoscenza,
analisi di certi concetti generali, ecc. Tipica a questo proposito è l’Arf de
Penser dei maestri portorealisti, nota anche col nome di Logique de Port Royal,
che rimase a lungo il testo più importante di questa disciplina e il modello
più o meno fedelmente seguito e compendiato dagli altri trattati. Tuttavia la «
rinascita » della geometria euclidea, iniziatasi nel sec. xVI e proseguita
trionfalmente (almeno per quanto ne concerne l'aspetto logicoformale) fino
quasi ai nostri giorni, ripropone, insieme al modello del « rigore » euclideo,
il problema di fissare le strutture discorsive da cui quello stesso rigore è
costituito e risulta. Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, Discours de la
méthode) e poi Pascal (Esprit de géométrie e Art de persuader) cominciano ad
estrapolare in forma di regole metodologiche alcuni aspetti di quel «rigore»,
riportandosi, pur in polemica con la sillogistica tradizionale, sul medesimo
terreno di indagine delle forme strutturali di un linguaggio perfetto (qui, il
linguaggio matematico), e quindi riproponendo alcuni problemi fondamentali di
L. formale, quali il problema della definizione (nominale e reale) e quello
della validità della deduzione da assiomi. Contemporaneamente Hobbes, muovendo
egli pure dall’euclidismo della nuova scienza (galileiana) della natura,
compiva un passo decisivo verso la concezione della L. formale pura moderna.
Hobbes infatti introduce la fecondissima idea del raziocinio come « calcolo
logico +, cioè come combinazione e trasformazione di simboli secondo certe
regole le quali già a Hobbes apparivano — ed in seguito appariranno sempre più
— convenzionali (comunque poi si abbia ad intendere tale « convenzionalità +).
Appariva quindi nella storia del pensiero quel convenzionalismo che era
destinato in seguito a dimostrarsi il punto di vista più efficace per togliere
alla L. ogni presupposto dogmatico e metafisico, per liberarla dalle
contaminazioni psicologistiche (che continueranno ad incepparne lo sviluppo fin
quasi ai nostri giorni) e ad assestarla come disciplina della strutture formali
del discorso « rigoroso » secondo determinati modelli ideal-linguistici. Però
il punto di vista convenzionalistico non era destinato ad agire immediatamente
sul pensiero logico moderno, che dai filosofi precedentemente nominati prese
piuttosto l’idea del calcolo logico LOGICA basato sulla distinzione delle idee
in semplici e complesse, e sull’analogia (meramente formale) tra certe
operazioni logiche e certe operazioni aritmetiche. Rappresentando i termini con
simboli generici (per es., lettere dell’alfabeto: a, b, c, ..., x, Y, z; X, Y,
Z; e simili) e le operazioni logiche con simboli vari (di solito presi in
prestito dall’aritmetica: +, X, =; ecc.) si può tentare di svolgere una
dottrina matematica (formale) del discorso. Leibniz fece parecchi tentativi in
questa direzione, tutti però infruttuosi e da lui stesso abbandonati; e
tentativi del genere, analogamente infruttuosi, furono compiuti in seno alla
scuola leibniziana, per esempio da Lambert, Holland, Castillon. Ma più che in
questi tentativi, forse sopravvalutati dai logici matematici del nostro secolo,
l’importanza di Leibniz per la rinascita della L. dopo la crisi iniziatasi con
l’Umanesimo, sta nell’idea, ampiamente sviluppata dai suoi seguaci tedeschi del
Settecento (Lambert, Wolff, Crusius) di una «architettonica della ragione »
(concepita non più psicologicamente, ma in modo tale da preludere al punto di
vista «trascendentale » della filosofia posteriore) esplicantesi nelle forme e
strutture del discorso; « architettonica » che costituirà l’oggetto proprio
della Logica. L’eredità leibniziana è raccolta poi da Kant: il quale nella
Logik distingue nettamente quest’ultima disciplina sia dalla psicologia (con la
quale tendevano a confonderla gli Illuministî) sia dall’Ontologia (con la quale
tendevano a confonderia alcuni leibniziani — in particolare il Crusius),
affermandone il carattere di dottrina formale pura — non però del discorso,
bensì del pensiero: donde le possibilità di ricaduta in una specie di
psicologismo trascendentale, insite nel kantismo. Infatti, com'è noto, accanto
alla L. formale pura Kant pone una L. trascendentale come dottrina delle
funzioni pure della conoscenza; gli idealisti, in particolare Fichte e Hegel,
accentuando tale interpretazione psicologistico-trascendentale risolveranno
entrambe le parti della L. kantiana nella parte trascendentale, interpretando
poi quest’ultima come una specie di «metafisica della mente» o del « Pensiero».
Da allora in vaste zone della filosofia contemporanea, tutte più o meno
influenzate dall’idealismo, il termine « L. » ha perduto interamente il suo
senso tradizionale per ritornare all’accezione illuministica di « filosofia del
pensare » in genere. La fine dell’Ottocento presenta appunto questo quadro. La
L. è intesa come una «teoria del pensiero » e quindi trattata con metodi
naturalistici dai positivisti (per es. Sigwart, Wundt, ecc.), con metodi
metafisicotrascendentali dagli idealisti. Edm. Husserl (Logische
Untersuchungen, I, 1900-1901) ha criticato a fondo questo punto di vista e,
riprendendo le idee di un logico boemo dimenticato, B. Bolzano (Wissen35 545
schaftslehre, 1838), ripropone l’idea della L. formale pura come dottrina delle
proposizioni in sè (nella loro pura apofanticità L., indipendenti quindi sia
dagli atti psicologici in cui vengono pensate, sia dalla realtà intorno a cui
vertono) e della pura deduzione di proposizioni da proposizioni (in sè). Già in
questa prima opera, ma più ancora nelle successive (particolarmente nella
Formale und transzendentale Logik, 1928), Husserl riprende l’idea della ragione
come « ragione formale », ossia pura architettonica del pensiero che si esplica
storicamente nell’attività scientifica da una parte, e nella riflessione logica
dall’altra. La rinascita della L. formale pura, caratteristica dell’epoca
contemporanea, doveva però avvenire mediante una ripresa e uno sviluppo, con
idee più chiare e maggiore indipendenza da dottrine metafisiche, degli abortiti
tentativi leibniziani per costruire la nostra disciplina nella forma di calcolo
simbolico. Quest'opera venne iniziata da un gruppo di filosofi e matematici
inglesi nella metà del secolo scorso. G. Bentham, W. Hamilton, A. De Morgan
fecero lo sforzo, storicamente decisivo, che doveva trasformare la L. in
disciplina matematica, superando l’ostacolo contro il quale si erano arenati i
tentativi di Leibniz: ostacolo costituito dal fatto che nella L. aristotelica
le considerazioni quantitative venivano introdotte solo nei riguardi del
soggetto della proposizione, ma non del predicato. Spetta soprattutto allo
Hamilton la cosidetta « quantificazione del predicato », ossia l’analisi delle
proposizioni secondo forme che introducono quantificatori (e tutti», « qualche
+) non solo per il soggetto, ma anche per il predicato: per es., che interpreta
una proposizione del tipo « tutti gli uomini sono mortali » come « tutti gli
uomini sono alcuni mortali ». In realtà non si trattava di una mera
«correzione» alla L. aristotelica (nella quale l’omissione di quantificatori
per il predicato non era affatto casuale), bensì dell’introduzione di un punto
di vista nuovo, del punto di vista puramente esferssionale, per il quale i
concetti sono considerati solo come classi o collezioni di oggetti, e le
proposizioni vengono interpretate come inclusioni (o esclusioni) totali o
parziali di classi in (da) classi («tutti gli uomini sono mortali», «la classe
‘ uomo * è inclusa nella classe ‘mortale ’ 1). In tal modo l’Analitica aristotelica
(comprendente principalmente la teoria della conversione e quella del
sillogismo) veniva trasformata in — veniva sostituita da — una specie di
calcolo delle classi. Muovendo da questi studi, una serie di logici e
matematici inglesi (G. Boole, Jevons, Venn, Whitehead) e alcuni continentali
(Schròder, Poretsky, Couturat) crearono una disciplina più formalizzata e assai
più indipendente dalla L. tradizionale, l’Algebra della Logica: un calcolo
ambivalente 546 (interpretabile, cioè, come calcolo delle classi e come calcolo
delle proposizioni), del tutto simile, nella sua forma esteriore, all’Algebra
simbolica ordinaria, però con alcune peculiarità, per es., che in esso le
equazioni possono assumere solo i valori 1 («universo di discorso » oppure « vero
+) o 0 («classe vuota» oppure « falso +»); che a-a=aea+a=a;ecc. Sarà
quest'Algebra della L. a fornire i concetti-base e molti materiali dottrinari
alla Logica matematica, creata tra la fine del secolo scorso e gli inizi del
nostro da G. Frege, G. Peano e B. Russell, e culminante nei Principia
Mathematica di B. Russell e A. N. Whitehead, pubblicati tra il 1900 e il 1913.
In quest'opera la L. veniva ad essere costituita di due discipline
fondamentali: il calcolo proposizionale, secondo le operazioni principali della
negazione, disgiunzione o affermazione alternativa, congiunzione o affermazione
simultanea, implicazione materiale; e il calcolo delle funzioni proposizionali
(enunciati contenenti variabili); quest’ultimo dà origine alla considerazione
di enunciati generali ed enunciati particolari o esistenziali, mediante gli
operatori « per ogni x» ed «esiste almeno un x tale che» (risp. ‘(x) ”. e ‘(Hx)
’.). Da quest’ultima dottrina deriva quella dei simboli incompleti: descrizioni
(tipo « il re di Francia +) e classi. Il calcolo delle classi quindi non è più
una dottrina fondamentale della L., essendo derivabile da quello delle funzioni
proposizionali: tuttavia, data la sua importanza, molti logici contemporanei ne
fanno ancora un capitolo a sè (e lo stesso si dica di quello delle relazioni).
In seguito il Wittgenstein, nel 7ractasus, enuncerà una specie di seconda tesi
estensionale per le proposizioni: distinguendo proposizioni atomiche (cioè
semplici) da molecolari (cioè complesse) affermerà che queste ultime dipendono
tutte, per la loro verità o falsità, dalla verità o falsità delle componenti
atomiche più le regole semantiche delle operazioni di composizione (per es.,
l’enunciato «poqg»è vero se, e solo se, almeno p o qè vero): donde un assetto
del calcolo proposizionale sulla base di certi diagrammi logici meramente
combinatori. Partendo da questi, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni
logici, principalmente polacchi, tenteranno di elaborare delle Logiche
polivalenti, nelle quali gli enunciati oltre 1 (« vero +) e 0 (« falso 1)
possono assumere altri valori intermedi. Mancava ancora nei Principia,
esclusivamente rivolti alla fondazione dell’Aritmetica dei numeri naturali, una
trattazione della Logica modale, ossia un calcolo di valori modali come « possibile
», « necessario », ecc., la quale verrà tentata in seguito da logici come il
Lewis e il von Wright. La L. matematica aveva soprattutto due scopi: 1° di
costituire la disciplina matematica fondamentale, di cui tutte le altre
matematiche, secondo la LOGICA tesi /ogicistica, sostenuta appunto da Frege e
da Russell, dovrebbero costituire dei rami, più o meno complessi, ma tuttavia
pur sempre con quel medesimo materiale concettuale e ad esso riducibili; e 2°
di costituire (secondo il programma formalistico del Peano, sviluppato poi da
D. Hilbert) metodi di assetto rigoroso e di controllo logico delle discipline
matematiche vere e proprie. La L. diviene così uno strumento di analisi
filosofica. Per opera di Russell e Wittgenstein essa viene a costituire una specie
di linguaggio ideale o perfetto, o meglio, lo schema generale (perchè meramente
simbolico) di un tale linguaggio, secondo il quale schema si dovrebbero poi
costruire linguaggi, o frammenti di linguaggi, scientifici, in cui dovrebbero
venir tradotti, e così analizzati secondo le strutture logiche di quel
linguaggio, gli enunciati delle singole discipline sotto esame. Sotto questa
luce, la L. simbolica russelliana non è più strettamente legata alle
matematiche come tali: è la L. tout court, uno strumento di analisi scientifica
in generale. E fu applicata anche all'analisi filosofica dallo stesso Russell,
da Wittgenstein, da Wisdom, e in seguito (con un deciso abbandono dei
presupposti metafisici dell’atomismo logico russelliano) dagli empiristi
logici. Ma il programma russelliano, accentrato nella nozione di linguaggio
ideale, venne sottoposto ad aspre critiche, principalmente, ma non
esclusivamente, da parte degli « analisti dell’uso » di Oxford. D'altra parte
in altri settori (per es., nella scuola tedesca discendente da Hilbert e da
Scholze, e nella scuola polacca di Lukasiewicz e Tarski) gli interessi
matematici e l'interesse per la L. stessa come disciplina strettamente
matematica, rimasero prevalenti. Di qui uno scindersi (per ora soltanto
parziale) della L. in una serie di discipline sempre più formalizzate e
matematizzate, con i problemi, assai complessi, inerenti alla formalizzazione
di una disciplina matematica fondamentale (la metamatematica), per la quale non
si può usare di un altro linguaggio formalizzante senza cadere in un circolo:
donde i problemi, affrontati da Gédel, da Hermes, da Tarski e in parte anche da
Carnap. Invece in seno alla ex-scuola di Vienna, ora scuola di Chicago, e sotto
l’influenza di altre correnti (neopositivismo inglese, pragmatismo americano)
la logica si è venuta orientando, per opera soprattutto di Morris, di Carnap,
di Hempel, in senso più analitico-filosofico, tendendo a diventare parte di una
disciplina assai più ampia, la semiotica o teoria generale dei segni (di cui la
teoria del linguaggio è la parte più interessante), creata da Ch. W. Morris
sotto la doppia spinta della sintassi logica carnapiana e della Logica
deweyana. Abbandonato ogni presupposto coscienzialistico o mentalistico e ogni
velleità meLOGOS tafisica, la scienza del pensiero diviene scienza del
linguaggio, ossia di un tipico e fondamentale comportamento umano. L’analisi
logica diviene analisi linguistica: ma quella che la tradizione considerava
come dimensione « L. +» è soltanto una dimensione del linguaggio, o meglio due
(come distinsero Morris e Carnap, con una distinzione largamente accettata, ma
oggi anche assai controversa): la dimensione sintattica, per cui i segni che
compongono il discorso {il linguaggio) si connettono tra loro secondo regole di
formazione e trasformazione (derivazione) relative alla sola forma del discorso
stesso; e la dimensione semantica, per cui il discorso, e gli enunciati che lo
compongono, può essere vero o falso, cioè porta su fatti ed eventi, e di
conseguenza — conseguenza però che molti filosofi, per es., i fenomenisti,
contesterebbero — le parole che lo compongono portano su cose e qualità. Questi
sono i due aspetti fondamentali, L. matematica e L. formale analitica, in cui
si divide oggi la L., divisione tuttavia che non significa separazione in due
diverse, e tanto meno antitetiche, discipline, bensì due diverse direzioni
della ricerca logica, mosse da due tipi diversi di interesse teoretico. G. P.
LOGICI, PRINCIPI. V. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; FONDAMENTO; IDENTITÀ,
PRINCIPIO DI; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. LOGICISMO (ingl. Logicism; franc.
Logicisme; ted. Logicismus). Con questo nome si usa designare una corrente di
pensiero logico-matematico che tra la fine del secolo scorso e gli inizi del
nostro ebbe i primi e massimi rappresentanti in R. Dedekind, G. Frege e B.
Russell; e nel sec. xx ebbe molti seguaci, soprattutto (ma non esclusivamente)
in seno al cosidetto «Circolo di Vienna + (Carnap). I pensatori di questo
indirizzo sostengono che la matematica (pura) è un ramo della Logica, ossia che
tutte le proposizioni delle matematiche pure (in particolare dell’Aritmetica, e
quindi dell’Analisi) si possono enunciare con il solo vocabolario e la sola
sintassi della Logica matematica, la quale diviene così la disciplina
matematica per eccellenza. Con questa convinzione Dedekind, Frege e Russell
avevano condotte le loro celebri analisi del concetto di « numero » (intero)
appunto per definirlo soltanto mediante nozioni (simboli) della Logica
matematica. Al L. si oppongono il formalismo e l’intuizionismo (v. MATEMATICA).
G. P. LOGICO (ingl. Logica!; franc. Logique; tedesco Logisch). 1. Lo stesso che
razionale. 2. Ciò che concerne un determinato tipo di logica. In questo senso
si chiama oggi « verità logica » la verità che consiste nell’enunciazione di
una tautologia, conformemente al concetto della logica come studio delle
tautologie (v. LoGICA; RAGIONE). 547 LOGISTICA (ingl. Logistic; franc.
Logistique; ted. Logistik). Nell’Antichità (per es., nei frammenti del pitagorico
Archita di Taranto) il termine « L. »era a volte usato per indicare
l’aritmetica pura. Leibniz usò il termine come sinonimo di « calcolo logico » o
«logica matematica »: e con questo significato di «logica simbolica +» 0 «
matematica » venne proposto da Couturat e Lalande al Congresso Internazionale
di Filosofia di Parigi nel 1904. Ma, dopo aver avuto una certa fortuna, il
termine « L. » è oggi raramente adoperato. 0. P. LOGISTICO, SISTEMA. V.
SisreMma LoGISTICO. LOGOS (gr. x6y0c; lat. Verbum). La ragione in quanto 1°
sostanza o causa del mondo; 2° persona divina. 1° La dottrina del L. come
sostanza o causa del mondo è stata per la prima volta difesa da Eraclito. « Gli
uomini sono ottusi nei confronti dell’essere del L., dice Eraclito, sia prima
che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti, sebbene tutto avvenga
secondo il L.» (Fr. 1, Diels). Il L. è concepito da Eraclito come la legge
stessa del mondo: « Tutte le leggi umane si alimentano di una sola legge
divina: perchè questa domina tutto ciò che vuole e basta a tutto e prevale su
tutto + (Fr. 114, Diels). Questa concezione fu fatta propria dagli Stoici, i
quali videro nella ragione il « principio attivo » del mondo, che anima, ordina
e guida il principio passivo di esso, che è la materia. «Il principio attivo,
dicevano, è il L. che è nella materia cioè Dio: esso è eterno e attraverso la
materia è l’artefice di ogni cosa » (Diog. L., VII, 134). Il L. così inteso,
cioè come principio formativo del mondo, è identificato dagli Stoici col
destino (/bid., VII, 149). Nello stesso senso Plotino afferma: « Il L. che
agisce nella materia è un principio attivo naturale: non è pensiero nè visione
ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma agisce
come il sigillo che imprime la sua forma o come l’oggetto che riproduce il suo
riflesso nell’acqua; come il cerchio viene dal centro, così la potenza
vegetativa o generatrice riceve d’altronde la sua potenza produttiva cioè dalla
parte principale dell’anima, la quale gliela comunica modificando l’anima
generatrice che risiede nel tutto » (Enn., II, 3, 17). In tal senso il L. è lo
stesso Intelletto divino in quanto ordinatore del mondo: « Dall’intelligenza
emana il L. e ne emana sempre, fin tanto che l’Intelletto è presente in tutti
gli esseri » (Ibid., III, 2, 2). Questa concezione è servita da modello a tutte
le forme del panteismo moderno (v. Dio). 2° La dottrina del L. come ipostasi o
persona divina trova la sua prima formulazione per opera di Filone di
Alessandria. In questa dottrina, il L. 548 è un ente intermedio tra Dio e il
mondo, il tramite della creazione divina. Dice Filone: « L'ombra di Dio è il
suo L., servendosi del quale come di strumento, Dio creò il mondo. Quest’ombra,
è quasi l’immagine derivata e il modello delle altre cose. Giacchè come Dio è
il modello di quella sua immagine o ombra che è il L., così il L. è il modello
delle altre cose » (Leg. A//., IHI, 31). Dal cristianesimo, il L. viene
identificato col Cristo. Il prologo dell’Evangelo di San Giovanni, accanto alle
funzioni che già Filone attribuiva al L., aggiunge la determinazione
propriamente cristiana: « Il L. si è fatto carne ed ha abitato tra noi»
(Joann., I, 14). Nella sua elaborazione della teologia cristiana, i Padri della
chiesa insistettero sui due punti seguenti: 1° sulla perfetta parità del
Logos-Figlio col DioPadre; 2° sulla partecipazione del genere umano al L.
stesso in quanto ragione: «Noi imparammo, dice ad es. Giustino, che Cristo è il
primogenito di Dio e che è il L., del quale partecipa tutto il genere umano»
(Apol. Prima, 46). Contro gli Gnostici seguaci di Valentino, per i quali il L.
è l’ultimo degli Eoni, che, per essere più vicino al mondo, è quello destinato
a formarlo, Ireneo afferma l’uguaglianza di essenza e di dignità tra Dio padre
e il L., come di entrambi e dello Spirito Santo (Adv. haeres., II, 13, 8). Su
questi concetti dovevano fondarsi le formulazioni dogmatiche del sec. Iv,
specialmente le decisioni del Concilio di Nicea (325) intorno ai due dogmi
fondamentali del cristianesimo, la Trinità e l’Incarnazione. Ma nel frattempo
la nozione di L. continuò ad oscillare tra l’interpretazione che esige la
perfetta parità del L. con Dio e quella che invece stabilisce una certa
differenza gerarchica fra le due ipostasi. La dottrina di Origene, che fu il
primo grande sistema di filosofia cristiana (m secolo), inclina piuttosto verso
la seconda interpretazione. Origene afferma che si può dire del L., ma non di
Dio, che è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l’idea delle
idee: Dio è al di là di tutte queste cose (De Princ., VI, 64). Pertanto, il L.
è coeterno con il Padre, il quale non sarebbe tale se non generasse il Figlio,
ma non è eterno nello stesso senso. Dio è la vita e il Figlio riceve la vita
dal Padre. Il Padre è Iddio il figlio è Dio (In Joann., II, 1-2). Come già si è
detto, la Chiesa, nelle sue assisi conciliari, si pronunciò contro questa
interpretazione, che rimase l’appannaggio di tentativi eretici, più volte
rinnovati nel corso della sua storia. La dottrina del L. è rimasta una dottrina
religiosa. I filosofi hanno fatto ricorso ad essa solo quando hanno voluto dare
una veste religiosa alla loro dottrina. Così ha fatto Fichte nella seconda fase
del suo pensiero. Nella Introduzione alla vita beata (1806) Fichte, ricorrendo
al prologo dell’Evangelo di San Giovanni, vuol mostrare l’accordo del suo
LOQUACITÀ idealismo con il Cristianesimo; e pertanto riconosce nel L. ciò che
egli chiama l’Esistenza o la Rivelazione di Dio (al di là della quale rimane
l’Essere di Dio): cioè il Sapere, l’Io, l’Immagine, di cui la vita divina è a
fondamento (Werke, V, pag. 475). LOQUACITÀ (gr. dSoreoxta; lat. Loquacitas;
ingl. Loquacity; franc. Loquacité; ted. Redseligkeit). Secondo Aristotele, uno
dei caratteri delle persone anziane che sono più interessate al passato che al
futuro (che ormai promette poco per loro) e perciò godono di rievocarlo
parlando (Rer., II, 13, 1390 a 6). LOTTA PER LA VITA. V. SELEZIONE NATURALE.
LUCE (lat. Lux; ingl. Ligh:; franc. Lumiere; ted. Lich). Una tradizione
filosofica, che probabilmente ha la sua lontana origine nella religione
persiana che adorò in Mitra lo « Spirito della L.» (cfr. Cumont, Oriental
Religions in Roman Paganism; trad. ingl., pag. 155), fa della L. una realtà
privilegiata di natura incorporea, tramite della comunicazione fra le regioni
superiori del mondo e l’uomo. Le caratteristiche salienti di questa dottrina
sono le seguenti: 1° la L. è una realtà superiore privilegiata, che è Dio
stesso o è da Dio; 2° la L. è incorporea e fa da tramite tra mondo incorporeo e
mondo corporeo; 3° la L. è la forma generale (cioè l’essenza o la natura) delle
cose corporee. Le prime due tesi sono di carattere religioso e di schietta
derivazione orientale. La terza è propriamente filosofica e rimane
caratteristica dell’agostinismo medievale. Nella filosofia occidentale, la
metafisica della luce è introdotta da Parmenide. « Poichè tutte le cose si
dicono luce e notte e poichè luce e notte sono presenti a questa o a quella
cosa, secondo le loro possibilità, il tutto è pieno di L. e insieme di
invisibile tenebra e L. e tenebra sono eguali perchè nessuna prevale sull’altra
» (Fr. 9). La sostanzializzazione della L. si affaccia frequentemente nelle
Enneadi di Plotino dove talora non è facile distinguere la L. come metafora
dalla L. come sostanza (per es., Enn., V, 3, 9; IV, 3, 17). Si affaccia con
tutta chiarezza nelle speculazioni degli Gnostici che sono di diretta
derivazione manichea: « Prima che l’universo visibile avesse origine
sussistevano due supremi princìpi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del
primo, del Padre della grandezza, era nella regione della luce. Egli si
moltiplicava in cinque ipostasi: l’Intelletto, la Ragione, il Pensiero, la
Riflessione, la Volontà» (BuoNAIUTI, Frammenti gnostici, 1923, pag. 55). In uno
dei libri della Kabala, il Zohar, la L. viene intesa come la sostanza primitiva
che appare talvolta come cielo; e pertanto come l’elemento nel quale gli altri
si dissolveranno alla fine dei tempi (cfr. SfRouva, La XKabbale, LUME Parigi,
1957, pag. 346 sgg.). Questa dottrina passò nella filosofia ebraica del Medio
Evo e da essa nella scolastica cristiana. In questa, essa fu caratteristica
dell'indirizzo agostiniano, difeso specialmente dai Francescani. Nel sec. xm,
Roberto Grossatesta affermava che tutti i corpi hanno una forma comune, la
quale si unisce alla materia prima, anteriormente alla specificazione di essa
nei vari elementi. Questa forma prima è la luce. « La L., egli dice, si
diffonde da sè in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso viene
immediatamente generata una sfera di L. grande quanto si vuole, a meno che non
le faccia ostacolo qualche corpo opaco. Dall'altro lato la corporeità è ciò che
ha per conseguenza necessaria l'estensione della materia nelle tre dimensioni »
(De inchoatione formarum, ed. Baur, 51-52). Roberto identificava così la
diffusione istantanea della L. in tutte le direzioni con la tridimensionalità
dello spazio, e quindi la L. con lo spazio. Quasi negli stessi termini
Bonaventura da Bagnorea affermava che la L. non è un corpo, ma la forma di
tutti i corpi. «La L. è la forma sostanziale di ogni corpo naturale». Tutti i
corpi ne partecipano più o meno e a seconda che ne partecipano hanno maggiore o
minore dignità e valore nella gerarchia degli esseri. Essa è il principio della
formazione generale dei corpi; la loro formazione speciale è dovuta al
sopraggiungere di altre forme, elementari o miste (In Sent., II, d. 13, d. 2,
q. 1-2). Nella seconda metà dello stesso xm secolo la Perspectiva di Witelo
espone idee molto simili. « L'azione divina si esplica nel mondo per il tramite
della luce. Le sostanze inferiori ricevono da quelle superiori la L. derivata
dalla fonte della divina bontà; in generale l’essere di ogni cosa deriva
dall’essere divino, ogni intelliggibilità deriva dall’intelletto divino e ogni
vitalità dalla vita divina. Di tutte queste influenze il principio il mezzo e
il fine è la L. divina dalla quale, per la quale e alla quale tutte le cose
sono disposte» (Perspectiva, ed. Bacumker, pag. 127-28). L’ottica che studia le
leggi della diffusione della L. diventa così l’intera fisica in quanto l’intero
mondo fisico è determinato dalla diffusione della L. (/bid., pagina 131). Forse
l’ultima manifestazione di questa fisica o metafisica della L. si può vedere
nel progetto di Cartesio di descrivere il mondo dal punto di vista della luce.
«Come i pittori non potendo rappresentare nel quadro tutte le diverse facce di
un corpo ne scelgono una delle principali, che mettono verso la L., e situando
in ombra le altre le fanno apparire solo quel tanto che si può vederle; così
temendo di non poter mettere nel mio discorso [cioè nel progettato libro sul
Mondo che poi non pubblicò] tutto ciò che avevo nel pensiero, progettai di
esporre molto ampiamente soltanto ciò che pensavo della L.; poi, in questa
occasione, 549 di aggiungere qualcosa sul sole e le stelle fisse perchè essa
deriva quasi tutta da queste fonti; sui cieli perchè la trasmettono; sui
pianeti, sulle comete e la terra perchè la riflettono; in particolare su tutti
i corpi che sono sulla terra perchè sono o colorati o trasparenti o luminosi; e
infine sull'uomo perchè ne è lo spettatore » (Discours, V). LULLIANA, ARTE
(lat. Ars /ulliana; inglese Lullic Art; franc. Art lullien; ted. Lullische
Kunst). Propriamente l’ars magna di Raimondo Lullo (1235-1315) cioè la scienza
universale che insegna a combinare i termini per la scoperta sintetica dei
princìpi delle scienze. A differenza della logica aristotelica, l’ars magna
vuol essere un procedimento inventivo che non si ferma a risolvere le verità
conosciute ma procede a scoprire le nuove. La nozione di quest’arte che trovò
nel Rinascimento seguaci entusiasti, tra i quali Agrippa, Bovillo e Bruno, fu
ripresa da Leibniz che la chiamò Caratteristica generale (v. CARATTERISTICA).
LUME (gr. péyyos; lat. Lumen; ingl. Light; franc. Lumiére; ted. Licht). Il
criterio direttivo del pensiero e della condotta dell’uomo, in quanto
paragonato a un L. proveniente dall’alto o dall'esterno. Aristotele paragonava
alla luce, che fa venire all’atto i colori che nell’oscurità sono soltanto in
potenza, l’azione dell’intelletto attivo sull’animo umano (De An., III, 5, 430
a 15). Gli Stoici parlavano della facoltà sensibile e della rappresentazione
catalettica come di un « lume della natura +. « Come lume di natura per il
riconoscimento della verità, essi dicevano, ci è stata data la facoltà
sensibile e la rappresentazione che attraverso di essa si genera » (Sesto E.,
Adv. Math., VII, 259). E Cicerone diceva: «La natura ci ha dato minuscole
fiammelle e noi, ben presto guastati da cattivi costumi e da false opinioni, le
spegniamo in modo da far scomparire totalmente il L. della natura» (7usc., III,
1, 2). Plotino a sua volta parla del Bene come della « luce di cui l’intelletto
è illuminato » (Enn., VI, 7, 24). Ma solamente in Sant'Agostino la nozione di
L. divenne fondamentale e solo attraverso l’opera di lui si diffuse e rimase
viva nella tradizione occidentale. Sant'Agostino riconosce agli Stoici il
merito di aver visto in Dio « il L. delle menti » (De Civ. Dei, VIII, 7).
Questo L. è la condizione di ogni conoscenza vera e di ogni comunicazione di
verità. La luce della verità che, partendo da Dio, illumina direttamente
l’anima e la guida, è il concetto centrale della filosofia agostiniana. « Anche
gli ignoranti, dice Sant'Agostino, quando sono bene interrogati rispondono
correttamente intorno ad alcune discipline perchè è presente ad essi, nella
misura in cui lo possono ricevere, il L. della ragione eterna, nel quale essi
vedono le verità immutabili » (Retractiones, I, 4, 4). Questo significa che il
funzionamento na550 turale dell’intelletto umano esige la presenza della luce
divina e che pertanto la conoscenza della verità è, per l’uomo, la visione
della verità stessa in Dio, resa possibile, ogni volta, dalla diretta
illuminazione divina. Ai primordi della Scolastica questa dottrina veniva
riprodotta da Scoto Eriugena (De divis. nat., II, 23). Ma nel corso ulteriore
della Scolastica essa doveva diventare uno dei massimi punti di dissenso tra la
scolastica agostiniana e la scolastica aristotelica. Tale dissenso si può
vedere tipicamente espresso nelle posizioni di San Bonaventura e di San
Tommaso. San Bonaventura si rifà alle parole di Agostino «il quale a chiare
lettere e con ragioni dimostra che la mente, nella sua conoscenza certa,
dev'essere regolata da regole immutabili ed eterne, non attraverso una sua
disposizione (habitus) ma direttamente da queste regole stesse, che sono al di
sopra di essa, nella Verità eterna » (De Scientia Christi, q. 4). San Tommaso,
dal suo canto, ammette che «tutto ciò che si sa con certezza, deriva del L.
della ragione che per opera divina è innato interiormente all’uomo » (De Ver.,
q. 11, a. 1, ad 13). Ma interpreta aristotelicamente questo L. come la
conoscenza innata dei primi princìpi indimostrabili «che si conoscono per il L.
dell’intelletto agente » (Contra Gent., III, 46). In altri termini, la
conoscenza umana della verità non è visione in Dio o illuminazione diretta da
parte di Dio: ma l’uso di una « forma » che Dio ha comunicato alla mente umana
e che costituisce pertanto il «L. naturale » di essa (S. 7h., I, g.106, a. 1).
San Tommaso distingue da questo L. naturale, il L. di gloria (/umen gloriae)
che rende « deiforme » la creatura razionale cioè la rende capace di vedere l’essenza
divina e nega che il L. di gloria possa essere una disposizione naturale
dell’uomo (/bid., I, q. 12, a. 5); e che possa esserlo il lumen gratiae cioè la
grazia giustificante (/bid., I, q.106, a. 1). Il significato agostiniano del
concetto di L. cioè quello per il quale significa l'illuminazione continua da
parte di Dio si conserva nelle dottrine che, nel mondo moderno e contemporaneo,
si rifanno all’agostinismo. Sono le dottrine per le quali la conoscenza è una «
visione in Dio». Tale essa era per Malebranche (Recherche de la vérité, III, 2,
6), per Rosmini (Nuovo Saggio, $ 396) e per Gioberti (Introd. allo studio della
fil., II, pag. 175). Dall’altro lato, cioè lungo la linea della seconda
interpretazione, il L. naturale finisce per perdere ogni connessione teologica.
Il titolo che Cartesio dette a un dialogo lasciato incompiuto, che doveva
riassumere la sua filosofia, dimostra il modo in cui egli intendeva la nozione
in esame: « Ricerca della verità con il L. naturale che, da sè, e senza il
soccorso della religione e della filosofia, determina le opinioni che deve
avere un onest’uomo LUOGHI su tutte le cose che possono occupare il suo
pensiero e penetra fino nei segreti delle scienze più curiose ». Il L.
naturale, inteso così, è quel « buon senso o ragione » che nei primi righi del
Discorso del metodo è detta «la cosa del mondo meglio distribuita »; e di cui
nei Principi di filosofia (I, 30) si dice: « La facoltà di conoscere che ci è
stata data e che noi chiamiamo L. naturale non percepisce che oggetti veri, in
quanto li appercepisce cioè in quanto li conosce chiaramente e distintamente ».
Leibniz a sua volta afferma che «il L. naturale suppone una conoscenza distinta
» (Nouv. Ess., I, 1, 21) e Cristiano Wolff intendeva per «L. dell’anima » la
«chiarezza delle percezioni » (Psychol. empirica, $ 35). In questi usi,
l’espressione non ha più nulla del significato tradizionale, cioè di una luce
che venga dal di fuori o dall’alto a investire la mente umana e a guidarla. Il
L. naturale è qui soltanto la chiarezza del pensiero umano. Leibniz dice
parlando della massima « Bisogna seguire la gioia ed evitare la tristezza »
che: « Si tratta di un principio innato, ma che non fa parte del L. naturale,
giacchè non lo si conosce affatto in modo luminoso » (Nouv. Ess., I, 2, 1). Il
significato che l’espressione «i L.» assunse nel periodo illuministico è
proprio questo chiarito da Leibniz. I L. sono la chiarezza della critica
razionale portata in tutti i campi possibili del sapere e assunta come criterio
direttivo del pensiero e della condotta dell’uomo. LUOGHI (gr. r6ror; lat.
Loci; ingl. Topics; franc. Lieux; ted. Òrter). Secondo Aristotele, sono gli
oggetti propri dei ragionamenti dialettici e retorici cioè quegli « argomenti
che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte altre
discipline diverse, come, per es., l'argomento del più e del meno» (Rer., I, 2,
1358 a 10). Questi sarebbero i L. comuni. Ma vi sono anche, secondo Aristotele,
L. speciali 0 propri cioè argomenti costituiti da proposizioni che
appartengono, per es., alla fisica ma su cui è impossibile fondare proposizioni
concernenti l’etica o reciprocamente. I L. comuni non hanno oggetto specifico
perciò non accrescono la conoscenza delle cose; i L. propri invece,
specialmente se utilizzano proposizioni opportunamente scelte, contribuiscono
alla conoscenza delle scienze speciali (Res., I, 2, i358a 21). I retori latini
sottolinearono l’importanza che la ricerca degli argomenti e specialmente degli
argomenti (o L.) comuni — che non accrescono il sapere ma sono strumenti di
persuasione — ha per l’arte oratoria (CICERONE, Top., 2, 7; De orat., II, 36,
152; QuinTILIANO, /nst., V, 10, 20). E attraverso le opere logiche di Boezio
(De diff. topicis, I; P.L., 64°, col. 1174) la nozione passò nella logica medievale.
Pietro Ispano definisce il LUOGO L. come «la sede di un argomento o ciò da cui
si trae un argomento conveniente alla questione proposta » (Summul. Log.,
5.06). Come si è detto, la parte della logica che studia i L. è la 7opica.
Cicerone la interpretò come la parte inventiva della logica stessa cioè come
quella che escogita gli argomenti utili a convincere, più che limitarsi a
giudicarli dal punto di vista della loro validità. E rimproverò agli Stoici di
aver coltivata la sola dialettica e di aver trascurato la Topica (Top., 2, 6).
Ma in realtà non c’è cenno in Aristotele della capacità inventiva della Topica:
la quale è piuttosto intesa come una ricerca diretta a ricondurre sotto un
numero ristretto di capi (che sono appunto i L.) gli argomenti che ricorrono in
più scienze o in più parti di una stessa scienza. Comunque, anche la credenza
nel carattere inventivo della Topica passò nella tradizione (attraverso Boezio,
De diff. top., 1; P. L., 64°, col. 1173); ed anzi, quando si cominciò a
riconoscere il carattere improduttivo della logica aristotelica, le si
contrappose l’importanza della Topica come arte dell'invenzione. Così fece
Pietro Ramo nelle sue Dialecticae Institutiones (1543); e così fece Vico che
nel De antiquissima Italorum Sapientia (1710) considerò la Topica come l’arte
propria dell'ingegno che è la facoltà dell’invenzione. Ancora nella Logica
Hamburgensis (1638) di Jungius c'è un’amplissima trattazione dei L. logici che
è però contenuta sotto il titolo della Dialettica (libro V). Ma la Logica di
Portoreale (1662) affermava già la scarsa utilità dello studio dei Topici: «
Per formare gli uomini in un’eloquenza giudiziosa e solida, scrisse Arnauld,
sarebbe utile insegnare loro a tacere più che a parlare, cioè a sopprimere e ad
eliminare i pensieri bassi, comuni e falsi, piuttosto che a produrre, come
fanno, un ammasso confuso di ragionamenti buoni e cattivi dei quali si
riempiono libri e discorsi » (Logigue, cap. 17). Lo studio dei L. di questo
genere serve perciò soltanto a riconoscerli ed a evitarli. La Logica di
Portoreale ne enumerava tre specie: quelli grammaticali, quelli logici e quelli
metafisici (Zbid., cap. 18). In seguito, lo studio dei L. ha cessato di essere
parte integrante della logica. Kant generalizza il concetto di luogo logico
intendendo per esso «ogni concetto, ogni titolo sotto il quale si raccolgono
molte conoscenze » e parla di una «Topica trascendentale » che ha per oggetto
«la determinazione del posto che spetta nella sensibilità o nel concetto puro a
ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso » (Cri. R. Pura, Anal. dei
princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). In questo 551
senso la Topica coincide con la « Dottrina degli elementi» della stessa Critica
della Ragion Pura. LUOGO (gr. r6rog; lat. Locus; ingl. Place;
franc. Lieu; ted. Ort). La situazione di un corpo nello spazio. Vi sono due
dottrine del L.: 1° quella aristotelica per la quale il L. è il limite che
circonda il corpo ed è quindi una realtà per suo conto; 2° quella moderna, per
la quale il L. è un certo rapporto di un corpo con gli altri. 1° Secondo
Aristotele, il L. è «il primo limite immobile che abbraccia un corpo» (Fis.,
IV, 4, 212a 20): o in altri termini è ciò che abbraccia o circonda
immediatamente il corpo. In questo senso si dice che un corpo è nell’aria
perchè l’aria circonda il corpo ed è ad immediato contatto con esso. Questa
concezione rimane lungo tutta la filosofia medievale ed è ripetuta
sostanzialmente anche dai critici della fisica aristotelica, per es., da Ockham
(Summulae in libros Phys., IV, 20; Quodl., I, 4). In base a questa concezione
esistono «luoghi naturali », che sono quelli nei quali un corpo naturalmente
sta o a cui ritorna quando ne è allontanato: « Una cosa, dice Aristotele, si
muove o naturalmente o non naturalmente e i due movimenti sono determinati dai
luoghi propri e dai luoghi estranei. Un L. nel quale una cosa rimane o verso la
quale si muove non per sua natura, dev'essere il L. naturale di qualche altra
cosa, come l’esperienza dimostra » (De Cael., I, 7, 276 a 11). L'intera fisica
aristotelica poggia su questo teorema (v. FISICA). 2° La teoria aristotelica
dei luoghi veniva sottoposta a una critica decisiva da Galilei nei Dialoghi dei
massimi sistemi (1632, Giornata seconda). Cartesio esprimeva, qualche anno più
tardi, con tutta chiarezza, il concetto di L. che emergeva dalle nuove
impostazioni della scienza. « Le parole ‘ L. * e ‘spazio ’, egli diceva, non
significano nulla che differisca veramente dai corpi che diciamo essere in
qualche L. e indicano solamente la loro grandezza e figura e come essi sono
situati fra gli altri corpi. Bisogna infatti, per determinare questa
situazione, riferirsi ad altri corpi che consideriamo immobili; ma potendo tali
corpi esser diversi, possiamo dire che una stessa cosa, nello stesso tempo,
muta e non muta di L.» (Princ. Phil., II, 13). E Cartesio porta qui l’esempio
dell’uomo che è seduto in una barca che si allontana dalla riva: il L. di
questo uomo non muta rispetto alla barca ma muta rispetto alla riva. Con queste
osservazioni, che esprimono la relatività del movimento (relatività gali
leiana), era raggiunto il concetto moderno di L. come riferimento di un corpo
ad un altro corpo assunto come sistema di riferimento. M MACHIAVELLISMO (ingl.
Machiavellianism; franc. Machiavélisme; ted. Machiavelismus). La dottrina
politica di Machiavelli o il princìpio nel quale essa viene convenzionalmente
riassunta. La dottrina politica di Machiavelli ha esplicitamente lo scopo di
additare la via attraverso la quale le comunità politiche in generale (ed in
particolare quella italiana) possono rinnovarsi conservandosi o conservarsi
rinnovandosi. Tale via è il ritorno ai principi, conformemente alla concezione
che il Rinascimento (v.) ha del rinnovamento dell’uomo in ogni campo. Il ritorno
ai princìpi di una comunità politica suppone due condizioni e cioè: 1° che le
origini storiche di una comunità vengano chiaramente riconosciute, il che può
essere fatto solo da una indagine storica obbiettiva; 2° che siano riconosciute
nella loro verità effettuale le condizioni a partire dalle quali o attraverso
le quali il ritorno dev'essere realizzato. L’oggettività storiografica e il
realismo politico costituiscono così i due capisaldi del machiavellismo
originario. Il secondo di essi fa di Machiavelli il fondatore della scienza
empirica della politica cioè di una disciplina empirica che studi le regole
dell’arte di governo senz’altra preoccupazione che l'efficacia di tali regole.
Della dottrina politica di Machiavelli fanno parte integrante il concetto della
fortuna cioè del caso che con la sua imprevedibilità costituisce sempre una
condizione dell'attività politica; e il connesso concetto dell’impegno politico
per il quale gli uomini « debbono bene non si abbandonare mai» nel senso che
non devono disperare né rinunziare all’azione ma inserirsi attivamente negli
eventi la cui riuscita, data la presenza del caso, non è mai predeterminata
(Sulla dottrina di Machiavelli e le sue interpretazioni v. G. Sasso, N. M.,
Storia del suo pensiero politico, Napoli, 1958). Per machiavellismo s'intende
anche il principio nel quale convenzionalmente, a partire dal sec. xVII, si è
riassunta la dottrina di Machiavelli: cioè che «il fine giustifica i mezzi».
Tale massima tuttavia non è stata formulata da Machiavelli, che non considera
lo stato come fine assoluto e non lo considera dotato di un'esistenza superiore
a quella dell’individuo (nel senso in cui farà, per es., HEGEL, Fil. del dir.,
$ 337). Machiavelli inoltre orientava tutte le sue simpatie verso l’onestà e la
lealtà nella vita civile e politica e pertanto ammirava gli stati che si
reggevano o si erano retti su queste virtù, come, ad es., quelli dei Romani e
degli Svizzeri. Tuttavia il suo scopo era, come si è detto, di formulare, sulla
base dell’esperienza politica antica e nuova, regole di governo efficaci; ed
egli considerò tale efficacia indipendente dal carattere morale o immorale
delle regole stesse. Dall’altro lato, egli si rendeva conto che la morale e la
religione possono essere, e talvolta sono, forze politiche che condizionano,
come tutte le altre forze, l’attività politica e la sua riuscita; come pure
vedeva che talvolta ciò non accade e che l’azione politica riesce efficace
anche esercitandosi in senso contrario alle leggi della morale. Poichè questo caso
era il più frequente nella società (specialmente italiana e francese) del suo
tempo, la quale perciò è da lui detta « corrotta », e poichè Machiavelli ha
soprattutto in vista l’applicazione delle sue regole politiche alla società
italiana per la costituzione di uno stato unificato, si spiega la sua
insistenza su certe massime immorali di condotta politica: insistenza che è
malamente espressa o generalizzata nella massima che il fine giustifica i
mezzi. Questa massima fu in realtà propria dalla morale gesuitica. Hegel la
cita nella forma che essa aveva ricevuta dal padre gesuita Busenbaum MAGIA
(1602-68): « Quando il fine è lecito, anche i mezzi sono leciti » (Medulla
theologiae moralis, IV, 3, 2); e la giustifica sia formalmente cioè come
espressione tautologica, sia sostanzialmente, come « coscienza indeterminata
della dialettica dell’elemento positivo + (Fil. del dir., $ 140, d); cfr. sul
M., F. MEINECKE, Die Idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, 1925;
trad. ingl., Machiavellianism, 1957). MACROCOSMO. V. Microcosmo. MADRE (gr.
pipe) Secondo Platone, la madre dell’universo è la materia amorfa, come il
padre di esso è il modello eterno al quale il Demiurgo lo crea simile. « Questa
madre e ricettrice di tutto ciò che di visibile e di sensibile viene creato,
non dobbiamo chiamarla nè terra nè aria nè fuoco nè acqua nè altra cosa che
nasca da queste o da cui queste nascano; ma piuttosto una specie invisibile e
amorfa, capace di accogliere tutto, partecipe dell’intellegibile e difficile a
concepirsi» (Tim., 51 a-b). MAGIA (gr. pay) tex; lat. Magia; ingl. Magic;
franc. Magie; ted. Magie). La scienza che pretende di dominare le forze
naturali con gli stessi procedimenti con cui si assoggettano gli esseri
animati. Il presupposto fondamentale della M. è pertanto l’animismo e la
migliore definizione di essa è quella che è stata data da Reinach come «la
strategia dell’animismo » (Mythes, Cultes et Religions, II, Introd., pag. XV).
Strumenti di questa strategia sono gli incantesimi, gli esorcismi, i filtri, i
talismani, medianti i quali il mago comunica con le forze naturali o celestiali
o infernali e le persuade a obbedirgli. Il carattere violento o subdolo delle
operazioni con cui si persuadono le forze naturali a obbedire, è un altro
contrassegno della M.: che è una strategia d'assalto, che vuol conquistare d’un
colpo solo: a differenza di quella che sarà la strategia della scienza moderna,
la quale tende a una graduale conquista della natura, e prescinde dai mezzi
violenti o subdoli. La M. è di origine orientale e si diffuse in occidente nel
periodo greco-romano (cfr. F. CUMONT, Oriental Religions in Roman Paganism,
cap. VID. Essa circolò più o meno nascostamente nel Medio Evo per ritornare
alla piena luce nel Rinascimento: durante il quale fu spesso considerata come
il compimento della filosofia naturale cioè come quella parte di essa che
consente all’uomo di agire sulla natura e di dominarla. Così, per es., la
considerava Pico della Mirandola (De MHominis Dignitate, fol. 136 v); e così la
consideravano tutti i naturalisti del rinascimento. Giovanni Reuchlin, Cornelio
Agrippa, Teufrasto Paracelso, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano,
Giovambattista della Porta mirano tutti ugualmente a togliere alla M. il
carattere diabolico che le era stato attribuito nel Medio Evo e a farne la
parte pratica della filosofia. Della Porta 553 distinse nettamente dalla M.
diabolica, che si avvale delle azioni degli spiriti immondi, la M. naturale che
non oltrepassa i limiti delle cause naturali e le cui operazioni appaiono meravigliose
solo perchè ne rimane nascosto il procedimento (Magia naturalis, 1558, I, 1).
Questa distinzione veniva ripetuta da Campanella; che distingueva, inoltre,
anche una M. divina che opera in virtù della grazia divina, come quella di Mosè
e degli altri profeti (De/ senso delle cose e della M., 1604, IV, 12). Sulla M.
nel Rinascimento, cfr. GARIN, Medioevo e Rinascimento, 1954, cap. III. Il
progredire della scienza, eliminando il presupposto della M., cioè l’animismo,
toglieva ogni base a quella strategia d’assalto in cui essa consisteva.
Francesco Bacone, che pure è l’erede maggiore di quella esigenza operativa che
la M. rappresentava, paragona la M. stessa ai romanzi cavallereschi del ciclo
di Artù; e la ritiene derivare dalla metafisica che indaga le forme; mentre
dalla fisica, che è la ricerca delle cause efficienti e materiali nasce, come
scienza operativa, la meccanica (De augm. scient, III, 5). Pertanto, nel mondo
moderno, la M. è sparita dall’orizzonte della scienza e della filosofia. Per
ciò che riguarda quest’ultima, costituisce un’eccezione l’opera di Novalis che,
nel periodo romantico, difese un «idealismo magico» per il quale è M. buona
parte delle più comuni attività umane. Dice, per es., Novalis: « L'uso attivo
degli organi non è altro che pensiero magico, taumaturgico, o uso arbitrario
del mondo dei corpi; infatti la volontà non è altro che magia, energica
capacità di pensiero» (Fragmente, $ 1731). Egli esprimeva così il principio del
suo idealismo magico: «Il più gran mago sarebbe quello che sapesse anche
incantare se stesso sino al punto che le sue stesse magie gli apparissero
fenomeni estranei e autonomi. E non potrebbe essere questo il caso nostro?»
(/bid., $ 1744). Ma sparita dal mondo della filosofia e della scienza, la M.
rimane come una delle categorie interpretative della sociologia e della
psicologia. Sulla funzione della M. nell’uomo primitivo, così si esprime
Malinowski: «La M. fornisce all’uomo primitivo un numero di atti e di credenze
rituali già fatti, una tecnica mentale e pratica definita la quale serve a
superare gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa e in ogni
situazione critica... La sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo
dell’uomo, di rafforzare la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura»
(Magic Science and Religion, ed. Anchor Book, pag. 90). Ma l’atteggiamento
primitivo non è solo dell’uomo primitivo: l’uomo civilizzato ricade in esso in
determinate circostanze che vanno dalla mancanza di tecniche adatte per
affrontare situazioni difficili alle incapacità di trovare a utiliz554 zare
queste tecniche. Credenze magiche sono perciò frequenti nella vita di ogni
giorno, anche se spesso non confessate. Comportamento magico è stato chiamato,
non senza ragione, da Sartre la reazione emotiva patologica che talora è alla
base dei disturbi mentali (v. Emozione). D'altronde Jung ha visto l’origine
della M. nell’idea di una Energia universale che egli ritiene latente
nell’inconscio di tutto il genere umano e che si identifica con l’idea di Dio
(Psicologia dell’inconscio, 1942, cap. 5). E LeviStrauss ha stabilito
un’analogia tra la cura magica e la psicanalisi (v.) perchè entrambe rendono
possibile, attraverso la presa di coscienza dei conflitti interni del malato,
un’esperienza specifica nella quale i conflitti possono svilupparsi e
manifestarsi liberamente (Antropologie $tructurale, 1958, pag. 217 sgg.).
MAGNANIMITÀ (gr. usyadopuyla; lat. Magnanimitas; ingl. Magnanimity; franc.
Magnanimité; ted. Grossmuth). Secondo Aristotele, la virtù che consiste nel desiderare
grandi onori e nell’esserne degni. Aristotele dà molto rilievo a questa virtù,
in quanto accompagna e « rende più grandi » tutte le altre. «Chi è degno di
piccole cose, egli dice, e si considera degno di esse sarà moderato ma non
magnanimo; la M. è indisgiungibile della grandezza come la bellezza da un
grande corpo, giacchè i piccoli corpi saranno graziosi e proporzionati ma non
belli » (Er. Nic., IV, 3, 1123 b 7). L’insistenza su questa virtù è il segno
della persistenza in Aristotele dell’etica aristocratica arcaica (cfr. JAEGER,
Paideia, I, cap. I; trad. ital., I, pag. 43 sgg.). Cartesio considerava la M.
identica con la generosità e la identificava con la virtù che consiste nel
giudicare se stesso secondo il proprio valore e nell’esser privo di gelosia e
d’invidia verso gli altri (Passions de l’ame, art. 156-61). MAIEUTICA (gr.
porvi) réxw; ingl. Maieutics; franc. Maleutique; ted. Mdàeutik). L'arte della
levatrice alla quale Socrate, nel Teefeto platonico, paragona il suo
insegnamento, in quanto consiste nel portare alla luce le conoscenze che si
formano nella mente dei suoi allievi. «Io ho questo in comune con le levatrici,
dice Socrate: sono sterile di sapienza; e ciò che molti da anni mi
rimproverano, che interrogo gli altri ma non rispondo mai da me perchè non ho
alcun pensiero saggio da esporre, è rimprovero giusto » (Teer., 150 c.). MALE
(gr. 76 xaxéy; lat. Malum; ingl. Evil; franc. Mal; ted. Bòse). Questo termine
ha una varietà di significati altrettanto estesa del termine bene (v.) di cui è
correlativo. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, questa varietà si lascia
ricondurre alle due interpretazioni fondamentali che sono state date della
nozione nel corso della storia della filosofia, e che sono: 1° la nozione
metafisica del M. secondo la quale esso è a) il non-essere, oppure MAGNANIMITÀ
b) una dualità nell’essere; 2° la nozione soggettivistica, secondo la quale il
M. è l'oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. 1° La
concezione metafisica del M. consiste o nel considerarlo come il non essere di
fronte all’essere che è il bene; o nel considerarlo come una dualità
dell’essere, come un dissidio o un contrasto interno all'essere stesso. a) La
concezione del M. come non essere si affaccia negli Stoici ed è chiaramente formulata
dai Neoplatonici. Ritenendo che l’esistenza dei mali condiziona quella dei beni
sicchè, ad es., non ci sarebbe giustizia se non ci fossero offese, non ci
sarebbe operosità se non ci fosse ignavia, non ci sarebbe verità se non ci
fosse menzogna, e così via, gli Stoici e in particolare Crisippo ritenevano che
i cosidetti mali non sono veramente tali perchè sono necessari all’ordine e
all’economia dell’universo (GeLLIO, Noct. Att., VII, 1). Marco Aurelio
esprimeva perfettamente questo punto di vista dicendo: t Viene mutilata e
compromessa l’integrità del tutto, ogni volta che tu tagli via una particella
qualsiasi dell’ordine e della continuità dell'universo... E veramente tagli
via, per quanto è in tuo potere, qualcosa dell’universo ogni volta che ti rammarichi
dell’accaduto; in un certo senso condanni a morte così facendo, nel tuo
desiderio, l’intero universo + (Ric., V, 8). Poichè non si può dover amare una
cosa e considerarla cattiva, il punto di vista stoico equivale a considerare
buona ogni cosa esistente e a ridurre il M. al non essere. Questa riduzione
diventa esplicita nel neoplatonismo. Plotino dice: « Se tali sono gli enti e
tale è ciò che è al di là degli enti [cioè Dio] il M. non esiste nè in quelli
nè in questo, giacchè sia l'uno che l’altro è bene. Resta dunque che, se
esista, esiste in ciò che non è; e che sia una specie di non-essere e si trovi
perciò nelle cose mescolate di non-essere o partecipanti al non-essere » (Enn.,
I, 8, 3). E in questo senso Plotino identifica il male con la materia: la
materia è il non essere «Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in
una deficienza totale: la cosa che manca parzialmente del bene non è cattiva e
può anche essere perfetta nel suo genere. Ma quando c’è deficienza totale, come
nella materia, allora c’è il vero M., che non ha alcuna parte di bene. La
materia non ha neppure l’essere che le renderebbe possibile partecipare del
bene: si può dire che essa sia solo in un senso equivoco; in verità essa è lo
stesso non essere » (/bid., I, 8, 5). L’identificazione del male col non essere
diventa tradizionale nella filosofia cristiana. Essa viene ripresa da Clemente
Alessandrino (Strom., IV, 13), da Origene (De Princ., I, 109) e da S. Agostino
che la diffonde nel mondo occidentale. Dice S. Agostino: « Nessuna natura è M.
e questo nome non MALE indica altro che la privazione del bene » (De Civ. Dei,
XI, 22). Pertanto « Tutte le cose sono buone e il male non è sostanza perchè se
fosse sostanza sarebbe bene» (Conf., VII, 12). Boezio a sua volta affermava: «Il
male è niente, perchè non lo può fare Colui che può ogni cosa» (Phil. cons.,
III, 12). La scolastica è altrettanto unanime su questo punto. S. Anselmo
ribadiva la dottrina del M. come non essere negli stessi termini di S. Agostino
(De casu diaboli, 12-16). La scolastica giudaica ripete, con Maimonide, la
stessa tesi (Guide des égarés III, 10); e la ripetono nella scolastica
cristiana, sia gli agostiniani, ceme Alessandro di Hales (S. 7A., I, q. 18,9)
sia gli aristotelici come Alberto Magno (S. 77%., I, q. 27, 1) e S. Tommaso. «
Poichè bene, dice S. Tommaso, è tutto ciò che è appetibile e poichè ogni natura
appetisce il suo essere e la sua perfezione è necessario dire che l’essere e la
perfezione di qualsiasi natura è essenzialmente bene. Non può essere perciò che
« M.» significhi un qualche essere o una qualche forma o natura; e rimane che
significhi soltanto l’assenza del bene » (S. 77., I, q. 48, a. 1). AIM. si può
riferire il verbo essere solo nel senso della «verità della proposizione » cioè
nel senso in cui si dice che «la cecità è nell'occhio »; un senso che non
implica in alcun modo la realtà (enritas rei) (Ibid., I, q. 48, a. 2). Dopo le
osservazioni scettiche di Pietro Bayle sulla compatibilità del M. (in tutte Ie
sue forme) con l’onnipotenza divina e con la perfezione dell'universo, la
teodicea di Leibniz è fondata sulla dottrina tradizionale del M. come negazione
del bene. «I Platonici, S. Agostino e gli Scolastici, dice Leibniz, hanno avuto
ragione di dire che Dio è la causa materiale del M., che consiste nella sua
parte positiva, e non della forma di esso, che consiste nella privazione; come
si può dire che la corrente è la causa materiale del ritardo cioè della
velocità di un battello, senza essere causa della forma del ritardo stesso cioè
dei limiti di questa velocità + (Théod., I, 30). Le considerazioni di Leibniz a
questo proposito sono rimaste a fondamento di ogni ulteriore tentativo di
feodicea (v.). D’altra parte, la nullità del M. è rimasta costantemente la tesi
propria delle dottrine che identificano l’essere col bene o, in termini
moderni, con la razionalità o il dover essere: come accade in Hegel per il
quale il M., inteso come volontà cattiva, è « la nullità assoluta » di questa
volontà (Enc., $ 512). Dal punto di vista di un idealismo assoluto come quello
di Hegel e della sua scuola, si ripresenta il problema tradizionale della
teodicea, quello della possibilità del M.; e l’unica soluzione disponibile è
ancora quella tradizionale, la nullità del M. stesso. Diceva Gentile: « Non
errore e verità, ma errore nella verità, come 555 suo contenuto che si risolve
nella forma; nè M. e bene; ma M. onde il bene si nutre nel suo assoluto
formalismo » (Teoria generale dello spirito, XVI, 10). A sua volta Croce
affermava: «Il M., quando è reale non esiste se non nel bene, che gli contrasta
e lo vince e quindi non esiste come fatto positivo: quando invece esiste come
fatto positivo è, non già un M., ma un bene (e a sua volta ha come ombra il M.
contro cui lotta e vince) ». (Fil. della pratica, 1909, pag. 139). Non essere o
nullità o irrealtà del M. è la tesi che viene costantemente riscoperta come
nuova ogni volta che, in una forma qualsiasi, viene posta l’identità fra essere
e bene. b) La seconda concezione metafisica del M. è quella che lo considera
come un contrasto interno dell’essere, cioè come la lotta tra due princìpi. Si
tratta di una concezione per la quale il dominio dell’essere è diviso in due
campi opposti, dominati da due princìpi antagonisti. Il modello di questa
concezione è la religione persiana, cioè la religione di Zarathustra o
Zoroastro che contrapponeva alla divinità (Ahura Mazda o Ormazd)
un’antidivinità (Ahriman) che è il principio del M. (cfr. PETTAZZONI, La
religione di Zaratustra, Bologna, 1921; DuCHESNE-GUILLEMIN, Ormazd et Ahriman,
Parigi, 1953). Questa dottrina costituisce una soluzione estremamente semplice
del problema del M.: una soluzione che, mentre limita la potenza delle
divinità, non viene meno al monoteismo perchè concepisce la potenza limitante
come una anti-divinità. Secondo questa soluzione, il M. è reale allo stesso
titolo del bene; e come tale ha una sua propria causa, antitetica a quella del
bene. La dottrina evita la riduzione, così poco convincente per l’uomo comune,
del M. al nulla; e fa appello allo stesso tipo di giustificazione cui ricorre
la negazione metafisica della realtà del male. Il dualismo persiano ritornava
nel culto di Mitra: personaggio che, secondo la testimonianza di Plutarco,
occupava un posto intermediario tra il dominio della luce proprio di Ahura Mazda
e il dominio delle tenebre proprio di Ahriman (De Iside et Osiride, 46-47; cfr.
F. CuMONT, Ze Mysteries of Mithra, cap. I). Ritornava altresì, con qualche
attenuazione, in qualche setta gnostica dei primi secoli dell’era volgare e
specialmente in quella di Basilide (cfr. BuonaIUTI, Frammenti gnostici, 1923,
pag. 42 sgg.) nonchè nella setta dei Manichei contro i quali conduce una delle
sue principali polemiche S. Agostino (v. MANICHEISMO). Ma la filosofia non ha
mai accettata questa soluzione del problema del M. nella forma semplice in cui
l’aveva originariamente formulata la religione persiana. Essa, cioè, non ha mai
ammessa la separazione dei due princìpi. Quando ha accettato quella soluzione
l’ha modificata nel senso di includere entrambi i princìpi in Dio: cioè di
considerare sia il 556 principio del bene sia il principio del M. come uniti in
Dio, proprio in virtù del loro contrasto. Nel sec. xv Jakob Bòhme, insistendo
sulla presenza, in tutti gli aspetti della realtà, di due princìpi in lotta, che
sono poi il bene e il M., attribuiva la causa di questa lotta alla presenza in
Dio dei due princìpi antagonisti che egli indicava con vari nomi: lo spirito e
la natura, l'amore e l'ira, l’essere e il fondamento, ecc. Questi due princìpi
sarebbero in Dio strettamente avvinti in una specie di lotta amorosa. « La
divinità, diceva Bòhme, non se ne sta tranquilla, ma le sue potenze operano
senza tregua e lottano amorosamente, si muovono e combattono: come accade a due
creature che giocano in grande amore l’una con l’altra e si abbracciano e si
stringono; talora l’una è vinta, talora l’altra; ma il vincitore subito si
arresta e lascia che l’altra riprenda il suo giuoco » (Aurora oder die
Morgenròte im Aufgane, 1634, cap. XI, $ 49). In altri termini il dualismo del
bene e del M. è in Dio stesso e in Dio stesso i due princìpi combattono una
lotta «amorosa» nella quale nessuno è definitivamente sconfitto. Quella
sottocorrente del pensiero filosofico che si chiama reosofia (v.) ha sempre
fatta propria questa soluzione del problema del male. La quale nel periodo
romantico, ritornava nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di
Schelling: in cui Schelling sosteneva proprio come Bòhme, che in Dio, c’è non
solo l’essere, ma a fondamento di questo essere un substrato o natura che è
distinto da lui ed è un’oscura brama, un inconscio desiderio di essere, di
uscire dall’oscurità e di raggiungere la luce divina (Werke, I, VIII, pag.
359). Schelling tuttavia affermava che, essendo questi due princìpi
strettamente uniti in Dio, non c’è in lui distinzione tra bene e M.: con la
separazione di quei princìpi nell'uomo nasce invece la possibilità del bene e
del M. e del loro contrasto (/bid., pag. 364). Ancora in tempi relativamente
recenti, e in più diretto riferimento alla religione persiana, una soluzione
simile del problema del M. veniva riproposta da G.T. Fechner: il quale
ammetteva in Dio la stessa dualità tra la volontà razionale e gli istinti
oscuri che è riscontrabile nell'uomo (Zend-Avesta, 5° ediz., 1922, pag. 244-245).
Prospettate meno esplicitamente, si possono scorgere soluzioni analoghe in
alcune forme dello spiritualismo e nella psicanalisi (v.). Ma si tratta spesso
di soluzioni di carattere religioso o teosofico, che difficilmente possono
essere considerate come vere e proprie spiegazioni filosofiche. 2° La seconda
concezione fondamentale del M. è quella che lo considera, non già come una
realtà o irrealtà, ma come l’oggetto negativo del desiderio o in generale del
giudizio di valutazione. Questa MALE RADICALE concezione è ammessa da tutti
coloro che difendono quella che è stata chiamata la teoria soggettivistica del
bene. Hobbes, Spinoza, Locke, condividono questa teoria (v. per i relativi
testi l’art. BENE); alla quale Kant ha dato la sua forma più generale. Egli
dice: «I soli oggetti di una ragion pratica sono il bene ed il male. Col primo
s’intende un oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo un
oggetto necessario della facoltà di abborrire, ma entrambi secondo il solo
principio della ragione » (Crit. R. Prat., cap. 2). Kant insisteva soprattutto
nel sottrarre le determinazioni di bene e M. (in tedesco Gut e Bose) alla sfera
della « facoltà di desiderare inferiore » alla quale appartengono il piacevole
e il doloroso (in tedesco Wohl e Ùbel). «Ciò che noi dobbiamo chiamar bene,
egli diceva, dev'essere un oggetto della facoltà di desiderare a giudizio di
ogni uomo ragionevole; il M. dev'essere un oggetto di avversione agli occhi di
ognuno: sicchè per tali giudizi occorre, oltre il senso, anche la ragione»
(/bid.). Tuttavia Kant era d'accordo con la teoria soggettivistica nel ritenere
che il bene e il M. non possono essere determinati indipendentemente dalla
facoltà di desiderare dell’uomo: il che vuol dire che essi non sono realtà o
irrealtà per loro conto. La filosofia moderna e contemporanea condivide questo
indirizzo. Il M. è, per essa, semplicemente un disvalore cioè l’oggetto di un
giudizio negativo di valore; e implica pertanto il riferimento alla regola o
norma sul quale il giudizio di valore si fonda (v. VALORE). Così, ad es., un
terremoto è un M. se distrugge vite umane o fonti di sussistenza o di benessere
per l’uomo, ma non lo è se non fa questo perchè in tal caso non contrasta col
desiderio o con l’esigenza umana della sopravvivenza e del benessere. Comunque
si voglia considerare tale esigenza, essa si esprime in regole o norme, con le
quali possono entrare in contrasto sia avvenimenti naturali sia comportamenti
umani. Tali avvenimenti o comportamenti sono detti mali, non perchè abbiano uno
speciale status metafisico, ma sul fondamento di quel contrasto. Proprio da
questo punto di vista Kant interpretava lo stesso « M. radicale » della natura
umana come una massima che è fondamento del comportamento di tutti gli esseri
razionali finiti: cioè come la massima di allontanarsi, occasionalmente, dalla
legge morale (Religion, I, 3). Tale massima non esprime altro che la
possibilità di contravvenire alle norme morali che sono proprie dell’uomo; e
pertanto definisce il M. radicale come la possibilità generale del disvalore
nella condotta dell’uomo. MALE RADICALE. V. MALE. MALTHUSIANESIMO (ingl.
Malthusianism; franc. Malthusianisme; ted. Malthusianismus). 1. La dottrina
economica di Thomas Robert Malthus MASSIMA (1766-1834) esposta nel Saggio sulla
popolazione (1798): nella quale veniva riconosciuta in linea di principio la
diversa proporzione di accrescimento tra la popolazione e i mezzi di
sussistenza e considerati i mezzi per evitare lo squilibrio tra l’una e gli
altri. Malthus teneva presente lo sviluppo del Nord America inglese e osservava
che qui la popolazione tendeva a crescere secondo una progressione geometrica,
raddoppiandosi ogni venticinque anni, mentre i mezzi di sussistenza tendevano a
crescere secondo una progressione aritmetica. Secondo Malthus, lo squilibrio
che così si determina fa intervenire i mezzi repressivi (la miseria, il vizio e
altri flagelli sociali) che falciano la popolazione; e non c'è altro modo di
evitare l’azione di tali mezzi se non sostituendoli con mezzi preventivi, che
consistono nel controllo delle nascite. Malthus vedeva perciò l’unico rimedio
ai mali sociali nell’astensione dal matrimonio delle persone che non sono in
grado di provvedere al mantenimento dei figli, raccomandando nello stesso tempo
«una condotta strettamente morale durante il periodo di questa astensione ».
Questa dottrina ha posto un problema che rimane vivo e attuale nella società
contemporanea, tenuto conto dell'enorme proporzione di crescita della
popolazione mondiale. 2. In generale, la teoria e la pratica del controllo
volontario delle nascite. MANICHEISMO (ingl. Manicheism; francese Manichéisme;
ted. Manichaismus). La dottrina del sacerdote persiano Mani (/ar. Manichaeus)
vissuto nel mi secolo che si proclamò il Paracleto cioè colui che doveva
portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Il M. è una mescolanza
fantastica di elementi gnostici, cristiani e orientali, sul fondamento del
dualismo della religione di Zaratustra. Ammette infatti due princìpi, uno del
bene o principio della luce, l’altro del male o principio delle tenebre. Questi
princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una corporea che è quella
del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La prevalenza dell’anima
luminosa si può raggiungere con una ascesi particolare che consiste in un
triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e dai discorsi impuri (signaculum
oris); astenersi dalla proprietà e dal lavoro (signaculum manus); astenersi dal
matrimonio e dal concubinaggio (signaculum sinus). Il M. fu molto diffuso in
Oriente e in Occidente e qui durò sino al sec. vu. Il grande avversario del M.
fu S. Agostino che dedicò alla cunfutazione di esso un numeroso gruppo di
opere. Cfr. H. C. PuEcH, Le
manichéisme: Son fondateur, Sa doctrine, Parigi, 1949. MANIERA (ingl. Manner; franc. Manière; ted. Manier).
A partire dal xvm secolo la parola è stata adoperata per designare una forma
parti557 colare, di minor pregio, dell’espressione artistica; e precisamente
quella che è il prodotto di una ricerca fallita di originalità. Dice Kant: « La
M. è una specie di contraffazione la quale consiste nell’imitazione
dell’originalità in generale e quindi nell’allontanarsi per quanto possibile
dagli imitatori senza però possedere il talento di essere per se stesso
esemplare... Il prezioso, il ricercato, l’affettato, che vogliono distinguersi
dal comune, ma riescono senz’anima, somigliano ai modi di chi sta ad ascoltare
se stesso o si muove come se fosse sulla scena » (Crif. Giud., $ 49). Nello
stesso senso, Hegel definiva la M. come quella forma d’arte nella quale
l’artista, invece di conservare all’arte la sua « oggettività » cerca di
assorbirla nella sua individualità « particolare e accidentale »; e la
contrapponeva perciò all’originalità, che è la «vera oggettività» dell’opera
d’arte (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 391 sgg.).
MANIFESTAZIONE (ingl. Manifestation; franc. Manifestation; ted. Manifestation).
Lo stesso che espressione, rivelazione o fenomeno (v.), nel senso positivo di
quest’ultimo termine. MANTICA (gr. pavtix) rex; ingl. Mantic; franc. Mantique;
ted. Mantik). La visione anticipata o la scienza delle cose future. Così
definisce la M. Cicerone (De Divin., I, 1) il quale riporta e discute
soprattutto il modo in cui tale scienza era intesa dagli Stoici. Per essi, la
M. è fondata sull’ordine necessario del mondo, cioè sul destino: giacchè
appunto interpretando quell’ordine, si possono anticipare gli eventi che esso
determina. « Gli Stoici, dice Cicerone, affermano che soltanto il sapiente può
essere indovino. Crisippo definisce la M. con queste parole: la facoltà di
conoscere, di vedere e spiegare i segni mediante i quali gli Dei manifestano la
loro volontà agli uomini» (De Divin., II, 63, 130). MARXISMO. V. CoMunISMO,
MATERIALISMO DIALETTICO, MATERIALISMO STORICO. MASSIMA (lat. Maxima propositio;
ingl. Maxim; franc. Maxime; ted. Maxime). Questo termine ha due significati
diversi: 1° proposizione evidente; 2° regola di condotta. 1° Il significato di
proposizione evidente è il più antico e si trova stabilito a proposito dalla
teoria dei luoghi logici. Boezio chiamò +« proposizione massima » la
proposizione indimostrabile ma evidente (In top. Cicer., I; De diff. topicis,
II; in P.L., 64°, col. 1151, 1185) e questo significato rimase fissato nella
logica medievale. « La proposizione massima, dice Pietro Ispano, è la
proposizione di cui non ce n’è un’altra più nota o più primitiva, come ad es.,
‘Ogni tutto è maggiore della sua parte ’» (Summ. Log., 5.07). Più tardi, si
accentuò talvolta il carattere di probabilità della massima; per essa Jungius
intende infatti «un enunciato universale 558 massimamente probabile » (Log.
Hamburgensis, 1638, V, 3, 5). In questo significato che è sinonimo di assioma
usavano la parola sia Locke (Saggio, IV, 12, 1) che Leibniz (Nouv. Ess., IV,
12, 6). Questo significato è ora in disuso giacchè per esso viene costantemente
adoperato il termine assioma. 2° Furono i moralisti francesi della seconda metà
del ’600 i primi ad adoperare il termine per significare una regola morale. La
Rochefoucauld intitolava la raccolta dei suoi pensieri Reffexions ou Sentences
et Maximes Morales, (1665); e Kant accoglieva quest’uso, intendendo per M. una
regola di condotta in generale. Egli distingueva la M. come « principio
soggettivo della volontà » dalla legge che è il principio oggettivo, cioè
universale, della condotta. L'individuo può assumere come sua M. sia la legge
sia un’altra regola qualsiasi e perfino quella di allontanarsi dalla legge
stessa (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I, 1, nota; Crit. R. Prat., $ 1,
Def.; Religion, I, Oss.). Questo secondo significato del termine è il solo
rimasto. MATEMATICA (gr. Ma@nuatuh; lat.
Mathematica; ingl. Mathematics;
franc. Mathématique; ted. Mathematik). Le definizioni filosofiche della M.
esprimono da un lato orientamenti diversi della ricerca matematica, dall’altro
modi diversi di giustificare la validità e la funzione delle M. nell’insieme
delle altre scienze. Possono distinguersi quattro definizioni fondamentali: 1°
la M. come scienza della quantità; 2° la M. come scienza delle relazioni; 3° la
M. come scienza del possibile; 4° la M. come scienza delle costruzioni
possibili. 1° «Scienza della quantità » è stata la prima definizione filosofica
della matematica. Già implicita nelle considerazioni di Platone sull’aritmetica
e sulla geometria, le quali tendevano soprattutto a mettere in luce la
differenza tra le grandezze percepite dei sensi e le grandezze ideali che sono
l'oggetto della M. (Rep., VII, 525-27), questa defìnizione veniva chiaramente
formulata da Aristotele. «Il matematico, diceva Aristotele, costruisce la sua
teoria per mezzo dell’astrazione: egli prescinde da tutte le qualità sensibili,
quali il peso e la leggerezza, la durezza e il suo contrario, il caldo e il
freddo, e le altre qualità opposte e si limita a considerare solo la quantità e
la continuità, qualche volta in una sola dimensione, qualche volta in due,
qualche volta in tre; nonchè i caratteri di queste entità in quanto sono
quantitative e continue, trascurando ogni altro aspetto di esse. Conseguentemente
egli studia le posizioni relative e ciò che ad esse inerisce, la
commensurabilità o l’incommensurabilità e le proporzioni» (Met., XI, 3, 1601a
28; cfr. Fis., II, 2, 193 b 25). Questo concetto delle matematiche è durato
assai a lungo e solo nel secolo scorso è cominciato ad apparire insufficiente a
esprimere tutti gli MATEMATICA aspetti dell’indagine matematica. Kant stesso lo
utilizzava traducendolo nel linguaggio della sua filosofia. Egli poneva la
distinzione tra M. e filosofia in questo che, mentre la filosofia procede
mediante concetti, la M. procede mediante la costruzione di concetti: ma la
costruzione dei concetti è possibile in M. solo sul fondamento dell’intuizione
a priori dello spazio, che è poi la forma della quantità in generale. « Coloro,
dice Kant, i quali hanno creduto di distinguere la filosofia dalla M. dicendo
che questa ha per oggetto solo la quantità, han preso l’effetto per la causa.
La forma della conoscenza M. è la causa per cui essa può riferirsi unicamente a
quantità. Soltanto infatti il concetto di quantità si può costruire, cioè
esporre a priori nell’intuizione dello spazio » (Crit. R. Pura, Dottr. del
metodo, cap. I, sez. 1). Il concetto della M. come costruzione e quindi in
qualche modo intuizione, doveva ritornare nella M. contemporanea (v. oltre, n.
4). Ma quello di M. come scienza della quantità si è trovato innumerevoli volte
ripetuto dai filosofi. Le lunghe e fantastiche disquisizioni di Hegel sui
concetti fondamentali della M. nella grande Logica sono fondate su di esso
(Wissenschaft der Logik, I, I, sez. II). E anche assai più tardi, Croce si
riferiva imperterrito allo stesso concetto « Le M. forniscono concetti astratti
che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per
contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sintesi a priori che è
la numerazione degli oggetti singoli » (Logica, 1920, pag. 238). 2° La seconda
concezione fondamentale della M. è quella che la considera come scienza delle
relazioni quindi come strettamente collegata con la logica o parte di essa.
L’antecedente di questa concezione si può trovare in Cartesio, che affermava: «
Per quanto le scienze che si chiamano comunemente matematiche abbiano oggetti
diversi, esse si accordano tutte in quanto non considerano altro che i diversi
rapporti o proporzioni che si ritrovano in essi» (Discours, II). Il concetto
leibniziano dell’ars combinatoria (v.) o M. universale si può assumere certo
come inizio del concetto della M. come logica; ma esso non impediva allo stesso
Leibniz di aderire ancora al concetto tradizionale della M. come arte della
quantità (De Arte combinatoria, 1666, Proemium, 7, in Op., ed. Erdmann, pag.
8). Ovviamente, la stretta connessione della M. con la logica cominciò ad
apparire in modo evidente come tratto caratteristico delle M. quando la logica
stessa assunse la forma di un calcolo matematico. Boole affermava che poichè «
le ultime leggi della logica sono matematiche nella loro forma +, l’esibizione
della logica nella forma di un calcolo non è un modo arbitrario di presentarla,
ma qualcosa che dipende dalle stesse leggi del penMATEMATICA siero (Laws of
Thought, 1854, cap. I, $ 10). Le ricerche di Dedekind sui fondamenti
dell’aritmetica (Was sind und sollen die Zahlen?, 1887) si muovono nello stesso
ordine di pensieri. Ma soprattutto contribuì a inscrivere la M. nel dominio
della logica l’opera di Frege e la sua polemica contro lo psicologismo. In un
saggio del 1884 Frege mostrava l’importanza del concetto di relazione per la
definizione del numero naturale e diceva: «Il concetto di relazione appartiene
— non meno che il semplice concetto — al campo della logica pura. Qui non
interessa il contenuto speciale della relazione ma esclusivamente la sua forma
logica. Se qualcosa può venire affermata di essa, la verità di questo qualcosa
risulta analitica e viene riconosciuta a priori » (Eine /ogisch-mathematische
Untersuchung iber den Begriff der Zahi, 1884, $ 70; trad. ital., in Aritmetica
e logica, pag. 139). Da questo punto in poi la stretta connessione della
matematica con la logica attraverso la teoria delle relazioni, poteva
considerarsi acquisita e fu costantemente assunta per la definizione della
matematica. Tuttavia anche le definizioni che hanno in comune questo fondamento
sono state formulate in modo diverso. La più ovvia formulazione di una
definizione di questo tipo è quella che considera la M. come « una teoria delle
relazioni ». Poincaré esponeva questa definizione nella forma generale
asserendo: « La scienza è un sistema di relazioni. Solo nelle relazioni va
cercata l’oggettività e sarebbe vano cercarla negli esseri considerati come
isolati gli uni dagli altri» (Le valeur de la science, 1905, pag. 266). Questo
concetto fu condiviso da Russell che vedeva la coincidenza tra M. e logica
proprio nell'ambito della teoria delle relazioni e riteneva che il tema comune
delle due scienze fosse la forma degli enunciati, definita come « ciò che resta
invariato quando ogni componente dell’enunciato viene sostituito da un altro »
cioè quando l’enunciato è rivolto alla pura relazione (/ntr. to Mathematical
Philosophy, 1918, cap. XVIII). Dall'altro lato Peirce, pur ammettendo la
connessione tra M. e logica, aveva cercato di distinguere la M. dalla logica,
affermando che mentre la M. è la scienza che deriva conclusioni necessarie, la
logica è la scienza del modo in cui derivare conclusioni necessarie. «Il logico
non si cura particolarmente circa questa o quella ipotesi o circa le sue
conseguenze eccetto in quanto queste cose possono gettar luce sulla natura del
ragionamento. Il matematico è intensamente interessato ai metodi efficienti di
ragionare mirando alla loro possibile estensione a nuovi problemi ma, in quanto
matematico, non si preoccupa di analizzare quelle parti del suo metodo la cui
correttezza è data come ovvia + (Coll. Pap., 4.239). Questa distinzione era
però fondata sulla 559 nozione della logica come di una scienza categorica e
normativa (/bid., 4.240): nozione che non ha avuto fortuna nella logica
contemporanea, di cui si è sempre più accentuato il carattere convenzionale (v.
CONVENZIONALISMO; Logica). Pertanto la migliore definizione della M., da questo
punto di vista, è quella data da Wittgenstein: « La matematica è un metodo
logico. Le proposizioni della M. sono equazioni, dunque pseudo-proposizioni. La
proposizione matematica non esprime alcun pensiero. E infatti non è mai la
proposizione matematica di cui abbiamo bisogno nella vita ma l’adoperiamo solo
per concludere da proposizioni che non appartengono alla M. ad altre che
parimenti non le appartengono » (Tractatus, 1922, 6.2; 6.21; 6.211). Le
equazioni della M. corrispondono alle tautologie della logica (/bid., 6.22); e,
come queste, non dicono nulla. Un punto di vista analogo a questo è stato
assunto da Carnap: «I calcoli costituiscono un genere particolare di calcoli
logici, distinguendosene soltanto per la loro maggiore complessità. I calcoli
geometrici sono un genere particolare di calcoli fisici » (Foundations of Logic
and Mathematics, 1939, $ 13). Questa è la formulazione migliore della tesi del
logicismo (v.). Da questo punto di vista, si tratta in primo luogo di costruire
una logica esatta; in seguito, di derivare da essa la M., nel modo seguente: 1°
definendo tutti i concetti delle M., cioè dell’aritmetica, dell’algebra e
dell'analisi, in termini dei concetti della logica; 2° deducendo da queste
definizioni e per mezzo dei princìpi della logica stessa (inclusi gli assiomi
di infinità e di scelta) tutti i teoremi della M. (cfr. C. G. HEMPEL, « On the
Nature of Mathematical Truth +, 1925, in Readings in the Philosophy of Science,
1953, pag. 59). 3° La terza concezione fondamentale della M. è quella propria
della corrente formalistica e si può esprimere dicendo che per essa la M. è «la
scienza del possibile »; dove per possibile s'intende ciò che non implica
contraddizione (v. PossisiLe, 1). Da questo punto di vista, la M. non è parte
della logica e non la presuppone. Nel modo in cui è stato concepita da Hilbert
e Bernays (Grundiagen der Mathematik, I, 1934; II, 1939) la M. può essere costruita
come un semplice calcolo, senza esigere alcuna interpretazione. Essa diventa
allora un sistema assiomatico (v. ASsIOMATIZZAZIONE) nel quale: 1° tutti i
concetti di base e tutte le relazioni di base siano enumerate completamente, e
sia ricondotto ad essi, mediante una definizione, ogni concetto ulteriore; 2°
gli assiomi siano enumerati completamente e da essi siano dedotti tutti gli
altri enunciati in modo conforme alle relazioni di base. In un sistema
siffatto, la dimostrazione matematica è un procedimento puramente meccanico di
derivazione di formule; ma 560 nello stesso tempo si aggiunge alla M. formale
una metamatematica che è costituita da ragionamenti non formali intorno alla
matematica. « In tal modo, ha detto Hilbert, si realizza, mediante scambi
continui, lo sviluppo della totalità della scienza matematica, in due modi:
derivando dagli assiomi nuove formule dimostrabili mediante deduzioni formali e
d’altra parte aggiungendo nuovi assiomi e la prova di non contraddizione, per
mezzo di ragionamenti che hanno un contenuto ». Le M. costituiscono allora un
sistema perfettamente autonomo; cioè che non presuppone un limite o una guida
fuori di sè e che si sviluppa in tutte le direzioni possibili: intendendosi,
per direzioni possibili, quelle che non portano a contraddizioni. È pertanto
essenziale a questo concetto della M. la possibilità di determinare la
possibilità (cioè la non-contraddittorietà) dei sistemi assiomatici. Ma proprio
questa possibilità è stata messa in dubbio da un teorema scoperto da Gédel nel
1931: secondo il quale non è possibile dimostrare la non contraddittorietà di
un sistema S con i mezzi (assiomi, definizioni, regole di deduzione, ecc.) che
appartengono allo stesso sistema $S; ma occorre, per effettuare una tale
dimostrazione ricorrere a un sistema Si, più ricco di mezzi logici che S («
Uber formal unentscheidbare Sitze der Principia Mathematica und verwandter
Systeme », in Monatschrifte fir Mathematik und Physik, 1931, pag. 173-98).
Questo teorema di Gòdel ha avuto nella M. moderna una grande risonanza. È stato
possibile, finora, dare la dimostrazione della non contraddittorietà di alcune
parti delle M., per es. dell’aritmetica (fu data da Gentzen nel 1936): ma le
cose non sono andate molto oltre su questa via; sicchè la «scienza del
possibile » trova oggi che il suo più difficile compito è quello di mostrare la
« possibilità » delle sue parti. Quanto alla possibilità dell’intera M. come
sistema unico e totale, essa è ovviamente esclusa dalla stessa formulazione del
teorema di Giodel. Il quale ha mostrato anche il limite dell’assiomatica,
perchè ha mostrato come nessun sistema assiomatico contiene «tutti» gli assiomi
possibili e che pertanto nuovi princìpi di prova possono essere continuamente
scoperti. Altra conseguenza del teorema di Gédel è una limitazione delle
capacità delle macchine calcolatrici, la cui costruzione è stata enormemente
facilitata dal concetto formalistico della matematica. Si può infatti costruire
una macchina per risolvere un problema definito, ma non una macchina che sia
capace di risolvere ogni problema (cfr. E. NagEL-G. R. NEWMAN, Gòdel’s Proof,
1958, pag. 98 sgg.). 4° La quarta concezione fondamentale della M. è quella
secondo la quale essa è la scienza che ha per oggetto la possibilità della
costruzione. Si tratta, MATEMATICA come è evidente, della nozione kantiana
della M. come «costruzione di concetti» perciò questo indirizzo è chiamato
comunemente intuizionismo; ma i suoi precedenti si sogliono scorgere nella
polemica antiformalistica di Poincaré, nell'opera di Kronecker (Uber den
Zahibegrif, 1887) nella tendenza empiristica di alcuni matematici francesi
(Borel, Lebegue, Bayre) nel filosofo viennese F. Kaufmann ecc. Secondo Brouwer,
che è uno dei principali rappresentanti dell’intuizionismo, la M. si identifica
con la parte esatta del pensiero umano: perciò essa non presuppone alcuna
scienza, neppure la logica, ma esige piuttosto un’intuizione che permetta di
cogliere l’evidenza dei concetti e delle conclusioni. Le conclusioni, pertanto,
non devono essere derivate in virtù di regole fisse contenute in un sistema
formalizzato, ma ogni conclusione deve essere direttamente controllata in base
alla sua propria evidenza. Da questo punto di vista, il procedimento di
dimostrazione matematica non ha in vista la deduzione logica ma la costruzione
di un sistema matematico. Brouwer insiste sul fatto che anche nel caso di una
dimostrazione di impossibilità, ottenuta mettendo in vista una contraddizione,
l’uso del principio di contraddizione è soltanto apparente: in realtà si tratta
dell’affermazione che una costruzione matematica, la quale doveva soddisfare
certe condizioni, non è realizzabile (cfr. A. HEyTING, Mathematische
Grundlagenforschung. Intuitionismus und Beweistheorie, 1934 [trad. franc.,
1955], I, 5, 1). Heyting a sua volta ha dimostrato, sulle orme dello stesso
Brouwer, che mentre il principio di contraddizione può essere utilizzato, non
così accade del principio del ferzo escluso (v.) (Die formalen Regeln der
intuitionistischen Logik, in L. B. Preusz. Akad. Wiss., 1930). L'intuizionismo,
definendo la M. come la scienza delle costruzioni possibili non fa tuttavia
appello, come faceva Kant, a una forma a priori dell’intuizione; né ad alcuna
forma di intuizione empirica o mistica. La costruzione di cui l’intuizionismo
parla è una costruzione concettuale, che non fa riferimento a fatti empirici.
Così Heyting ha riassunto il punto di vista di Brouwer: 1° la M. pura è una
creazione libera dello spirito e non ha in sè alcun rapporto con i fatti di
esperienza; 2° la semplice constatazione di un fatto di esperienza contiene
sempre l’identificazione di un sistema matematico; 3° il metodo della scienza
della natura consiste nel riunire i sistemi matematici contenuti nelle
esperienze isolate in un sistema puramente matematico costruito a questo scopo
(cfr. HEYTING, Op. cit., IV, 3). Se si tengono presenti queste conclusioni, si
vede che il distacco tra formalismo e intuizionismo (cioè fra la terza e la
quarta concezione della M.) MATERIA non è così radicale come in apparenza sembrerebbe.
In primo luogo, la costruzione in cui gli intuizionisti vedono l’oggetto
proprio del procedimento matematico è un oggetto formale, la cui possibilità è
determinata da regole formali. Dall’altro lato, i limiti del formalismo, messi
in luce dal teorema di Gédel, mettono in valore alcune esigenze affacciate dal
concetto intuizionistico delle matematiche. E poichè è difficile disconoscere
il valore dell’aspetto linguistico delle matematiche, che è quello su cui
specialmente si fonda il /ogicismo, un certo eclettismo domina il pensiero
matematico contemporaneo (cfr. ad es., E. W. BETH, Les fondements logiques des
mathématiques, 2% ediz., 1955). Tuttavia, dal punto di vista filosofico, cioè
dei concetti di base e degli orientamenti generali di ricerca, la differenza
fra le definizioni enunciate nel presente articolo rimane importante. MATERIA.
In senso gnoseologico v. FORMA, 2. MATERIA (gr. 65m; lat. Materia; ingl.
Matter; franc. Matière; ted. Materie). Uno dei princìpi costitutivi della
realtà naturale, cioè dei corpi. Le definizioni principali, che sono state date
della M. sono le seguenti: {9 la M. come soggetto; 2° la M. come potenza; 3° la
M. come estensione; 4° la M. come forza; 5° la M. come legge; 6° la M. come
massa; 7° la M. come densità di campo. Le prime quattro sono definizioni
filosofiche, le ultime due scientifiche. ‘1° La definizione della M.
come\soggetto) si alterna, in Platone e Aristotele, con quella della M. come
potenza. Secondo questo concetto la M. è ricettività o passività; e Platone in
questo senso la chiama madre delle cose naturali giacchè essa «accoglie in ‘sè
tutte le cose ma non prende mai alcuna fatti che somigli alle cose in quanto è
come la(cefa)che riceve l'impronta » (7im., 50 b-d). In questo senso la M. è il
materiale grezzo, amorfo, passivo e ricettivo di cui sono composte le cose
naturali. TAristotelei chiama questo materiale soggetto (Lroxeluevov). «Chiamo
M., egli dice, il soggetto primo di una cosa, ciò da cui la cosa si genera non
accidentalmente » (Fis., I, 9, 192 a 31). Come soggetto la M. «è ciò che rimane
attraverso i mutamenti opposti: come, ad es., nel movimento, il mobile rimane
lo stesso pur essendo ora qua e ora là e nel mutamento quantitativo rimane lo
stesso ciò che diventa più piccolo o più grande e nel mutamento qualitativo
rimane la stessa cosa quella che talvolta è in buona salute talaltra no »
(Met., VIII, 1, 1042a 27). Nel suo aspetto di soggetto la M. è priva di forma,
indeterminata, quindi di per sè inconoscibile (/bid., VII, 11, 1037 a 27; VII,
10, 1036a 8): caratteri che sono posseduti in modo eminente dalla «M. prima»
cioè da quella M. che non costituisce il materiale (per es., 36 — ABBAGNANO,
Distonario di filosofia. S61 il bronzo o il legno) di cui una cosa è fatta ma
il soggetto comune, e inconoscibile, di tutti i materiali (/bid., IX, 7, 1049a
18 sgg.). Il concetto della M. come soggetto passivo fu ripreso dagli IStoici!
che per l’appunto designarono la M. da questo suo carattere (Dioc. L., VII,
134). Per questo carattere di passività, per cui essa è pronta a ricevere
l’azione creatrice della (Ragione fron che è il principiq attivo) gli Stoici
chiamarono la M. « sostanza prima » (Diog. L., VII, 150; cfr. SENECA, Ep., 65,
2).'Plotino non faceva che portare al limite questa concezione della M. affermando
che essa «non è anima, nè intelletto, nè vita, nè forma, nè ragione, nè limite
(giacchè è assenza di limite), nè potenza (giacchè che cosa potrebbe creare?).
Priva com’è di tutti i caratteri, non può neppure esserle attribuito l’essere
nel senso, per es., in cui si dice che c’è il movimento o la quiete; essa è
veramente il non essere, un’immagine illusoria della massa corporea” e una
aspirazione all'esistenza » (Enn., III, 6, 7). Questo concetto della M. fu
costantemente adoperato a scopi teologici. Nella patristica lo ripetono
(Origene: (Contra Cels., III, 41; De Princ., II, 1) e S. Agostino. Quest’ultimo
considera la M., secondo il concetto classico, come « assolutamente informe e
priva di qualità » e « prossima al nulla » ma tuttavia ‘esistente in quanto
dotata della capacità di essere formata (Conf., XII, 8; De natura boni, 18). S.
Tommaso a sua volta nega che la M. sia « potenza operativa » (S. 7A., I, q. 44,
ad. 3°); ed insiste sulla sua imperfezione o incompiutezza relativamente alla
forma (/bid., I, q. 4, a. 1). La scolastica agostiniana, pur riconoscendo alla
M. una certa realtà attuale e negando perciò che essa sia un « quasi nulla » o
una pura + possibilità d’essere », non ne innova il concetto. Duns Scoto, ad
es., pur riconoscendo alla M. una certa realtà (enzitas), la considera tuttavia
come « ricettiva di tutte le forme sostanziali e accidentali», secondo il
concetto aristotelico (Op. Ox., II, d. 12, q. 1, n. 11); e le nega la potenza
attiva negando in essa la presenza delle ragioni seminali (/bid., d. 18, q. 1,
n. 3). Da questo punto di vista la passività o ricettività rimane la
caratteristica fondamentale della materia. A questa caratteristica fecero pure
appello alcuni naturalisti del Rinascimento come, ad es., Paracelso (Metreor.,
72) e Telesio: il quale considerò la M. come la « massa corporea ? destinata a
subire l’azione delle due « nature agenti », il caldo e il freddo (De rer.
nat., I, 4). Questa concezione fu condivisa da Locke che concepì la M. come «
morta e inattiva » (Saggio, IV, 10, 10); ed essa ritorna frequentemente, ancor
oggi, nella filosofia e nel pensiero comune. Ritorna, per es., in ‘Bergson che
intende la M. come l’arresto potenziale del movimento della vita e la considera
definita 562 dalla sua «inerzia», che la contrappone al «vivente » (Évol.
Créatr., 8* ediz., 1911, pag. 216 sgg.). 2° Il concetto della M.
come\potenza}s’intreccia in Platone e Aristotele, con quello della M. come
soggetto. Platone dice che la M. «non perde mai la propria potenza » (Tim., 50
b).|Aristotele identifica la M. con la potenza. « Tutte le cose prodotte sia
dalla natura che dall'arte hanno M. giacchè la possibilità che ha ciascuna di
essere o_non es.sere, questa è, per ciascuna di esse, la sua M.» (Met., VII, 7,
1032a 20). Ma la potenza non è, secondo Aristotele, solo questa pura
possibilità di essere o non essere: è una potenza operativa € attiva; « Una
casa esiste potenzialmente se non c'è niente nel suo materiale che le impedisca
di diventare una casa e se non c'è nient’altro che debba essere aggiunto,
rimosso o mutato... E le cose che hanno in se stesse il principio della loro
genesi esisteranno di per se stesse quando niente di esterno lo impedisca »
(Mer., IX, 7, 1049 a 9 sgg.). Questa autosufficienza della potenza a produrre
la cosa, per la quale la M. non è solo il grezzo materiale ma una capacità
effettiva di produzione, esprime un concetto che non è più quello della M. come
passività o ricettività. Come potenza operativa, la M. non ‘ è un principio
necessariamente corporeo! Plotino che da un lato, come si è visto, riduce la M.
al non essere, dall’altro la identifica, come potenza, con l’infinito (En., II,
4, 15). E ammette, accanto alla M. sensibile, una M. intelligibile che resta
sempre identica a se stessa e possiede tutte le forme, sicchè ‘manca per essa
la ragione di trasformarsi (#bid., II, 4, 3). Da questa dottrina trae origine
la tradizione che insiste sull'attività della M.: tradizione che passa
attraverso Scoto Eriugena (De divis. nat., III, 14), e ha una nuova fase nella
dottrina di Avicebron della composizione ilomorfica universale. Secondo Avion
anche le cose spirituali sono composte di M. e forma e la M. si identifica con
la prima delle categorie aristoteliche, la sostanza in quanto «sostiene» le
altre nove categorie (Fons vitae, II, 6). Solo sul fondamento del carattere
attivo o creativo della M. Davide di Dinant potette identificare Dio con la M.
(ALBERTO Magno, S. 7h., I, 4, q. 20; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 4, a. 8). Ma la
M. conserva il suo carattere di attività anche nella scolastica agostiniana,
che contemporaneamente insisteva nel riconoscere una realtà positiva alla M. e
la presenza di essa anche negli esseri spirituali, secondo il concetto di
Avicebron. ‘S. Bonaventura]dice, per es.: « La ragione seminale è la potenza attiva
insita nella M.; e questa potenza attiva è l'essenza della forma giacchè da
essa si genera la forma mediante il procedimento della natura che non produce
nulla dal nulla » (7 Sent., II, d. 18, a. 1, q. 3). Questo concetto della M.
veMATERIA niva trasmesso al Rinascimento attraverso Nicola Cusano che considera
la M. come la « possibilità * indeterminata » nella quale esistono, in forma
contratta, tutte le cose dell’universo. « La disposizione della possibilità,
diceva Cusano, dovette essere contratta e non assoluta: giacchè se la terra, il
sole e le altre cose non fossero nascoste nella M. come possibilità contratte,
non ci sarebbe ragione per cui esse dovrebbero venire all’atto anzichè non
venire » (De docta ignor., II, 8). In altri termini, solo per la presenza, allo
stato contratto, di possibilità determinate nella M., queste possibilità
vengono fuori con la creazione. È un concetto sul quale Giordano Bruno doveva
fondare quello della M. come principio attivo e creativo della natura: « Quella
M. per essere attualmente tutto quello che può essere, ha tutte le misure, ha
tutte le specie di figure e di dimensioni; e perchè le aveva tutte non ne ha
nessuna, perchè quello che è tante cose diverse, bisogna che non sia alcuna di
quelle particolari ». In questo senso la M. coincide con la forma (De la causa,
IV). 3° Il concetto della M. come estensione fu difeso da Cartesio. «La natura
della M. o dei corpi in generale, egli diceva, non consiste nell’essere una
cosa dura o pesante o colorata o che tocca i nostri sensi in qualche altro
modo, ma solamente, nell’essere una sostanza estesa, in lunghezza, larghezza e
profondità » (Princ. phil., II, 4). Questo concetto viene largamente accettato
nel 600. Hobbes, per es., identifica la M. prima degli aristotelici con il
corpo in generale cioè col «corpo considerato a prescindere da qualsiasi forma
e da qualsiasi accidente, eccetto la sola grandezza o estensione e l’attitudine
a ricevere forma e accidenti» (De Corp., VIII, 24). Questo stesso concetto del
corpo in generale come materia è accettato da Spinoza che anch'egli lo
identifica con l'estensione (£r., II, def. 1). Ci sono motivi per credere che
questa definizione della M. sia quella implicita nell’ipotesi atomistica. Il
termine « M.» ricorre, come è noto, per la prima volta in Aristotele in
significato filosofico; ma Aristotele stesso parla, in riferimento a Democrito,
del «corpo comune di tutte le cose» e afferma che, secondo Democrito, tale
corpo differisce, nelle sue parti, in grandezza e figura (Fis., III, 4, 203a
33-203b 1). Ora «grandezza e figura » non sono altro che estensione. Altrove
Aristotele enumera tre differenze fra gli atomi cioè la figura, l’ordine e la
posizione (Mer., I, 4, 985 b 15); ma figura, ordine e posizione non sono altro
che estensione. Estensione è pure la figura a cui, secondo Epicuro, si riducono
tutte le qualità dell’atomo (Dico. L., X, 54). L’ipotesi atomistica implica
perciò il concetto della M. come MATERIA estensione. Su tale concetto
d’altronde insisteva Guglielmo di Ockham nel sec. x1v: « È impossibile che ci
sia M. senza estensione: giacchè non è possibile che ci sia M. che non abbia le
parti distanti l’una dall'altra: onde sebbene le parti della M. possano unirsi
come si uniscono quelle dell’acqua e dell’aria, non possono tuttavia essere nel
medesimo luogo» (Summulae physicorum, I, 19; Quodl., IV, q. 23). 4° Il concetto
della M. come forza o energia viene dapprima difeso dai Platonici di Cambridge
del sec. xv, poi accettato da Leibniz e da molti filosofi del sec. xvm. Secondo
Cudworth, la M. è una natura plastica cioè una forza vivente che è diretta
emanazione di Dio (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 3). H.
More a sua volta riduce, con Cartesio, la M. a estensione; ma identifica
l’estensione stessa con lo spirito, risolvendola in particelle indivisibili che
egli chiama monadi fisiche e che non hanno più nulla di materiale (Enchiridion
metaphysicum, I, 8, 8; I, 9, 3). Queste considerazioni metafisiche assunsero un
più preciso significato per opera di Newton e Leibniz. Newton riteneva
impossibile ammettere che «la M. fosse vuota di ogni tenacità e attrito di
parti e comunicazione di movimento » e la considerava perciò in strettissima
relazione con le «forze» o « principi » che si manifestano nell’esperienza
(Opticks, 1704, III, 1, q. 31). Leibniz ritiene che la M. sia costituita, oltre
che dall’estensione, da una forza passiva di resistenza che è l’impenetrabilità
o antitipia (v.) (Op., ed. Erdmann, pag. 157, 463, 466, 691). La stessa
dottrina fu accettata da Wolff che definiva la M. « un ente esteso fornito di
forza d'inerzia » e riteneva che essa possedesse di per se stessa una forza
attiva (Cosmol., $ 141-42). Questa interpretazione della M. divenne uno dei
temi comuni dell’Illuminismo e della polemica degli illuministi contro
Cartesio. Diceva Diderot: « Non so in qual senso i filosofi hanno supposto che
la M. sia indifferente al movimento e al riposo. È certo, invece, che tutti i
corpi gravitano gli uni sugli altri; che tutte le particelle dei corpi
gravitano le une sulle altre; che in questo universo tutto è in traslazione o
in nisu o in traslazione e in nisu insieme » (Principes phil. sur la Matière et
le Mouvement, in (Euvr. phil., ed. Vernière, pag. 393). Questa fu anche la
concezione accettata da Kant. « La M., egli diceva, riempie uno spazio, non
attraverso la sua pura esistenza ma mediante una particolare forza motrice »:
una forza repulsiva di tutte le sue parti (Metaphysische Anfangsgrilnde der
Naturwissenschaft, II, Lehrsatz, 2, 3). Il concetto romantico della M. come
forza o attività quale si trova, ad es., espresso da Schelling non è che
l’amplificazione di questa dottrina. Le tre dimensioni della M. sono
determinate, secondo Schelling dalle tre forze che 563 la costituiscono: cioè
dalla forza espansiva, dalla forza attrattiva e da una terza forza sintetica:
che corrispondono nella natura rispettivamente al magnetismo, all’elettricità e
al chimismo (System des transzendentalen Idealismus, III, cap. II, Deduzione
della materia; trad. ital., pag. 109 sgg.). Più genericamente Schopenhauer
identificava la M. con l’attività (Die Welt, I, $ 4). Nel dominio scientifico
questo punto di vista è stato realizzato come energetismo (v.). G. Ostwald ha
sostenuto alla fine del secolo scorso, l’inutilità perfetta, per la scienza
della natura, del concetto di M. e la sua sostituzione con quello di energia
(Die Uberwindung des wissenschaftlichen Materialismus, 1895). 5° Mentre la
riduzione operata da Berkeley della M. a percezioni o idee non si può chiamare
un concetto della M. perchè è la semplice negazione di essa, si può considerare
invece come definizione della M. quella data da Mach come di una « determinata
connessione degli elementi sensibili in conformità di una legge» (Analyse der
Empfindungen, XIV, 14). Questa definizione non tende infatti a negare la
materia o a ridurla a elementi soggettivi e psichici ma a sostituire la
stabilità relativa di una legge alla rigidità e inerzia tradizionalmente
attribuite alla materia. Il concetto fondamentale è, in questa definizione, quello
di legge, che si intende come l’espressione di una connessione costante. La M.
sarebbe appunto la connessione costante nella quale si presentano raggruppati
gli elementi ultimi delle cose cioè le sensazioni. 6° I precedenti usi del
termine son tutti di natura filosofica anche se talora sono stati proposti o
sostenuti da scienziati. Nel dominio della scienza, e precisamente della
meccanica, la nozione di M. si identifica con quella di massa (definita dal
secondo principio della dinamica come rapporto tra la forza e l’accelerazione
impressa). La massa può essere intesa o come massa inerziale o come peso. Il
principio della «conservazione della M.+ che la scienza dell’800 considerava
come uno dei suoi pilastri, accanto a quello della « conservazione dell’energia
», si riferisce per l'appunto alla M. intesa come peso; giacchè il suo
significato specifico gli fu dato soltanto dalle celebri esperienze con cui
Lavoisier dimostrava (1772) che nelle reazioni chimiche (ivi compresa la
combustione) il peso del composto è la somma dei pesi dei componenti. 7° Nella
scienza contemporanea il concetto di M. tende ad essere ridotto a quello di
densità di campo. « Una volta riconosciuta l’equivalenza tra massa ed energia,
la divisione fra M. e campo appare artificiosa e non chiaramente definita. Non
potremmo allora rinunciare al concetto di M. ed edificare una fisica del puro
campo? Ciò che fa impressione sui nostri sensi come M. è in realtà 564 una
grande concentrazione di energia in uno spazio relativamente limitato. Sembra
quindi lecito assimilare la M. a regioni spaziali nelle quali il campo è
estremamente forte » (EINsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, cap. II; trad.
ital, pag. 253). Questo indirizzo della fisica contemporanea non si può
tuttavia confondere con l’energetismo perchè non implica la riduzione della M.
a energia ma piuttosto la riduzione dei due concetti di M. e di energia a
quello di campo (v.). MATERIALISMO (ingl. Materialism; francese Matérialisme;
ted. Materialismus). Questo termine fu usato per la prima volta da Roberto
Boyle nello scritto del 1674 intitolato The Excellence and Grounds of the
Mechanical Philosophy (cfr. EUCKEN, Geistige Stromungen der Gegenwart, 5*
ediz., 1916, pag. 168). Esso designa in generale ogni dottrina che attribuisca
la causalità soltanto alla materia. In tutte le sue forme storicamente
individuabili (fuori dell’uso polemico del termine) il materialismo consiste
infatti nell'affermare che la sola causa delle cose è la materia. La vecchia
definizione di Wolff secondo la quale sono materialisti «i filosofi che
ammettono solo l’esistenza degli enti materiali cioè dei corpi» (Psychol.
rationalis, $ 33) non è sufficiente a individuare le forme storiche del M.
perchè porterebbe a includere in questa corrente dottrine che le ripugnano (v.
oltre). Si possono su questa base distinguere: 1° il M. metafisico o
cosmologico, che si identifica con l’atomismo filosofico; 2° Il M. metodologico
secondo il quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è quella che fa
ricorso ai corpi e ai loro movimenti; 3° il M. pratico che è quello che
riconosce nel piacere l’unica guida della vita; 4°il M. psicofisico che è
quello che ammette la stretta dipendenza causale dei fenomeni psichici da
quelli fisiologici. Queste sono le forme storicamente riconoscibili del M.
oltre quelle note sotto i nomi di M. dialettico e M. storico (v.), considerati
a parte. Non si può assumere invece come storicamente legittimo il significato
che Berkeley attribuisce al termine, intendendo per materialisti tutti coloro
che comunque riconoscano l’esistenza della materia (Principles of Human
Knowledge, $ 74) perchè in questo senso sarebbero materialisti anche Aristotele
e gli aristotelici. Neppure si possono chiamare materialisti gli Stoici per
quanto ritenessero che tutto ciò che è in natura è corpo (Diog. L., VII, 1, 56;
PLUT., De Com. Not.) giacchè ammettevano un principio razionale divino come
causa del mondo; e non può essere ritenuto materialista, per motivi analoghi,
Tertulliano, il quale pure afferma che «tutto ciò che esiste è corpo » (De An.,
7: De carne Christi, 11). 1° Il M. cosmologico è caratterizzato dalle seguenti
tesi: 4) Il carattere originario o inderivabile MATERIALISMO della materia, che
precede ogni altro essere e ne è la causa. Non è pertanto un M. la dottrina di
Gassendi secondo la quale gli atomi costituenti l'universo sono stati creati da
Dio. 5) La struttura atomica della materia. c) La presenza nella materia,
quindi negli atomi, di una forza capace di farli muovere e combinarsi in modo
tale da dare origine alle cose. Democrito ammetteva che gli atomi si muovono
per loro conto dall’eternità (ARIST., Fis., VII, 1, 252a 32) e questo
presupposto è rimasto in tutte le forme dell’atomismo. L'ultima forma storica
che il M. ha assunto, quella che ebbe la massima diffusione negli ultimi
decenni del secolo scorso, per opera del biologo tedesco Ernesto Haeckel
ammetteva addirittura che gli atomi fossero dotati, oltre che di movimento,
anche di vita e di sensibilità (Die Weltràtsel, 1899). d) La negazione del
finalismo dell’universo e in generale di ogni ordine che non consista nella
semplice distribuzione delle parti materiali nello spazio. e) La riduzione dei
poteri spirituali umani alla sensibilità, cioè il sensismo. In questa forma, il
M. si è presentato: nell’antichità, nelle dottrine di Democrito e di Epicuro;
nell’età moderna, in quelle di alcuni illuministi e numerosi positivisti
dell’Ottocento. 2° Il M. metodico è stato difeso per la prima volta da Hobbes e
la sua tesi fondamentale consiste nel ritenere che la nozione di materia, cioè
di corpo e di movimento, sia il solo strumento disponibile per la spiegazione
dei fenomeni. Hobbes affermava difatti che la conoscenza di una cosa è sempre
conoscenza della sua genesi, e che la genesi è movimento. Perciò ogni conoscenza
è conoscenza del movimento; e il movimento implica corpo. Perciò egli ha
chiamato De Corpore (1655) il suo trattato di filosofia prima. Da questo punto
di vista la spiegazione materialistica è l’unica possibile anche per ciò che
riguarda lo spirito e le cose spirituali. Così Hobbes obiettava a Cartesio: «
Che diremo se il ragionamento non è altro che un insieme e una connessione di
nomi per mezzo della parola «è »? Segue da questa tesi che mediante la ragione
non possiamo concludere nulla che riguardi la natura delle cose ma solo
riguardo ai loro appellativi e cioè che con essa noi vediamo soltanto se
raggruppiano bene o male i nomi delle cose, secondo le convenzioni che abbiamo
stabilito a nostro arbitrio per i loro significati. Se è così, come può ben darsi,
il ragionamento dipenderà dai nomi, i nomi dall’immaginazione, e
l'immaginazione forse (e questo secondo la mia opinione) dal movimento degli
organi corporei e così lo spirito non sarà altro che un movimento in certe
parti del corpo organico» (/// Objections, 4). Il corpo è pertanto, secondo
Hobbes, l’unico oggetto possibile del sapere umano e la filosofia si divide in
due parti, la filosofia naturale e la filosofia civile MATERIALISMO DIALETTICO
a seconda che studia il corpo naturale cioè la natura o il corpo artificiale
cioè la società (De Corp., I, 9). Un M. metodico è stato, in tempi recenti
sostenuto dai filosofi del circolo di Vienna e specialmente da Carnap, ma in un
senso ancora diverso da quello di Hobbes e riferentesi al linguaggio: tale M. è
l’esigenza di tradurre nei termini del linguaggio fisico i dati protocollari,
per costruire con essi un linguaggio intersoggettivo. Questo M. s’identifica
perciò col fisicalismo (v.) e non implica nessuna affermazione sull’esistenza
della materia (cfr. Erkenntnis, 1931, pag. 447). Tale M. non implica neppure la
deducibilità delle leggi biologiche e psicologiche dalle leggi fisiche.
L’unificazione delle leggi della scienza è senza dubbio, secondo questo punto
di vista una meta della scienza stessa; ma non si può escludere nè prevedere
che questa meta sarà raggiunta (CARNAP, Logical Foundations of the Unity of
Science, 1938, pag. 61). 3° Nel suo significato pratico o morale, il M. è un
termine che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico. Si
parla infatti di « epoca materialistica », di «tendenze materialistiche » o del
«materialismo » di gruppi o ceti di persone per indicare la tendenza al
benessere o, più esattamente, un’etica che assuma il piacere come sola guida
della condotta. Il termine filosofico per questo è edonismo (v.). L’edonismo si
accompagna spesso col M. ma non necessariamente. L’etica di Epicuro e dei
materialisti dell’800 è edonista; ma non lo è l’etica di Democrito. D'altronde
l’edonismo può essere proprio di filosofie non materialistiche; e per es. fu
accettato dai Cirenaici e degli Empiristi del xvm secolo. Nella sua forma
estrema tuttavia l’edonismo costituì una manifestazione caratteristica del M.
psicofisico settecentesco, che, su questo punto, fu una continuazione del
/ibertinismo (v.). L’opera di HELVETIUS, De l’esprit (1758) è particolarmente
significativa a questo riguardo perchè contiene un’esaltazione indiscriminata
del piacere: come l’altra di qualche anno anteriore di La METTRIE, L’art de
jouir ou l’école de la volupté (1751). 4° Il materialismo psicofisico consiste
nell’affermare la stretta dipendenza causale dell’attività spirituale umana
dalla materia cioè dall’organismo, dal sistema nervoso o dal cervello. Questa
tesi si è presentata in diverse forme nel xvm e xIx secolo. Una di queste forme
è la concezione dell’uomo macchina. L'espressione fu usata dal francese La
METTRIE come titolo d’una sua opera famosa (1748); ma il concetto si trova
anche espresso nell'opera di Dave HARTLEY, Observations of Man (1749) e in
quella di GiusepPE PRIESTLEY Disquisitions Relating to Matter and Spirit
(1777). Il Système de la nature di Holbach è forse la mi565 gliore espressione
di questo punto di vista: secondo il quale tutte le facoltà umane sono modi
d’essere e di agire che risultano dall’organismo fisico dell’uomo, a sua volta
determinato dalla macchina dell’universo. Una più ristretta e specifica forma
di questo M. è quella che esso assunse nell’opera del medico francese Pietro
CABANIS, Rapports du physique et du moral de l'homme (1802) che insiste sulla
dipendenza delle attività psichiche dal sistema nervoso. Verso la metà dell’800
questa dipendenza causale dei poteri spirituali umani dal sistema nervoso
sembrò a molti filosofi e scienziati un fatto stabilito. Il M. di quell’epoca
fa leva appunto su questo fatto. Lo zoologo Carlo Vogt in uno scritto del 1854,
La fede del carbonaro e la scienza (KOhlerglaube und Wissenschaft, 1854)
affermava che «il pensiero sta al cervello nella stessa relazione in cui la
bile sta al fegato o l’urina ai reni»: una affermazione cui faceva riscontro
quella dello storico e letterato francese Ippolito Taine: «Il vizio e la virtù
sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero, e ogni dato complesso nasce
dall’incontro di altri dati più semplici da cui dipende » (Histoire de la
littérature anglaise, 1863, Intr.). Un’altra forma più attenuata o se si vuole
più signorile della stessa dottrina è quella secondo la quale la coscienza è
l’epifenomeno dei processi nervosi nel senso che mentre è prodotta da essi non
reagisce su di essi più che l’ombra non reagisca sull’oggetto che la produce
(Huxley, Clifford, Ribot). La Storia del M. (Geschichte des Materialismus,
1866) di Federico Alberto Lange impernia l’esposizione del M. proprio sul M.
psicofisico: nel quale egli vede un salutare mernento contro la pretesa di
estendere il sapere umano al di là di certi limiti. Il M., secondo Lange,
rinasce tutte le volte che l’uomo dimentica questi limiti e pretende dare
valore oggettivo a costruzioni metafisiche che hanno solo valore fantastico.
Sia il M. metafisico sia il M. psicofisico della metà dell’800 hanno un
carattere romantico. Non vogliono, cioè, limitarsi ad essere tesi filosofiche
dotate di maggiori o minori possibilità di conferme ma pretendono essere
dottrine di vita, destinate a sconfiggere la religione e a soppiantarla. Questa
pretesa dà a tali dottrine un tono violentemente polemico e profetico, per cui
la « Scienza » diventa la nuova tavola della verità assoluta. Questo
atteggiamento si chiamò scientismo (v.) e costituisce l’avanguardia romantica
della scienza dell’800. Di tale scientismo, il M. costituì il credo: un credo
che la scienza stessa in buona parte contribuì a smantellare, con la crisi in
cui entrava, negli ultimi decenni del secolo, la concezione meccanistica di
essa. MATERIALISMO DIALETTICO (ingl. Dialectical Materialism; franc.
Matérialisme dialectique; ted. Dialektischer Materialismus). S’intende con 566
questa espressione la filosofia ufficiale del comunismo in quanto teoria
dialettica della realtà (naturale e storica). Più che di un materialismo (v.),
si tratta veramente di un dialettismo naturalistico, i cui principi furono
posti da Marx (v. DIALETTICA), ma svolti da Engels in un modo che è poi stato
più o meno pedissequamente seguìto dai filosofi del mondo comunista, che sono i
soli seguaci di tale filosofia. Secondo Engels, Hegel ha perfettamente
riconosciuto le leggi della dialettica, ma le ha considerate come « pure leggi
del pensiero + sicchè non sono state ricavate dalla natura e dalla storia, ma «
elargite ad esse dall’alto come leggi del pensiero ». Ma «se noi capovolgiamo
la cosa, tutto diviene semplice: le leggi della dialettica che nella filosofia
idealistica appaiono estremamente misteriose diventano subito semplici e chiare
come il sole» (AntiDiihring, pref.). Tali leggi sono, secondo Engels, tre: 1°
La legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; 2° La legge
della compenetrazione degli opposti; 3° La legge della negazione della
negazione. La prima significa che nella natura le variazioni qualitative
possono essere ottenute soltanto aggiungendo o togliendo materia o movimento,
cioè mediante variazioni quantitative. La seconda legge garantisce l’unità e la
continuità del mutamento incessante della natura. La terza significa che ogni
sintesi è a sua volta la tesi di una nuova antitesi che metterà capo ad una
nuova sintesi (EncELS, Dialektik der Natur, passim). L'insieme di queste leggi
determina, secondo Engels, l’evoluzione necessaria, e necessariamente
progressiva, del mondo naturale. L'evoluzione storica continua, con le stesse
leggi, quella naturale. Il senso dell’intero processo è ottimistico.
L'organizzazione della produzione secondo un piano, quale si attuerà nella
società comunista, è destinato a sollevare gli uomini al di sopra del mondo
animale dal punto di vista sociale, come l’uso degli strumenti della produzione
lo ha fatto dal punto di vista della specie. Come si vede il M. dialettico di
Engels non è altro che la teoria dell'evoluzione (la quale celebrava ai tempi
di Engels i suoi primi trionfi) interpretata nei termini delle formule
dialettiche hegeliane e condotta al suo più ottimistico esito. Si considerano
abitualmente come parti integranti del M. dialettico, il materialismo storico e
il materialismo metafisico. Sul primo, v. la voce a parte. Sul secondo, hanno
insistito, più che Marx e Engels, Lenin e i comunisti russi. Lenin così
recapitolava le tesi del materialismo: «1° Ci sono cose che esistono
indipendentemente dalla nostra coscienza, indipendentemente dalle nostre
sensazioni, al di fuori di noi. 2° Non esiste e non può esistere alcuna
differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sè. La sola differenza
effettiva è quella tra ciò che è conoMATERIALISMO STORICO sciuto e ciò che non
lo è ancora. 3° Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri campi
della scienza, si deve ragionare sempre dialetticamente cioè non supporre mai
invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il processo per cui
la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la conoscenza vaga e
incompleta diventa conoscenza più adeguata e precisa » (Materialismus und
Empiriokritizismus, 1909; traduzione ital., pag. 75). Come si vede, neppure
queste tesi esprimono una concezione materialistica, ma costituiscono una
rivendicazione del realismo gnoseologico. MATERIALISMO STORICO (ingl.
MHistorical Materialism; franc. Matérialisme historique; ted. Historischer
Materialismus). Con questo nome fu designato da Engels il canone di
interpretazione storica proposto da Marx e precisamente quello che consiste nel
riconoscere ai fattori economici (tecniche di lavoro e di produzione, rapporti
di lavoro e di produzione) un peso preponderante nella determinazione degli
eventi storici. Il presupposto di questo canone è il punto di vista
antropologico difeso da Marx, secondo il quale la personalità umana è
costituita intrinsecamente (cioè nella sua stessa natura) dai rapporti di
lavoro e di produzione in cui l’uomo entra per far fronte ai suoi bisogni. Di
questi rapporti la « coscienza » dell’uomo (cioè le sue credenze religiose,
morali, politiche, ecc.) è piuttosto un risultato che un presupposto. Questo
punto di vista venne difeso da Marx soprattutto nello scritto /deologia tedesca
(Deutsche Ideologie, 1845-46). Stando ciò, la tesi del materialismo storico è
che le forme che la società storicamente assume dipendono dai rapporti
economici che prevalgono in una certa fase di essa. Dice Marx: « Nella
produzione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti
necessari e indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che
corrispondono ad una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, che è la base reale su cui si edifica una
soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate
forme sociali di coscienza... Il modo di produzione della vita materiale
condiziona perciò in generale, il processo della vita sociale, politica e spirituale
» (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital., pag. 17).
Marx elaborò questa teoria soprattutto in opposizione al punto di vista di
Hegel: per Hegel è la coscienza che determina l’essere sociale dell’uomo; per
Marx invece è l’essere sociale dell’uomo che determina la sua coscienza. Non
bisogna tuttavia credere che Marx abbia voluto farsi sostenitore di un
fatalismo economico per il quale le condizioni economiche necessiterebMATRICI,
METODO DELLE bero l’uomo a determinate forme di vita sociale. Negli stessi
rapporti economici, in quanto dipendono dalle tecniche di lavoro, di
produzione, di scambio, ecc. l’uomo entra come elemento attivo e condizionante;
e pertanto la condizionalità che la struttura economica esercita sulle soprastrutture
sociali è, almeno parzialmente, una auto condizionalità dell’uomo nei confronti
di se stesso (Deutsche Ideologie, I, C; trad. ital., pag. 69 sgg.). Engel parlò
in seguito di un «rovesciamento della prassi storica +, cioè di una reazione
della coscienza umana alle condizioni materiali, opposta all’azione di questa
su quella. Ma dal punto di vista di Marx, di tale rovesciamento non c’è
bisogno: giacchè non è la soprastruttura che reagisce sulla struttura, ma
l’uomo che, intervenendo, con le sue tecniche, a mutare o a migliorare la
struttura economica, si autocondiziona attraverso di essa. Il materialismo
storico ha proposto all’attenzione degli storici un canone di interpretazione
al quale in molti casi è indispensabile far ricorso per la spiegazione di eventi
e di istituzioni storico-sociali. A questo canone fanno infatti ricorso, in più
o meno larga misura, storici di tutti i domini dell'attività umana, in quanto
esso apre alla spiegazione storica una via che, talvolta, è la sola possibile.
Tuttavia non è sempre la sola possibile. Si tende oggi a interpretare il
materialismo storico, non come un principio dogmatico (quale soprattutto Engel
lo propose), ma come una possibilità esplicativa cui si debba far ricorso in
circostanze appropriate. In altri termini, affermare che in ogni caso eventi o
situazioni storico-sociali debbano essere spiegate col determinismo dei fattori
economici è tesi altrettanto dogmatica di quella che volesse escludere
assolutamente e in ogni caso il determinismo di tali fattori. Lo storico si
trova, in una data situazione, a dover determinare il peso relativo dei fattori
determinanti; e si tratta di stabilirlo di volta in volta, di fronte alle
situazioni particolari, senza che esso possa essere deciso in anticipo e una
volta per tutte. Sottratto alla sua impostazione dogmatica, il materialismo
storico ha offerto alla tecnica della spiegazione storiografica una delle sue
possibilità più feconde e un nuovo grado di libertà alla scelta storiografica
(v. STORIOGRAFIA). MATESIOLOGIA (franc. Mathésiologie). Termine adoperato da
Ampère per indicare la scienza che dovrebbe avere per oggetto « da una parte le
leggi che si devono seguire nello studio o nell’insegnamento delle conoscenze
umane, dall’altra la classificazione naturale di queste conoscenze » (Essai sur
la philosophie des sciences, 1834, pag. 31). MATHEMA (gr. uk0nua). Tutto ciò
che è oggetto di apprendimento. In tal senso Platone chiama l’idea del bene «il
più grande M.» (Rep., 567 VI, 505 a). Sesto Empirico riteneva che il M. implicasse,
oltre la cosa appresa, colui che la apprende, e il modo dell’apprendimento
(Adv. Math., I, 9) e intendeva per «matematici» tutti i cultori di scienze
oltre che i filosofi. Kant restrinse la parola a indicare le proposizioni della
matematica, che sono quelle ottenute mediante «la costruzione di concetti »
(Cri. R. Pura, II, cap. 1, sez. 1). La parola più vicina all’uso classico del
termine è disciplina (v.): una scienza in quanto si apprende o insegna.
MATHESIS UNIVERSALIS. Così Leibniz (Op., ed. Erdmann, pag. 8) chiamò l’arte
combinatoria o caratteristica universale (v.). Husserl ha ripreso il termine
per indicare la logica formale o pura come «scienza eidetica dell’oggetto in
generale », che egli caratterizza così: « Oggetto è per essa tutto ed ogni cosa
e perciò possono essere costituite le verità infinitamente molteplici che si
distribuiscono nelle molte discipline della mathesis. Queste ultime per altro
rimandano tutte ad un piccolo patrimonio di verità immediate o fondamentali che
nelle discipline puramente logiche fungono da assiomi + (Ideen, I, $ 10;
Logische Untersuchungen, I, cap. ultimo). MATRICI, METODO DELLE (ingl.
Method of matrices; franc. Méthode des matrices). Il metodo con cui si costruiscono le tavole di verità
(v. TAVOLA) e che consiste nell’enumerazione sistematica delle possibilità di
verità per un certo numero di proposizioni semplici cioè nell’enumerazione
delle combinazioni possibili dei valori di verità di queste proposizioni. Per
una proposizione si hanno due possibilità (vero o falso), per due proposizioni
quattro e in generale per n proposizioni 2° possibilità di verità. Questo
metodo fu introdotto da Peirce in uno scritto del 1885 (Coll. Pap., 4.359-403),
fu sviluppato da Schréder (A4/gebra der Logik, 1890) adoperato dai logici
polacchi e specialmente da Lukasiewicz per la costruzione delle logiche
polivalenti (cioè che ammettono oltre ai due valori di verità, vero e falso, il
valore possibile) (cfr. TARSKI, Logic, Semantics, Metamathematics, 1956, cap.
IV), ed è adoperato oggi su vasta scala da molti logici matematici (cfr., ad
es., BETH, Les fondements logiques des mathematiques, 1955, $ 34). Il metodo
era conosciuto nell’antichità e Filone di Megara se ne servì nella sua analisi
delle proposizioni condizionali. Egli infatti asserì che tali proposizioni sono
vere nei casi seguenti: 1° se sia l’antecedente sia il conseguente sono veri;
2° se l’antecedente è falso e il conseguente è vero; 3° se l’antecedente e il
conseguente sono entrambi falsi; ma sono false se l’antecedente è vero e il
conseguente è falso (Sesto EmMpPIRICO, Adv. Math., 1, 309). V. CONDIZIONALE;
IMPLICAZIONE. 568 Il metodo delle M. serve in generale per riconoscere se una
proposizione del calcolo proposizionale è vera e se perciò può essere enumerata
fra le leggi del calcolo (TARSKI, Introduction to Logic, $ 13; CHurc8Ò,
Introduction to Mathematical Logic, I, $ 15). MATRIMONIO (gr. l'&uoc; lat.
Matrimonium; ingl. Marriage; franc. Mariage; ted. Ehe). Qualsiasi progetto di
vita in comune tra persone di sesso diverso. Questa è una definizione
generalizzata che tiene conto della varietà di forme che il M. assume in gruppi
sociali diversi nonchè dei diversi concetti che ne sono stati dati. Tali
concetti possono essere raggruppati nel modo seguente: 1° Il M. come
istituzione naturale. Così lo concepirono Platone che vide «nella società
coniugale il principio e l’origine di tutti gli stati » (Leggi, IV, 721 a); e
Aristotele che considerò la famiglia «anteriore e più necessaria dello Stato »
(Er. Nic., 8, 12, 1162a 18 sgg.); sebbene sia Platone che Aristotele
ritenessero indispensabile che lo Stato intervenisse a ordinare le modalità del
matrimonio. In questo caso, il fine esclusivo del M. è la procreazione e
l’educazione della prole. 2° Il M. come istituzione contrattuale. Così il M.
venne inteso dal diritto romano e dal diritto canonico. In tal caso, pur
riconoscendosi il fine del M. nella procreazione ed educazione della prole, si
distingue da esso la forma o essenza del M. considerato come un’associazione o
comunità di vita (consortium omnis vitae, Dig., XXI, 23, 2) o « una qualche
indivisibile congiunzione degli animi », come dice S. Tommaso (S. 7h., III, q.
29, a. 2), la cui condizione indispensabile è il consenso espresso nelle forme
stabilite dalla legge civile o religiosa. Sull’aspetto contrattuale del M.
insisteva Kant che lo definì come «l’unione di due persone di sesso diverso per
il possesso reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la vita »; lo
considerò come fonte di un diritto reale oltre che personale nel senso che
ognuno delle due persone è acquistata dall'altra proprio come una cosa; ma vide
nella reciprocità di tale acquisto il riscatto della personalità dei due coniugi
(Mer. der Sitten, I, $ 24-25). Hegel invece insisteva sull’unità
etico-sentimentale del M.: «Il M., egli diceva, non è essenzialmente nè unione
meramente naturale, bestiale, nè un puro contratto civile, ma un’unione morale
del sentimento, nel mutuo amore e fiducia, che fa di due persone una sola
persona » (Philosophische Propàdeutik, I, $ 51; Enc., $ 519; Fil. del Dir., $
162). 3° Il M. come istituzione sociale. Questo è il punto di vista degli
antropologi e sociologi che hanno riscontrato nei diversi gruppi umani, tutte
le forme possibili di M.: quello di un uomo e di una donna, di un uomo e di più
donne, di più MATRIMONIO donne e di un uomo, di più uomini e più donne (cfr.,
ad es., W. N. STEPHENS, The Family in CrossCultural Perspective, 1963). Da
questo punto di vista, Levi-Strauss ha considerato le regole del M. come una
specie di linguaggio, cioè un certo tipo di comunicazione: più specificamente
come la comunicazione delle donne nel seno di un gruppo (Structures
élémentaires de la parenté, 1949; cfr. Anthropologie structurale, 1958, pag. 69
sgg.). MECCANICISMO (ingl. Mechanism; francese Mécanisme; ted. Mecanismus).
Ogni dottrina che faccia ricorso alla spiegazione meccanicistica. Per
spiegazione meccanicistica si intende quella che si serve esclusivamente del
movimento dei corpi, inteso nel senso ristretto di movimento spaziale. In
questo senso, una teoria meccanicistica della natura è quelia che non ammette
altra spiegazione possibile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio
appartenfano, se non quella che li considera come movimenti o combinazioni di
movimenti di corpi nello spazio. Il M. può essere considerato: 1° come una
concezione filosofica del mondo; 2° come un metodo o un principio direttivo
della ricerca scientifica. 1° Come concezione filosofica del mondo, il M. si è
presentato, sin dall’antichità, come asomismo (v.). La concezione del mondo
come di un sistema di corpi in movimento, cioè di una grossa macchina, è
propria dell’atomismo antico. Il materialismo del *700 e dell’800 ha ripreso
questa concezione, la quale è contrassegnata dalle seguenti caratteristiche: a)
la negazione di ogni ordine finalistico. La polemica fra M. e finalismo è
cominciata non appena, a partire dal ’600, il M. si è affermato col sorgere
della scienza moderna. Anche oggi, spesso, per M. non s'intende che la
negazione del finalismo (v.); b) il determinismo rigoroso cioè il concetto di
una causalità necessaria che investa tutti i fenomeni della natura. Oggi si
considera come non meccanicistica ogni concezione del mondo che neghi il
determinismo rigoroso. I due tratti precedenti si trovano tipicamente espressi
nella filosofia di Hobbes che costituisce una delle migliori espressioni del M.
filosofico (v. MATERIALISMO). Dall'altro lato, la veduta più scaltrita che le
filosofie antimeccanicistiche dell’800 assunsero di fronte al M. fu quella
espressa da Lotze nel Microcosmo (1856) e cioè che «il compito che spetta al M.
nell’ordinamento dell’universo è universale senza eccezioni quanto alla sua
estensione, ma nel tempo stesso affatto secondario quanto alla sua importanza»
(Mikrokosmus, I, Intr.; trad. ital., pag. 10): o, in altri termini, che il M.
non è che lo strumento di cui il Principio razionale o divino dell’universo si
è avvalso per raggiungere i suoi scopi. Questo punto di vista si è intrecciato,
MECCANICISMO nella filosofia spiritualistica contemporanea, con la critica ab
extrinseco dei princìpi scientifici del meccanicismo. Nel frattempo, tuttavia,
cioè a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il M. come concezione
filosofica generale non trovava più sostenitori per motivi che saranno chiari
nel seguito. 2° Il M. scientifico può essere considerato: a) nella fisica; 5)
nelle altre scienze. a) Nella fisica, il M. consiste nella tesi che tutti i
fenomeni della natura debbano essere spiegati con le semplici leggi della
meccanica; e che pertanto la meccanica stessa possegga uno status privilegiato
fra le altre scienze, in quanto fornisce a tutte i princìpi di spiegazione. Ora
la meccanica come scienza è creazione relativamente recente. Archimede
conosceva gli elementi della srarica cioè di quella parte di essa che tratta
dell’equilibrio delle forze ma la dinamica, cioè lo studio dei movimenti dei
corpi sotto l’azione delle forze, rimase sconosciuta agli antichi ed è stata
fondata da Galilei e da Newton. Il principio di D’Alembert unificava poi la
statica e la dinamica mostrando che un problema di dinamica può essere
trasformato in un problema di equilibrio di forze, quindi di statica, prendendo
in considerazione forze fittizie dette « forze d’inerzia »: e così, per es.,
l’orbita di un pianeta intorno al sole può essere considerata come l’equilibrio
tra la forza gravitazionale e una forza centrifuga uguale ed opposta. Con
questa concezione la meccanica era in qualche modo conclusa quanto ai suoi
teoremi fondamentali. Da allora essa ha subìto soltanto trasformazioni
concettuali e linguistiche che hanno mirato a renderla più coerente e semplice.
Da questo punto di vista, una seconda fase dello sviluppo della meccanica può
essere considerato quello che essa ha subìto verso la metà dell’800, ad opera
soprattutto di Hamilton, con la sostituzione dell’idea di energia a quella di
forza. La prima fase della meccanica era caratterizzata dal tentativo di
spiegare i fenomeni naturali col ridurli a innumerevoli azioni a distanza fra
gli atomi della materia. La seconda fase si ispira all'importanza che il
principio di conservazione dell’energia (enunciato da Helmholtz nel 1847) aveva
assunto nella scienza e dalla espressione, in termini di energia cinetica e
potenziale, delle leggi fondamentali della meccanica. Una terza fase fu
iniziata verso la fine del secolo, da Hertz, che cercò di ridurre la dinamica
alla cinematica, ammettendo come legge fondamentale quella del minimo
principio: ogni sistema libero persiste nel suo stato di riposo e di movimento
uniforme lungo la via più breve. Da queste vicende della meccanica è
relativamente indipendente il M. della fisica. Come si è detto, la
caratteristica delle teorie meccanicistiche 569 in fisica è quella di
utilizzare esclusivamente le grandezze che sono proprie della meccanica (la
forza, la massa, l’energia, ecc.). Si può distinguere: la teoria meccanistica
della discontinuità e la teoria meccanistica del conrinuo. La teoria
meccanistica del discontinuo è la teoria atomica che è stata invocata a
spiegare, oltre che la luce (teoria crepuscolare), vari fenomeni fisici come
l’adesione, la coesione, la capillarità; e che ha dato luogo alla teoria
cinetica dei gas e alle prime teorie dei fenomeni elettrici. Le teorie
meccanistiche fondate sulla continuità furono rese possibili soltanto dalla
scoperta di più complicati strumenti di calcolo differenziale; e trovano il
loro esemplare nella ipotesi di Fresnel sull’etere elastico come mezzo di
propagazione delle onde luminose. Entrambe queste teorie sono state nella
fisica eliminate dalla teoria del campo (v.) con la quale i concetti della
meccanica hanno cessato di valere come princìpi esplicativi generali della
fisica. Contemporaneamente l’altra caratteristica fondamentale del M. cioè il
determinismo rigoroso o necessitarismo veniva eliminato dall’affermarsi della
teoria quantistica (v. CAUSALITÀ). « Le leggi della fisica quantistica, dicono
a questo proposito Einstein e Infeld, non governano le vicende nel tempo di
oggetti singoli ma governano le variazioni della probabilità nel tempo» (The
Evolution of Physics, IV; trad. ital., pag. 298). Con questa trasformazione la
fisica è uscita dalla sua fase meccanistica, costituendosi come scienza della
previsione probabile (v. Fisica). b) Il M. non è stato soltanto un principio
direttivo della fisica; a partire dalla metà del secolo xvm è stato anche il
principio direttivo di tutte le altre scienze naturali compresa la biologia, la
psicologia e la sociologia. Ovviamente, fuori della fisica, il M. ha avuto un
carattere assai meno rigoroso: non si è mai raggiunto neanche per la
spiegazione dei più semplici fenomeni biologici, psicologici o sociologici,
l’esattezza quantitativa dei modelli meccanici impiegati a spiegare, per es.,
il fenomeno della capillarità o quello dell’interferenza della luce. Fuori
della fisica, pertanto, il M. è stato più un’aspirazione generica, una tesi
filosofica o nella migliore ipotesi una generica esigenza di metodo, che un
effettivo strumento di spiegazione. Polemicamente, esso ha fatto valere
l’istanza della necessità causale contro il finalismo; e positivamente ha
affermato in ogni campo l’esigenza dell’analisi quantitativa. Oltre a questo,
le tesi del M., nei vari campi della scienza, sono tesi riduzionistiche: il M.
della biologia consiste nel ridurre le leggi biologiche a leggi
fisico-chimiche; il M. della psicologia consiste nel ridurre le leggi
psicologiche a leggi biologiche; e così il M. nella 570 sociologia consiste nel
ridurre le leggi sociologiche a leggi biologiche e psicologiche. Queste
tendenze riduzionistiche hanno avuto la loro utilità nello sgombrare il campo
delle rispettive scienze da impalcature concettuali antiquate, da presupposti
metafisici o teologici che impacciavano la ricerca o addirittura la bloccavano.
La scienza del sec. xx, a partire soprattutto dal terzo decennio di esso, ha
tuttavia abbandonato l’impostazione riduzionistica e perciò il M. senza
tuttavia ritornare alle posizioni cui il M. si contrapponeva. La biologia, ad
es., ha abbandonato il presupposto che i fenomeni vitali siano retti solo da
leggi fisico-chimiche senza tuttavia ammettere una qualsiasi forma di vitalismo
(v. EvoLUZIONE; VITALISMO). Si può dire pertanto che il M. è stato abbandonato;
ma bisogna aggiungere che con esso sono stati abbandonati anche gli indirizzi
concettuali ai quali il M. si contrapponeva e dei quali rappresentava la
correzione. MEDIANITÀ (ted. Durchschaittlichkeit). Secondo Heidegger, quel che
l’uomo è in media o all’ingrosso, nella sua esistenza quotidiana e
indifferente: una determinazione fondamentale dell’esistenza dalla quale
l’analisi esistenziale deve prendere le mosse (Sein und Zeit, $ 9). MEDIATORE
PLASTICO (franc. Médiateur Plastique). Così fu chiamata da alcuni filosofi del1°800
la « natura plastica » di cui parlava Cudworth come Ectipo (v.) cioè
intermediario tra Dio e il mondo (The True Intellectual System of the Universe,
I, 1, 3). L'espressione si trova usata da Laromiguière (Lecons de phil.,
1815-18, II, 9) e da Galluppi (Zezioni di logica e metafisica, 18321836, II,
pag. 273). MEDIAZIONE (ingl. Mediation; franc. Médiation; ted. Vermittelung).
La funzione che mette in relazione due termini o due oggetti in generale. Tale
funzione è stata riconosciuta propria: 1° del termine medio nel sillogismo; 2°
delle prove nella dimostrazione; 3° della riflessione; 4° dei demoni nella
religione. 1° Secondo Aristotele il sillogismo è determinato dalla funzione
mediatrice del termine medio che contiene in sè un termine ed è contenuto
dall’altro termine (An. Pr., I, 4, 25b 35) (v. SILLOGISMO). 2° Secondo la
logica di Portoreale, la M. è indispensabile in qualsiasi ragionamento. «
Quando la sola considerazione di due idee non basta a far giudicare se si deve
affermare o negare l’una dell’altra, si ha bisogno di ricorrere a una terza
idea, semplice o complessa, e questa terza idea si chiama medio » (ARNAULD,
Log., III, 1). A sua volta Locke diceva: « Le idee intermedie che servono a
dimostrare la concordanza tra due altre sono chiamate prove; e quando con
questo mezzo è chiaramente ed evidentemente percepita la conMEDIANITÀ cordanza
o discordanza, questa è detta una dimostrazione » (Saggio, IV, 2, 3). Nello
stesso senso d’Alembert affermava: « Tutta la logica si riduce a una regola semplicissima:
per confrontare due o più oggetti lontani gli uni dagli altri ci si serve di
più oggetti intermediari. Lo stesso accade quando si vogliono confrontare due o
più idee; l’arte del ragionamento non è che lo sviluppo di questo principio e
delle conseguenze che ne risultano » (CEuvres, ed. Condorcet, 1853, pag. 224).
3° Secondo Hegel, la M. è la riflessione in generale (Werke, ed. Glockner, II,
pag. 25; IV, pag. 553; ecc.). « Un contenuto può essere conosciuto come la
verità, dice Hegel, solo in quanto non è mediato con un altro, non è finito, si
media dunque con se stesso, ed è così, tutto in uno, M. e relazione immediata
con se stesso ». In altri termini, la riflessione esclude non solo
l'immediatezza, che è l'intuire astratto cioè il sapere immediato, ma anche la
«relazione astratta» cioè la M. di un concetto con un concetto diverso (le
prove di Locke) che Hegel ritiene propria (e con ragione) del secolo
dell'illuminismo (Enc., $ 74). 4° Una funzione mediatrice tra gli dèi e gli
uomini fu riservata, nell’antichità, ai demoni. Il Demiurgo platonico incarica
le divinità inferiori o demoni di creare le generazioni mortali e completare
l’opera della creazione (Tim., 41 a-c). Plotino dice che i demoni sono eterni,
in relazione con noi, e «intermediari fra gli dèi e la nostra specie » (Enn.,
III, 5, 6). Come mediatore era concepito Mitra e precisamente come mediatore
tra l’irraggiungibile divinità delle sfere eteree e il genere umano (CuMONT,
The Mysteries of Mithra, pagina 127 sgg.). Infine secondo la dottrina
cristiana, «al solo Cristo compete di essere mediatore in modo semplice e
perfetto », mentre angeli e sacerdoti sono piuttosto strumenti di M. (S.
TomMaso, S. Th., III, q. 26, a. 1). MEDIETÀ (gr. ueoémg; lat. Medietas; inglese
Mean; franc. Milieu; ted. Mittel). Il mezzo, o giusto mezzo, tra gli estremi,
che, secondo Aristotele, può essere definito o in relazione alle cose o in
relazione a noi. « Se ogni scienza, dice Aristotele, adempie bene al suo
compito mirando al giusto mezzo e indirizzando ad esso le sue opere (onde siamo
soliti dire delle buone opere che non c’è nulla da togliere nè da aggiungere in
quanto l’eccesso e il difetto rovinano ciò che sta bene mentre la M. lo salva)
se cioè i buoni artisti lavorano guardando a questo mezzo, la virtù che è, come
la natura, più accurata e migliore di ogni arte, dovrà tendere proprio al
giusto mezzo » (Er. Nic., II, 6, 1106b 8). La M. è tuttavia la definizione
soltanto della virtà etica (v.) o morale perchè solo questa concerne passioni o
azioni che MEMORIA sono suscettibili di eccesso o difetto (cfr. pure S.
Tommaso, S. 7A., I, II, q. 59, a. 1) (v. VIRTÙ). MEDITAZIONE. V. MisticIsMO.
MEGARISMO (ingl. Megarism; franc. Mégarisme; ted. Megarismus). La scuola
socratica di Megara, fondata nel sec. v a. C. da Euclide (da non confondere col
matematico Euclide che visse ed insegnò ad Alessandria circa un secolo dopo).
Altri rappresentanti della scuola sono Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e
Stilpone che insegnò in Atene verso il 320 avanti Cristo. La caratteristica della
scuola è quella di unire l’insegnamento di Socrate con la dottrina eleatica.
Euclide riteneva che uno solo è il bene ed è l'Unità, chiamata con vari nomi:
Saggezza, Dio, Intelletto, ecc. Pertanto come gli Eleati, i Megarici
polemizzavano contro la realtà del movimento, del mutamento e del molteplice. A
confutare questa realtà miravano vari argomenti, di natura sofistica, da essi
addotti: come l’argomento del sorife (v.) o del calvo; come pure mirava la
negazione della possibilità fatta da Diodoro Crono (per quest’ultima v.
PossisiLiTÀà). Alcuni di questi argomenti furono ripresi dagli Stoici, in quei
ragionamenti « ambigui » o « convertibili » che in seguito si chiamarono
dilemmi (v.) che oggi chiamano paradossi o antinomie (v.). MEGLIORISMO (ingl.
Meliorism; frane. Méliorisme; ted. Meliorismus). Parola recente, usata
soprattutto da scrittori anglossassoni, per indicare un atteggiamento di fronte
al mondo non pessimistico nè ottimistico ma orientato verso la speranza del
meglio e la volontà di realizzarlo. MELANCONIA (gr. uérac yo; ingl.
Melancholia; franc. Mélancolie; ted. Melancholie). Propriamente, umor nero (v.
TEMPERAMENTO). Nel linguaggio comune, tristezza senza motivo. MEMORIA (gr.
uviun; lat. Memoria; ingl. Memory; franc. Mémoire; ted. Gedachtnis). La
possibilità di disporre delle conoscenze passate. Per conoscenze passate
bisogna intendere quelle che sono state già, in un modo qualsiasi, disponibili;
e non già semplicemente conoscenze de/ passato. La conoscenza del passato può
essere anche di nuova formazione: per es., disponiamo ora di informazioni circa
il passato del nostro pianeta o del nostro universo che non sono affatto
ricordi. Una conoscenza passata non è neppure, semplicemente, un’impronta, una
traccia qualsiasi: un’impronta o traccia è difatti alcunchè di presente, non di
passato. La tristezza o l’imperfezione fisica lasciati da un incidente di cui
si è stati vittima, non sono la M. di questo incidente, per quanto ne siano le
tracce, mentre un ricordo può essere disponibile e pronto senza l’aiuto di
alcuna traccia, come è il caso di una formula per il matematico e in ge571
nerale dei ricordi che sono affidati a formazioni o ad abiti professionali. La
M. sembra costituita da due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione
o persistenza, in una certa forma, delle conoscenze passate che, per esser
passate, devono essersi sottratte alla vista: questo momento è la rifentiva; 2°
la possibilità di richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di
renderla attuale o presente: che è propriamente il ricordo. Questi due momenti
furono già distinti da Platone che li chiamò rispettivamente « conservazione di
sensazione» e «reminiscenza» (Fil, 34 a-c); e da Aristotele che si serve degli
stessi termini. Aristotele pone anche chiaramente il problema che emerge dalla
conservazione della rappresentazione come traccia (impressione) di una
conoscenza passata. « Se rimane in noi, egli dice, qualcosa che è simile a
un’impronta o ad una pittura, come può la percezione di questa impronta essere
M. di qualch’altra cosa e non soltanto di sè? Infatti, chi effettivamente
ricorda non vede che questa impronta e solo di essa ha sensazione: come può
allora ricordare ciò che non è presente?» (De Mem., 1, 450b 17). La risposta di
Aristotele a questa difficoltà è che l’impronta nell’anima è come un quadro che
può essere considerato o per sè o per l’oggetto che rappresenta. « Come, egli
dice, un animale dipinto in un quadro è sia un animale sia un’immagine ed è
insieme entrambe le cose, sebbene il loro essere non sia lo stesso, sicchè può
essere considerato sia come animale sia come immagine; così anche l’immagine
mnemonica che è in noi dev'essere considerata un oggetto di per se stesso e
nello stesso tempo rappresentazione di qualche altra cosa» (/bid., 450b 21). La
spiegazione dell’intero processo della M., sia come ritentiva sia come ricordo,
è poi, secondo Aristotele interamente fisica: a un movimento è affidata la
ritentiva e la produzione dell’impronta ed è un movimento che produce il
ricordo. Il ricordo tuttavia, a differenza della ritentiva, è una specie di
deduzione (sillogismo); giacchè « chi ricorda deduce che ha già ascoltato, o
comunque percepito ciò che ricorda; ed è questa una specie di ricerca » (Ibid.,
453 a 11). Il ricordo è perciò soltanto degli uomini. Con ciò Aristotele
metteva in luce un altro carattere fondamentale della M. come ricordo: il suo
carattere attivo di deliberazione o di scelta. L’analisi platonico-aristotelica
della M. ha messo in luce i seguenti punti: a) la distinzione tra ritentiva e ricordo;
5) il riconoscimento del carattere attivo o volontario del ricordo di fronte al
carattere naturale o passivo della ritentiva; c) la base fisica del ricordo
come conservazione di movimento o movimento conservato. Questi punti si può
dire che rimangano costanti nella storia successiva del 572 concetto. Tuttavia
le dottrine che successivamente si presentano possono essere suddivise in due
gruppi, a seconda che fanno leva, per l’interpretazione della M., sull’aspetto
per cui essa è ritentiva o conservazione o sull’aspetto per cui è ricordo. A)
La psicologia antica ha insistito sull’aspetto per il quale la M. è
conservazione, persistenza di conoscenze acquisite. La trattazione
misticheggiante di Plotino, oltre a negare la base fisica della M. e a vedere
dal corpo un ostacolo più che un aiuto di essa (Enn., IV, 3, 26) proporziona la
M. alla forza e alla persistenza della conservazione: « Se l’immagine persiste
nell’assenza dell’oggetto, v’è già M., anche se persiste per poco; se persiste
per poco, la M. è corta; se dura di più la M. aumenta perchè la forza
dell’immaginazione è maggiore; e se difficilmente vien meno, la M. è
indistruttibile » (4bid., IV, 3, 29). In modo analogo, l’elencazione che S.
Agostino fa dei « miracoli » della M., poggia sullo stesso concetto di essa
come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua espressione, « ventre
dell’anima » (Conf., X, 14). Questo è pure il concetto che della M. ebbero i
filosofi medievali. S. Tommaso la chiama «il tesoro e il posto di conservazione
delle specie » (S. 7%., I, q. 29, a. 7), ripetendo un luogo comune della
filosofia medievale. Ciò equivaleva ad insistere sulla M. come ritentiva. Ma
sulla M. come conservazione insistono anche concezioni moderne e contemporanee
che, riprendendo la concezione agostiniana del tempo come distensio animi o
durata di coscienza, vedono nella M. la conservazione integrale dello spirito
da parte di se stesso: cioè la persistenza in esso di tutte le sue azioni e
affezioni, di tutte le sue manifestazioni o modi d’essere. Questa concezione fu
già esposta da Leibniz che concepiva la M. come conservazione integrale sotto
forma di virtualità o « piccole percezioni + delle idee che non hanno più la
forma di pensieri o di «appercezioni»: onde osservava contro Locke: «Se le idee
non fossero che forme o modi dei pensieri, cesserebbero con essi; ma voi
stesso, Signore, avete riconosciuto che esse sono gli oggetti interni dei
pensieri e come tali possono sussistere. E io mi meraviglio che voi possiate
fare a meno di queste potenze o facoltà pure, che abbandonate, a quanto sembra,
ai filosofi della scuola » (Nouv. Ess., II, 10, 2). Sotto forma di virtualità o
facoltà può e deve conservarsi integralmente ogni atto o manifestazione dello
spirito giacchè lo spirito è per l’appunto questa auto-conservazione. Tale è la
concezione della M. propria di ogni filosofia spiritualistica o
coscienzialistica. Nel modo migliore e più circostanziato tale concezione è
stata esposta da Bergson in Materia e M. (1896) e da lui contrapposta alla
concezione della M. fondata sul ricordo. «La M., egli ha MEMORIA detto, non
consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel
progresso dal passato al presente. È nel passato che noi ci situiamo di colpo.
Partiamo da uno stato virtuale, che conduciamo a poco a poco, mediante una
serie di piani di coscienza diversi, sino al termine in cui esso si
materializza in una appercezione attuale cioè sino al punto in cui diviene uno
stato presente e agente, cioè, infine, sino a quel piano estremo della nostra
coscienza su cui si disegna il nostro corpo. In questo stato virtuale consiste
il ricordo puro» (Matiére et mémoire, 7® ediz., pag. 245). La M. pura (o
ricordo puro) è la corrente di coscienza in cui tutto vien conservato allo
stato di virtualità. La limitazione del ricordare effettivo non appartiene alla
M. ma al ricordo attuale che Bergson identifica con la percezione e che è una
scelta operata nella M. pura per le esigenze dell’azione. Pertanto le lesioni
cerebrali non affettano la M. vera e propria, ma soltanto la reminiscenza dei
ricordi nella percezione cioè il meccanismo attraverso il quale la M. si
inserisce nel corpo e diventa azione. Questa teoria, che Bergson appoggiava ad
una analisi dei disturbi delle funzioni mnemoniche, è caratterizzata da due
punti fondamentali: 1° la distinzione tra la M. pura e il ricordo, intendendosi
per M. pura la conservazione integrale, indipendente da ogni circostanza, dello
spirito da parte dello spirito. Ora è evidente che tale M. non ha niente a che
fare con la memoria osservabile; 2° la negazione di ogni base fisiologica della
M. pura e la restrizione della base fisiologica al fenomeno della percezione.
Anche questa negazione non ha alcuna conferma di fatto mentre trova il suo
precedente storico nella teoria di Plotino. Da Cartesio in poi (Princ. Phil.,
IV, 196) la base fisiologica della M. non è stata negata. La stessa
conservazione integrale dello spirito da parte dello spirito è la «corrente
della coscienza » di cui parla Husserl, che anch'egli ricorre al concetto
adoperato da Leibniz e da Bergson di virtualità o potenzialità per
contrassegnare la memoria. « Oltre che nell’appercezione, dice Husserl, le cose
possono essere esperite nel ricordo e nelle ripresentazioni affini al
ricordo... Appartiene all’essenza di queste esperienze vissute quella
importante modificazione che trasporta la coscienza dal modo dell’attualità al
modo dell’inattualità e viceversa. In un caso l’esperienza vissuta è coscienza
esplicita del suo oggetto; nell’altro è coscienza implicita, soltanto
potenziale» (/deen, I, $ 35). Il presupposto è sempre quello della totale
conservazione di tutto il contenuto della coscienza: il fenomeno del ricordo è
legato al passaggio del contenuto dallo stato attuale a quello potenziale o
viceversa. MENTALITÀ B) Ad un secondo gruppo di teorie della M. appartengono
quelle che hanno fatto soprattutto leva sul fenomeno del ricordo. Hobbes, per
es., ha definito la M. come «il sentire di aver già sentito» (De corp., 25, 1):
il che significa definirla in rapporto all’atto con cui si riconosce, in ciò
che si percepisce, ciò che si è percepito altra volta. Da questo stesso punto
di vista Wolff definiva la M. come «la facoltà di riconoscere le idee
riprodotte e le cose da esse rappresentate» (Psychol. rationalis, $ 278): un
concetto che si ritrova anche in Baumgarten (Me., $ 579). Da questo punto di
vista si tende talvolta a riconoscere il carattere attivo della M. cioè la
funzione della volontà o della scelta deliberata nel richiamare i ricordi.
Diceva Locke: « In questo richiamo delle idee riposte nella M., lo spirito
stesso non è puramente passivo perchè la rappresentazione di questi quadri
dormienti dipende a volte dalla volontà» (Saggio, II, 10, 7). Kant metteva in
luce egualmente questo carattere attivo: «La M., egli diceva, differisce dalla
semplice immaginazione riproduttiva in questo che, potendo essa riprodurre
volontariamente la rappresentazione precedente, l’anima non è in balia di
questa » (Anfr., I, $ 34). A questo stesso gruppo di dottrine appartengono: a)
quelle che interpretano la M. come intelligenza; 5) quelle che interpretano la
M. come meccanismo associativo. a) Come intelligenza o pensiero la M. (sempre
nel suo aspetto di ricordo) è stata interpretata da Hegel. Hegel vede nella M.
«il modo estrinseco, il momento unilaterale dell’esistenza del pensiero ». E
nota che già la lingua tedesca dà alla M. « l’alta situazione della parentela
immediata col pensiero » (Enc., $ 464). La M. è, secondo Hegel, pensiero
esteriorizzato, pensiero che crede di trovare qualcosa di esterno, cioè la cosa
che viene ricordata o rievocata, ma che in realtà non trova che se stesso
perchè anche la cosa ricordata o rievocata è pensiero. Perciò Hegel dice che lo
spirito «si fa come M., in se stesso, qualcosa di esterno; cosicchè ciò che è
suo appare come qualcosa che vien trovato » (/bid., $ 463). Qui viene
teorizzata soprattutto la M. come ricordo; ed è evidente la parentela di questa
dottrina con quelle spiritualistiche o coscienzialistiche: l’identificazione
della M. col pensiero ha lo stesso senso dell’unificazione della M. con la
coscienza o con la sua durata. b) Il concetto della M. come meccanismo
associativo è stato espresso per la prima volta da Spinoza nel modo seguente:
«La M. non è altro che una certa concatenazione delle idee implicanti la natura
delle cose che sono fuori del corpo umano; la quale si produce nella mente
secondo l’ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo umano ». Spinoza
distingue la concatenazione propria della 573 M. da quella delle idee «che si
compie secondo l’ordine dell’intelletto e che è uguale in tutti gli uomini »
(Ef., II, 18, schol.). Non c’è dubbio pertanto che Spinoza alludeva a un
meccanismo associativo, del tipo di quelli che fu più tardi teorizzato da Hume,
« È evidente che esiste un principio di connessione fra i vari pensieri o idee
dello spirito e che nel loro apparire alla M. o alla immaginazione essi si
presentano l’uno dopo l’altro con un certo grado di metodo e di regolarità»
(Ing. Conc. Underst., III). Come è noto, Hume enunciava tre leggi di
associazione, la rassomiglianza la contiguità e la causalità; ma soltanto le
prime due furono adoperate dalla psicologia associazionistica per la
spiegazione dei fenomeni psichici (v. AssoCIAZIONISMO). La psicologia moderna
si è fondata in gran parte sull’ipotesi associazionistica nello studio dei
fenomeni della M., sino a che la psicanalisi da un lato, la teoria della forma
dall’altro, hanno mostrato la importanza degli interessi e degli atteggiamenti
volitivi nel ricordo e quella dell’intera personalità nel riconoscimento del
già visto. Lo studio sperimentale della M. ha confermato il detto di Nietzsche:
«Io ho fatto questo, — mi dice la memoria. Non posso averlo fatto, — sostiene
il mio orgoglio che è inesorabile. Alla fine cede la M.» (Jenseits von Gut und
Bose, 1886, $ 68). L'impianto delle analisi psicologiche moderne continua così
ad essere imperniato sul fatto del ricordo più che su quello della ritentiva:
il quale invece continua ad essere preferito dalle teorie filosofiche della memoria.
MENDELISMO. V. GENETICA. MENTALISMO (ingl. Mentalism). Vocabolo usato per lo
più da scrittori filosofici anglosassoni per indicare cose in verità assai
diverse, e cioè: o come sinonimo di « soggettivismo + e « idealismo soggettivo
» (del tipo berkeleyiano); o come sinonimo di psicologismo (v.), vale a dire la
tendenza, vivamente combattuta dalla Logica odierna ma tuttavia tenacemente
persistente, a considerare le forme, figure e strutture della Logica come
formazioni, rappresentazioni ed operazioni mentali (psicologiche) e le regole
della Logica come «leggi del pensiero ». Negli scritti dei seguaci della
metodologia operativistica e dei pragmatisti (per es., Dewey) « M.» viene usato
in un’accezione lievemente diversa: e cioè a designare la tendenza empiristica
a risolvere l’esperienza e i concetti empirici in meri «stati mentali»,
trascurandone gli aspetti obiettivi (fisiologici, operativo-manuali,
linguistici, storici, ecc.). G. P. MENTALITÀ (ingl. Mentality; franc.
Mentalite; ted. Mentalitàt). 1. Termine adoperato dai sociologi per indicare
gli atteggiamenti, le disposizioni e i comportamenti istituzionalizzati in un
gruppo 574 e adatti a caratterizzare il gruppo stesso. Per es., «la M. dei
primitivi », «la M. borghese», ecc. 2. Spaventa. chiamò « M. pura» il pensiero
riflesso o consapevole, che egli ritenne debba accompagnare anche le prime
categorie della logica hegeliana (quelle dell’essere e dell’essenza) (Scritti
filosofici, 1901, passim). MENTE (lat. Mens). 1. Lo stesso che intelletto (v.).
2. Lo stesso che spirito: cioè l’insieme delle funzioni superiori dell’anima,
intelletto e volontà (vedi SPIRITO). 3. Lo stesso che dottrina. In questo senso
si dice (o meglio si diceva perchè questo significato è antiquato). « La M. di
Aristotele » per dire la dottrina di Aristotele su un argomento qualsiasi. MENTITORE (gr. yevdsuevos; lat.
Mentiens; ingl. Liar; franc. Menteur; ted. Liigner). Uno
degli argomenti che gli antichi chiamavano ambigui o convertibili e i moderni
chiamano antinomie o paradossi: quello che consiste nell’affermare di mentire:
così, se si dice la verità, si mente; e se si mente, si dice la verità. La
conclusione è impossibile. Attribuito a Eubulide di Megara (Diog. L., II, 108)
l’argomento viene riportato da molti scrittori antichi (ArIst., E/ Sof., 25,
180b 2; CICER., Acad., Il, 95; De Div., II, 4; Getto, Nocr. Att., 18, 2).
Ripreso nell’ultimo periodo della Scolastica, l’argomento viene tuttora
discusso dalla logica come una delle antinomie logiche (v. ANTINOMIE).
MENZIONE. V. Uso. MENZOGNA (gr. qeùsoc; lat. Mendacium; ingl. Lie; franc.
Mensonge; ted. Lige). Aristotele distingue due specie fondamentali di M., la
millanteria che consiste nell’esagerare la verità e la ironia (v.) che consiste
nel diminuirla. Queste tutcavia sono le M. che non riguardano le relazioni
d’affari nè la giustizia: in questi casi infatti non si tratta di semplici M.
ma di vizi più gravi (frode, tradimento, ecc.) (Et. Nic., IV, 7, 1127a 13). S.
Tommaso ha dato una minuziosa classificazione della M., dal punto di vista
della morale teologica (S. 7H., II, 2, q. 110). MERAVIGLIA. V. AMMRAZIONE.
MERITO (lat. Meritum; ingl. Merit; francese Mérite; ted. Verdienst). Titolo per
ottenere approvazione, ricompensa o premio. Si dice non solo di persone ma
anche di opere, per es., «Il M. di questo libro è... ». Il M. è diverso dalla
virtù e dal valore morale ma costituisce quanto della virtù stessa o del valore
morale può essere valutato ai fini di una ricompensa qualsiasi, sia pure quella
dell’approvazione. MESOLOGIA. V. EcoLogia. METABASI (gr. peràBao el 0 yévoc).
Il passaggio, legittimo o meno, a un altro soggetto MENTE di discorso o a un
altro campo. Dice Aristotele: «Noi non possiamo passare, al di là del corpo, ad
un altro genere, come passiamo dalla lunghezza alla superficie e dalla
superficie al corpo» (De Cael., I, 1, 268 b 1). Quintiliano considera questo
passaggio come una figura retorica (/nst. Or., IX, 3, 25). METABIOLOGIA (ingl.
Merabiology; francese Métabiologie; ted. Metabiologie). Le speculazioni
metafisiche che assumono il loro punto di partenza dai fenomeni biologici.
Oppure: l’analisi della struttura linguistico-concettuale della biologia.
METACRITICA (ted. Merakritik). Questo termine compare come titolo di due opere
tedesche dedicate alla critica del kantismo; e precisamente nell'opera di
HAManN, Metacritica del Purismo della Ragione (1788) e nell’opera di HERDER, M.
della Critica della Ragion Pura (1799). Il termine vuol significare «critica
della critica». METAFISICA (gr. tà perà tà puovd; lat. Meraphysica; ingl.
Metaphysics; franc. Métaphysique; ted. Metaphysik). La scienza prima cioè la
scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune di tutte le altre e come
proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri.
Per questa sua pretesa di priorità (che la definisce) la M. presuppone una
situazione culturale determinata: cioè la situazione nella quale il sapere si è
già organizzato e diviso in scienze diverse, relativamente indipendenti l’una
dall’altra e tali da esigere la determinazione dei loro rapporti scambievoli e
la loro integrazione su di un fondamento comune. Questa era appunto la
situazione che si era verificata ad Atene verso la metà del rv secolo, per
opera di Platone e dei suoi discepoli, che avevano contribuito potentemente
allo sviluppo della matematica, della fisica, dell’etica e della politica. Il
nome stesso di questa scienza, che solitamente si attribuisce al posto in cui
gli scritti aristotelici relativi capitarono nella raccolta di Andronico di
Rodi (1 secolo a. C.), ma che Jaeger attribuisce a un peripatetico anteriore ad
Andronico (Aristoteles; trad. ital., pag. 517) si presta ad esprimere bene la
natura di essa, in quanto procede al di là della fisica, che è la prima delle
scienze particolari, per raggiungere il fondamento comune su cui tutte si
fondano e determinare il posto che a ciascuna compete nella gerarchia del
sapere; e ciò spiega, se non l’origine, almeno la fortuna che il nome ha
incontrato. Platone presentò l’esigenza di questa scienza suprema dopo aver chiarito
la natura delle scienze particolari che costituiscono il curriculum del
filosofo: aritmetica, geometria, astronomia e musica. «Io penso, egli disse,
che se lo studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna è
fatto METAFISICA in modo da condurci a intendere la loro comunanza e parentela
reciproca e si colgono le ragioni per le quali sono intimamente connesse, la
loro trattazione ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la nostra fatica
non sarà vana; in caso contrario sarà proprio vana» (Resp., 531c-d). In questa
scienza delle scienze Platone riconosceva la dialettica (v.) il cui compito
fondamentale sarebbe quello di sottoporre a critica o vagliare le ipotesi che
le scienze singole assumono a loro fondamento ma che « non osano toccare perchè
non sono in grado di darne ragione» (Resp., 533 c). Aristotele chiamava una
disciplina siffatta « filosofia prima + o « la scienza di cui andiamo in cerca
»; e ne determinava il progetto nei tredici problemi enumerati nel terzo (8)
libro della Metafisica. Tali problemi vertono tutti direttamente o
indirettamente, sui rapporti tra le scienze e i loro oggetti o princìpi
relativi: sulla possibilità di una scienza che studi tutte le cause (996 a 18)
o tutti i primi princìpi (996 a 26) o tutte le sostanze (997 a 15) o anche le
sostanze e i loro attributi (997 a 25) e le sostanze non sensibili (997 a 34);
e su altri problemi (come quelli delle parti costituenti di tutte le cose,
della possibile diversità di natura tra i princìpi, dell’unità dell’essere, ecc.),
che si situano tutti nella zona di intersecazione e di incontro delle singole
discipline scientifiche e sono di interesse comune per esse. Pertanto la M.,
come l’ha intesa e progettata Aristotele, è la scienza prima nel senso che
fornisce a tutte le altre il fondamento comune cioè l’oggetto cui esse tutte si
riferiscono e i princìpi da cui tutte dipendono. La M. implica, perciò, una
enciclopedia delle scienze; cioè un prospetto completo ed esauriente di tutte
le scienze nei loro rapporti di coordinazione e subordinazione e nei compiti e
nei limiti assegnati a ciascuna una volta per tutte (v. EncicLoPEDIA). La M. si
è presentata, nella sua storia, sotto tre forme fondamentali diverse e cioè: 1°
come teologia; 2° come ontologia; 3° come gnoseologia. La caratterizzazione
oggi corrente della M. come «scienza di ciò che è al di là dell’esperienza » si
può riferire soltanto alla prima di queste forme storiche, cioè alla M.
teologica; e si tratta, anche, di una caratterizzazione imperfetta in quanto
coglie un tratto subordinato, perciò non costante, di questa metafisica. 1° Il
concetto della M. come teologia consiste nel riconoscere come oggetto della M.
l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri esseri e cose
del mondo. Il privilegio di priorità attribuito alla M. dipende, in questo
caso, dal carattere privilegiato dell’essere che ne è l'oggetto: questo è
l’essere superiore a tutti e da cui tutti gli altri dipendono. 575 Nell’opera
di Aristotele questo concetto si intreccia con l’altro, della M. come
ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere. Così Aristotele lo
esprime: « Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza
di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma certamente non alla
fisica (che si occupa delle cose in movimento) nè alla matematica, bensì ad una
scienza che è prima di entrambe... Solo la scienza prima ha per oggetto le cose
separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose
sono eterne in modo speciale, perchè sono le cause di ciò che del divino è
accessibile a noi. Di conseguenza, ci sono tre scienze teoretiche: la
matematica, la fisica e la teologia: giacchè se il divino è dappertutto esso è
specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto
l’essere più alto... Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la
fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la
sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più
universale perchè sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che
l’essere in quanto essere è o implica + (Met., VI, 1, 1026 a 10). L’ultima
frase fa vedere come Aristotele intrecci il concetto della M. come ontologia
col concetto della M. come teologia. Quest'ultimo tuttavia è completamente
diverso dall’altro. In base ad esso, l'oggetto della M. è propriamente il
divino; e la priorità della M. consiste nella priorità che l’essere divino ha
su ogni altra forma o modo d’essere. Le scienze si graduano, da questo punto di
vista, in base all’eccellenza o alla perfezione dei loro oggetti rispettivi, e
l’eccellenza o la perfezione di tali oggetti si misurano col confronto tra essi
e l’essere divino. Era questo il criterio che Platone aveva seguito nell'ordinamento
delle scienze, privilegiando la scienza che ha per oggetto « ciò che è ottimo
ed eccellente » cioè la perfezione stessa (Fed., 97 d) e graduando rispetto a
questa tutte le altre (Rep., VII, 525a sgg.). Questa concezione tuttavia
confinava tutte le scienze diverse dalla M. ad un livello di irrimediabile
inferiorità; e raggiungeva lo scopo, non già di giustificare le altre scienze
cioè di fondare la loro validità e nobilitare la loro ricerca, ma piuttosto di
svalutarle col confronto con la scienza prima e col carattere sublime del suo
oggetto. Questo probabilmente fu il motivo per cui Aristotele cominciò ad un
certo punto ad insistere sull’altro concetto della M. come ontologia, pur senza
mai rinnegare o abbandonare il primo. La M. teologica tuttavia si ripresenta
ogni volta che si fa corrispondere ad un essere primo e perfetto una scienza
egualmente prima e perfetta. Una M. teologica è pertanto quella di Plotino, 576
che contrappone alle scienze che hanno per oggetto il sensibile quelle che
hanno per oggetto l'intelligibile, cioè la realtà suprema. « Tra le scienze che
sono nell’anima razionale, egli dice, alcune hanno per oggetto le cose
sensibili e seppure si possono chiamare scienze giacchè meglio converrebbe ad
esse il nome di opinioni; esse vengono dopo le cose e sono immagini di esse. Le
altre, le vere scienze, hanno per oggetto l’intelligibile, vengono all’anima
dall’intelletto divino e non hanno nulla di sensibile » (Enn., V, 9, 7). Questa
spartizione della realtà in due domini, di cui l’uno superiore e privilegiato,
l’altro inferiore e derivato, è il presupposto caratteristico della M.
teologica: la quale pretende di avere come proprio oggetto la realtà primaria e
privilegiata. Una M. teologica è pertanto la dottrina di Spinoza in quanto ha
come oggetto l'ordine necessario del mondo cioè Dio stesso (Er., II, 46-47). E
una M. teologica è la filosofia di Hegel che assume di avere come proprio
oggetto Dio stesso: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la
religione, perchè oggetto di entrambe è la Verità, e nel senso altissimo della
parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la Verità » (Enc., $ 1). Pertanto di
fronte alla filosofia, tutte le altre scienze restano in condizione di
inferiorità: il loro oggetto è il finito, cioè l’irreale, mentre l’oggetto
della filosofia, cioè Dio è l’infinito. Dice Hegel: « Le scienze particolari,
al pari della filosofia, hanno per elemento conoscenza e pensiero; senonchè si
occupano degli oggetti finiti e del mondo dei fenomeni. Una collezione di
conoscenze relative a questa materia resta di per sè esclusa dalla filosofia,
cui non si addice nè questo contenuto nè la forma relativa » (Geschichte der
Philosophie, Einleitung, B, 2, a; trad. ital., I, pag. 69). Ed è evidente che,
nonostante le esplicite proteste antimetafisiche, una M. teologica è anche la
filosofia dello spirito di Croce che ha per oggetto la Storia eterna dello
Spirito universale: una realtà sublime, di fronte alla quale scadono al rango
di apparenze particolari o di accidentalità empiriche gli oggetti di tutte le
altre scienze (Teoria e storia della storiografia, 1917; La Storia come
pensiero e come azione, 1938). Infine, una M. teologica è la filosofia di
Bergson che pretende « fare a meno dei simboli » ed entrare direttamente a
contatto con una realtà privilegiata, di natura divina che è la corrente della
coscienza (* Introduction à la métaphysique », in La pensée et le mouvant, 3*
ediz., 1934, pag. 206 sgg.); e che si contrappone come tale alla scienza, detta
semplice «ausiliaria dell’azione » (/bid., pag. 158). Ogni forma di
spiritualismo o coscienzialismo tende, più o meno chiaramente, a una metafisica
teologica di questa specie. METAFISICA 2° La seconda concezione fondamentale è
quella della M. come ontologia o dottrina che studia i caratteri fondamentali
dell’essere: quei caratteri che ogni essere ha e non può non avere. Le
proposizioni principali della M. ontologica sono le seguenti: 1° Esistono
determinazioni necessarie dell’essere cioè determinazioni che nessuna forma o
modo d'essere può non avere. 2° Tali determinazioni sono presenti in tutte le
forme e i modi d'essere particolari. 3° Esistono scienze che hanno per oggetto
un modo d’essere particolare, isolato in virtù di opportuni principi. 4° Deve
esistere una scienza che abbia per oggetto le determinazioni necessarie
dell’essere, anch'esse rese riconoscibili in virtù di un adatto principio. 5°
Questa scienza precede tutte le altre ed è perciò scienza prima in quanto il
suo oggetto è implicito negli oggetti di tutte le altre scienze e in quanto,
conseguentemente, il suo principio condiziona la validità di ogni altro
principio. La M. che si esprime in queste proposizioni implica, di regola: a)
una determinata teoria dell’essenza e precisamente quella dell’essenza
necessaria (v. EsseNZA); è) una determinata teoria dell’essere predicativo e
precisamente quella dell’inerenza (v. EsseRE, 1); c) una determinata teoria
dell’essere esistenziale e precisamente quella della necessità (v. ESSERE, 2).
Le proposizioni precedenti esprimono la forma più matura che la M. ha assunto
nell’opera di Aristotele e precisamente nei libri VII, VIII, IX della
Metafisica. Esse esprimono, cioè, la M. come teoria della sostanza,
intendendosi per sostanza «ciò che un essere non può non essere» cioè l’essenza
necessaria o la necessità d’essere (v. SosTANZA). Il principio della M. in
questo senso è il principio di contraddizione. Solo questo principio infatti
consente di delimitare e di riconoscere l’essere sostanziale. « Coloro, dice
Aristotele, che negano questo principio distruggono completamente la sostanza e
l’essenza necessaria giacchè sono costretti a dire che tutto è accidentale e
non c'è qualcosa come l’essere uomo o l’essere animale. Se infatti c'è qualcosa
come l’essere uomo, questo non sarà l’essere non uomo o il non essere uomo, ma
queste saranno negazioni di quello. Uno solo è infatti il significato
dell’essere e questo è la sostanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa
non è altro che indicare l’essere proprio di essa + (Met., IV, 4, 1007a 21). Da
questo punto di vista la sostanza è oggetto della M. in quanto costituisce il
principio di spiegazione di tutte le cose esistenti. Dice Aristotele: «La
sostanza di ciascuna cosa è la causa prima dell’essere di questa cosa. Alcune
cose non sono sostanze ma quelle che sono tali sono naturali e sono poste dalla
natura, sicchè è chiaro che la sostanza è la naMETAFISICA tura stessa e che non
è elemento ma principio » (Ibid., VII, 17, 1041 b 27). La sostanza in questo
senso non è una realtà privilegiata o sublime, che conferisca alla scienza che
ne faccia oggetto una dignità superiore. In quanto sostanze, Dio e l’intelletto
(come Aristotele dice, Er. Nic., I, 6, 1096a 24) o anche Dio e un filo d’erba
(come si potrebbe dire) hanno lo stesso valore; e le scienze che li assumono ad
oggetto la stessa dignità. In un passo famoso delle Parti degli Animali
Aristotele ha esplicitamente riconosciuto l’uguale dignità di tutte le scienze
in quanto hanno per oggetto la sostanza. « Le sostanze inferiori, dice
Aristotele, essendo più e meglio accessibili alla conoscenza vengono ad avere
il sopravvento nel campo scientifico; e poichè sono più vicine a noi e più
conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce per essere equivalente
alla filosofia che ha per oggetto le cose divine... Infatti anche nel caso di
quelle meno favorite dal punto di vista dell'apparenza sensibile, la natura che
le ha prodotte dà gioie indicibili a coloro che sanno comprenderne le cause e
sono per loro natura filosofi» (De Part. An., I, 5, 645a 1). È ovvio che, da
questo punto di vista, la priorità della M. non consiste nell’eccellenza del
suo oggetto (com’è nel caso della M. teologica) ma solo nel fatto che la M.,
avendo come oggetto specifico la sostanza consente di intendere gli oggetti di
tutte le scienze sia nei loro caratteri comuni e fondamentali sia nei loro
caratteri specifici: senza la sostanza, infatti, e per es., senza l'essere e
l'unità che le appartengono, « ogni cosa sarebbe distrutta, giacchè ogni cosa è
ed è una» (Met., XI, 1, 1059b 31). In altri termini: ogni scienza è, come tale,
studio della sostanza in qualcuna delle sue determinazioni, per es., della
sostanza in movimento la fisica, della sostanza come quantità la matematica; la
M. è la teoria della sostanza in quanto tale. La priorità della M. sulle altre
scienze è, da questo punto di vista, una priorità logica, non di valore. E si
tratta di una priorità logica fondata sulla priorità ontologica del suo oggetto
specifico. Consiste nel fatto che tutte le altre scienze presuppongono la M.
allo stesso modo che tutte le determinazioni della sostanza presuppongono la
sostanza; ora la riforma che S. Tommaso ha fatto subire alla M. aristotelica
nel sec. xm mira a restringere la superiorità logica della metafisica. Secondo
S. Tommaso, la M. come teoria della sostanza non include Dio tra i suoi oggetti
possibili, in quanto Dio non è sostanza (S. Tk., I, q. 1, a. 5, ad 1°).
L'identità di essenza ed esistenza in Dio distingue nettamente l’essere di Dio
dall’essere delle creature nelle quali invece l’essenza © l’esistenza sono
separabili (/bid., I, q. 3, a. 4). La determinazione 37 577 dei caratteri
sostanziali dell’essere in generale non concerne pertanto Dio ma solo le cose
create o finite. Con ciò la M. perde la sua priorità, che passa alla teologia, considerata
come una scienza a sè, originaria, che ripete i suoi princlpi direttamente da
Dio. « E così la teologia non riceve nulla dalle altre scienze, come se queste
le fossero superiori, ma si serve di esse come di inferiori e di serve, come le
scienze architettoniche si servono di quelle che procurano i materiali e la
scienza civile della militare » (/bid., I, q. 1, a. 5, ad 2°). Con la negazione
del carattere analogico dell’essere, operata da Duns Scoto, si ritorna a
riconoscere la priorità della metafisica. Duns Scoto infatti definisce la M.
come «la scienza prima dello scibile primo » cioè dell’essere (In Mer., VII, q.
4, n. 3). L’essere che è oggetto della M. è, secondo Duns Scoto, l’essere
comune: comune cioè a tutte le creature e a Dio, per quanto non si tratta di un
genere che avrebbe ancora un estensione troppo ristretta. La comunità
dell’essere comprende il dominio intero dell’intelligibile: la scienza
dell’essere, la M., è perciò la scienza prima e più estesa (Op. Ox., I, d. 3,
q. 3, a. 2, n. 14). La caratteristica di questo punto di vista di Scoto è che
esso distingue nettamente tra la priorità di valore che appartiene alla
teologia e la priorità logica che appartiene invece alla metafisica. Questa
distinzione viene mantenuta nel corso ulteriore della storia della M.
ontologica. Nel secolo xv tale M. cominciò ad essere contrassegnata col nome
che le è proprio di ontologia. Questo nome ricorre nello Schediasma Historicum
(1655) di Giacomo Thomasius (padre di Cristiano); e viene giustificato da Clauberg
nel modo seguente: «Come viene detta /eosofia o teologia la scienza che si
occupa di Dio, così quella che verte non intorno a questo o a quell’ente
insignito di un nome speciale o distinto dagli altri da una certa proprietà, ma
intorno all’ente in generale, non impropriamente sembra che possa essere detta
ontosofia od ontologia » (Op. Phil., 1691, I, pag. 281). Un'ontologia così
intesa, e nettamente distinta dalla teologia, non implicava alcun antagonismo
aperto o nascosto con i dati dell’esperienza. Essa anzi comincia ad essere
considerata come l’esposizione ordinata e sistematica di quei caratteri
fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo ripetuto o costante.
Tale è il concetto che della M. come ontologia ebbe Wolff: il quale dette a questa
disciplina la forma sistematica che le garantì, per qualche tempo, il successo.
Secondo Wolff, il pensiero comune possiede già in forma confusa le nozioni che
l’ontologia espone in forma distinta e sistematica. Esiste cioè una « ontologia
naturale + costituita dalle «confuse nozioni ontologiche vol578 gari ». Essa
può definirsi come « il complesso delle nozioni confuse che rispondono ai
termini astratti coi quali esprimiamo i giudizi generali intorno all’essere e
che acquistiamo con l’uso comune delle facoltà della mente » (On;., $ 21).
Questa ontologia naturale, che gli Scolasti ci completarono senza toglierla
dalla confusione, si distingue dall’ontologia artificiale o scientifica come la
logica si distingue dai procedimenti naturali dell’intelletto (/bid., $ 23;
Log., $ 11). Essa non è un semplice dizionario filosofico ma una scienza
dimostrativa, il cui oggetto è costituito dalle determinazioni che appartengono
a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto determinate condizioni (Onf., $
25). In tal modo, per opera di Wolff, faceva il suo ingresso nell’organismo
tradizionale della M. ontologica una esigenza descrittiva ed empiristica che
tendeva ad eliminare il contrasto tra l’apriorismo deduttivo della M. e
l’esperienza. In base alla stessa esigenza, Wolff distingueva una psicologia
empirica « nella quale si stabiliscono in base all'esperienza i princìpi che
possono rendere ragione di ciò che può accadere nell'anima umana» (Log., Disc.
Prel., $ 111) dalla psicologia reazionale che è la « scienza di tutte le cose
che sono possibili nell’anima umana + (/bid., $ 58). Dall'altro lato Wolff
distingueva dall’ontologia le tre discipline M. speciali, cioè la teologia, la
psicologia e la fisica (di cui è parte la cosmologia) rispettivamente dirette a
conoscere Dio, l’anima umana e le cose naturali (Ibid., 8 55-59). L’ontologia
wolfiana rendeva possibile un’interpretazione empirica di questa scienza per la
quale essa fu talora difesa dagli stessi illuministi. Diceva, per es.,
D'Alembert: « Poichè sia gli esseri spirituali sia quelli materiali hanno
proprietà generali in comune, come l’esistenza, la possibilità, la durata, è
giusto che questo ramo della filosofia, dal quale tutti gli altri rami prendono
in parte i loro princìpi, si denomini ontologia ossia scienza dell’essere o M.
generale » (Discours préliminaire, $ 7, in @Euvres, ed. Condorcet,! pag. 115).
In questo senso d’Alembert si fece sostenitore di una nuova M. cioè di « una M.
che sia creata più per noi e si tenga più vicina e più attaccata alla terra,
una M. cioè le cui applicazioni si estendano alle scienze naturali e ai diversi
rami della matematica. Non esiste infatti in senso stretto alcuna scienza che
non abbia la sua M., se con ciò si intendono i princìpi generali su cui è
costruita una determinata dottrina e che sono, per così dire, i germi di tutte
le verità particolari » (Éclaircissement, $ 16). In un senso assai vicino a
questo l’ontologia veniva intesa da Crusius (Entwurf der notwendigen
Vernunftwahrheiten, 1745, $ 1) e da Lambert (Architektonik, 1771, $ 43). Con
una più radicale rinuncia al caMETAFISICA rattere sistematico della scienza,
un’ontologia descrittiva o «denotativa» che mentre si limiti «a osservare e
registrare i tratti dell’esistenza » prenda anche in considerazione lo
strumento di questa osservazione cioè la riflessione umana e le condizioni che
la sollecitano, può vedersi ancora oggi difesa (DeWEY, Experience and Nature,
1926, cap. 2; J. H. RANDALL, Nature and Historical Experience, 1958, cap. 5).
3° Il terzo concetto della M. come gnoseologia è quello espresso da Kant.
Veramente, l'origine di questo concetto dev’essere riconosciuta nella nozione
di filosofia prima di Bacone: «una scienza universale, che sia madre di tutte
le altre e costituisca nel progresso delle dottrine la parte della via comune,
prima che le vie si separino e disgiungano ». Tale scienza doveva essere,
secondo Bacone, «il ricettacolo degli assiomi che non sono propri delle scienze
particolari ma spettano in comune a parecchie di esse » (De Augm. scient., III,
1). Questo ‘ concetto di filosofia prima ha una sua propria storia che è quella
del concetto positivistico della filosofia; ma con esso il concetto kantiano
della M. ha in comune l’accento posto sui princlpi, più che sull’oggetto, della
scienza. La M. è, secondo Kant lo studio di quelle forme o princìpi conoscitivi
che, per essere costitutivi della ragione umana, anzi di ogni ragione finita in
generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; e dal cui esame pertanto
possono ricavarsi i princìpi generali di ciascuna scienza. Kant esponeva questo
concetto della M. nelle ultime pagine della Critica della Ragion Pura e
precisamente nel capitolo sull’architettura. La M. può intendersi, dice Kant, o
come la seconda parte della « filosofia della ragion pura» e cioè come «il
sistema della ragion pura (scienza), come l’intera conoscenza filosofica (sia
vera che apparente) che deriva dalla ragion pura in connessione sistematica »:
e in questo senso essa esclude da sè la parte preliminare o propedeutica della
filosofia della ragion pura, cioè la critica. Oppure può intendersi come
l’intera filosofia della ragion pura compresa la critica. È in questo secondo
senso, che Kant chiamava ontologia la M. nello scritto del 1793 con cui
rispondeva al tema proposto dall’Accademia di Berlino: « Quali sono i progressi
reali che la M. ha fatto dal tempo di Leibniz e Wolff? ». Ontologia, M. e
critica coincidono, da questo punto di vista: « La critica, e solo la critica,
diceva Kant nei Prolegomeni, contiene il disegno ben verificato e saggiato
d’una M. scientifica, come pure il materiale necessario per realizzarlo. Per
qualunque altra via o mezzo, essa è impossibile » (Prof, A, 190). La M.
kantiana si contrapponeva così come M. « scientifica » o « critica » alla M.
dogmatica tradizionale, che Kant METAFISICA sottometteva a critica nelle tre
parti distinte da Wolff, teologia, psicologia e cosmologia. Ma nè nella
dialettica trascendentale nè altrove Kant ha sottoposto a critica la prima
parte fondamentale della M. wolfiana, cioè l’ontologia. In realtà il concetto
fondamentale dell’ontologia rimaneva valido per Kant con la correzione del
carattere critico o gnoseologico di essa cioè col passaggio dal significato
realistico al significato soggettivistico della disciplina in questione. Della
M. critica od ontologica fanno parte, secondo Kant, una M. della natura e una
M. dei costumi. La M. della natura comprende «tutti i principi razionali puri
derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione della matematica) della
scienza teoretica di tutte le cose» La M. dei costumi comprende «i principi che
determinano a priori e rendono necessario il fare o il non fare» ed è perciò la
«morale pura» (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. 3). Il carattere proprio
della M. kantiana è la sua pretesa di essere «una scienza di concetti puri»
cioè una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute
indipendentemente dalla esperienza, sul fondamento delle strutture razionali
della mente umana. Da questo punto di vista, la continuazione storica di essa
nella filosofia contemporanea è l’ontologia fenomenologica di Husserl. A
differenza di Kant, Husserl prende in considerazione non già i princìpi
generalissimi, da ritenersi come costitutivi della ragione in generale, ma i
principi che costituiscono il fondamento di determinati campi del sapere cioè
di una scienza o di un gruppo di scienze e che perciò chiama materiali. «Ogni
oggetto empirico concreto, egli dice, si inserisce con la sua essenza materiale
in una specie materiale superiore, in una regione di oggetti empirici.
All’essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica regionale o, come
possiamo anche dire, una ontologia regionale». Pertanto « ogni scienza di dati
di fatto o di esperienza ha i suoi fondamenti teoretici essenziali in ontologie
regionali... Così, ad es., a tutte le discipline naturalistiche corrisponde la
scienza eidetica della natura fisica in generale (l’ontologia della natura) in
quanto alla natura fattizia corrisponde un eidos puramente apprendibile, la ‘
essenza natura in generale, con inclusa una massa infinita di rapporti
essenziali + (Ideen, I, $ 9). L’affermazione del carattere « materiale» cioè
determinato o specifico dei princìpi ontologici, che si riferiscono sempre ad
un determinato genere di essenze o campo del sapere, porta così Husserl a
stabilire il carattere « regionale » dell’ontologia. Dal suo punto di vista,
l’ontologia generale o formale non è che la logica pura, che è «la scienza
eidetica dell’oggetto in generale » (Ibid., 579 $ 10) (v. MATHESIS UNIVERSALIS).
Ad una ontologia generale, invece, è ritornato N. Hartmann, che ha in comune
con Husserl il presupposto fenomenologico. L'oggetto dell’ontologia è, secondo
Hartmann, l’ente non l’essere; giacchè l’essere è unicamente «ciò che v’è di
comune in ogni ente». L'essere e l’ente si distinguono come la verità e il
vero, la realtà e il reale e così via: ci sono molte cose vere, ma l’essere
della verità è uno solo. Analogamente l’essere dell’ente è uno solo benchè
l’ente possa essere vario e le differenziazioni dell’essere appartengono allo
sviluppo dell’ontologia e non al suo inizio, che verte su ciò che è comune e
universale (Grundiegung der Ontologie, 1935, pag. 42). L’impostazione
schiettamente realistica della ontologia di Hartmann sembra ravvicinarla a quella
tradizionale, specialmente a quella di Wolff; ma in realtà ciò che costituisce
l'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, la datità dell’essere cioè il
modo in cui l’essere è dato (/bid., pag. 48) all’esperienza fenomenologica:
sicchè la sua ontologia fa parte integrante della corrente fenomenologica. E
alla stessa corrente appartiene l’ontologia di Heidegger intesa come la
determinazione del senso dell’essere a partire dall’essere di quell’ente che
pone le domande e formula le risposte: cioè dell’uomo. Heidegger riafferma il
carattere primario o privilegiato dell’ontologia. « Il problema dell’essere
tende non solo alla determinazione delle condizioni @ priori della possibilità
delle scienze che studiano l’ente in quanto ente così e così e che perciò si muovono
già sempre in una comprensione dell’essere, ma bensì anche alla determinazione
delle condizioni e della possibilità delle ontologie che precedono e fondano le
scienze ontiche [cioè empiriche] » (Sein und Zeit, $ 3). Tutte le dottrine cui
si è fatto riferimento finora (tranne quelle di Dewey e Randall) ammettono il
presupposto sul quale la M. è stata tradizionalmente imperniata e cadono perciò
nei limiti del concetto di essa. Tale presupposto è il carattere necessario e
primario della M.: necessario in quanto ha per oggetto l’oggetto necessario di
tutte le altre scienze; e primario perchè è, come tale, a fondamento di tutte
le scienze. Ciò che della M. rimane nella filosofia contemporanea — e vi rimane
non come mera sopravvivenza ma come parte viva dell'indagine — non possiede più
questi caratteri tradizionali. La M. è difatti presente e operante nella
filosofia contemporanea nella forma di due problemi connessi: 1° il problema
del significato o dei significati di esistenza nel linguaggio delle diverse
scienze; 2° il problema delle relazioni fra le diverse scienze e delle indagini
su oggetti che cadono nei punti di intersezioni o di incontro fra di esse. 580
1° Rispetto al primo problema, si parla oggi esplicitamente di ontologia, nel
senso di un impegno ad usare in un determinato senso il verbo essere e i suoi
sinonimi. Dice, ad es., Quine: « La nostra accettazione di una ontologia è
simile, in linea di principio, alla nostra accettazione di una teoria
scientifica cioè di un sistema di fisica: noi adottiamo, almeno in quanto siamo
ragionevoli, lo schema concettuale più semplice nel quale i disordinati
frammenti dell’esperienza grezza possono essere adattati e distribuiti. La
nostra ontologia è determinata una volta che abbiamo fissato lo schema concettuale
totale per adattarvi la scienza nel suo senso più vasto; e le considerazioni
che determinano la costruzione ragionevole di una parte qualsiasi di quello
schema concettuale, per es., la parte biologica o fisica, non sono differenti,
in ispecie, dalle considerazioni che determinano la ragionevole costruzione
dell’intero schema » (From a Logical Point of View, pag. 16-17). Carnap, pure
obiettando contro l’uso della parola « ontologia +, in quanto sembra faccia
riferimento a convinzioni metafisiche, mentre si tratta in realtà di una
pratica decisione «come la scelta di uno strumento +, ha sostanzialmente
confermato il punto di vista di Quine (Meaning and Necessity, $ 10). In questo
senso si parla frequentemente di ontologia nella logica e nella metodologia contemporanea.
2° Rispetto al secondo problema, l’erede della M. tradizionale è la metodologia
dalla quale vengono abitualmente dibattuti i problemi concernenti i rapporti
fra le singole scienze e le questioni sorgenti dalle interferenze marginali tra
le scienze stesse. Certamente la metodologia non ha ereditato la pretesa di
stabilire una enciclopedia delle scienze che definisca, una volta per tutte, i
compiti e i limiti di ciascuna; e perciò non rivendica la dignità di arbitra o
regina fra le scienze. Si tratta piuttosto di ordinare via via l'universo
concettuale nel modo più semplice e comodo: cioè nel modo, che, mentre
favorisca la comunicazione continua tra una scienza e l’altra, non attenti alla
indispensabile autonomia di ciascuna scienza. Si tratta, a questo scopo, di
problematizzare, a ogni fase della ricerca scientifica, i rapporti tra le varie
discipline o i vari indirizzi di ricerca sia a vantaggio dello sviluppo delle
discipline singole, sia a vantaggio dell’uso che di esse può o deve fare
l’uomo: cioè della filosofia. METAFORA (gr. uetapopd; ingl. Metaphor; franc.
Métaphore; ted. Metapher). Trasferimento di significato. Dice Aristotele: « La
M. consiste nel dare ad una cosa un nome che appartiene a un’altra cosa:
trasferimento che può effettuarsi dal genere alla specie o dalla specie al
genere o da specie a specie o sulla base di una analogia » (Poet., 21, METAFORA
1457 b 7). La nozione di M. è stata talora adoperata per determinare la natura
del linguaggio in generale (v. Linguaggio). Come particolare strumento
linguistico, la sua definizione non è diversa, oggi, da quella data da
Aristotele. Per la M. mitica dei popoli primitivi che è sostanzialmente
l’identificazione dell’espressione metaforica con l’oggetto, cfr. CassiRER,
Language and Myth, 1946. METAGEOMETRIA (ingl. Mesageometry; franc.
Métagéométrie; ted. Metageometrie). La geometria non euclidea: cioè ogni
geometria che parta da assiomi diversi da quelli di Euclide (v. GeoMETRIA).
METALINGUAGGIO (ingl. Metalanguage; franc. Métalangage). Quando D. Hilbert
introdusse la concezione delle matematiche come sistemi meramente
sintattico-deduttivi (sistemi arbitrari di simboli nei quali, dati certi
assiomi fondamentali e certe regole operative, si procede per via meramente
simbolica, operando cioè sulle formule costituenti gli assiomi secondo le date
regole operative, a trarne le « conseguenze» senza riguardo ai possibili od
eventuali significati extrasimbolici, intuitivi o altro, di quegli stessi
simboli), si venne a porre il problema di controllare la non-contraddittorietà
dei sistemi di assiomi delle discipline matematiche così formalizzate, nonchè
di controllare la correttezza delle singole derivazioni (deduzioni). Poichè,
secondo un noto teorema (di Gédel) non si può provare la non-contraddittorietà
di un sistema matematico formalizzato entro il sistema stesso, D. Hilbert e la
sua scuola ricorsero alla creazione di particolari sistemi per il controllo dei
sistemi simbolici (cioè delle singole discipline matematiche: algebra,
geometrie, ecc.). Tali sistemi di controllo furono detti mefamatematici. Per
analogia, o meglio per estensione del termine, i logici polacchi e Carnap
chiamarono M. ogni sistema linguistico (per es., il linguaggio della Logica,
della grammatica, ecc.) che non porta su denotata extralinguistici, ma che
semanticamente porta su simboli e fatti linguistici; e mefalinguistica ogni
espressione che parla non di cose (reali o ideali), bensì di parole o discorsi
(per es.: «‘ Mario” è un nome proprio di persona maschile singolare»; « ‘accelerazione
” è un termine della Fisica »). La distinzione tra linguaggio e M. acquista
moltissima importanza nell’analisi filosofica neopositivistica, essendo uno dei
fondamenti della critica alla metafisica speculativa, nella quale espressioni
metalinguistiche vengono sistematicamente scambiate per espressioni
linguistiche (v. LINGUAGGIO-OGGETTO). G. P. METALOGICO (ingl. Meralogical;
franc. Métalogique; ted. Metalogisch). 1. Questo termine da Carnap in poi
(Logische Syntax der Sprache, 1934; trad. ingl., 1937; $ 2) ha lo stesso
significato che METODO « sintattico », cioè caratterizza lo studio sistematico
delle regole formali di un linguaggio (v. SINTASSI). 2. Schopenhauer chiamò «
verità metalogica » quella propria dei quattro princìpi del pensiero cioè princìpi
d’Identità, di Contraddizione, del Terzo Escluso e di Ragion Sufficiente (Uber
die vierfache Wurzel des Satzen vom zureichenden Grunde, 1813, $ 33). 3.
Metalogicon è il titolo di un’opera di Giovanni di Salisbury (sec. xn): avrebbe
dovuto significare « difesa della logica ». METAMATEMATICO (ingl.
Metamathematic; franc. Métamathématique; ted. Metamathematisch). Lo stesso che
sintattico o metalogico. Nel senso di Hilbert, la teoria della prova cioè la
formalizzazione della prova matematica mediante un sistema logistico (v.
PROVA). METAMORALE (ingl. Metamoral; franc. Métamorale). Lo studio dei
fondamenti della morale. Oppure: lo studio delle strutture logico-linguistiche
della morale. METAPSICHICA (ingl. Psychical Research; franc. Métapsychique;
ted. Parapsychologie, Metapsychik). L’esame spregiudicato, e con intendimento
scientifico, di quelle facoltà umane, reali o immaginarie, che risultano
inesplicabili sulla base delle ipotesi generalmente riconosciute. Questa è
almeno la definizione di questa scienza data dai suoi più seri cultori. I
fenomeni che essa investiga cadono in due categorie fondamentali: i cosiddetti
fenomeni mentali, che consistono in informazioni acquistate con mezzi
ultra-normali o fenomeni di percezione extra-sensoriale; i fenomeni fisici 0
prodigi, per es., oggetti che fluttuano nell’aria, colpi, rumori, ecc. La M.
cerca di stabilire la realtà di tali fenomeni e di presentare opportune ipotesi
per la loro spiegazione. Cfr. D. J. WEST, Psychical Research Today, London,
1954. METASTORICO. Si indicano con questo termine i valori eterni che la storia
tende a realizzare e che pertanto si assume che costituiscano la sua struttura
o il piano provvidenziale che la regge (v. STORIA). METEMPIRICO (ingl.
Metempirical; francese Metempirique; ted. Metempirisch). Ciò che è al di là dei
limiti dell’esperienza possibile (LEWES, Problems of Life and Mind, 1874, I,
pag. 17). METEMPSICOSI (ingl. Merempsychosis; francese Métempsychose; ted.
Metempsychose). La credenza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo.
La credenza è antichissima e di origine orientale, ma il termine compare
soltanto negli scrittori dei primi tempi dell’epoca cristiana. Plotino usa
talvolta quello di metensomatosi (Enn., II, 9, 6, 13), che sarebbe più esatto.
La credenza diffusa dalle sètte degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da
Empedocle (Fr., 115, 117, 119), da Platone S81 (Tim., 49 sgg.; Rep., X, 614
sgg.) da Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico Basilide (BUONAIUTI,
Frammenti gnostici, pag. 63 sgg.). Cfr. E. ROHDE, Psyche, 1890-94; trad. ital.,
Bari, 1916. METENSOMATOSI. V. METEMPSICOSI. METESSI (gr. pé0ek.c).
Partecipazione. La parola fu usata da Platone per indicare uno dei modi
possibili del rapporto tra le cose sensibili e le idee (Parm., 132 d). Gli
altri modi in cui Platone concepì lo stesso rapporto furono quelli della mimesi
o imitazione (Rep., 597 a; Tim., S0c) e della presenza dell’idea nelle cose
(Fed., 100 d). Il termine è stato usato in questa forma da Gioberti nella
Protologia per designare il ciclo di ritorno del mondo a Dio, che culmina in un
rinnovamento finale o palingenesi (Prot., II, pag. 107). Gioberti adopera lo
stesso termine (come quello di mimesi, con cui indica l'allontanamento del
mondo da Dio) per caratterizzare un termine di varie coppie di cose o enti del
mondo: per es., il corpo è la mimesi, l’anima è la M., la femmina è la mimesi,
il maschio è la M., ecc. (/bid., pag. 319). METODICA. Così talora è stato
chiamato la dottrina del metodo pedagogico: per es., RAYNERI, Primi principi di
metodica (1850); RosMiInI, Del Principio supremo della metodica (1857); ecc.
METODO (gr. ué0080c; lat. Methodus; ingl. Method; franc. Méthode; ted.
Methode). Il termine ha due significati fondamentali: 1° ogni ricerca o
orientamento di ricerca; 2° una particolare tecnica di ricerca. Il primo
significato non si distingue da quello di «indagine» o « dottrina ». Il secondo
significato è più ristretto e indica un procedimento di indagine ordinato,
ripetibile e autocorreggibile, che garantisca il conseguimento di risultati
validi. AI primo significato vanno riferite espressioni come «il M. hegeliano
», « il M. dialettico », ecc. o anche «il M. geometrico », « il M. sperimentale
», ecc. AI secondo significato vanno riferite espressioni come «il M.
sillogistico », «il M. dei residui » e in generale quelle che designano
particolari procedimenti di indagine o di controllo. Sia Platone (Sof., 218 d;
Fed., 270c) che Aristotele (Po/., 1289a 26; Er. Nic., 1129a 6) adoperano il
termine in entrambi i significati. Nell’uso moderno e contemporaneo prevale il
secondo significato. Ma bisogna osservare che non c'è dottrina o teoria, sia
scientifica che filosofica, che non possa essere considerata sotto l'aspetto
del suo ordine procedurale e perciò detta metodo. Cartesio stesso, ad es.,
espose la stesso contenuto del Discorso del metodo nella forma delle
Meditazioni metafisiche e dei Principi di filosofia: ciò che per un verso era
M., per un altro era dottrina. E in generale non c’è dottrina che non possa
essere considerata e chiamata M., se vista come ordine o procedura di ricerca.
Per582 tanto la classificazione dei M. filosofici e scientifici sarebbe
senz’altro una classificazione delle dottrine rispettive. Per le dottrine che
più frequentemente o a maggior ragione sono dette M., v. le voci rispettive:
ANALISI; ASSIOMATIZZAZIONE; (CONCOMITANZA} (CONCORDANZA; DEDUZIONE; DIALETTICA;
DIFFERENZA; DIMOSTRAZIONE; INDUZIONE; PROVA; ResIpUI; SiLLogIsMo; SINTESI; ed
inoltre le voci dedicate alle singole discipline: FILosoFIA; FISICA; GroMETRIA;
LoGIcA; MATEMATICA; SCIENZA; ecc. METODOLOGIA (ingl. Merhodology; francese
Méthodologie; ted. Methodologie, Methodenlehre). Sotto questo termine si
possono intendere quattro cose diverse: 1° la logica o la parte della logica
che studia i metodi; 2° la logica trascendentale applicata; 3° l’insieme dei
procedimenti metodici di una scienza o di più scienze; 4° l’analisi filosofica
di tali procedimenti. 1° Come M., la logica è stata intesa nell’età
post-cartesiana. Dice la Logica di Portoreale: « La logica è l’arte di ben
condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose, tanto per istruire se
stessi quanto per istruire gli altri ». Nello stesso senso Wolff definiva la
logica come «la scienza di dirigere la facoltà conoscitiva nella conoscenza
della verità » (Log., $ 1). Questo concetto della logica si può vedere espresso
anche nella definizione che Stuart Mill dà di essa come «la scienza delle
operazioni dell'intelletto che servono alla valutazione della prova» (Logic,
Intr., $ 7). Dall'altro lato la M. è stata anche considerata come una parte
della logica. Pietro Ramo distingueva la logica in quattro parti e precisamente
nella dottrina del concetto, del giudizio, del ragionamento e del metodo
(Dialecticae Institutiones, 1543): e questa partizione accettata dalla Logica
di Portoreale è rimasta tradizionale ed è stata costantemente seguita dalla
logica filosofica del sec. xrx (v. per tutti BENNO ERDMANN, Logik, 1892, I, $
7). Da Wolff (Log., $ SOS sgg.) in poi la dottrina del metodo si chiamò spesso
logica pratica. 2° Come logica trascendentale applicata o « pratica », la M. è
stata intesa da Kant. Essa costituisce la seconda parte principale della
Critica della Ragion Pura la quale ha per iscopo «la determinazione delle
condizioni formali di un sistema completo della ragion pura»; e comprende una
disciplina, un canone, un’architettonica e infine una storia della ragion pura.
Kant stesso mette a raffronto questa parte della sua opera con la logica
formale applicata o pratica: « Dal punto di vista trascendentale, egli dice,
faremo quello che nelle scuole si è cercato di fare sotto il nome di logica
pratica, rispetto all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male
perchè, non limitandosi a un METODOLOGIA modo speciale di conoscenza
intellettuale (per es., a quello puro) e neanche a certi oggetti, la logica
generale non può far altro che proporre titoli di metodi possibili e di
espressioni tecniche» (Crif. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo, Intr.). 3° Col
nome di M. viene oggi spesso indicato l’insieme dei procedimenti tecnici di
accertamento o di controllo in possesso di una determinata disciplina o gruppo
di discipline. In questo senso si parla, per es., della « M. delle scienze
naturali + o della «M. storiografica». In questo senso la M. è elaborata all’interno
di una disciplina scientifica o di un gruppo di discipline e non ha altro scopo
se non quello di garantire alle discipline in questione l’uso sempre più
efficace delle tecniche di procedura di cui dispongono. 4° Dall’altro lato, e
in stretta connessione con la M. nel senso precedente, la M. si viene
costituendo come disciplina filosofica relativamente autonoma e destinata
all’analisi delle tecniche di ricerca adoperate in una o più scienze. L'oggetto
della M. in questo senso non sono i « metodi» delle scienze cioè le grandi e
approssimative classificazioni (analisi, sintesi, induzione, deduzione,
esperimento, ecc.) in cui cadono le recniche della ricerca scientifica, ma
proprio soltanto queste tecniche, considerate nelle loro strutture specifiche e
nelle condizioni che ne rendono possibile l’uso. Tali tecniche comprendono
ovviamente ogni procedura linguistica od operativa, ogni concetto come ogni
strumento, di cui una o più discipline si avvalgono per l’acquisizione e il
controllo dei loro risultati. In questo senso, la M. è l’erede: a) della
metafisica, perchè ad essa competono i problemi concernenti i rapporti tra le
scienze e le zone di interferenza (e talora di contrasto) tra scienze diverse;
5) della gnoseologia, in quanto alla considerazione della «conoscenza + intesa
come forma globale dell’attività umana o dello Spirito in generale, sostituisce
la considerazione dei singoli procedimenti conoscitivi in uso in uno o più
campi della ricerca scientifica. La M. in questo senso si chiama anche « critica
delle scienze ». Per quanto il lavoro fatto da essa in questa direzione,
iniziato dai primi decenni del secolo, sia già ingente, manca finora una
precisa determinazione del compito e degli orientamenti di questa disciplina.
Cfr. tuttavia: Autori vari, Fondamenti logici della scienza, Torino, 1947; Id.,
Saggi di critica delle scienzeTorino, 1950: entrambi a cura del Centro di Studi
Metodologici di Torino. MEZZO (ingl. Means; franc. Moyen; ted. Mittel). 1.
Tutto ciò che rende possibile il conseguimento di un fine, l’esecuzione di un
proposito o la realizzazione di un progetto. Su rapporto tra M. e fine, v.
VALORE. MIRACOLO 2. Ambiente e specialmente ambiente biologico. In questo senso
la parola corrisponde al francese milieu che è stato cominciato ad usare in
questo significato verso la metà del secolo scorso (vedi AMBIENTE).
MICIURINISMO. V. GENETICA. MICROCOSMO (gr. puixpds xbopoc; lat. Microcosmus;
ingl. Microcosm; franc. Microcosme; ted. Mikrokosmos). La corrispondenza tra il
macrocosmo cioè il mondo, e il M., cioè l’animale e talvolta l’uomo, è un tema
filosofico antico nato dalla tendenza a interpretare l’intero universo sul
fondamento di quell’universo minore che l’uomo è a se stesso. Aristotele così
esponeva questo principio di interpretazione a proposito della possibilità del
movimento autonomo: « Se questo è possibile nell’animale, che cosa impedisce
che accada anche nel mondo? Se accade nel M., può accadere anche nel cosmo
grande; e se accade nel cosmo, può accadere anche nell’infinito, se è possibile
che l’infinito si muova o stia in quiete nella sua totalità » (Fis., VIII, 2,
252 b 25). Ora questa è un’obiezione che Aristotele rivolge a se stesso e che
confuta negando la possibilità del movimento autonomo dell'universo e
ammettendo, perciò, il primo motore. La corrispondenza tra M. e macrocosmo non
è pertanto un principio a cui Aristotele faccia appello. Ma già ai tempi di
Aristotele era un principio antico giacchè esso era a fondamento della
cosmogonia degli Orfici e precisamente della dottrina che il mondo è nato da un
uovo: difatti è nato da un uovo perchè è un animale (cfr. A. OLIVIERI, Civiltà
greca nell’Italia meridionale, Napoli, 1931, pag. 23 sgg). Platone stesso
chiamò il mondo «un grande animale» (7im., 30 b) fornito perciò d’anima e intelligenza,
assumendo come realtà letterale una corrispondenza metodologica; e questo fu il
senso in cui solitamente tale corrispondenza fu assunta dopo di lui dagli
Stoici, dai Neo-pitagorici e in generale da tutti coloro che insistettero sul
carattere animato dell’universo. La corrispondenza tra M. e macrocosmo fu uno
dei temi preferiti della letteratura magica. La magia infatti intende dominare
il mondo naturale o incantandolo o addomesticandolo come si fa con un animale;
e il suo presupposto è precisamente questo, che il mondo sia un animale e che
tutti i suoi aspetti siano controllabili con procedimenti che si rivolgono ad
essi come ad attività viventi. La corrispondenza M.-macrocosmo fu pertanto uno
dei temi obbligati della magia rinascimentale. Cornelio Agrippa affermava che
l’uomo raccoglie in sè, tutto ciò che è disseminato nelle cose e che questo gli
consente di conoscere la forza che tiene avvinto il mondo e di servirsene per
operare azioni miracolose (De Occulta philosophia, I, 33). Osservazioni 583 analoghe
si ripetono in tutti gli scrittori del Rinascimento che ammettono la magia (per
es., CAMPANELLA, De Sensu rerum, I, 10). Teofrasto Paracelso impiantava proprio
sulla corrispondenza tra macrocosmo e M. l’intera scienza medica; e perciò
esigeva che questa si fondasse su tutte le scienze che studiano la natura
dell’universo e cioè sulla teologia, la filosofia, l’astronomia e l’alchimia
(De Philosophia occulta, II, pag. 289). Con l’abbandono, da parte della
scienza, del principio antropomorfico nell’interpretazione della natura, la
corrispondenza tra M. e macrocosmo ha cessato di essere una guida utile della
ricerca ed è apparsa piuttosto come un pregiudizio. Lo stesso Lotze che ha
intitolato M. la sua opera fondamentale non ammette quella corrispondenza se
non nella forma del condizionamento che il mondo esercita sull’uomo e cerca di
restringerne la portata in limiti ristrettissimi (Mikrokosmus, VI, K, 1; trad.
ital., II, pag. 312 sgg.). MILLENARISMO. V. Chitiasmo. MIMAMSA. Uno dei grandi
sistemi filosofici dell’India antica, la cui fondazione viene attribuita a
Jaimini. Esso è sostanzialmente una interpretazione della dottrina dei vedanta
(v.) e vuol essere una tecnica della liberazione. Si oppone al concetto di un
Dio creatore e ammette la realtà della materia e delle anime (cfr. G. Tucci,
Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 127 sgg.). MIMESI. V. MeETESSI.
MINIMUM. Così Lucrezio chiamò l’atomo (De nat. rer., I, 620). Cusano insisteva
sulla coincidenza del massimo e del minimo in Dio (De docta ignor., I, 4) e
Giordano Bruno usò la parola nel senso di Cusano (De minimo triplici et
mensura, I, 7) (v. ATOMO). MIRACOLO (gr. vépas; lat. Miraculum; inglese Miracle;
franc. Miracle; ted. Wunder). Un fatto
eccezionale o inspiegabile, assunto come segno o manifestazione di una volontà
divina. Tale era la nozione che del M. si aveva nell’antichità classica (per
es., Iliade, II, 234; Odissea, III, 173; XII, 394; ecc.); e tale è la nozione
che si ebbe di esso nel Medioevo e che viene così espressa da S. Tommaso: « Nel
M. possono scorgersi due cose: Una è quel che accade e che è certo qualcosa che
eccede la facoltà della natura; e in questo senso i M. si dicono potenze
(virtutes). La seconda è ciò per cui i M. accadono cioè la manifestazione di
qualcosa di soprannaturale; e in questo senso comunemente i M. si dicono segni,
mentre si dicono portenti per la loro eccellenza e prodigi in quanto mostrano
qualcosa da lontano » (S. 7à., II, 2, q. 178, a. 1, ad 3°). Quando, come
accadde con l’averroismo medievale, con l’aristotelismo rinascimentale e
special584 mente con il primo affermarsi della scienza moderna, si cominciò ad
insistere sull’ordine necessario della natura, il M. cominciò ad essere
considerato come una « eccezione + a quest’ordine perciò negato come tale o ridotto
ad evento insolito ma conforme all’ordine naturale. Nel libro Sugli
Incantesimi, Pomponazzi, ad es., negava che i M. fossero eventi contrari alla
natura ed estranei all’ordine del mondo; e li ammetteva solo come fatti
inconsueti e rarissimi, che non accadono secondo l’andamento abituale della
natura ma ad intervalli lunghissimi: fatti tuttavia che rientrano nell’ordine
naturale, dal quale sono anzi determinati (De Incantationibus, 12). Spinoza a
sua volta affermava che «il M., sia esso contro natura, sia esso al di sopra
della natura, è una mera assurdità e che per M., nella Sacra Scrittura, non è
possibile intendere che un'opera della natura la quale superi l’intelligenza
degli uomini o si creda che la superi» (7ractatus teologicopoliticus, cap. 6).
Spinoza riteneva che Dio si conoscesse meglio dall’ordine e dalla necessità
della natura che non da pretesi miracoli. Ma anche Hume, che parte da una
concezione tutta diversa, nega la possibilità del miracolo. * Un M., egli dice,
è una violazione delle leggi della natura e siccome un’esperienza fissa e
inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova contro il M., tratta dalla
stessa natura del fatto, è così completa quanto ci si può immaginare che sia un
argomento tratto dall’esperienza » (/nq. Conc. Underst., X, 1). Tutte le
limitazioni che il concetto di legge naturale ha subito da Hume in poi, non
hanno reso più facile la nozione di M. dal punto di vista della scienza e della
filosofia. Ma forse si tratta di una nozione che, dal punto di vista della religione,
non deve essere resa più facile. Dice Kierkegaard: « È in fondo ugualmente
assurdo tanto (e lo fa anche Lessing pubblicando i Frammenti di Wolfenbatteln)
aguzzare il proprio ingegno per provare l'assurdità, l’inverosimiglianza del M.
e poi, dal fatto che è inverosimile, concludere: ergo, ciò non è M. (ma sarebbe
poi un M. se fosse verosimile?), quanto (ed è questa la sapienza della
speculazione) sforzarsi di comprendere o di rendere comprensibile il M.,
concludendo infine: ergo, è un miracolo. Un M. comprensibile non è più un
miracolo. No, il M. rimanga quel che è, oggetto di fede» (Diario, X3, A, 373).
Da questo punto di vista cadono, ovviamente, le obiezioni contro il M.; ma
dall’altro lato il M. cessa di essere a qualsiasi titolo oggetto della ricerca
scientifica e filosofica. MISOLOGIA (gr. puoodoyia; ingl. Misology; franc.
Misologie; ted. Misologie). Termine creato da Platone per indicare l’odio dei
ragionamenti. Secondo Platone, «la M. nasce allo stesso modo MISOLOGIA della
misantropia ». Come la misantropia nasce dall’aver avuto fiducia in qualcuno
senza discernimento, così la M. nasce dall’aver creduto, senza possedere l’arte
del ragionamento, alla verità di ragionamenti che poi sono apparsi falsi (Fed.,
89 d-90 b). Secondo Kant la M. nasce quando si affida alla ragione il compito
di conseguire «il godimento della vita e la felicità»: compito al quale essa è
in realtà inadatta giacchè il suo destino, come facoltà pratica, è quello di
condurre alla moralità (Grundlegune der Metaphysik der Sitten, I). Secondo
Hegel una forma di M. è il sapere immediato (Enc., $ 11). MISTERO (gr. puothpioy; lat.
Mysterium; inglese Mystery; franc. Mystère;
ted. Mysterium). Nel senso in cui la parola cominciò ad essere usata dagli
scrittori ermetici dell’antichità (per es., Corpus Hermeticum, I, 16) significa
una verità rivelata da Dio che va mantenuta segreta. La parola passò poi,
nell’uso cristiano, a indicare qualcosa di incomprensibile o di significato
oscuro o nascosto. Jacob Bòhme chiamava in questo senso Dio Mysterium magnum (è
il titolo di una sua opera del 1623). Dai moderni la parola viene adoperata: 1°
nel senso di verità di fede indimostrabile, quindi in un certo senso
incomprensibile: per es., «i M. della Trinità e dell’Incarnazione +; 2° nel
senso di un problema che si ritiene insolubile o la cui soluzione si
attribuisce al dominio religioso o mistico: per es., «il M. dell’essere ». Non
mancano anche oggi i filosofi che, come già Spencer (First Princ., $ 14),
ritengono che il M. sia il dominio proprio della religione; 3° nel senso di un
qualsiasi problema di difficile o non immediata soluzione; e in questo senso
anche un problema poliziesco è un mistero. MISTICISMO (ingl. Mysticism; franc.
Mysticisme; ted. Mysticismus). Ogni dottrina che ammetta una comunicazione
diretta tra l’uomo e Dio. La parola mistica cominciò ad essere usata in questo
senso negli scritti di Dionigi l’Areopagita, che appartengono alla seconda metà
del v secolo e si ispirano al neoplatonico Proclo. In tali scritti viene
accentuato il carattere mistico del neoplatonismo originale, cioè della
dottrina di Plotino. Per far ciò, si insiste da un lato sull’impossibilità di
giungere a Dio o di realizzare una qualsiasi comunicazione con lui mediante i
procedimenti ordinari del sapere umano; dal punto di vista del quale non si può
far altro che definire Dio negativamente (teologia negativa). Dall'altro, si
insiste su un rapporto originario, intimo e privato tra l’uomo e Dio: rapporto
in virtù del quale l’uomo può ritornare a Dio e congiungersi infine con lui in
un atto supremo. Quest’atto è l’estasi che Dionigi considera come la
deificazione dell’uomo. MISTIFICAZIONE Lo schema di ogni dottrina mistica è
questo, che il falso Dionigi ricavò dagli scritti neo-platonici e che contiene
anche molte tracce delle credenze orientali cui questi dovevano una parte della
loro ispirazione. Il M. medievale si pose talvolta come un'alternativa
escludente la via della ricerca razionale: tale fu in Bernardo di Chiaravalle
(secolo xm): nel quale la difesa della via mistica si accompagna alla polemica
contro la filosofia e in generale l’uso della ragione. Altra volta, invece, la
via mistica e la via della speculazione scolastica sono entrambe ammesse e
riconosciute: come fecero i Vittorini (Ugo, Riccardo) nello stesso secolo xm. E
gli stessi caratteri il M. conserva in S. Bonaventura, che coltiva ugualmente
la speculazione filosofica e quella mistica. Dall’altro lato la grande corrente
del M. speculativo tedesco del sec. xIv (Maestro Eckhart, Taulero, Susone,
ecc.) è di nuovo in posizione polemica contro ogni tentativo di adoperare la
ragione nel campo della religione; ma la sua caratteristica è quella di essere
una speculazione sulla fede, ritenuta come il tramite della comunicazione
diretta tra l’uomo e Dio. Cadono poi interamente fuori del dominio della
filosofia, ma non di quello del M., i mistici pratici del cristianesimo come
Santa Teresa, Santa Caterina da Siena, S. Francesco, Giovanna D'Arco, ecc. (cfr. H. Deacror:, Études
d’histoire et de psychologie du mysticisme, Paris, 1908; J. H. LEUBA, The
Psychology of Religious Mysticism, 1925). La ricerca mistica consiste essenzialmente nel
definire i gradi progressivi dell’ascesa dell’uomo a Dio, nell’illustrare con
metafore lo stato di estasi e nel cercare di promuovere tale ascesa con
opportuni discorsi edificatori. I gradi dell’ascesa mistica sono abitualmente
tre: il pensiero (cogitatio) che ha per suo oggetto le immagini provenienti
dall’esterno ed è diretto a considerare l'orma di Dio nelle cose; la
meditazione (meditatio) che è il raccogliersi dell'anima in se stessa e che ha
per oggetto l’immagine stessa di Dio; e la contemplazione (contemplatio) che si
rivolge a Dio stesso. Questi gradi sono variamente illustrati e suddivisi dai
mistici che abitualmente dividono ognuno di questi gradi in due altri,
enumerando così, con l’estasi, sette gradi di ascesa. Ad es., secondo
Bonaventura, il pensiero può considerare le cose o nel loro ordine oggettivo (I
grado) o nell'apprensione che di esse ha l’anima umana (II grado). La meditazione
può contemplare l’immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima, memoria,
intelletto e volontà (III grado) oppure nei poteri che l’anima acquista in
virtù delle tre virtù teologali (IV grado). La contemplazione può considerare
Dio nel suo primo attributo cioè nel suo essere (V grado) oppure nella sua
massima potenza, che è il bene (VI grado) (/tine585 rarium mentis in Deum,
1259). Al di là di questi gradi, per tutti i mistici, c’è l’estasi (v.) o
excessus mentis, definita talvolta come « ignoranza dotta » (v.) e in ogni caso
considerata come il «deîficarsi dell’uomo » cioè l’unirsi dell’uomo a Dio. Da
un punto di vista filosofico-religioso è importante l’apprezzamento che
Kierkegaard fece del misticismo. Il mistico è, secondo Kierkegaard, «colui che
sceglie se stesso in un isolamento completo » cioè nel suo isolamento dal mondo
e dai rapporti umani (Aut Aut, in Werke, II, pag. 215) ma così facendo egli
commette una certa indiscrezione nei riguardi di Dio. Giacchè, in primo luogo,
egli disdegna l’esistenza, la realtà nella quale Dio lo ha posto; e in secondo
luogo egli degrada Dio e se stesso. « Degrada se stesso perchè è sempre una
degradazione essere essenzialmente differenti dagli altri grazie a una semplice
accidentalità; e degrada Dio perchè fa di lui un idolo e di se stesso un
favorito alla corte di lui» (Ibid, Werke, II,g pag. 219). Nella filosofia
contemporanea, il M. è stato difeso da Bergson. Nel M., Bergson ha visto la «
religione dinamica » cioè la religione che continua lo slancio creativo della
vita e tende a creare forme di vita più perfette per l’uomo. « L’amore mistico,
dice Bergson, si identifica con l’amore di Dio per la sua opera, amore che ha
creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare a chi sappia interrogarlo il
mistero della creazione. È composto di un’essenza più metafisica che morale.
Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione della specie umana e
fare dell'umanità quello che sarebbe potuto essere subito se avesse potuto
costituirsi definitivamente senza l’aiuto dell’uomo ». In altri termini è allo
slancio mistico che può essere dovuto il ripristino della «funzione essenziale
dell’universo, che è una macchina destinata a creare divinità » (Deux Sources;
trad. ital., pag. 256, 349). Questa interpretazione del M. data da Bergson non
si differenzia dal comune panteismo (v.). MISTIFICAZIONE (ingl. Mystification;
francese Mystification; ted. Mystification). L’interpretazione di un concetto
in modo oscuro, fallace o tendenzioso. Diceva, per es., Marx: «La M. alla quale
soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli
sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmentele forme generali del
movimento della dialettica stessa » (Carteggio Marx-Engels; trad. ital., V,
pag. 28). Secondo Marx la dialettica di Hegel era «mistificata» perchè
interpretata idealisticamente invece che materialisticamente. In modo analogo
si dice che si ha un concetto mistificato della libertà quando si fa coincidere
la libertà con la necessità e così implicitamente la si nega, ecc. 586 MISURA
(gr. uérpov; lat. Mensura; ingl. Measure; franc. Mesure; ted. Mass). Già
Platone aveva diviso l’arte della M. in due parti, situando nella prima le arti
«che misurano il numero, la lunghezza, l'altezza, la larghezza e la velocità in
rapporto ai loro contrari» e nella seconda «le arti che misurano il rapporto al
giusto mezzo, al conveniente, all’opportuno, al doveroso e insomma a quelle
determinazioni che stanno nel mezzo tra due estremi » (Polit., 284 e).
Conseguentemente, si può intendere per misura: 1° il rapporto tra una grandezza
e l’unità. A questo proposito Aristotele osservava che l’unità può essere
intesa in due modi: come unità convenzionale o apparente e come unità
assolutamente indivisibile (Mer., X, 1, 1053a 22). Lo stesso Aristotele
riconosceva la condizione di ogni M. in questo senso nella omogeneità tra ciò
che si misura e ciò con cui si misura (/bid., X, 1, 1053 a 22); 2° il criterio
o il canone di ciò che è vero o bene. In questo senso Cleobulo uno dei Sette
Savi diceva: « Ottima è la M.» (Diog. L., I, 93), Platone vedeva nella giusta
M. l’ordine e l’armonia delle cose (Fi/., 24c-d) e Aristotele faceva della
medietà (v.) il canone della virtù etica. Nello stesso senso usava la parola
Protagora nel suo famoso principio che l’uomo è M. delle cose; e Aristotele
quando vedeva nell'uomo virtuoso «il canone e la M. delle cose» (Er. Nic., III,
4, 1113a 33). In questo senso la M. è uno dei concetti fondamentali della
cultura classica greca. MITO (gr. w6006;
lat. Mytus; ingl. Myth; francese Myrhe; ted. Mythos). Oltre
l’accezione generica di «racconto» nella quale la parola è usata, per es.,
nella Poetica (I, 1451 b 24) di Aristotele si possono distinguere, dal punto di
vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello del M.
come di una forma attenuata di intellettualità; 2° quello del M. come una forma
autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come strumento di controllo
sociale. 1° Nell'antichità classica il M. è considerato come un prodotto
inferiore o deformato dell’attività intellettuale. AI M. si attribuì, al
massimo, la « verosimiglianza » di fronte alla « verità » propria dei prodotti
genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e di
Aristotele. Platone contrappone il M. alla verità o al racconto vero (Gorg.,
523 a); ma nello stesso tempo gli riconosce la verosimiglianza che, in certi
campi, è la sola validità cui il discorso umano possa aspirare (Tim., 29 d) e
che, in altri campi, esprime ciò di cui non si può trovare di meglio nè di più
vero (Gorg., 527 a). Il M. costituisce, anche, per Platone la «via umana e più
brcve» della persuasione; ed in complesso il suo dominio è rappresentato da
quella MISURA zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale
e nella quale non è lecito avventurarsi che con supposizioni verosimili.
Sostanzialmente lo stesso atteggiamento ha di fronte al M. Aristotele. Il M. è
talora opposto alla verità (Mist. An., VII, 12, 597 a 7); ma talora è anche la
forma approssimativa e imperfetta che la verità assume quando, per es., di una
cosa si dà «la ragione in forma di M. » (Zbid., VI, 35, 580 a 18). A questo
concetto del M. come verità imperfetta o diminuita va congiunta, spesso,
l’attribuzione al M. di una validità morale o religiosa. Ciò che il M. dice, si
suppone, non è dimostrabile nè chiaramente concepibile, ma il suo significato
morale o religioso vale a dire ciò che insegna rispetto alla condotta dell’uomo
rispetto agli altri uomini o rispetto alla divinità, risulta chiaro. Così
Platone dice nel Gorgia, a proposito dei M. morali che vi sono esposti: « Forse
queste cose ci sembreranno M. da vecchie donne e le considererai con disprezzo.
E non sarebbe fuor di luogo spregiarle se con la ricerca potessimo trovare
altre cose migliori e più vere. Ma anche voi tre, tu, Polo e Gorgia, che siete
i più saggi greci di oggi, non riuscite a dimostrare che convenga vivere altra
vita che questa » (Gorg., 527 a-b). Analogamente, un significato religioso si
attribuisce al M., ogni qualvolta che con questo nome si designano credenze
determinate come, per es., quando si dice « M. cosmogonico » 0 « M.
soteriologico » 0 « M. escatologico », ecc. Nel comune linguaggio, prevale
questa accezione del significato nella sua forma estrema cioè come di credenza
dotata di minima validità e di scarsa verosimiglianza; in questo senso si
chiama mitico ciò che è irraggiungibile o contrario ai criteri del comune
buonsenso, per es., « una perfezione mitica ». All’ambito di questa
interpretazione del M. appartengono le cosiddette teorie naturalistiche che
sono prevalse nel secolo scorso in Germania. Secondo queste teorie, il M. è un
prodotto dello stesso atteggiamento teoretico o contemplativo che darà poi
luogo alla scienza e consiste nell’assumere un determinato fenomeno naturale come
chiave per la spiegazione di tutti gli altri fenomeni. I fenomeni astronomici,
quelli meteorologici e altri sono stati di volta in volta invocati a questo
scopo. Più recentemente un’altra scuola sociologica ha visto nel mito
soprattutto il ricordo degli eventi passati. Nell’uno e nell’altro caso queste
«spiegazioni naturalistiche » del M. non fanno altro che ridurlo a una forma
imperfetta di attività intellettuale. 2° La seconda concezione del M. è quella
per la quale esso è una forma autonoma di pensiero e di vita. In questo senso
il M. non ha una validità o una funzione secondaria e subordinata rispetto alla
conoscenza razionale, ma funzione e validità MITO originaria e primaria; e si
colloca su un piano diverso, ma dotato di uguale dignità, di quello
dell'intelletto. Fu Vico a esprimere per la prima volta questo concetto del M.:
« Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la
favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù
sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente
inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che
sono sette fonti della difficoltà delle favole» (Sc. N., II, Pruove filos. per
la discoverta del vero Omero, IV). La verità del M. non è dunque una verità
intellettuale corrotta o degenerata ma una verità autentica, sebbene di forma
diversa da quella intellettuale, cioè di forma fantastica o poetica: «I
caratteri poetici nei quali consiste l’essenza delle favole nacquero da necessità
di natura, incapace d'’astrarne le forme e le proprietà da ‘subbietti *; e in
conseguenza dovette essere maniera di pensare d’intieri popoli, che fussero
stati messi dentro tal necessità di natura, ch'è nei tempi della lor maggior
barbarie » (/bid., VI). Da questo punto di vista «i poeti dovetter esser i
primi storici delle nazioni » (/bid., X); e i caratteri poetici contengono
significati storici che furono, nei primi tempi, trasmessi a memoria dai popoli
(Ibid., IX). Il Romanticismo fece proprio questo concetto del M. e lo amplificò
in una metafisica teologica. La Filosofia della mitologia di Schelling vede nel
M., considerato come la religione naturale del genere umano, una fase della
autorivelazione dell’ Assoluto. Il M. fa parte integrante del processo della
teofania; esso non ha a che fare con la natura o meglio ha a che fare con essa
solo indirettamente, in quanto la natura stessa è la rivelazione di Dio. Il M.
è una fase della teogonia che è al di là e al di sopra della natura perchè è la
manifestazione di Dio come coscienza della natura o rapporto di essa con l’io
(Werke, II, I, pag. 216 sgg.). Al di fuori di queste speculazioni che
appartengono in proprio all’idealismo romantico, la dottrina del M. come forma
autonoma di espressione e di vita ha trovato ampia accoglienza nella filosofia
e nella sociologia contemporanee. Nella filosofia, la migliore espressione di
questa interpretazione del M. è il secondo volume della Filosofia delle forme
simboliche (1925) di Ernesto Cassirer: nel quale la caratteristica del pensiero
mitico è scorta nella mancata o imperfetta distinzione tra il simbolo e
l’oggetto del simbolo e cioè nella mancata o imperfetta consapevolezza del
simbolo come tale. «Il M., dice Cassirer, sorge spiritualmente al di sopra del
mondo delle cose ma nelle figure e nelle immagini con le quali esso sostituisce
questo mondo, esso non vede che un'altra forma di materialità e 587 di legame
con le cose » (Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925; trad. ingl.,
1955, pag. 24). Più tardi, nel Saggio sull'uomo, Cassirer ha visto il carattere
distintivo del M. nel suo fondamento emotivo. «Il sostrato reale del M. non è
un sostrato di pensiero ma di sentimento. Il M. e la religione primitiva non
sono certo del tutto incoerenti, non sono interamente privi di senso o di
ragione. Ma la loro coerenza proviene molto di più da un’unità sentimentale che
da regole logiche. Questa unità è uno degli impulsi più forti e più profondi
del pensiero primitivo » (Essey on Man, cap. 7; trad. ital., pag. 124-25). Anche
questa concezione tuttavia cade nell’ambito dell’interpretazione che fa del M.
una forma spirituale autonoma di fronte all’intelletto. E all'ambito di questa
stessa interpretazione appartiene l’interpretazione sociologica che fa del M.
il prodotto di una mentalità pre-logica. Questa è stata la tesi dei sociologi
francesi Durkheim e LévyBruhl. Il primo aveva affermato che il vero modello del
M. non è la natura ma la società e che esso è in ogni caso la proiezione della
vita sociale dell’uomo: una proiezione che ne riflette le caratteristiche
fondamentali (Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912). Il secondo
ha definito il pensiero mitico come pensiero pre-logico, nel senso che esso
prescinderebbe completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico
costituisce la natura e vedrebbe la natura stessa come « una rete di
partecipazioni e di esclusioni mistiche nella quale non valgono la legge di
contraddizione e le altre leggi del pensiero logico » (La mentalité primitive,
1922; L'dme primitive, 1928). 3° La terza concezione del M. è la moderna teoria
sociologica di esso, che si può far risalire principalmente a Fraser (Golden
Bough, 1911-15) e a Malinowski. Quest’ultimo vede nel M. la giustificazione
retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura di un
gruppo. « Il M. non è un semplice racconto nè una forma di scienza, nè una
branca d’arte o di storia nè una narrazione esplicativa. Esso compie una
funzione sui generis strettamente connessa con la natura della tradizione e la
continuità della cultura, con la relazione tra maturità e giovinezza e con
l’atteggiamento umano verso il passato. La funzione del M. è, in breve, quella
di rafforzare la tradizione e di darle maggior valore e prestigio connettendola
alla più alta, migliore e più soprannaturale realtà degli eventi iniziali ». In
questo senso il M. non è limitato al mondo o alla mentalità dei primitivi. È
anzi indispensabile a ogni cultura. « Ogni mutamento storico crea la sua
mitologia, che è tuttavia solo indirettamente relativa al fatto storico. Il M.»
un costante accompagnamento della fede vivente 588 che ha bisogno di miracoli,
dello status sociologico che domanda precedenti, della norma morale che esige
sanzione» (« Myth in Primitive Psychology », 1926, in Magic, Science and
religion, 1955, pag. 146). Dall'altro lato Levi-Strauss ha indagato la
struttura (v.) del M. nelle società primitive, analizzando alcuni M. nei loro
elementi più semplici (mitemi) e studiandone le combinazioni possibili, che
spiegano anche le somiglianze e le differenze tra M. in vigore presso gruppi
umani diversi (Anthropologie structurale, 1958, cap. XI). Egli ha inoltre
mostrato che il M. non è un racconto storico ma piuttosto la rappresentazione
generalizzata di fatti che ricorrono uniformemente nella vita degli uomini: la
nascita e la morte, la lotta contro la fame e le forze della natura, la
sconfitta e la vittoria, il rapporto tra i sessi. Il M. non riproduce perciò
mai la situazione reale ma si oppone a questa situazione, nel senso che la rappresenta
abbellita, corretta e perfezionata ed esprime così le aspirazioni che la
situazione reale fa sorgere. Egli adopera la parola dialettica (v.) per
caratterizzare il rapporto tra il M. e la realtà che lo ispira (« The Story of
Asdiwal», in 7he Structural Study of Myth and Totemism, ed. by Leach, 1969,
pag. 29 sgg.). Altri autori preferiscono parlare di retroazione (Feedback); nel
senso che il M. reagisce sulla situazione che l’ha provocata, cioè tende a
modificare l'universo sociale dal quale sorga e che, una volta modificato,
provoca a sua volta una risposta nel campo del M. e così via (DougLas, nello
stesso volume, pag. 57 sgg.). In ogni caso, il M. appare come « una filosofia
nativa » (secondo l’espressione di Levi-Strauss) cioè la forma in cui un gruppo
sociale esprime il proprio atteggiamento di fronte al mondo o un modo per
risolvere il problema della sua esistenza. Da questo punto di vista il M. non è
definito nei confronti di una determinata forma dello spirito, per es.,
dell'intelletto o del sentimento, come accade nelle due interpretazioni
precedenti, ma rispetto alla funzione che compie nelle società umane: funzione
che può essere chiarita e descritta in base a fatti osservabili. La
svalutazione del M. propria della prima concezione e la sopravvalutazione di
esso propria della seconda sono, da questo terzo punto di vista, egualmente
fuori posto. Questo è certamente un vantaggio del punto di vista in questione.
Un altro vantaggio è che esso spiega la funzione che il M. esercita nelle società
progredite e i caratteri disparati che in tali società può assumere. Possono
costituire M., in esse, non solo racconti favolosi, storici o pseudostorici, ma
figure umane (l’eroe, il condottiero, il duce) o concetti o nozioni astratte
(la nazione, la libertà, la patria, il proletariato) o infine progetti di
azione che non MITO DELLA CAVERNA si realizzeranno mai (lo « sciopero generale
» di cui parlava Sorel come del M. proprio del proletariato; cfr. Réfléxions
sur la violence, 1906). La disparità di contenuto del M. denuncia
l’impossibilità di riportarlo, in base al contenuto, a questa o quella forma
spirituale; e l’opportunità di studiarlo, invece, rispetto alla funzione che
compie nella società umana. MITO DELLA CAVERNA. V. CAVERNA. MITOLOGICO (ted.
Mythologisch). Un significato speciale ha ricevuto questo termine ad opera di
Rudolf Bultmann: significato che è importante per l’interpretazione del
cristianesimo data da questo pensatore: « M., egli dice, è la forma di
rappresentazione in cui ciò che non è mondano, ciò che è divino, viene
raffigurato come mondano, umano, l’al di là come al di qua, in cui, ad es., la
trascendenza di Dio viene pensata come distanza spaziale; rappresentazione in
conseguenza della quale il culto viene inteso come un’azione in cui, per opera
di mezzi materiali, vengono comunicate forze non materiali ». In questo senso,
è ovvio che la parola mito non ha il senso moderno «in cui non significa altro
che ideologia» (Keryema und Mythos, I, 1951, pag. 22, n. 2). Cfr. MIEGGE,
L’Evangelo e il mito, Milano, 1956. MNEMONICA, MNEMOTECNICA (latino Ars
memoriae; ingl. Mnemonics; franc. Mnémonique; ted. Mnemonik, Mnemotechnik).
L'arte di coltivare la memoria. Si tratta di un’arte antichissima, che Cicerone
attribuisce già a Simonide di Ceo (De Or., II, 86, 351). Quest’arte fu
coltivata dai Sofisti e Ippia si vantava di esserne maestro (Ippia Min., 368 d;
Ippia Mag., 286 a). Il gusto di quest'arte risorse nel Rinascimento e fu
coltivata specialmente da Giordano Bruno, che dedicò ad essa un gruppo di scritti
(De umbris idearum, 1582; Ars memoriae, 1582; Cantus circaeus, 1582; Triginta
sigillorum explicatio, 1583; ecc.) (v. CLAvIS UNIVERSALIS). La psicologia
contemporanea è ritornata a occuparsi di quest'arte, con mezzi sperimentali.
MOBILE, PRIMO (gr. rpitov ximréy; latino Primum mobile; ingl. First Mobile;
franc. Premier mobile; ted. Primare Bewegliches). Così Aristotele chiamò il
primo cielo al quale il movimento è comunicato direttamente dal primo motore o
motore immobile e che perciò è altrettanto semplice, ingenerato e
incorruttibile del primo motore (De Cael., II, 6, 288 a 14 sgg.). Aristotele
stesso paragona al primo M. la facoltà appetitiva dell’anima, come paragona al
motore immobile il bene (De An., III, 10, 433 b 14). Il primo M. è il cielo che
Dante chiama «cristallino » cioè diafano o trasparente e al di là del quale
ammette il cielo empireo o sede dei beati (Conv., II, 4; Par., 30, 107).
MODALITÀ MOBILISMO (franc. Mobilisme). La parola è moderna (cfr. Cume, Le
mobilisme moderne, 1908) poco usata anche in italiano e in francese, ma si
presta ad esprimere l’atteggiamento filosofico di quelli che Platone chiamava i
«fluenti» (7eer., 181 a) cioè di coloro i quali ammettono che tutto muta e
nulla sta fermo: come facevano nell’antichità i seguaci di Eraclito e come
fanno, nella filosofia moderna, i filosofi del divenire (v.). MODA (ingl.
Fashion; franc. Mode; ted. Mode). Kant ha interpretato la M. come una forma di
imitazione, fondata sulla vanità, in quanto « nessuno vuole apparire da meno
degli altri anche in ciò che non ha alcuna utilità ». Da questo punto di vista
«stare alla M. è questione di gusto; chi è fuori di M. e aderisce a un uso
passato, si dice antiquato; chi non dà nessun valore all’esser fuori di M. è un
eccentrico». Kant dice che «è meglio esser matto secondo la M. che fuori di
essa» e che la M. è veramente pazza solo quando sacrifica alla vanità l’utile o
addirittura il dovere (Antr., I, $ 71). In realtà questa analisi di Kant non è
oggi più sufficiente perchè è noto che la M. investe tutti i fenomeni culturali
e anche quelli filosofici. M. sono state nell’età moderna il cartesianesimo,
l'iluminismo, il newtonismo, il darwinismo, il positivismo, l’idealismo, il
neoidealismo, il pragmatismo, ecc.: tutte dottrine che hanno avuto una importanza
decisiva nella storia della cultura. D’altronde sono state M. anche movimenti
culturali che poca o nessuna traccia hanno lasciato. Si può dire che la
funzione della M. è quella di inserire negli atteggiamenti istituzionali di un
gruppo, o più in particolare nelle sue credenze, per mezzo di una rapida
comunicazione e assimilazione, atteggiamenti o credenze nuove che, senza la M.,
dovrebbero combattere a lungo per sopravvivere e farsi valere. Questa funzione
specifica per la quale la M. agisce come un controllo che limita o indebolisce
i controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione e ogni disdegno nei
confronti della moda. MODALE (ingl. Modal; franc. Modale; tedesco Modal). Si
chiama con questo termine la proposizione nella quale la copula riceve una
qualsiasi determinazione complementare. Per le proposizioni M., v. MODALITÀ.
MODALE, LEGGE (ted. Modales Grundgesetz). Così Nicolai Hartmann ha chiamato la
riduzione di tutte le modalità dell’essere (cioè della possibilità e della
necessità) all’effettualità cioè all’essere di fatto (Mbplichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 71) (v. NECESSITÀ). MODALISMO (ingl. Modalism; franc.
Modalisme; ted. Modalismus). Si chiama così l’interpretazione della Trinità
cristiana che consiste nel 589 vedere nelle tre persone divine tre modi o
manifestazioni dell'unica sostanza divina. Questa interpretazione è stata
sempre condannata come eretica dalla chiesa cristiana che ha insistito
sull’uguaglianza e la distinzione delle persone divine. Nel sec. Im il M. fu
sostenuto da Sabellio; ma una specie di M. è stato visto anche nella dottrina
di Scoto Eriugena e di Abelardo al quale ultimo fu rimproverato da S. Bernardo
(De Erroribus Abelardî, 3, 8). Un altro nome per la stessa eresia è monarchismo
(v.). MODALITÀ (lat. Modalitas; ingl. Modality; franc. Modalité; ted.
Modalitàt). Le differenze della predicazione cioè le differenze cui può dar
luogo il riferimento di un predicato al soggetto nella proposizione. Tali
differenze furono per la prima volta riconosciute da Aristotele sulla base del
suo proprio concetto dell’essere predicativo (v. EsseRE, Il) che è l’inerenza.
Egli dice infatti che «altro è l’inerire, altro è l’inerire di necessità e il
poter inerire: giacchè molte cose ineriscono, ma non di necessità, altre non ineriscono
nè di necessità nè semplicemente, ma possono inerire» (An. Pr., I, 8, 29 b 29).
In tal modo Aristotele distingue: 1° l’inerire puro e semplice del predicato al
soggetto; 2° l’inerire necessario; 3° l’inerire possibile. In seguito, cioè dai
commentatori di Aristotele, vennero chiamati modi la seconda e la terza forma
della predicazione; e vennero dette « proposizioni modali » le proposizioni
necessarie e possibili (AMMONIO, De interpr., f. 171 b; Boezio, De Interpr.,
II, V, P. L. 64°, col. 582). Nel Medioevo, similmente, si chiamò proposizione
de inesse o de puro inesse quella che oggi diciamo proposizione assertoria; e
si chiamarono modali le proposizioni necessarie o possibili (ABELARDO,
Dialect., II, pag. 100; Pierro Ispano, Summ. Log., 1.31). Nella Logica (1638)
di Jungius è detta « enunciazione pura» la proposizione assertoria ed
«enunciazione modificata o modale» la proposizione necessaria o possibile. Lo
stesso uso fu seguito dalla Logica di Portoreale (I, 8) e da Wolff (Log., $
69). Si può dire pertanto che Kant non faceva che riesporre questa lunga
tradizione affermardo: «La M. dei giudizi è una loro funzione tutta
particolare, che ha questo carattere distintivo: non contribuisce per niente al
contenuto del giudizio (giacchè oltre la quantità, la qualità e la relazione,
non c’è altro che formi il contenuto del giudizio) ma tocca solo il valore
della copula rispetto al pensiero in generale. Giudizi problematici sono quelli
in cui l’affermare o il negare si ammette come semplicemente possibile (arbitrario);
assertori quelli in cui si considera come reale (vero); apodittici quelli in
cui si considera come necessario » (Crif. R. Pura, $9, 4). 590 Nella logica
contemporanea la trattazione della M. non è stata portata a un grado
sufficiente di chiarezza concettuale e di elaborazione analitica. Ciò è dovuto
al fatto che la logica contemporanea si modella sulle matematiche che
praticamente ignorano, o possono ignorare, l’uso delle modalità. Non fa
meraviglia pertanto che sia stata proposta quella tesi dell’estensionalità (v.)
che equivale alla eliminazione delle M. da ogni enunciato. Questa tesi non ha
tuttavia impedito ai suoi stessi proponenti di tentare un’interpretazione delle
modalità. Russell ha affermato che le M. sono proprietà non delle proposizioni
ma delle funzioni proposizionali (v.): sicchè sarebbe necessaria la funzione
proposizionale: «Se x è un uomo, x è mortale» che è sempre vera; possibile la
funzione « x è un uomo » che è qualche volta vera; e impossibile la funzione *
x è un unicorno » che non è mai vera (« The Philosophy of Logical Atomism »,
1918, cap. V; in Logic and Knowledge, pag. 230 sgg.). Ma questa interpretazione
di Russell equivale semplicemente a una paradossale inversione delle M. in
quanto il senso modale dell’espressione « Se x è un uomo, x è mortale » non è
la necessità ma la possibilità; essa significa infatti «x può esser mortale».
Un altro suggerimento di Russell (Scritto cit., pag. 231) è l’identificazione
del necessario con l’analitico, cioè con affermazioni del tipo «x è x». Carnap,
a sua volta, si è appigliato appunto a questa interpretazione tentando una
costruzione della M. sulla base del concetto di necessità logica cioè della
analiticità e definendo la possibilità come la negazione di tale necessità
(Meaning and Necessity, 1957, $ 39). È appena necessario notare che questa
interpretazione equivale alla negazione pura e semplice delle M. stesse e non
può valere come una logica di esse. D'altronde, Quine ha mostrato le difficoltà
inerenti a tutte le trattazioni delle M., fondate, come quella di Carnap, sulla
quantificazione (From a Logical Point of View, VIII, 4). Circa la distinzione
delle M. o, come oggi si dice, dei valori modali delle proposizioni, la più
antica e accreditata tavola di tali valori è quella data da Aristotele nel De
Interpretatione, che ne comprende sei: vero, falso; possibile, impossibile;
necessario, contingente (De /nr., 12, 21 b). Questa logica a sei valori rimase
immutata nel Medioevo (cfr., ad es., Pietro Ispano, Sum. Logic., 1.30) ed è
stata sviluppata e difesa anche da logici contemporanei, per es., da Lewis (A
Survey of Symbolic Logic, 1918). Talvolta i valori modali sono stati ridotti a
cinque con l’identificazione della possibilità e della contingenza (per es.: O.
BECKER, «Zur Logik der Modalititen», in Jahrb. fiir Phil. and Phdnom.
Forschung, 1930, pag. 496-548). Lukasiewicz e Tarski hanno a loro volta
costruito MODALITÀ una logica a tre M.: vero, falso e possibile (cfr. gli
articoli in Compres Rendus des Séances de la Société des Sciences et Lettres de
Varsovie, 1930, pag. 30, 50, 176; cfr. per Luxkasiewicz: Polish Logic 1920-39,
Oxford, 1967). Carnap ha accettato le sei M. della tradizione aristotelica
(Meanine and Necessity, $ 39). Il concetto stesso di M. è assai poco chiaro in
queste dottrine della logica contemporanea. Si possono qui soltanto indicare le
confusioni più frequenti: 1° il tentativo di ridurre gli enunciati modali a
enunciati quantitativi; 2° il tentativo di ridurre la M. a un valore di verità
della proposizione; 3° il tentativo di predicare le M. l'una dell’altra. 1° Il
primo tentativo consiste nel far corrispondere enunciati universali alle
proposizioni necessarie ed enunciati particolari alle proposizioni possibili.
Così « tutti gli uomini muoiono » sarebbe l’equivalente di « gli uomini debbono
morire +; e «alcuni uomini sono artisti » sarebbe l’equivalente di «gli uomini
possono essere artisti ». Queste trascrizioni sono indubbiamente insufficienti
perchè nè la proposizione necessaria nè quella possibile esprimono fatti come
le corrispondenti proposizioni universale e particolare (cfr. A. PAP, Semantics
and Necessary Truth, 1958, pag. 368) e perchè la proposizione possibile ha un
significato distributivo (« ogni uomo può essere artista ») che sarebbe escluso
dalla corrispondente proposizione particolare. Ma è poi evidente che nessuna
trascrizione del genere è possibile per proposizioni modali del tipo «x può
essere »: proposizioni che tuttavia ricorrono in tutti i rami della scienza,
ogni qualvolta si tratta di ipotesi, predizioni, probabilità, anticipazioni,
ecc. 2° La seconda confusione è quella per cui la M. si allinea tra i valori di
verità delle proposizioni: una confusione di cui han dato esempio le stesse
cosiddette logiche delle modalità. Ora i valori di verità delle proposizioni
(vero, falso, probabile, indeterminato, ecc.) appartengono a un livello diverso
dalla M. che è una determinazione della predicazione cioè della relazione tra
soggetto e predicato della proposizione. I valori di verità appartengono alla
sfera del riferimento semantico delle proposizioni; le M. appartengono alla
struttura relazionale delle proposizioni stesse. Esse indicano pertanto se tale
struttura può essere o no diversa da com°è: cioè indicano se il contenuto di un
enunciato (il suo significato) può essere o no diverso da come l’enunciato lo
esprime. Le M. fondamentali sono quindi due e due soltanto: possibilità e
necessità, con i loro opposti non-possibilità e impossibilità Esse modificano i
valori di verità delle proposizioni nel senso di limitarli o estenderli ma non
vanno confusi con tali valori: la predicazione reciproca suppone anzi la
diversità dei livelli e si può dire MODERNISMO «necessariamente vero» o
«possibilmente vero », proprio perchè possibilità e verità, verità e necessità,
appartengono a due sfere diverse e non si escludono tra loro. 3° La terza
confusione è quella inerente al tentativo di predicare le M. una dell’altra.
Questo tentativo è contraddittorio come quello di predicare una dell'altra i
valori di quantità o di verità delle proposizioni. Il teorema fondamentale a
questo proposito è quello che riconosce il carattere alternativo delle
modalità. Ma questo teorema è stato solitamente disconosciuto o ignorato dai
logici della M. a partire da Aristotele. Questi infatti si preoccupò di
predicare le M. l’una dell’altra, affermando ad es., che ciò che è necessario
che sia, deve anche essere possibile che sia, dal momento che non può dirsi che
è impossibile che sia (De /nz., 13, 22 b 11). Ma questa affermazione o porta a
considerare il necessario stesso come possibile cioè come non necessario o
porta a dividere in due il concetto di possibile (che è la via seguita da
Aristotele) col riconoscimento di una specie di possibile che s’identifica col
necessario (v. PossisiLe). Dall'altro lato, l'affermazione reciproca (che
Aristotele illustrò col famoso esempio della battaglia navale) che il possibile
è necessario nel senso che necessariamente c'è un possibile (per es.,
necessariamente domani ci sarà o non ci sarà una battaglia navale) equivale a
rendere necessaria l’indeterminazione e a negare il possibile come tale.
Difatti « È necessario che x sia possibile» significa che x deve mantenersi
indeterminato senza mai realizzarsi; ma in tal caso x non è un possibile.
Queste antinomie o paradossi sorgono dal disconoscimento del carattere
esclusivo delle differenze modali che, in virtù di questo carattere,
costituiscono alternative inconciliabili. Dall'altro lato i valori di verità
possono essere predicati delle M.; c’è un possibile Vero, per es., «l’uomo può
essere bianco» e un possibile falso come «l’uomo può esser rettangolo ». E ci
può essere una necessità vera ed una necessità falsa, che è l’assurdo. Queste
notazioni esigerebbero adeguati sviluppi analitici. Per ulteriori osservazioni,
v. NECESSARIO; POSSIBILE. MODELLO (ingl. Model; franc. Modéle; tedesco Modell).
1. Una delle specie fondamentali di concetti scientifici (v. CONCETTO) e
precisamente quello che consiste in una disposizione caratterizzata dall’ordine
degli elementi di cui si compone, anzichè dalla natura di questi elementi.
Perciò due M. sono identici se il rapporto dei loro ordini può essere espresso
come una corrispondenza biunivoca, cioè tale che a un termine dell’uno
corrisponda uno, e uno solo, dell’altro e a ciascuna relazione di ordine fra
gli elementi dell’uno corrisponda una identica relazione fra i corrispondenti
elementi del591 l’altro. L’ordinario calcolo numerico è il migliore esempio
della corrispondenza biunivoca: se ci sono da una parte cinque libri e dall’altra
cinque lapis si possono allineare queste due serie di oggetti nello stesso
ordine o collocare uno sull’altro. Allo stesso modo, la serie dei numeri interi
è in corrispondenza biunivoca con i numeri pari e così via. Per essere utile un
M. deve avere i seguenti caratteri: 1° la semplicità che ne renda possibile
l’esatta definizione; 2° la possibilità di essere espresso mediante parametri
suscettibili di trattamento matematico; 3° la somiglianza o l’analogia con la
realtà che è destinata a spiegare. I M. meccanici erano apparsi indispensabili
alla scienza del sec. xrx; ma oggi M. puramente teoretici sono utilizzati da
discipline diverse: dalla economia (che si avvale dei giochi), dalla
psicologia, dalla biologia e dall’antropologia (cfr. HEMPEL, Aspects of Scientific
Explanation, 1965, pag. 445 e nota 28). Levi-Strauss ha considerato la
struttura (v.) come un M. di questo genere per la spiegazione dei fatti sociali
(Anthropologie Structurale, 1958, cap. XV). 2. Lo stesso che archetipo (v.).
MODERNI. V. ANTICHI. MODERNISMO (ingl. Modernism; franc. Modernisme; ted.
Modernismus). Un tentativo di riforma cattolica che ebbe qualche diffusione in
Italia e in Francia nell’ultimo decennio dell’800 e nel primo del nostro secolo
e fu condannato dal papa Pio X con l’enciclica Pascendî dell’8 settembre 1907.
Questo tentativo è ispirato dalle esigenze della filosofia dell’azione (v.) e
consiste nell’attingere da questa filosofia il significato da dare ai concetti
fondamentali della religione: Dio, rivelazione, dogma, grazia, ecc. Il M. si
ispira soprattutto alle idee di Ollé Laprune e di Blondel, che però rimasero
estranei al movimento, e conta i nomi di Luciano Laberthonnière, Alfredo Loisy
ed Eduardo Le Roy. In Italia assunse specialmente la forma della critica
biblica (Salvatore Minocchi, Ernesto Buonaiuti) e della critica politica
(Romolo Murri) mentre il dibattito filosofico si limitava a riprodurre, con
scarsa originalità, le idee del M. francese. I capisaldi possono essere così
esposti: 1° Dio si rivela immediatamente (senza intermediari) alla coscienza
dell’uomo. « Se, dice per esempio Laberthonniére, l’uomo desidera possedere Dio
ed essere Dio, Dio s’è già dato a lui. Ecco come nella natura stessa possono
trovarsi e si trovano le esigenze del soprannaturale» (Essais de philosophie
religieuse, 1903, pag. 171). Questo principio diminuiva o annullava la distanza
fra il dominio della natura e quello della grazia e anche tra l’uomo e Dio,
facendo di Dio il principio metafisico della coscienza umana. Tale è il
fondamento del cosid592 detto « metodo dell’immanenza » cioè di quel metodo che
vuole trovare Dio e il soprannaturale nella coscienza dell’uomo. 2° Dio è
soprattutto un principio d’azione e l'esperienza religiosa è soprattutto
un'esperienza pratica. Questo punto che deriva anch’esso strettamente
dall’Azione (1893) di Blondel equivale a far coincidere la religione con la
morale: che è una delle tesi fondamentali di Loisy (La religion, 1917, pag.
69). 3° I dogmi non sono che l’espressione simbolica ed imperfetta, perchè relativa
alle condizioni storiche del tempo in cui si costituiscono, della vera
rivelazione, che è quella che Dio fa di se stesso alla coscienza dell’uomo.
Tale fu il punto di vista che Loisy difese nel più famoso scritto del M.,
L’évangile et l’église (1902). 4° Alla Bibbia vanno applicati senza limitazione
gli strumenti di indagine di cui dispone la ricerca filologica: il che vuol
dire che essa va considerata e studiata come un documento storico dell’umanità,
sia pure di carattere eccezionale e fondamentale. Questa fu la convinzione sia
di Loisy sia di coloro che in Italia accettarono il punto di vista del M. su
questo punto e specialmente di Buonaiuti. 5° Il cristianesimo non può condurre,
nel campo della politica, alla difesa dei privilegi del clero o di altri gruppi
sociali ma solo al progresso e all’ascesa del popolo, la cui vita nella storia
è la manifestazione della stessa vita divina. Tali furono le idee politiche
difese soprattutto da Romolo Murri. Cfr. E. BUONAIUTI, Le modernisme
catholique, 1927; J. Riviére, Le modernisme dans l’église, 1929; Garin,
Cronache di filosofia italiana 19431955, 1956. MODERNO (lat. Modernus; ingl.
Modern; franc. Modern; ted. Modern). Quest’aggettivo, introdotto dal latino
post-classico e che significa propriamente « attuale » (da modo = ora) fu
adoperato nella Scolastica a partire dal sec. xm a indicare la nuova logica
terministica, designata come via moderna di fronte alla via antiqua della
logica aristotelica. Esso designò anche il nominalismo che è strettamente
connesso alla logica terministica. Dice, per es., Walter Burleigh: « Sebbene
l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come dicono i moderni,
tuttavia, ecc.» (Expositio super artem veterem, Venetiis, 1485, f. 59 r;
PRANTI, Geschichte der Logik, III, pag. 255, 299, ecc.). Nel senso storico, in
cui la parola viene oggi solitamente adoperata e in cui in questo dizionario si
parla di « filosofia moderna », essa indica il periodo della storia occidentale
che comincia dopo il Rinascimento cioè a partire dal xvi secolo. Dal periodo M.
si suol spesso distinguere quello MODERNO « contemporaneo +, che comprende gli
ultimi decenni. MODIFICAZIONE RIPRODUTTIVA (tedesco Reproduktive Modifikation).
Così Husserl ha chiamato le ripresentazioni delle cose e delle esperienze vissute,
che ci sono già state darte una volta nelle loro peculiari modalità (/deen, I,
$ 44). MODO (gr. rtpéroc;
lat. Modus; ingl. Mode; franc. Mode; ted. Modus). Con
questo termine sono stati intesi: 1° Le diverse forme dell’essere predicativo
(v. MODALITÀ). 2° Le determinazioni non necessarie (o non incluse nella
definizione di una cosa). In tal senso il M. era già inteso dalla logica
medievale (cfr., ad es., Pierro IsPano, Sumun. Logic., 1.28). E fu ripreso da
Cartesio che intese per M. le qualità secondarie mutevoli delle sostanze e li
contrappose agli arrributi che costituiscono invece le qualità permanenti o
necessarie. « Poichè, egli disse, non devo concepire in Dio alcuna varietà o
mutamento, io dico che in lui vi sono, non M. o qualità, ma piuttosto attributi;
e anche nelle cose create, ciò che si trova in esse sempre costante, come
l’esistenza e la durata della cosa che esiste e dura, io lo chiamo attributo e
non M. o qualità + (Princ. Phil., I, 56). Questo concetto fu ripetuto da
Spinoza (Et., I, def. 5) e da Wolff il quale dice: «Ciò che non ripugna alle
determinazioni essenziali, ma non è determinato da esse, si dice M.» (Ont., $
148). Dall’altro lato la Logica di Portoreale definiva il M. non distinguendolo
dall’attributo o dalla qualità come «ciò che, essendo concepito nella cosa, e
come tale da non poter sussistere senza di essa, la determina a essere in una
certa maniera e a farla nominare corrispondentemente » (I, 2). Di questa
definizione Locke accettava la notazione secondo la quale il M. non può
sussistere indipendentemente dalla sostanza; e pertanto definiva M. « quelle
idee complesse che, per quanto composte, non contengono in sè la supposizione
di sussistere di per se stesse ma si considerano dipendenze o affezioni delle
sostanze, come sono quelle espresse dalle parole ‘triangolo *, ‘ gratitudine *,
‘omicidio *, ecc. + (Saggio, II, 12, 4). All’ambito dello stesso concetto
appartiene il significato che Spinoza attribuisce al termine, intendendolo come
«ciò che è in un’altra cosa e il cui concetto si forma per mezzo di quest’altra
cosa + (Er., I, 8, scol. 2). Tuttavia il M. deriva necessariamente, secondo
Spinoza, dalla natura divina e perciò si distingue dall’attributo non per la
sua assenza di necessità ma per la sua particolarità: M. sono le cose
particolari e i singoli pensieri che esprimono gli attributi di Dio, il
pensiero e l'estensione (/bid., I, 25 scol.; II, 1). MONADE 3° Le forme, le
specie, gli aspetti, le determinazioni particolari di un oggetto qualsiasi.
Questo significato è il più generale e comune e il meno preciso. 4° La
specificazione delle figure del sillogismo a seconda della qualità e della
quantità delle premesse (v. FIGURA; SILLOGISMO). MODUS PONENS, MODUS TOLLENS.
Così furono detti, nella logica del ’600, i due modi del sillogismo ipotetico,
in quanto il primo, posto l'antecedente, pone il conseguente (se A è, è B; ma A
è, dunque è 2); e il secondo tolto il conseguente toglie l’antecedente (se A è,
è B; ma B non è, dunque A non è) (JuncIUS, Logica, 1638, III, 17, 10-11; WOLFF,
Logica, $ 409-10). MOLECOLARE, PROPOSIZIONE (inglese Molecular Proposition;
franc. Proposition moléculaire; ted. Molekular Satz). Termine entrato in uso
col Tractatus di Wittgenstein, e corrispondente alla propositio hypothetica
della Logica boeziano-scolastica: è una proposizione formata da una o più
atomiche (v.) legate da certe costanti logiche, come «non», «e», «01, «implica»
(«se..., ...1) (negazione, congiunzione, disgiunzione, implicazione), e altre.
Nella Logica russelliana alle proposizioni molecolari corrispondono le
proposizioni funzio. a. P. MOLINISMO. V. GRAZIA. MOLTEPLICITÀ (gr. và road;
ingl. Multipli» city; franc. Multiplicité; ted. Mannigfaltigkeit). Ciò che è
molteplice e vario: i « molti » in contrapposto all’ uno », sui quali si esercitavano,
di preferenza, stando alla testimonianza di Platone (Fi/., 14d), le discussioni
dialettiche del sec. rv avanti Cristo. Platone stesso stabilì il concetto
autentico del molteplice, che non è quello della dispersione illimitata, ma
quello del numero: il quale, come diceva Platone, è nello stesso tempo uno e
molti perchè è l’ordine di una M. determinata (Fi/., 18 a-b) {(v. Numero). Il
senso di questa parola è ritornato ad essere quello di una dispersione
disordinata in alcuni usi moderni, per es., in quello che Kant ne fa come della
« materia » della conoscenza cioè del contenuto sensibile, nel suo stato
disordinato o grezzo, indipendentemente dall’ordine e dalla unità che esso
riceve ad opera delle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto (Crir.
R. Pura, $ 1). MOLTIPLICAZIONE LOGICA (ingl. Logical Multiplication; franc.
Multiplication logique; ted. Logische Multiplikation). Nell’ Algebra della
Logica (v.) si chiama così l'operazione «a-b», la quale gode di proprietà
formali analoghe a quelle della M. aritmetica (importantissima l’eccezione
«a-a=a+) Interpretata come operazione tra classi, «4-5» viene a formare la
classe contenente tutti e soli gli elementi comuni alle classi a e d. 38 593
Interpretata come operazione tra proposizioni, «a-b» ne indica l’affermazione
congiuntiva, simultanea («a e 51). a. P. MOMENTO (ingl. Moment; franc. Moment;
ted. Moment). 1. Concetto meccanico: l’azione istantanea di una forza su di un
corpo. Così definisce il M. Kant (Metaphysische Anfanesgriinde der Naturwissenschaft,
Nota sulla meccanica; Crit. R. Pura, Analitica dei Principi, B, in fine). 2.
Concetto temporale: una parte minima di tempo, priva di successione (cfr.
Locke, Saggio, II, 14, 10). 3. Concetto dialettico: una fase o determinazione
del divenire dialettico: per cs., possibilità e accidentalità sono «i M. della
realtà» (HEGEL, Enc., $ 145); la condizione, la cosa e l’attività sono «i tre
M. della necessità» (HEGEL, /bid., $ 148); l’essere e il nulla sono «i M. del
divenire » (HeceL, Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. I, C, nota 2;
trad. ital., vol. I, pag. 87 sgg.); ecc. Questo concetto del M. come fase
dialettica è il più comune nella filosofia contemporanea. 4. Concetto logico:
fase o stadio di una dimostrazione o di un ragionamento qualsiasi. MONADE (lat.
Monas; ingl. Monad; franc. Monade; ted. Monade). In quanto ha significato
distinto da quello di Unità (v.), il termine designa un’unità reale inestesa,
quindi spirituale. Giordano Bruno adoperò per primo il termine in questo senso,
concependo la M. come il minimum, cioè l’unità indivisibile, costituente
l’elemento di tutte le cose (De Minimo, 1591; De Monade, 1591). Il termine fu
ripreso nello stesso senso dai neoplatonici inglesi e specialmente da H. More
che elaborò il concetto delle « M. fisiche », inestese, perciò spirituali, come
componenti della natura (Enchiridion Metaphysicum, 1679, I, 9, 3). A partire
dal 1696 Leibniz si avvale del termine per designare la sostanza spirituale in
quanto componente semplice dell’universo. La M. è, secondo Leibniz, un atomo
spirituale, una sostanza priva di parti e di estensione, quindi indivisibile.
Come tale non si può disgregare ed è eterna: solo Dio può crearla 0 annullarla.
Ogni M. è diversa dall'altra giacchè non vi sono in natura due esseri perfettamente
uguali (v. IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI). Ogni M. costituisce un punto di
vista sul mondo ed è quindi tutto il mondo da un determinato punto di vista
(Monadologie, 1714, $ 57). Le attività fondamentali della M. sono la percezione
e l’appetizione; ma le M. hanno infiniti gradi di chiarezza e distinzione:
quelle fornite di memoria costituiscono le anime degli animali e quelle fornite
di ragione costituiscono gli spiriti umani. Ma anche la materia è costituita da
M.: almeno la materia seconda; giacchè la materia prima è la semplice potenza
594 passiva o forza di inerzia (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 260-61). La
totalità delle M. è l’universo. Dio è «l'unità primitiva o la sostanza semplice
originaria di cui tutte le M. create o derivate sono produzioni e nascono, per
così dire, per fulgurazione continua dalla divinità di momento in momento »
(Mon., $ 47). I tratti di questa dottrina di Leibniz ricorrono uniformemente
ogni qualvolta i filosofi fanno ricorso al concetto di monade. E ricorrono
anche, sostanzialmente, nelle dottrine metafisiche dello spiritualiimo
contemporaneo. Si consideri il sapore leibniziano del passo seguente di
Husserl: «La costituzione del mondo obiettivo comporta essenzialmente
un’armonia di M., più precisamente una costituzione armoniosa particolare in
ciascuna M. e per conseguenza una genesi realizzantesi armoniosamente nelle M.
particolari » (Carr. Med., $ 49) (v. SPIRITUALISMO). MONADOLOGIA (ingl.
Monadology; francese Monadologie; ted. Monadologie). Con questo termine Leibniz
intitolò la breve esposizione del suo sistema che compose a richiesta del
Principe Eugenio di Savoia nel 1714. Il termine è rimasto a designare la
dottrina delle monadi. Kant intitolò M. Physica un suo scritto del 1756. E il
termine da allora ricorre frequentemente (cfr., ad es., RENOUVIER e PRAT,
Nouvelle Monadologie, 1899). MONARCHIA. V. Governo, FORME DI. MONARCHISMO. V.
MopaLISMO. MONARCOMACO (ingl. Monarchomachist ; franc. Monarchomachiste; ted.
Monarchomache). Così furono detti nel sec. xvm i seguaci del diritto naturale,
in quanto combattevano l’assolutismo monarchico. Il nome ricorre per la prima
volta nel titolo dell’opera del cattolico scozzese GUGLIELMO BARKLAY, De regno
et regali potestate adversus Buchananum, Brutum, Boucherium, et reliquos monarcomachos,
Parigi, 1600. MONASTICO. Vico chiamò filosofi M. o solitari gli Stoici e gli
Epicurei in quanto « vogliono l’ammortimento dei sensi», e « niegano la
provvidenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al
caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi ». Ai filosofi
M. Vico contrappose i filosofi politici e specialmente i Platonici che
convengono coi legislatori nell’ammettere la provvidenza e l'immortalità nonchè
la moderazione delle passioni (Scienza Nuova, 1744, Degnità V). MONDANO (gr. xoapx6c; ingl.
Worldly, Mundane; franc. Mondain; ted. Weltlich). Questo aggettivo si adopera quasi esclusivamente in
corrispondenza del significato e) di mondo, vale a dire designa ciò che
appartiene al campo di attività, di interessi o di comportamenti che sono
estranei alla vita religiosa e talvolta in antagonismo con MONADOLOGIA ensibile
», cioè attingibile dagli organi sensori o « M. intellettuale » cioè
attingibile da strumenti intellettuali. In questo senso si parla pure di « M.
ambiente» per indicare l’insieme delle relazioni di un essere vivente con le
cose circostanti o la situazione in cui si trova; ma la parola non ha
significato diverso da ambiente (v.); c) la totalità di una cultura come quando
si dice «M. antico » o «M. moderno » o «M. primitivo » o «M. civile»; d) una
totalità geografica come quando si dice « Nuovo M.+ per designare l’America o «
Vecchio M. » per designare il Continente antico; e) la totalità di ciò che è
estraneo alla religione. In questo senso la parola è costantemente adoperata
nel Nuovo Testamento (Mattàh., 4, 8; XVI, 26; Joan., I, 10; VII, 7; XII, 31;
ecc.); e la «sapienza del M.» viene contrapposta come stoltezza alla sapienza
di Dio (/ Cor., I, 20). La nozione di M. in questo senso è comune a tutti gli
scrittori cristiani; ed ad essa si fa anche riferimento quando si chiamano
«sapienti del M.» coloro che «si avvalgono della ragione naturale », come fa
Ockham (Suruna logicae, III, 1). Di questi significati, i più specificamente
filosofici sono i primi due, che si riflettono in tutti gli altri. Il
significato d) è puramente amplificativo o retorico, il significato e)
puramente religioso. Si possono pertanto distinguere tre concetti fondamentali
di M.: 1° il M. come ordine totale; 2° il M. come totalità assoluta; 3° il M.
come totalità di campo. I significati 1° e 2° sono articolazioni del
significato a); il significato 3° è il significato 6). 1° Si dice che per primo
Pitagora abbia chiamato cosmo il M. per contrassegnare l'ordine di esso (StoBEO,
Ecl., 21, 450; Fr. 21, Diels); certo è che questa è l’interpretazione del
concetto prevalente nella filosofia greca. Platone la accetta (Gorg., 508 a). E
Aristotele, che distingue il tutto (tè rav) nel quale la disposizione delle
parti può MONDO mutare, dalla totalità (cò &Xov) in cui le parti hanno
posizioni fisse (Met., V, 26, 1024 a 1), dice a proposito del M.: « Se la
totalità del corpo, che è un continuo, è ora in questo ordine o in questa
disposizione ora in un’altra, e se la costituzione della totalità è un M. o un
cielo, allora non sarà il M. che si genera e si distrugge ma solo le sue
disposizioni + (De Cael., I, 10, 280a 19). Aristotele intende dire in questo
passo che il M. è la costituzione (o struttura) della totalità (il suo ordine)
e che tale costituzione o struttura rimane immutata anche se le sue singole
parti si dispongono diversamente. Ciò equivale a definire il M. come l’ordine
immutabile dell’universo. Analogamente gli Stoici distinguevano l'universo (tò
rv) come la totalità di tutte le cose esistenti, compreso il vuoto, dal M.,
considerato come «il sistema del cielo e della terra e degli esseri che sono in
essi »: nel quale senso il M. è Dio stesso (STOBEO, Ecl., I, 421, 42 sgg.).
Questa interpretazione del M. prevalse nell’antichità e fu adottata dalla
filosofia cristiana la quale trovava in essa un opportuno punto di partenza per
le dimostrazioni dell’esistenza di Dio (cfr., per es., AGOSTINO, De Ordine, I,
2). Essa entrò in crisi soltanto quando la nozione di ordine cominciò a incorporarsi
con quella di natura più che con quella di M.: il concetto di totalità ebbe
allora il sopravvento. 2° I primi ad esporre il concetto del M. come totalità
che abbraccia ogni cosa furono gli Epicurei. « Il M., diceva Epicuro, è la
circonferenza del cielo che abbraccia gli astri e la terra e tutti i fenomeni +
(Dioc. L., X, 88). Ma solo nella filosofia moderna questo concetto prevalse
soppiantando interamente quello più antico del M. come ordine. Dice Leibniz:
«Chiamo M. tutta la serie e tutta la collezione di tutte le cose esistenti,
affinchè non si dica che più M. possano esistere in diversi tempi e luoghi.
Bisognerebbe infatti contarli tutti insieme per un solo M. o, se preferite, per
un solo universo » (Théod., I, $ 8). Da questo punto di vista il M. è «l’insieme
totale delle cose contingenti» (/bid., I, $ 7); e l’elaborazione successiva del
concetto ha specialmente insistito su questo concetto di totalità assoluta.
Pertanto le due nozioni di, universo e di M. che gli antichi tendevano a
distinguere l'una dall’altra vengono considerate coincidenti. Dice Wolff: «La
serie degli enti finiti sia simultanei che successivi, tra loro connessi, si
dice M. o anche universo » (Cosmol., $ 48). A sua volta Baumgarten chiarisce
meglio il senso della totalità assoluta, affermando che essa non può essere
parte di altra totalità. « Il M., egli dice, è la serie (la moltitudine, la
totalità) dei finiti reali la quale non è parte di un'altra serie» (Mer., $
354). Una determinazione che veniva ripetuta da Crusius: « Il M. è un reale 595
concatenamento di cose finite tale da non essere a sua volta parte di un altro,
a cui appartenga in virtù d’un reale concatenamento » (Entwurf der notwendigen
Vernunft-Wahrheiten, 1745, $ 350). È questo il concetto che viene criticato
nella dialettica trascendentale di Kant. Kant osservava che la parola M. «nel
senso ni si passa alla richiesta della totalità delle condizioni, che è
l’incondizionato o M. e non è più niente di empirico (/bid., sez. 7). Non c’è
quindi da meravigliarsi che la nozione di M., fondata com'è su un procedimento
sofistico, dia luogo ad antinomie irresolubili: antinomie che concernono la
finità o l'infinità del M., il suo cominciamento o non cominciamento nel tempo,
l’esistenza o non esistenza di parti semplici in esso e la presenza o l’assenza
della libertà (v. ANTINOMIE KANTIANE). La soluzione di tali antinomie si ha,
secondo Kant, soltanto rinunciando alla nozione stessa di M. o considerando
tale nozione semplicemente come una regola della conoscenza empirica; e precisamente
come la regola che « esige il regresso nella serie delle condizioni dei dati
fenomenici, un regresso nel quale non sia mai dato di arrestarsi a qualcosa di
assolutamente incondizionato» (/bid., sez. 8). Da questo punto di vista il M.
non è una realtà ma « un principio regolativo della ragione ». Questa critica
di Kant è, si può dire, rimasta decisiva. È ben vero che cercano di
dimenticarla non solo le dottrine che costituiscono sopravvivenze della
metafisica teologica ma anche dottrine cosmologiche moderne, sedicenti
«scientifiche » che speculano sul M. e sulla creazione (v. CosmoLogia). Ma è
anche vero che queste dottrine s’imbattono subito in antinomie insolubili, che
riproducono quelle kantiane, non appena fanno appello al concetto del M. come
totalità assoluta. In realtà ciò di cui la scienza può parlare è soltanto il M.
osservabile 596 inteso come «il più inclusivo insieme di oggetti astronomici
che possa essere identificato con l’aiuto degli strumenti disponibili ad un
dato tempo» (M. K. MunITZ, Space, Time and Creation, 1957, pag. 93). Ma in
questo senso il M. è una totalità di campo, non una totalità assoluta. 3° La
terza interpretazione del concetto di M., che è in regola con la critica
kantiana, s’identifica con quello che abbiamo enunciato come significato 5):
per esso il M. è la totalità di un campo o di più campi di attività o di
indagine o di relazioni. Da questo punto di vista, la parola M. senza aggettivi
non designa una totalità assoluta ma semplicemente l’insieme di un campo
specifico, che è quello dell’astronomo o del cosmologo. In questo senso, la
parola è perfettamente analoga a ciò che la «materia» è per il fisico o la
«vita» per il biologo: l’indicazione di un campo generico determinato dal
convergere o dal sovrapporsi di un determinato gruppo di tecniche di ricerca
(M. K. MuUNITZ, Op. cif., pag. 69). In generale, da questo punto di vista, può
dirsi che la nozione designa « un insieme di campi definiti da tecniche
relativamente compatibili e in qualche misura convergenti. Possiamo così parlare
del ‘ M. naturale * come dell'insieme dei campi coperti dalle scienze naturali
nella misura in cui le loro tecniche sono relativamente compatibili e
convergenti; o di ‘ M. storico * come dell’insieme dei campi in cui possono
essere adoperate le tecniche dell’indagine storiografica; ecc. » (ABBAGNANO,
Possibilità e libertà, 1956, pag. 154-55). A questa stessa nozione si ricollega
quella data da Heidegger ed accettata dalla filosofia esistenzialistica, del M.
come il campo costituito dalle relazioni dell’uomo con le cose e con gli altri
uomini. «È egualmente erroneo, dice Heidegger, assumere l’espressione M. tanto
per designare la totalità delle cose naturali (concetto del M. naturalistico) O
per indicare la comunità degli uomini (concetto personalistico), Ciò che di
metafisicamente essenziale contiene il significato più o meno chiaro di M. è
che esso mira all’interpretazione dell’Esserci umano nel suo rapportarsi
all’ente nel suo insieme » (Vom Wesen des Grundes, 1929, I; trad. ital., pag.
53). Ovviamente, da questo punto di vista, la parola M. fa parte integrante
dell’espressione « essere nel M.» che designa il modo d’essere che è proprio
dell’uomo in quanto « è situato nel mezzo dell'ente come rapportantesi
all'ente» cioè è in rapporto essenziale con le cose e con gli altri uomini. M.
significa, in tal caso, l’insieme delle relazioni tra l’uomo e gli altri
esseri: la totalità di un campo di relazioni (v. TUTTO; UNIVERSO). MONDO DELLA
VITA (ted. Lebenswelt). Termine introdotto da Husserl nella Krisis per deMONDO
DELLA VITA signare «il mondo in cui viviamo intuitivamente, con le sue realtà,
così come si dànno, dapprima nella semplice esperienza poi anche nei modi in
cui esse diventano oscillanti nella loro validità (oscillanti tra l’essere e
l'apparenza ecc.)» (Krisis, $ 44). Husserl contrappone tale mondo a quello to
della loro dottrina, il termine è stato costantemente monopolizzato dai
materialisti; e quando è usato senza aggettivo designa appunto il materialismo.
Ciò è probabilmente dovuto al fatto che esso fu adottato da uno dei più
popolari autori di scritti materialistici cioè dal biologo Ernesto Haeckel (Der
Monismus als Band zwischen Religion und Wissenschaft, 1893). In questo senso il
termine, fu adoperato nel nome della Associazione Monistica Tedesca (Deutsche
Monistenbund) fondata nel 1906 da Haeckel e da Ostwald; nonchè nel titolo di
una delle più antiche riviste filosofiche americane The Monist fondata nel 1890
da Paul Carus. MONOFILETISMO (ingl. Monophyletism; franc. Monophylétisme; ted.
Monophyletismus). La dottrina secondo la quale tutte le specie viventi derivano
da un unico ceppo originario. La dottrina contraria si chiama polifiletismo.
MONOFISISMO (ingl. Monophysism; francese Monophysisme; ted. Monophysismus).
Un’interpretazione eretica del dogma cristiano dell’Incarnazione: il Verbo o
Cristo avrebbe una sola natura, quella divina. Tale interpretazione fu
sostenuta nel sec. v da Eutiche, in opposizione al resrorianesimo (v.) che
sosteneva l’eresia opposta; e fu condannata dal Concilio di Calcedonia del 451.
MONOGENISMO (ingl. Monogenism; francese Monogénisme; ted. Monogenismus). La
dottrina secondo la quale tutte le razze umane viventi discendono da un unico
ceppo. La dottrina contraria si chiama poligenismo. MORTE MONOPSICHISMO (ingl.
Monopsychism; franc. Monopsychisme; ted. Monopsychismus). La dottrina
averroistica dell’unità dell’anima intellettiva in tutti gli uomini. V.
INTELLETTO ATTIVO. MONOSILLOGISMO (ingl. Monosyllogism; franc. Monosyllogisme;
ted. Monosyllogismus). Ragionamento costituito da un solo sillogismo, così
detto in opposizione a polisillogismo (v.). MONOTEISMO (ingl. Monotheism;
franc. Monothéisme; ted. Monotheismus). La dottrina dell’unicità di Dio. V.
DIO, 3°, 5). MONOTELETISMO (ingl. Monotheletism; franc. Monothélétisme; ted.
Monotheletismus). Interpretazione eretica del dogma dell’incarnazione, secondo
la quale esiste in Cristo una sola volontà, quella divina, che costituisce il
tratto d’unione delle due nature che sono in lui, la divina e l’umana. Tale
eresia fu sostenuta dal patriarca di Costantinopoli Sergio nel sec. vi e
condannata dal VI Concilio ecumenico nel 680. MONTANISMO (ingl. Montanism;
franc. Montanisme; ted. Montanismus). Setta religiosa cristiana del r secolo
detta così dal nome del suo fondatore Montano, ex sacerdote di Cibele. Montano
intendeva trasferire nel cristianesimo il culto entusiastico della sua setta di
provenienza: i montanisti vivevano in continua agitazione nell’attesa
dell’imminente ritorno del Cristo. Tertulliano appartenne per un certo tempo a
questa setta. MONUMENTALE, STORIA. V. ArcHEoLOGICA, STORIA. MORALE (lat.
Moralia; ingl. Morals; franc. Morale; ted. Moral). 1. Lo stesso che Etica. 2.
L’oggetto dell’etica, la condotta in quanto diretta o disciplinata da norme,
l’insieme dei mores. In questo significato la parola è adoperata nelle seguenti
espressioni: «la morale dei primitivi» «la morale contemporanea », ecc. MORALE
(gr. 866; lat. Moralis; ingl. Moral; franc. Moral; ted. Moral). Questo
aggettivo ha in primo luogo i due significati corrispondenti a quelli del
sostantivo morale e cioè 1° attinente alla dottrina etica, 2° attinente alla
condotta e quindi suscettibile di valutazione M.: e, specialmente, di
valutazione M. positiva. Così non soltanto si parla di atteggiamento M. o di
persona M. per indicare un atteggiamento o persona moralmente valutabile ma
anche si intendono con le stesse espressioni cose positivamente valutabili cioè
buone. L’aggettivo ha avuto poi in inglese, francese, italiano, e ancora
conserva in certe espressioni, il significato generico di « spirituale». Hegel
ricordava questo significato in riferimento al francese (Enc., $ 503). E ancora
tale significato rimane, per esempio, nell’espressione «scienze morali», che
sono le «scienze dello spirito ». 597 MORALISMO (ingl. Moralism; franc.
Moralisme; ted. Moralismus). 1. La dottrina che fa dell’attività morale la
chiave per l’interpretazione di tutta la realtà. Il termine fu adoperato in
questo senso da Fichte nella esposizione della Wissenschaftslehre del 1801 ($
26 in Werke, II, pag. 64)e fu ripreso e diffuso da scrittori francesi della
fine del secolo scorso. 2. Nel linguaggio comune e, sempre più frequentemente,
in quello filosofico il termine designa l’atteggiamento di chi si compiace di
moralizzare su ogni cosa, senza sforzarsi di comprendere le situazioni cui il
giudizio morale va riferito. In questo senso il M. è un formalismo o
conformismo morale, che ha poca sostanza umana. Cfr. A. BANFI, « M. e moralità
», L'uomo copernicano, 1950, pag. 279 sgg. MORALITÀ (lat. Moralitas; ingl.
Morality; franc. Moralité; ted. Moralitàt). Il carattere proprio di tutto ciò
che si conforma alle norme morali. Kant ha contrapposto la M. alla legalità.
Quest’ultima è il semplice accordo e disaccordo di un’azione con la legge
morale senza riguardo al movente dell’azione stessa. La M. consiste invece
nell’assumere come movente di azione l’idea stessa del dovere (Metaphysik der
Sitten, I, Intr.,$ 3; Crit. R. Prat.,I, 1, 3). Marco Aurelio, è il riposo dai
contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come
marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo
avere per il corpo» (Ricordi, VI, 28). Leibniz concepiva la fine del ciclo
vitale come diminuzione o involuzione della vita. « Non si può, egli diceva,
parlare di generazione totale o di morte perfetta, intesa rigorosamente come
separazione dell’anima. Ciò che chiamiamo generazioni sono sviluppi e
accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono involuzioni e diminuzioni » (Mon.,
$ 73). Con la M., in altri termini, la vita diminuisce e scende a un livello
inferiore a quello dell’appercezione o coscienza, in una specie di «stordimento
+, ma non cessa (Principes de la nature et de la gràce, 1714, $ 4). A sua
volta, Hegel considera la morte come la fine del ciclo dell’esistenza
individuale o finita per la sua impossibilità di adei all’universale. « La
inadeguatezza dell’animale all’universalità, egli dice, è la sua malattia
originale; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa inadeguatezza
è appunto l’adempimento del suo destino » (Enc., $ 375). Infine il concetto
biblico della M. come pena del peccato originale (Gen., II, 17; Rom., V, 12) è,
nello stesso tempo, il concetto di essa come conclusione del ciclo della vita
umana perfetta in Adamo e il concetto di una limitazione fondamentale che la
vita umana ha subito a partire dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a questo
proposito: « La M., la malattia e qualsiasi difetto corporeo dipende da un
difetto nell’assoggettamento del corpo all’anima. E come la ribellione
dell’appetito carnale allo spirito è la pena del peccato dei primi genitori,
tale è anche la M. ed ogni altro difetto corporeo» (S. 7h., II, 2, q.164, a.l).
Ma questo secondo aspetto, che è proprio della teologia cristiana, appartiene
propriamente al concetto della M. come possibilità esistenziale. c) Il concetto
della M. come possibilità esistenziale implica che la M. non sia un evento
MOTIVO particolare, situabile all’inizio o al termine di un ciclo di vita
proprio dell’uomo, ma una possibilità sempre presente alla vita umana e tale da
determinare le caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione della
M. in questo senso ha avviato, nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia
della vita e specialmente Dilthey. «Il rapporto che caratterizza in modo più
profondo e generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della
vita con la M., perchè la limitazione della nostra esistenza mediante la M. è
decisiva per la comprensione e la valutazione della vita» (Das Erlebnis und die
Dichtung, 5* ediz., 1905, pag. 230). L’idea importante espressa qui da Dilthey
è che la M. costituisca « una limitazione dell’esistenza » non già in quanto ne
costituisce il termine ma in quanto costituisce una condizione che accompagna tutti
i momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano
filosofico, la concezione della M. della teologia cristiana, è stata espressa
da Jaspers col concetto della situazione-limite: cioè di una «situazione
decisiva, essenziale, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è
inevitabilmente data con l’essere finito» (Psychologie der Weltanschauungen,
1925, III, 2; trad. ital., pag. 266; cfr. Phil., II, pag. 220 sgg.).
Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha considerato la M. come
possibilità esistenziale. « La M., egli ha detto, come fine dell’Esserci, è la
possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale,
indeterminata e insuperabile » (Sein und Zeit, $ 52). Da questo punto di vista,
cioè come possibilità, «la M. non offre niente da realizzare all'uomo e niente
che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell’impossibilità
di ogni rapporto, di ogni esistere » (/bid., $ 53). E poichè la M. può essere
compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè l’attesa di essa
nè il fuggire di fronte ad essa, il « non pensarci », ma l’anticipazione
emotiva di essa, l’angoscia (v.). L'espressione usata da Heidegger nel definire
la M. «la possibilità dell’impossibilità » può a buon diritto apparire
contraddittoria. Essa è suggerita a Heidegger dalla sua dottrina della
impossibilità radicale dell’esistenza: la M. è la minaccia che tale
impossibilità fa incombere sull’esistenza medesima. Se si vuol prescindere da
questa interpretazione dell’esistenza in termini di necessità negativa, si può
dire che la M. è «la nullità possibile delle possibilità dell’uomo e
dell’intera forma dell’uomo » (ABBAGNANO, Struttura dell’ esistenza, 1939, $
98; cfr. Possibilità e libertà, 1956, pag. 14 seguenti). Poichè ogni
possibilità può, come possibilità, non essere, la M. è la nullità possibile di
ognuna e tutte le possibilità esistenziali; in questo senso, Merleau-Ponty dice
che il senso della M. è la «contingenza del vissuto», cioè «la minaccia
perpetua per i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero »
(Structure du comportement, 1942, IV, II, $ 4). MOTIVAZIONE (ingl. Morivation;
franc. Motivation; ted. Motivation). 1. La causalità del motivo. Schopenhauer
per primo ha nettamente distinto questa forma della causalità dalle altre tre
che sono: la causalità della causa, la causalità della ragione, e la causalità
della ragion d’essere (Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden
Grunde, 1813, $ 20, 29, 36). Dice Schopenhauer: «L’efficienza del motivo viene
ad essere conosciuta da noi non solo dal di fuori, come quella di tutte le
altre cause e perciò solo mediatamente, ma anche dall’interno, in modo
immediato... Di qui risulta l’importante proposizione: la M. è la causalità vista
dall’interno... Bisogna perciò proporre la M. come una forma speciale del
principio di ragion sufficiente dell’agire cioè come legge della M.» (Vierfache
Wurzel, $ 43). Anche senza il carattere privilegiato che Schopenhauer le
riconosceva come rivelazione immediata del modo di agire intrinseco della
causalità, la M. è rimasta a indicare l’azione determinante del motivo, quali
che siano i limiti che si pongano a tale determinazione. I problemi della M.
sono da un lato di natura psicologica e concernono il modo di agire dei motivi
in quanto si presta ad essere osservato dagli strumenti di cui la psicologia
dispone; dall’altro lato, sono di natura filosofica in quanto concernono i
limiti o le modalità della determinazione e quindi la libertà e il determinismo
(v.). 2. Husserl ha chiamato M. le connessioni dell’esperienza che condizionano
la possibilità della sperimentazione ulteriore. « La sperimentabilità, egli ha
detto, non significa una vuota possibilità logica ma una possibilità motivata
dalla connessione dell’esperienza. Questa è via via una catena di M. in quanto
assume sempre nuove M. e trasforma quelle già formate » (/deen, I $ 47). MOTIVO
(ingl. Motive; franc. Motif; tedesco Motiv). La causa o la condizione di una
scelta, cioè di una volizione o di un’azione. Il M. può essere più o meno
chiaramente riconosciuto da colui sul quale agisce: si chiama talvolta movente
(franc. Mobile; ted. Triebfeder) il M. che non ha carattere « razionale » cioè
che non può essere considerato come una «ragione» della scelta. Già Aristotele
aveva detto: « Poichè ci sono tre cose: primo, il motore; secondo, ciò con cui
muove; e terzo, ciò che è mosso, si ha che il motore immobile è il bene
pratico, il motore che è anche mosso è la facoltà appetitiva, e ciò che è mosso
è l’animale » (De An., III, 10, 433 b 14). Il M. è inteso qui come un motore
unico e immutabile che 600 è il bene, il fine cui tende la vita dell’animale.
Ma nel mondo moderno di un motore in questo senso non si parla più e si parla
invece di motivo. Wolff intendeva con questo termine « la ragione sufficiente
della volizione o della nolizione » (Psychol, empirica, $ 887): una definizione
che, si può dire, non ha subìto mutamenti, tranne che nel diverso grado di
determinazione attribuito al motivo. Il problema di questi diversi gradi di
determinazione è il problema della /ibertà (v.). Dall'altro lato, l’importanza
del concetto di M. per la spiegazione della condotta umana è stata talvolta
messa in dubbio nella filosofia contemporanea. Dewey, per es., ha affermato che
«l’intero concetto di M. è in verità extrapsicologico ». Nessuna persona di
buon senso attribuisce gli atti di un animale o di un idiota ad un M.; ed è
assurdo chiedere che cosa induce un uomo all’attività. « Ma quando abbiamo
bisogno di condurlo ad agire in un modo specifico piuttosto che in un altro,
quando vogliamo dirigere la sua attività in una direzione specifica, allora la
questione del M. è pertinente. Il M. è allora l’elemento del complesso totale
dell’attività umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a un atto
avente conseguenze specifiche ». In altri termini il M. è piuttosto che un
fattore di spiegazione della condotta umana, uno strumento per orientarla e
guidarla (Human Nature and Conduct, pag. 119-20). MOTORE. V. Dio, Prove DI; MOVIMENTO.
MOVENTE. V. Motivo. MOVIMENTO (gr. x(vnow; lat. Motus; inglese Motion; franc.
Mouvement; ted. Bewegung). 1. In generale, un mutamento o processo di qualsiasi
specie. Questo significato corrisponde a quello del termine greco. Platone
distingueva due specie di M., l’alterazione e la traslazione (7eer., 181 d);
Aristotele ne distingueva quattro e cioè, oltre le due precedenti, il M.
sostanziale (generazione e corruzione) e il M. quantitativo (aumento e
diminuzione) (Fis., III, 1, 201a 10). Per le singole specie del M., v. le voci
relative. Il M. in generale fu definito da Aristotele come «l’entelechia di ciò
che è in potenza » (Fis., III, l, 201 a 10): definizione che è rimasta celebre
nei secoli. Essa vuol dire che il M. è la realizzazione di ciò che è in
potenza: ad es., la costruzione, l’apprendimento, la guarigione, la crescita,
l’invecchiamento, sono realizzazioni di potenzialità (/bid., 201 a 16). Nel M.
così inteso la parte fondamentale è quella del motore, dal cui contatto si
genera il movimento. « Quale che sia il motore, dice Aristotele, esso sempre
apporterà una forma — sostanza particolare o qualità o quantità — che sarà
principio e causa del M., quando il motore muoverà; al modo in cui l’entelechia
nell'uomo fa dell’uomo in potenza un uomo» (/id., III, 2, 202 a 8). La fisica
aristotelica è, dal principio alla fine, una teoria del M. in questo senso (v.
Fisica). Il suo teorema fondamentale « tutto ciò che si muove è mosso da
qualcosa » (/bid., VII, 1, 256a 14) porta alla teoria del primo motore immobile
dell’universo (v. Dio, Prove DI). 2. In senso specifico, il M. locale o
traslazione. Aristotele afferma la priorità di questo M. sugli altri tre. Gli
altri M. possono infatti essere ridotti a quest’ultimo, che dall’altro lato è
il solo che può appartenere alle cose eterne cioè agli astri (Fis., VIII, 7,
260b). Le specie del M. locale caratterizzano, secondo Aristotele gli elementi
dell’universo, compreso quello costitutivo delle sostanze celesti cioè l’etere,
che si muove di M. circolare (v. Fisica). Questa dottrina del M. è rimasta per
lungo tempo immutata perchè tutta la filosofia antica e medievale l’ha ripetuta
senza modifiche sostanziali. Una teoria del M. che ebbe fortuna nell’ultimo
periodo della scolastica è quella elaborata da Duns Scoto, della forma fluente.
Secondo Duns Scoto, un corpo che si muove acquista ad ogni istante qualcosa: ma
non il luogo, che non è un suo attributo ma risiede nei corpi che lo
attorniano, bensì piuttosto una specie di determinazione qualitativa, analoga
al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda. Questa determinazione è il
dove (ubi). Il M. è quindi la perdita o l'acquisizione continua del dove e in
questo senso è una « forma fluente » (Quod!., q. 11, a. 1). La dottrina veniva
criticata dalla scolastica della fine del ’200 e del *300. Ockham la
sottometteva a una critica radicale, considerando il M. come il mutamento del
rapporto di un corpo con i corpi circostanti (Quod?., VII, q. 6). Questo era il
concetto che doveva prevalere nell’età moderna ad opera della scienza. Cartesio
l’esprimeva nel modo seguente: « Il M. è il trasporto di una parte della
materia o di un corpo dalla vicinanza dei corpi che lo toccano immediatamente e
che consideriamo in riposo, alla vicinanza di altri corpi» (Prince. Phil., II,
25). Sul concetto del M. nella scienza contemporanea, v. RELATIVITÀ. MUSICA
(gr. uovowi téixvn; lat. Musica; inglese Music; franc. Musique; ted. Musik).
Due sono le definizioni filosofiche fondamentali che sono state date della
musica. La prima è quella che la considera come la rivelazione all'uomo di una
realtà privilegiata e divina: rivelazione che può assumere o la forma della
conoscenza, o quella del sentimento. La seconda è quella che la considera come
una tecnica o un insieme di tecniche espressive, che concernono la sintassi dei
suoni. 1° La prima concezione, che passa per essere la sola « filosofica » ma
che veramente è metafisica o teologizzante, consiste nel ritenere che la M. è
una scienza o un’arte privilegiata in quanto ha per oggetto la realtà suprema o
divina o una sua caratteristica fondamentale. Di questa concezione si possono
distinguere due fasi: a) la prima vede l’oggetto della M. nell’armonia come
caratteristica divina dell’universo e considera pertanto la M. come una delle
scienze supreme. 5) Per la seconda l'oggetto della M. è lo stesso principio
cosmico (Dio, o la Ragione autocosciente, o la Volontà infinita, ecc.) e la M.
è l’autorivelazione di questo principio nella forma del sentimento. Entrambe
queste concezioni hanno un tratto fondamentale in comune: la separazione della
M., come arte « pura », dalle tecniche in cui essa si realizza. Platone
polemizza contro i musici che vanno alla ricerca di nuovi accordi sugli
strumenti (Rep., VII, 531 b) e così fa pure Plotino. Schopenhauer e Hegel
parlano della « essenza » della M., della sua natura universale ed eterna, in
quanto è separabile dai mezzi espressivi nei quali essa prende corpo come
fenomeno artistico. a) La dottrina della M. come scienza dell’armonia e
dell’armonia come ordine divino del cosmo è nata coi Pitagorici. «I Pitagorici,
che Platone segue spesso, dicono che la M. è armonia di contrari e unificazione
dei molti e accordo dei discordanti » (FinoLao, Fr., 10, Diels). La funzione e
i caratteri dell'armonia musicale sono gli stessi che la funzione e i caratteri
dell'armonia cosmica: la M. è perciò il mezzo diretto per elevarsi alla
conoscenza di questa armonia. Platone pertanto includeva la M. fra le scienze
propedeutiche al quarto posto (dopo l’aritmetica, la geometria piana e solida e
l’astronomia) e quindi la considerava la più vicina alla dialettica e la più
filosofica (Fed., 61 a). Come scienza autentica tuttavia la M. non consiste,
secondo Platone, nel cercare con l’orecchio nuovi accordi sugli strumenti: in
questo modo si anteporrebbero gli orecchi all’intelligenza (Rep., VII, 531 a).
Coloro che così fanno «si regolano come gli astronomi perchè cercano i numeri
negli accordi accessibili all’udito ma non risalgono ai problemi, non indagano
quali numeri siano armonici e quali no e donde venga la loro differenza »
(Ibid., VII, 531 b-c). Per questa possibilità di passare dai ritmi sensibili
all’armonia intelligibile, la M. è ritenuta da Plotino una delle vie per
ascendere a Dio. « Dopo le sonorità, i ritmi e le figure percepibili dai sensi,
egli dice, il musico deve prescindere dalla materia nella quale si realizzano
gli accordi e le proporzioni e attingere la bellezza di essi in se stessi. Deve
apprendere che le cose che lo esaltavano sono entità intelligibili: tale è
infatti l'armonia: la bellezza che è in essa è la bellezza assoluta, non quella
particolare. Per questo, egli 601 deve servirsi di ragionamenti filosofici che
lo conducono a credere a cose che aveva in sè senza saperlo » (Enn., I, 3, 1).
Furono queste le considerazioni che portarono a includere la M. nel novero
delle «arti liberali » ritenute fondamentali per tutto il Medioevo. S. Agostino
espone il passaggio della M. dalla fase della sensibilità, in cui essa si
occupa dei suoni, alla fase della ragione in cui diventa contemplazione
dell’armonia divina. «La ragione, egli dice, comprese che in questo grado,
tanto nel ritmo quanto nell’armonia, i numeri regnano e conducono tutto a
perfezione: osservò allora con la massima diligenza di quale natura fossero e
li scoprì divini ed eterni perchè col loro aiuto erano state ordinate tutte le
cose supreme» (De Ordine, II, 14). Nelle Nozze di Mercurio e della Filologia,
Marciano Capella, verso la metà del v secolo, includeva la M. tra le arti
liberali (ridotte a sette) e con questa la stabiliva come uno dei pilastri
dell'educazione medievale. Alcuni secoli dopo, Dante paragonava la M. al
pianeta Marte: giacchè come questo è «la più bella relazione» perchè è al
centro degli altri pianeti, e il più caloroso perchè il suo calore è simile a
quello del fuoco, così è la M.: «la quale è tutta relativa siccome si vede
nelle parole armonizzate e nelli canti, dei quali tanto più dolce armonia
risulta tanto più la relazione è bella»; e la quale « trae a sè gli spiriti
umani che sono quasi principalmente vapori del cuore sicchè quasi cessano da
ogni operazione » (Conv., II, 14). Ciò che qui Dante chiama « relazione » è
l'armonia di cui parlavano gli antichi e il carattere cosmico della M. è
espresso nel confronto di essa con uno degli astri maggiori dell’universo. b)
La dottrina della M. come autorivelazione del Principio cosmico tende a
privilegiare la M. al di sopra di tutte le altre arti o scienze e a farne la
più diretta via d’accesso all’Assoluto. Queste sono le caratteristiche proprie
della concezione romantica della M., caratteristiche che si trovano ben
realizzate nella teoria di Schopenhauer. Secondo Schopenhauer, mentre l’arte in
generale è l’oggettivazione della Volontà di vivere (che è il Principio cosmico
infinito) in tipi o forme universali (le Idee platoniche) che ciascun’arte
riproduce a suo modo, la M. è rivelazione immediata o diretta della stessa
Volontà di vivere. « La M., egli dice, è dell’intera Volontà oggettivazione ed
immagine tanto diretta quant'è il mondo; o anzi come sono le Idee, il cui
fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La M. non è
quindi, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l'immagine della
Volontà stessa, della quale sono oggettività anche le idee. Perciò l’effetto
della M. è tanto più potente e insinuante di quello delle altre arti: giacchè
queste ci dànno solo il riflesso mentre quella ci dà l’essenza » (Die Welt,
1819, I, $ 52). Con questa esaltazione della M. coincide la dottrina di Hegel:
la quale tuttavia aggiunge l'importante determinazione, che la M. è
l’espressione dell’assoluto nella forma del sentimento (Gemiith). «La M., dice
Hegel, costituisce il punto centrale di quella rappresentazione la quale
esprime il soggettivo come tale sia rispetto al contenuto sia rispetto alla
forma, giacchè essa partecipa dell’interiorità e rimane soggettiva anche nella
sua oggettività ». In altri termini essa non lascia, come fanno le arti
figurative, che l’esteriorizzazione sia libera di svilupparsi di per se stessa
e di arrivare a un'esistenza di per sè stante « ma supera l’oggettivazione
esterna e non s’immobilizza in essa fino a farne qualcosa di esterno che abbia
esistenza indipendentemente da noi» (Vorlesungen liber die Aesthetik, ed.
Glockner, III, pag. 127). Ciò vuol dire che nella M., a differenza che nelle
altre arti, la forma sensibile in cui l’Idea si manifesta od esprime è
interamente superata come tale e risolta in pura interiorità, in puro
sentimento. Da questo punto di vista Hegel dice che il sentimento è la forma
propria della M.: «Il compito fondamentale della M. consiste nel far risuonare,
non già la stessa oggettività ma, all’opposto le forme e i modi nei quali la
più interna soggettività dell’io e l’anima ideale si muove in se stessa»
(4bid., pag. 129). Col riconoscimento del sentimento come forma propria della
M. e come giustificazione della superiorità di essa, la teoria romantica della
M. aveva trovato la sua espressione definitiva. È solo un’esagerazione di
questa espressione la teoria di Kierkegaard che la M. « trova il suo oggetto
assoluto nella genialità erotico-sensuale » (Aus Auf, Le tappe erotiche, ecc.;
trad. franc., Prior e Guignot, pag. 54). La definizione della M. come l’arte di
esprimere «i sentimenti » o «le passioni » mediante i suoni, fu ripetuta infinite
volte e si perdette persino il senso delle sue implicanze teoretiche. Essa fu
assunta come una definizione oggettiva o scientifica della M. (cfr. HANSLICK,
Vom Musikalisch-Schònen, 1854, la nota finale del cap. 1). Fu questa la
definizione della M. cui si ispirò l’opera di Wagner, che infatti condivideva
la filosofia di Schopenhauer sulla musica. Federico Nietzsche a sua volta fu,
nella sua giovinezza, un seguace di questa concezione: dalla quale si staccò a
partire dal 1878 (con Umano, troppo umano) quando cominciò a scorgere
nell’opera di Wagner, orientata nostalgicamente verso il cristianesimo, un
abbandono di quei valori vitali che erano propri dell'antichità classica e uno
spirito di rinuncia e di rassegnazione. Ma dal concetto romantico della M. neppure
Nietzsche si staccò mai veramente. L'ideale che egli vagheggiò di una M. «
meridionale» (del tipo di quella di Bizet) conserva ancora la caratteristica
romantica di essere l’espressione del sentimento per quanto di un sentimento
situato «al di là del bene e del male ». Egli scrisse infatti: « Il mio ideale
sarebbe una M. il cui maggior fascino consistesse nell’ignoranza del bene e del
male, una M. resa tremula tutt'al più da qualche nostalgia di marinaio, da
qualche ombra dorata, da qualche tenera rimembranza; un’arte che assorbisse in
se stessa, da una grande distanza tutti i colori di un mondo morale che
tramonta, un mondo divenuto quasi incomprensibile, e la quale fosse ospitale e
profonda abbastanza per accogliere in sè i tardi fuggiaschi » (Jenseits von Gut
und Bòse, $ 255). Anche oggi si fa frequentemente ricorso alla definizione
della M. come espressione del sentimento o almeno la si presuppone come cosa
ovvia e sicura (cfr., per es., Dewey, Art as Experience, cap. 10; trad. ital.,
pag. 278 sgg.). In Italia ha contribuito a rafforzarla la dottrina crociana
dell'arte come espressione del sentimento; ma, ovviamente, questa dottrina non
è che la generalizzazione a tutto il dominio dell’arte della definizione
romantica della musica. Questa definizione ha trovato e trova pure incarnazioni
frequenti nella figura del musicista, sacerdote o profeta, che sa ascoltare la
voce dell’Assoluto e tradurla nel linguaggio sonoro del sentimento. Anche oggi
difficilmente si rinuncia a vagheggiare questa raffigurazione romantica della
M.: la quale consente agli intenditori di essa di sentirsi rapiti dentro un
orizzonte mistico nel quale gli accordi musicali sono parole di una divinità
nascosta. 2° La caratteristica della seconda concezione fondamentale della M. è
l'identità, che essa implica, tra la M. e le sue tecniche. Tale identità fu
chiaramente espressa da Aristotele con il riconoscimento della molteplicità
delle tecniche musicali. «La M., egli diceva, non va praticata per un unico
tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poichè può
servire per l'educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il
riposo, il sollevamento dell’anima e la sospensione dalle fatiche. Da ciò
risulta che bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso
modo, impiegando per l’educazione quelle che banno un maggiore contenuto
morale, per l’ascolto di M. eseguite da altri quelle che incitano all’azione o
ispirano alla commozione » (Po/., VIII, 7, 1341 b 30 sgg.). Queste
considerazioni che, nella loro apparente semplicità, sembrano escludere
un’interpretazione filosofica della M., in realtà esprimono il concetto che la
M. è un insieme di tecniche espressive, aventi scopi o usi diversi e che
possono essere indefinitamente e opportunamente variate. E questo concetto è in
realtà il solo che ha aiutato e sorretto lo sviluppo dell’arte musicale. Esso
ritornò nel Rinascimento e veniva così espresso da Vincenzo Galilei: «L’uso
della M. fu dagli uomini introdotto per il rispetto e il fine che di comun parere
dicono tutti i savi; il quale non da altro principalmente nacque che
dall’esprimere con efficacia maggiore i concetti dell'animo loro nel celebrare
le lodi degli Dei, dei geni e, degli eroi, come dai canti fermi e piani
ecclesiastici, origine di questa nostra a più voci si può in parte comprendere,
e d’imprimergli, secondariamente, con pari forza nelle menti dei mortali per
utile e comodo loro» (Dialogo della M. antica e della moderna, 1581, ed. Fano,
1947, pag. 95-96). In queste parole di Galilei appare anche chiaramente
riconosciuto il carattere espressivo delle tecniche musicali: un carattere che
fa della M. un’arte nel senso moderno del termine (v. ESTETICA). Il concetto di
tecnica espressiva è espresso da Kant con la nozione di « bel gioco di sensazioni
» di cui egli si avvale per definire sia la M. sia la tecnica dei colori. Kant
osserva che «non si può sapere con certezza se un colore e un suono siano
semplici sensazioni piacevoli o se siano già in se stessi un bel gioco di
sensazioni e quindi contengano, in quanto gioco, un piacere che dipende dalla
loro forma nel giudizio estetico ». Alcuni fatti, e specialmente la mancanza
della sensibilità artistica in alcuni uomini e l’eccellenza di tale sensibilità
in altri, convincono a considerare le sensazioni dei due sensi, vista e udito,
non come semplici impressioni sensibili, ma come « l’effetto di un giudizio
formale nel gioco di molte sensazioni +. In ogni caso, «a seconda che si
adotterà l'una o l’altra opinione nel giudicare del principio della M. ne sarà
diversa la definizione e o si definirà, come noi abbiamo fatto, quale un bel
gioco di sensazioni (dell’udito) o come un gioco di sensazioni piacevoli.
Secondo la prima definizione, la M. è considerata come arte bella senz'altro,
con la seconda è invece considerata, almeno in parte, come arte piacevole »
(Crit. del giud., $ 51). Il concetto di « bel gioco di sensazioni » tende già
ad esprimere una nozione sintattica della M. e per di più una nozione per la
quale la ricerca sintattica può essere indirizzata liberamente in tutte le
direzioni (questo è implicito nella parola « gioco »). Verso la metà dell’800
questa nozione veniva più rigorosamente e chiaramente formulata nello scritto
di EpuaRDO HANSLICK, // bello musicale (1854) che rimane a tutt'oggi una delle
più importanti opere di estetica musicale. Hanslick si schiera polemicamente
contro il concetto romantico della M. come «rappresentazione del sentimento».
L’oggetto proprio della M. è piuttosto il bello musicale: intendendosi con ciò
«un bello che, senza dipendere e senza abbisognare di alcun contenuto
esteriore, consiste unicamente nei suoni e nel loro artistico collegamento. Le
ingegnose combinazioni di bei suoni, il loro concordare e opporsi, il loro
sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere
forme si presenta alla intuizione del nostro spirito e che ci piace come bello.
L'elemento primordiale della musica è l’eufonia, la sua essenza il ritmo» (Vom
MusikalischSchònen, III; trad. ital., 1945, pag. 82). Così intesa la M.
s’identifica con la tecnica realizzatrice. Dice Hanslick a questo proposito: «
Se non si sa riconoscere tutta la bellezza che vive nell’elemento puramente
musicale, molta colpa è da attribuirsi al disprezzo del sensibile che negli
antichi esteti troviamo in favore della morale e del sentimento, in Hegel in
favore dell’idea. Ogni arte parte dal sensibile e in esso si muove. La teoria
del sentimento disconosce questo fatto, trascura completamente l’udire e prende
in considerazione immediatamente il sentire. Essi pensano che la M. sia fatta
per il cuore e che l’orecchio sia una cosa triviale » (/bid., INI, pag. 85-86).
Dall'altro lato Hanslick ha espresso pure con chiarezza il carattere che
differenzia il linguaggio musicale dal linguaggio comune. « La differenza, egli
dice, consiste in questo, che nel linguaggio il suono è solo un segno cioè un
mezzo per esprimere qualcosa di completamente estraneo a questo mezzo, mentre
nella M. il suono ha importanza in sè, cioè è scopo a se stesso. La bellezza
autonoma delle bellezze sonore qui, e l’assoluto predominio del pensiero sul
suono come su un puro e semplice mezzo di espressione là, si contrappongono in
maniera così definitiva che una mescolanza dei due princìpi è una impossibilità
logica » (/bid., IV, pag. 113). Questo carattere tuttavia non è proprio
soltanto del linguaggio musicale ma di ogni linguaggio artistico, di fronte al
comune linguaggio (vedi ESTETICA). Per quanto la nozione di M. cui
esplicitamente hanno fatto e fanno ricorso musicisti, critici e studiosi di
estetica musicale sia ancora e sempre quella di «rappresentazione del
sentimento », la nozione della M. come tecnica di una sintassi dei suoni le cui
regole possano essere indefinitamente variate, è quella che ha prevalso nella
pratica della creazione musicale e nella ricerca di nuovi e più liberi modi di
tale creazione. L'ultimo e più radicale tentativo di liberazione della lingua
musicale dalla sintassi tradizionale è la cosiddetta M. atonale. Questa non è
altro che l’affermazione programmatica della libertà del linguaggio musicale di
scegliere la sua propria disciplina: la quale, in qualche casoparticolare può
essere anche quella tonale. Dice a questo proposito Schénberg: «
L'emancipazione della dissonanza, cioè la sua equiparazione con i suoni
consonanti (che nella mia Harmonielehre spiego con il fatto che la differenza
tra consonanza e dissonanza non è una differenza antitetica ma graduale, che
cioè le consonanze sono i suoni più vicini al suono fondamentale e le
dissonanze quelli più lontani; e che di conseguenza la loro comprensibilità è
graduata, essendo i suoni più vicini più facilmente afferrabili di quelli
lontani) avvenne inconsapevolmente, col presupposto che la sua comprensibilità
può essere garantita quando venga favorita da determinate circostanze. Non
bastando l’orecchio da solo a riconoscere e a comprendere i rapporti e le
funzioni, tali circostanze si trovarono nel campo dell’espressione e in quello,
fino allora poco considerato, della sonorità » (« Gesinnung oder Erkenntnis? +,
1926, in L. ROGNONI, Espressionismo e dodecafonia, 1954, pag. 249). Da questo
punto di vista la tonalità si definisce in modo generalissimo come « tutto ciò
che risulta da una serie di note, coordinata sia mediante il diretto
riferimento ad un’unica nota fondamentale sia mediante collegamenti più
complicati » (Harmonielehre, 1922, 3* ediz., III, pag. 488; in ROGNONI, Op.
cit., pag. 243). Alban Berg osservava che «la rinuncia alla tonalità
‘maggiore’, ‘ minore” non implica affatto l’anarchia armonica » perchè « anche
se per la perdita del ‘maggiore’ e del ‘ minore ’, sono venute meno alcune
possibilità armoniche, sono però rimasti tutti gli altri elementi essenziali
della M. vera ed autentica» («Was ist Atonal», 1930, in RogNONI, Op. cit., pag.
290). Quale che sia il giudizio di gusto che si vuol dare sulle opere musicali
ispirate da questo programma, non c’è dubbio che il programma stesso non è
altro che la liberalizzazione della lingua musicale e delle sue tecniche dalle
pastoie della sintassi tradizionale e l'avviamento alla ricerca di nuove forme
sintattiche, che possono anche, occasionalmente, coincidere con quelle
tradizionali. La M. atonale è pertanto la realizzazione, nel campo della M., di
quella stessa esigenza di liberazione che nel campo della pittura è
l’astrattismo: come quest’ultimo intende prescindere dalle forme stabilite o
riconosciute della rappresentazione o della percezione, così la M. intende
prescindere dalle forme stabilite e riconosciute dell'armonia musicale. L’una e
l’altra vanno in cerca di nuove discipline, di nuove forme sintattiche per le
loro tecniche espressive. E l’una e l’altra presuppongono (pur senza averne
sempre un chiaro concetto) la nozione dell’arte come «tecnica dell’espressione
+; intendendosi per espressione le forme libere e finali della sintassi
linguistica. Poichè fu quella nozione di M. che presiedette, sul finire del
Medioevo e nel Rinascimento, alla genesi della M. moderna in quanto si presentò
fin dall'inizio come ricerca di tecniche espressive, si può scorgere in essa la
condizione che garantisce anche oggi alla M. la sua capacità di sviluppo.
MUTAMENTO (ingl. Change; franc. Changement; ted. Verdnderung). 1. Lo stesso che
movimento, 1 (v.). 2. Lo stesso che alterazione (v.). MUTAZIONISMO (ingl.
Mutationism; francese Mutationisme; ted. Mutationismus). 1. Lo stesso che
evoluzionismo (v.). 2. La dottrina che spiega la trasformazione delle specie
viventi l'una nell’altra con l'insorgenza di piccole mutazioni brusche ed
ereditarie che si produrrebbero a caso nel corso di una o più generazioni.
Questa dottrina fu presentata da De VRIES nell’opera La teoria delle mutazioni
(1901). N. Nella logica di Lukasiewicz la lettera N è usata per indicare la
negazione, che viene comunemente simboleggiata con —, sicchè Np significa > p
(cfr., A. CHURCH, Introduction to Mathematical NARCISISMO (ingl. Narcissism;
franc. Narcissisme; ted. Narzissismus). 1. Secondo Plotino, il mito di Narciso
significa la situazione dell’uomo che, non sapendo di portare la bellezza
dentro di sè, la cerca nelle cose esterne e tenta di abbracciarla inutilmente
in esse (Enn., I, 6, 8; V, 8, 2). Questa interpretazione acquista rilievo sullo
sfondo della preoccupazione fondamentale di Plotino che è quella della ricerca
interiore, o dell’interiorità di coscienza (v.). Talvolta, da autori moderni,
il significato del mito è stato invertito: il narcisismo rappresenterebbe non
già l’inanità del tentativo di cercare nell’esterno ciò che è interno, ma
l’autentico destino dell’uomo che è quello di proiettare fuori di sè e di amare
come tale ciò che è dentro di lui (cfr. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, 1939).
2. Una forma o un modo della sessualità, secondo la psicanalisi, e precisamente
quella per la quale la libido (v.) reinveste l'Io disinvestendo l’oggetto,
sicchè l'Io «si comporta verso gli investimenti oggettuali come il corpo di un
animaletto protoplasmatico verso gli pseudopodi da esso emessi » (FREUD,
Introduzione del narcisismo, 1914). NATIVISMO. V. InnatisMo. NATURA (gr. quo;
lat. Natura; ingl. Nature; franc. Nature; ted. Natur). Un insieme di concetti,
diversamente imparentati tra loro, sono stati utilizzati per definire questo
termine. I principali sono i seguenti: 1° il principio del movimento o la
sostanza; 2° l’ordine necessario o la connessione causale; 3° l’esteriorità, in
quanto contrapposta alla interiorità della coscienza; 4° il campo d'incontro o
di unificazione di certe tecniche d’indagine. 1° L'interpretazione della N.
come principio di vita e di movimento di tutte le cose esistenti è la più
antica e venerabile e ha informato di sè l’uso corrente del termine. « Lasciar
fare alla N. +, « Abbandonarsi alla N.?, « Seguire la N.», e via dicendo, sono
espressioni suggerite dal concetto che la N. è un principio di vita che si
prende buona cura degli esseri in cui si manifesta. In questo senso,
esplicitamente, la N. fu definita da Aristotele. «La N., egli disse, è il
principio e la causa del movimento e della quiete della cosa alla quale
inerisce primieramente e di per sè, non accidentalmente » (Phys., II, 1, 192b
20). L'esclusione dell’accidentalità serve, come Aristotele stesso spiega, a
distinguere l’opera della N. da quella dell’uomo. La N. può anche essere la
materia se si ammette, come facevano i Presocratici, che la materia ha in se
stessa un principio di movimento e di mutamento; ma è veramente questo
principio, quindi la forma o la sostanza della cosa, in virtù della quale la
cosa stessa si sviluppa e diviene -quella che è (Phys., II, 1, 193a 28 sgg.).
Questo è il motivo per cui la N. assume il significato di forma o sostanza o
essenza necessaria: una cosa possiede la sua N. quando ha raggiunto la sua
forma, quando è perfetta nella sua sostanza. In conclusione, la migliore
definizione della N. è, secondo Aristotele, la seguente: « La sostanza delle
cose che hanno il principio del movimento in se stesse »: a questa definizione
possono ricondursi tutti i significati del termine (Met., V, 4, 1015a 13). In
questo senso la N. è non solo causa, ma causa finale (Fis., II, 8, 199b 606
32). La tesi del finalismo della N. si trova di regola congiunta con questo
concetto di essa. Tale concetto, che è poi la sintesi dei due concetti
fondamentali della metafisica aristotelica, quelli di sostanza e di causa, ha
dominato per lungo tempo nella speculazione occidentale e non è mai stato
completamente obliterato da concetti diversi e concorrenti. Per la sua
causalità, la N. è lo stesso potere creatore di Dio: è N. naturante. Ma poichè
tale causalità è inerente alle cose che produce, la N. è la totalità stessa di
queste cose, è N. narurata. Questa distinzione che si trova in Scoto Eriugena
senza però i termini relativi (De divis. nar., III, 1), veniva introdotta nella
scolastica latina da Averroè (De Cael., I, 1) e largamente accettata (cfr. S.
ToMMASO, S. Th., II, 1, q. 85, a. 6). Spinoza non faceva che riesporla quasi
negli stessi termini (Er., I, 29 Schol.). A questa distinzione, precisamente al
concetto di N. naturata, si connette l’altro significato subordinato, quello
della N. come l’universo o il complesso delle cose naturali: concetto che
coesiste (perchè ne è il risultato) con quello della N. come principio di
movimento; e coesiste anche, come si vedrà, con quello della N. come ordine
perchè designa in questo secondo caso, la N. « materiale » (materialiter
spectata). L’esaltazione speculativa che della N. fece il naturalismo del
Rinascimento fa appello al concetto della N. naturante o universale. Nicolò
Cusano diceva: « È lo Spirito diffuso e contratto per tutto l’universo e per
tutte le sue singole parti, che si chiama N. La N. è perciò, in qualche modo,
la complicazione di tutte le cose che si generano attraverso Il movimento » (De
docta ignor., II, 10). E Giordano Bruno affermava: «La N. o è Dio stesso o è la
virtù divina che si manifesta nelle cose» (Summa Terminorum, in Op. latine, IV,
101). Nello stesso senso Spinoza identificava la N. con Dio (Et., I, 29,
Schol.). E questo concetto della N. permaneva nel *700 e veniva riaffermato da
Wolff (Cosm., $ 503-506) e da Baumgarten (Mer., $ 430). Quando nello stesso
secolo, si cominciò a contrapporre la N. all’uomo e si bandì il «ritorno alla
N.», la N. cui si fece appello è ancora quella del vecchio concetto
aristotelico: un principio direttivo insito nell'uomo sotto forma di istinto. Tale fu il concetto che della N.
ebbe Rousseau (De /’inégalité parmi les hommes, I). Questo concetto è ormai passato nel patrimonio delle
credenze comuni del nostro mondo; e perciò spesso fa capolino, senza farsi
notare, nelle più elaborate concezioni filosofiche. Come si è visto, esso
comprende tre concetti coordinati o equipollenti: a) la N. come causa
(efficiente e finale); 2) la N. come sostanza o essenza necessaria; c) la N.
come totalità delle cose. NATURA 2° La seconda concezione fondamentale della N.
è quella che la intende come ordine e necessità. L’origine di questa concezione
è negli Stoici. Essi dicevano che «la N. è la disposizione a muoversi da sè
secondo le ragioni seminali, disposizione che porta a compimento e tiene
insieme tutte le cose che da essa nascono a determinati tempi e coincide con le
cose stesse dalle quali si distingue » (Dioa. L., VII, 1, 148). In questa
definizione viene accentuata la regolarità e l'ordine del divenire al quale la
N. presiede. A questo concetto di N. si connette la nozione di legge naturale,
che ha avuto per tutta l’antichità e sino al sec. xrx un’im-portanza
grandissima nella morale e nel diritto (v.). Difatti la legge di N. è la regola
di comportamento che l’ordine del mondo esige sia rispettata dagli esseri
viventi, regola la cui realizzazione, secondo gli Stoici, era affidata o
all’istinto (negli animali) o alla ragione (nell'uomo) (Diog. L., VII, 1, 85).
L’aristotelismo del Rinascimento riprende il concetto della N. come ordine. Nel
De Fato Pietro Pomponazzi difendeva esplicitamente, nel xvI secolo, il fato
stoico, cioè la necessità assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. E il
pensiero che è alla base delle prime manifestazioni della scienza moderna cioè
dell’opera di Leonardo, Copernico, Keplero e Galileo è quello di un ordine
necessario, di carattere matematico, che la scienza deve rintracciare e
descrivere. «La necessità, diceva Leonardo, è tema e inventrice della N., e
freno e regola eterna» (Works, ed. Richter, n. 1135). Galileo a sua volta
riteneva che la N. è l’ordine dell’universo, un ordine che è unico e non è mai
stato nè sarà diverso (Op., VII, pag. 700). L°’insistenza sulla natura come
ordine e necessità si accompagna alla negazione del finalismo della natura
stessa che è invece la caratteristica della prima concezione (v. FINALISMO).
Questo concetto della N. è rimasto a fondamento della scienza moderna in tutto
il suo periodo classico. « La N. è assai consonante e conforme a se stessa »
diceva Newton (Opricks, 1704, III, 1, q.31): ma fu Boyle che su questo punto
ebbe le idee più chiare affermando esplicitamente: « La N. non dev'essere
considerata come un agente distinto e separato, ma come una regola o piuttosto
come un sistema di regole, secondo le quali gli agenti naturali e i corpi su
cui essi operano sono determinati dal Grande Autore delle cose ad agire e a
patire». Fu questa la concezione della N. accettata da Kant. «Con l’espressione
‘ N.’ (in senso empirico) intendiamo la connessione dei fenomeni, per la loro
esistenza secondo regole necessarie o leggi. Vi sono dunque certe leggi, e
leggi a priori, che rendono prima di tutto possibile una N.; le leggi empiriche
possono esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, perciò in
seguito a quelle leggi origiNATURA narie per cui comincia ad essere possibile
l’esperienza stessa» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Terza
analogia). Altrove, Kant distingue la N. materialiter spectata dalla N.
formaliter spectata: la prima sarebbe «l’insieme di tutti i fenomeni »; la
seconda sarebbe « la regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo +»
(/bid., $ 26). Ma la prima non è altro che il materiale cui si applica la
seconda e il concetto della N. rimane pertanto quello di una regolarità dovuta
a leggi {Prol., $ 14). Questa dottrina è stata ripetuta numerose volte nella filosofia
moderna e contemporanea. Fra gli ultimi che la ripetono si può ricordare
Whitehead, che intende per N. «un complesso di enti in relazione » dove
l’enfasi è posta sulla relazione, e che attribuisce alla filosofia naturale il
compito di «studiare come si connettano i vari elementi della N. » (The Concept
of Nature, 1920, cap. I-II; trad. ital., pag. 13, 28). 3° La terza concezione
della N. è quella che l’intende come la manifestazione dello spirito o come uno
spirito diminuito o imperfetto, reso « esterno » o « accidentale » o «
meccanico » cioè degradato dai suoi veri caratteri. Questa concezione si trova
espressa chiaramente in Plotino. « La saggezza, egli dice, è il primo termine,
la N. è l’ultimo. La N. è l’immagine della saggezza ed è l’ultima parte
dell’anima: come tale non ha in sè che gli ultimi riflessi della ragione...
L'intelligenza ha in sè ogni cosa, l’anima dell’universo riceve le cose
eternamente e essa è la vita e l’eterna manifestazione dell’intelletto; ma la
N. è il riflesso dell’anima nella materia. In essa, o anche prima di essa, la
realtà finisce giacchè essa è il termine del mondo intellegibile: oltre di
essa, non ci sono che imitazioni » (Enn., IV, 4, 13). Che la N. sia la
manifestazione, nel senso di « esteriorizzazione ?, con ciò che di diminuito o
degradato ha l’esteriorità di fronte all’interiorità della coscienza, è il
concetto della N. che è stato condiviso (e continua ad esserlo) da tutte le
metafisiche spiritualistiche. Esso viene ripreso dalla teosofia rinascimentale,
e si trova, per es., espresso da Jakob Bohme (De signatura rerum, TX). Ma fu il
romanticismo che soprattutto lo amplificò e diffuse. Diceva Novalis: « Che cosa
è la N. se non l’indice enciclopedico sistematico o il piano del nostro
spirito? » (Fragmente, n. 1384). E Hegel esprimeva nel modo più rigoroso e
completo questo stesso concetto. « La N., egli diceva, è l’idea nella forma
dell’essere altro » cioè della «esteriorità» (Erc., $ 247). Come tale essa non
mostra, nella sua esistenza, libertà alcuna ma solo necessità e accidentalità.
Pertanto « nella N., non solo il gioco delle forme è in preda a una
accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sè del con607 cetto
di se stessa». Hegel riconosce che la N. è soggetta a «leggi eterne » ma questo
non la salva: la N. è peggiore del male. « Quando l’accidentalità spirituale,
l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa di infinitamente
più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perchè
colui che così erra è pur sempre spirito » (Ibid., $ 248). È ben vero che non
tutta la filosofia romantica condivise la condanna hegeliana della natura.
Schelling fu portato piuttosto a esaltare la N. stessa, a considerarla come
parte o elemento della vita divina. In uno scritto del 1806, egli rimproverava
a Fichte di considerare la N. o col sentimento del più rozzo e pazzo asceta,
cioè come un puro nulla, o da un punto di vista puramente meccanico e
utilitario, cioè come uno strumento di cui l’Io assoluto si serva per
realizzare se stesso (Werke, I, VII, pag. 94, 103). E in realtà nel considerare
la N. come manifestazione dell’Assoluto, Schelling non insisteva tanto sulla
inferiorità della manifestazione rispetto al Principio manifestantesi, quanto
piuttosto sulla stretta relazione tra i due. Questa è l’altra alternativa
offerta dalla concezione della N. di cui qui trattiamo. Si può infatti da un
lato insistere sugli aspetti per cui la N. si distingue dallo spirito e in
qualche modo si contrappone ad esso, cioè sull’esteriorità, l’accidentalità, il
meccanismo. Ma si può anche, dall’altro lato, insistere sull’aspetto per cui la
N., come manifestazione dello spirito, presenta i suoi stessi caratteri
sostanziali. Così ha fatto Schelling. Ma più frequentemente prevale la prima
alternativa. Lo spiritualismo francese del secolo scorso ha condiviso quasi
unanimemente la tesi che Ravaisson esprimeva alla fine del Rapport sur la
philosophie en France au XIX° siècle (1868), e cioè che la N. sia il degradarsi
in meccanismo e necessità di un Principio spirituale che è spontaneità e
libertà. Questa concezione è stata fatta prevalere anche nello spiritualismo
del nostro secolo da Bergson. La N., come esteriorità o spazialità, è una
degradazione dello spirito. Così Bergson espone il progetto di una teoria della
conoscenza della N.: « Bisognerebbe, con uno sforzo sui generis dello spirito,
seguire la progressione o piuttosto la regressione dell’extra-spaziale degradantesi in spazialità. Situandoci
dapprima nel punto più alto della nostra propria coscienza per lasciarci poi
cadere a poco a poco, noi abbiamo il sentimento che il nostro io si estenda in
ricordi inerti esteriorizzati gli uni rispetto agli altri, in luogo di tendersi
in un volere indivisibile ed agente. Ma questo è solo l’inizio, ecc. + (Évol.
Créatr., 11 ediz., 1911, pag. 226). Lo stesso senso di degradazione ha la N.
nella filosofia di Gentile per il quale essa è il « passato dello spirito» ed è
perciò un limite 608 astratto che lo spirito ricomprende in sè e « signoreggia
» (Teoria generale dello spirito, XVI, 18). 4° La quarta concezione della N. è
quella che si può intravvedere come presupposta o implicita nelle operazioni
effettive della ricerca scientifica e in alcune analisi della metodologia
scientifica contemporanea. Per essa la N. è definita in termini di campo (v.) e
più precisamente è il campo cui fanno riferimento e in cui si incontrano (o
talora si scontrano) le tecniche percettive e di osservazione di cui l’uomo
dispone; delle quali le prime non sono meno complesse delle seconde, nonostante
che appaiano « naturali» cioè tali da poter essere messe in opera senza il
concorso di progetti deliberati. Alle tecniche percettive fa costante
riferimento l’arte che dà sempre qualcosa da « vedere » o da «sentire» anche
quando pretende di essere « astratta » e di prescindere perciò dalle forme che
sono comunemente offerte dalla percezione comune. Alle tecniche osservative fa
riferimento la scienza naturale che, pur iniziando il suo lavoro dalla
percezione, se ne allontana rapidamente sia nei suoi strumenti di osservazione
sia negli oggetti che riesce a individuare (per es., « massa», «energia»,
«elettroni +, « fotoni », ecc.) alcuni dei quali si comportano molto
diversamente dalle «cose» che sono l'oggetto della percezione comune. Il campo oggettivo
cui fanno riferimento sia i vari modi del percepire comune sia i vari modi
dell’osservazione scientifica, così come è intesa e praticata nelle varie
branche della scienza naturale, si può intendere oggi come « N. ». In questo
senso la N. non si identifica con un principio o con un'apparenza metafisica nè
con un determinato sistema di connessioni necessarie; ma può essere
determinata, a ogni fase dello sviluppo culturale dell'umanità, come la sfera
degli oggetti possibili di riferimento delle tecniche di osservazione di cui
l’umanità è in possesso. Si tratta, come è ovvio, di una concezione non
dogmatica ma funzionale, che non è stata finora fatta oggetto di indagini
metodologiche sufficienti alla sua chiarificazione, ma che sembra tuttavia
richiesta dalla fase attuale della metodologia scientifica. NATURA, FILOSOFIA DELLA (inglese
Philosophy of Nature; franc. Philosophie de la nature; ted. Naturphilosophie). Questa espressione, in quanto diversa da quella
tradizionale « filosofia naturale » che designa la fisica o la scienza naturale
in generale, è stata per la prima volta adoperata da Kant per designare una
disciplina nettamente distinta dalla scienza stessa. Per filosofia della N. o
metafisica della N., Kant intese infatti la disciplina che « abbraccia tutti i
princìpi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione
della matematica) della conoscenza teoretica di NATURA, FILOSOFIA DELLA tutte
le cose» (Crit. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III. Così intesa la
filosofia della N. è una delle due parti fondamentali della filosofia, di cui
l’altra è la filosofia morale; e comprende solo i princìpi a priori su cui è
fondata la conoscenza della N., cioè i fondamenti della fisica e delle altre
scienze teoretiche della N., ma non già le leggi, che è compito della fisica
rintracciare nella N. stessa (/bid.; cfr. Crit. del Giud., Intr., I. Dopo di
Kant l’espressione filosofia della natura è rimasta a designare una disciplina
che ha per oggetto la N. ma non è la scienza. Così la filosofia della N. fu
intesa da Schelling che a questa disciplina dedicò la maggior parte della sua
attività. Schelling riteneva che la scienza fondata sull’indagine sperimentale
non è mai veramente scienza. La natura infatti è a priori nel senso che le sue
singole manifestazioni sono determinate in anticipo dalla sua totalità, cioè
dall'idea di una N. in generale (Werke, I, III, pag. 279). Sostanzialmente, il
compito della filosofia della N. è quello di mostrare come la N. si risolva
nello spirito (System des transzendentalen Idealismus, $ 1). Tale compito è
rimasto proprio di essa in tutte le manifestazioni che ebbe nel corso del sec.
xx: manifestazioni che, in buona parte, si ispirarono a Hegel. Hegel considerò
la filosofia della N. come una delle tre grandi partizioni della filosofia che
risulterebbe costituita, oltre che da essa, dalla logica e dalla filosofia
dello spirito. La logica sarebbe il sistema delle pure determinazioni del
pensiero. La filosofia della N. e la filosofia dello spirito sarebbero entrambe
una logica applicata; e in particolare la filosofia della N. avrebbe il compito
« di portare le vere forme del concetto, immanenti nelle cose naturali, alla
coscienza » (System der Phil., ed. Glockner, I, pag. 87-88). La filosofia della
N. così intesa non è che la manipolazione arbitraria di concetti scientifici,
avulsi dai loro contesti, al fine di ridurli a determinazioni razionali o
pseudorazionali. E tale essa è rimasta anche quando si è voluta sottrarre
all'impostazione idealistica ed è stata trattata da un punto di vista
realistico, come ha fatto Nicolai Hartmann. La Filosofia della natura (1950) di
quest’ultimo, conserva infatti la pretesa di scorgere o riconoscere il valore «
metafisico» o «ontologico» dei risultati della scienza. Compito della filosofia
della N. dovrebbe essere l’analisi categoriale dei concetti scientifici. « Ciò
che propriamente sono l'estensione, la durata, la forza, la massa, non può
dirlo il pensiero matematico, afferma Hartmann. A questo punto s'inserisce
l’analisi categoriale: i portatori o substrati della quantità sono ciò con cui
si connettono i problemi metafisici di fondo della filosofia della N. »
(Philosophie der Natur, pag. 22). NATURA, STATO DI Si può dire che l'ultimo e
più ristretto concetto di filosofia della N. sia quello presentato dai
componenti del Circolo di Vienna, agli albori dell’empirismo logico. M. Schlick
considerava la filosofia della N. come l’analisi del significato delle
proposizioni proprie delle scienze naturali. Da questo punto di vista, egli diceva,
«la filosofia della natura non è scienza essa stessa, ma un'attività diretta
alla considerazione del significato delle leggi di N.» (Philosophy of Nature;
trad. ingl., 1949, pag. 3). In questo concetto c'è ancora qualche traccia della
filosofia come « visione del mondo » o sintesi dei risultati più generali delle
scienze particolari. La metodologia contemporanea ha invece sempre più
sottolineato l'illegittimità di astrarre le proposizioni della scienza dei loro
contesti e di trovare in esse significati che vadano al di là di quanto i
contesti stessi autorizzano. Da questa limitazione metodologica, il compito di
una filosofia della N. viene tagliato alla base. E tutto ciò che (oltre la
pretesa di elaborare una metafisica della N. o una metafisica fondata sulle
scienze naturali) essa legittimamente comprendeva, cioè i problemi concernenti
il linguaggio scientifico in generale e i linguaggi delle singole scienze, i
rapporti tra le scienze, Io studio comparativo dei loro metodi, ecc., trova
posto oggi nel seno della metodologia delle scienze. NATURALE (gr. quowxéc;
lat. Naturalis; inglese Natural; franc. Naturel; ted. Natbrlich). Gli usi di
questo aggettivo corrispondono agli usi fondamentali del termine narura. 1.
Corrispondentemente al primo significato, N. è ciò che è prodotto dal principio
del movimento oppure ciò che si produce da sé o spontaneamente. In questo senso
si è parlato di « diritto N.» che è il diritto che consiste nel conformarsi
all’ordine spontaneo della natura: o di «religione N.» che è la religione
rivelata all’uomo dalla natura o attraverso la natura cioè attraverso la
ragione o il cuore dell’uomo. 2. Corrispondentemente al secondo significato di
natura, si dice N. ciò che rientra nell'ordine necessario della natura, in
quanto si distingue dall’ordine soprannaturale, voluto o stabilito direttamente
da Dio. Nell’ambito di entrambi questi significati N. si contrappone anche ad
artificiale, in quanto è ciò che è prodotto dalla causalità della natura, fuori
dell’arbitrio umano. 3. Corrispondentemente al terzo significato di natura si
parla, ad es., di «cose N.» per dire « cose esterne» e di «causalità N.» per
dire « causalità esterna ». 4. Le scienze N. si dicono oggi tali soprattutto in
corrispondenza al significato 4 di natura. 39 609 NATURALISMO (ingl.
Naturalism; franc. Naturalisme; ted. Naturalismus). Il termine ha tre
significati diversi. Indica cioè: 1° La dottrina che ritiene che i poteri
naturali della ragione sono più efficaci di quelli che la filosofia produce o
promuove nell’uomo. In questo senso Kant diceva: «Il naturalista della ragion
pura assume per principio che per mezzo della ragione comune senza scienza (che
egli chiama ‘sana ragione ’) si può, rispetto alle questioni più alte che
costituiscono il compito della metafisica, conchiudere di più che per mezzo
della speculazione. Afferma quindi che si può determinare con maggior sicurezza
la grandezza e la distanza della luna ad occhio anzichè per mezzo della
matematica » (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. IV). 2° La dottrina che nulla
esiste fuori della natura, e che Dio stesso è solo il principio di movimento
delle cose naturali. In questo senso, che è il più diffuso nella terminologia
contemporanea, si parla del « N. del Rinascimento o del « N. antico » o del «N.
materialistico +, ecc. 3° La negazione di ogni distinzione tra natura e
soprannatura e la tesi che l’uomo può e deve essere compreso, in tutte le sue
manifestazioni, anche in quelle ritenute più alte (diritto, morale, religione,
ecc.) solo nel rapporto con le cose e gli esseri del mondo naturale e sulla
base degli stessi concetti utilizzati dalle scienze per la spiegazione di essi.
In questo senso il naturalismo è inteso da molti filosofi americani (Santayana,
Woodbridge, Cohen) e dallo stesso Dewey (Experience and Nature, cap. Ill, e
passim). NATURA, SCIENZE DELLA. V. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE. NATURA,
STATO DI (ingl. State of Nature; franc. État de nature; ted. Naturzustand). La
condizione dell’uomo, anteriormente alla costituzione della società civile,
secondo la dottrina del contrattualismo (v.). Già in Platone, nel III Libro
delle Leggi, c'è la nozione della condizione in cui gli uomini vennero a
trovarsi dopo che immani catastrofi ebbero distrutte le città: « Questa, dice
Platone, è la condizione degli uomini dopo che è avvenuta la catastrofe: una
sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi
tutti gli animali e i bovini e solo qualche gruppo di capre è rimasto ai
pastori, come misero resto, per ricominciare la vita» (Leggi, III, 677e).
Questa non è la descrizione di una condizione idilliaca: come non fu idilliaca
la condizione che Hobbes ritenne propria dello stato di N.: quella della guerra
di tutti contro tutti: « Intanto che gli uomini vivono senza un potere comune
cui siano soggetti, diceva Hobbes, si trovano nella condizione che chiamiamo
610 di guerra e tale guerra è di ogni uomo contro l’altro uomo » (Leviath., I,
13). Ciò accade perchè gli uomini, essendo per N. uguali, hanno anche gli
stessi desideri; e desiderando le stesse cose cercano di soverchiarsi a vicenda
(/bid.). La fondazione dello stato, cioè di un potere sovrano, è il solo mezzo
per uscire dalla condizione di guerra propria dello stato di natura. Dall'altro
lato, già Seneca, nell’antichità, esaltava lo stato di N. come una condizione
perfetta del genere umano. Nella novantesima Lettera a Lucilio, Seneca descrive
l’età dell’oro in cui gli uomini erano innocenti e felici e vivevano
semplicemente, senza cercar il superfluo. Inoltre non avevano bisogno di
governo e di leggi perchè obbedivano volentieri ai più saggi. Ma ad un certo
punto, il progresso stesso delle arti portò l’avidità e la corruzione contro le
quali si rese necessaria l’istituzione dello stato. — L’esaltazione dello stato
di N. divenne un tema ricorrente nella filosofia del ‘700 e trovò la sua
massima espressione nell’opera di Rousseau. Locke aveva già considerato, in
polemica con Hobbes, lo stato di N. come uno stato di perfezione. Esso, aveva
detto, è «uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e
disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio,
entro i limiti della legge di N., senza chiedere permesso o dipendere dalla
volontà di nessun’altro » (Second Treatise On Governement, II, 4). Ma è stato
sopratutto Rousseau ad esaltare la perfezione dello stato di N. sul fondamento
che in quella condizione l'uomo obbedisce soltanto all’istinto, che è
infallibile (De l’inégalité parmi les hommes, I). «Tutto è perfetto quello che
esce dalle mani del Creatore, tutto traligna nelle mani dell'uomo »: così
Rousseau cominciava il suo Emilio. In Rousseau stesso, d'altronde, questa
esaltazione dello stato di N. contrasta col valore riconosciuto allo stato
civile fondato sul contratto sociale; ed in realtà la nozione dello stato di N.
costituisce per Rousseau il criterio o la norma con cui giudicare la società
presente e delineare un ideale di progresso. Dopo Rousseau, già Kant intendeva
per stato di N.« quello in cui non c’è alcuna giustizia distributiva » (Mer.
der Sitten, I, $ 41). Ed Hegel mostrava l’equivoco per cui era stato inventato
lo stato di N. come una condizione di fatto nella quale valesse il diritto
naturale, equivoco dovuto al fatto che si interpretava l’espressione «diritto
naturale» nel senso di diritto esistente in N. piuttosto che diritto
determinato dalla N. della cosa (Enc., $ 502). Da Hegel in poi, la nozione di
stato di N. ha cessato di interessare i filosofi. È rimasta tuttavia una
nozione cui volentieri fa appello l’uomo comune o che viene utilizzata dalle dottrine
politiche utopistiche: le quali spesso proiettano lo stato di N. come una
perfezione NATURISMO dell’avvenire, e così fanno pure, talora, le immaginazioni
romanzesche della fantascienza. NATURISMO (ingl. Naturism; franc. Naturisme;
ted. Naturismus). 1. La dottrina, o la credenza, che la natura sia la guida
infallibile per la salute fisica e mentale dell’uomo e che pertanto a tale
guida l’uomo debba « ritornare », nei suoi comportamenti e costumi,
allontanandosi dalle creazioni artificiali della società. Questa dottrina è
alla base di molte pratiche e credenze popolari del mondo contemporaneo, dopo
essere stata (nel *700) dottrina filosofica (v. NATURA, STATO DI). 2. Meno
propriamente: culto religioso della natura. NAUSEA (ingl. Nausea; franc.
Nausée; tedesco Ekel). L'esperienza emotiva della gratuità dell’esistenza cioè
della perfetta equivalenza delle possibilità esistenziali. La nozione è stata
introdotta nella filosofia da Sartre e da lui illustrata soprattutto nel
romanzo intitolato La nausea. NAZIONALISMO (ingl. Nazionalism; francese
Nationalisme; ted. Nationalismus). Il concetto di nazione cominciò a formarsi a
partire da quello di popolo, che aveva dominato nella filosofia politica del
sec. xvi, quando si accentuò, in questo concetto, l’importanza dei fattori
naturali e tradizionali a scapito di quelli volontari. Il popolo (v.) è
costituito essenzialmente dalla volontà comune, che è la base del patto
originario; la nazione è costituita essenzialmente da legami indipendenti dalla
volontà dei singoli: la razza, la religione, la lingua e tutti gli altri
elementi che possono essere compresi sotto il nome di «tradizione». A
differenza del « popolo», che non c’è se non per la deliberata volontà dei suoi
membri e come effetto di questa volontà, la nazione non ha niente a che fare
con la volontà degli individui: è un destino che incombe sugli individui, e al
quale questi non possono sottrarsi senza tradimento. In questi termini la
nazione cominciò ad essere concepita chiaramente soltanto ai primi dell’800; e
la nascita del concetto coincide con la nascita di quella fede nei geni
nazionali e nei destini di una singola nazione che si chiama nazionalismo. Il
concetto di popolo rimaneva legato agli ideali cosmopolitici del ’700. Ma già
in Rousseau si trova la condanna di questi ideali: l’attaccamento di Rousseau
al concetto dello stato-città, quale si era realizzato nella Grecia antica, lo
portava a condannare l’universalismo settecentesco. Nello stesso tempo, questo
attaccamento, anacronistico come era, lo conduceva a esaltare il valore dello
stato nazionale. « Sono le istituzioni nazionali, egli diceva, che formano il
genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo, che lo fanno esser lui e
non altro, che gli ispirano quell’ardente amor di patria NECESSARIO 611 fondato
su abitudini impossibili a sradicarsi, che lo fanno morire di noia presso altri
popoli, in mezzo a delizie di cui è privato nel suo paese» (Considér. sur le
gouvernement de Pologne, III). Ma fu soprattutto nell’epoca della restaurazione
postnapoleonica che il concetto della nazione cominciò ad assumere importanza
dominante come uno dei prodotti o il prodotto fondamentale di quella «
tradizione » alla quale, in quel periodo si attribuiva l’origine e la
conservazione di tutti i valori fondamentali dell’uomo. I Discorsi alla nazione
tedesca (1808) di Fichte, che sono il primo documento del nazionalismo tedesco,
vedono nel popolo tedesco «il popolo che solo ha diritto di chiamarsi il popolo
senz’altra designazione, a differenza dei rami che da lui si staccarono, come
indica d’altronde di per sè la parola tedesco » (Reden, VII); e vedevano
assicurata dalla stessa provvidenza della storia l’avvenire di questo popolo
superiore. Con la nozione di «spirito di un popolo» Hegel portava a compiuta
elaborazione il concetto di nazione. « Lo spirito di un popolo, diceva Hegel, è
un tutto concreto: dev'essere riconosciuto nella sua determinatezza... Esso si
sviluppa in tutte le azioni e in tutti gli indirizzi di un popolo e si realizza
sino a giungere a godere di sè e a comprendere se stesso. Le sue manifestazioni
sono religione, scienza, arte, destini, eventi. Tutto questo, e non il modo in
cui un popolo è determinato per natura (come potrebbe suggerire la derivazione
di natio da nasci) fornisce al popolo il suo carattere » (Phil. der Geschichte,
ed. Lasson, pag. 42; traduzione ital., I, pag. 49). Nello spirito di un popolo
si incarna, di volta in volta, lo Spirito del mondo, la Ragione universale che
presiede ai destini del mondo e determina la vittoria del popolo che è la
migliore incarnazione di se stessa. In questo concetto dello spirito del popolo
come incarnazione o manifestazione di Dio nel mondo e quindi del carattere
fatale e provvidenziale della vita storica della nazione, sono già compresi
tutti gli elementi del N. europeo del sec. xix e di qualsiasi nazionalismo. In
Italia, Mazzini cercò di conciliare gli ideali universalistici dell’illuminismo
col N.; e vide nella « missione » propria di una nazione il modo in cui essa
può servire il fine generale dell'umanità. Era questa una sintesi piuttosto
incoerente, ma che evitava quella esaltazione della forza che così spesso
doveva poi trovarsi nel N. europeo. Gian Domenico Romagnosi fu il primo a
fornire una teoria giuridica dello stato nazionale in questo senso (Della
costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, 1815): teoria che P.
S. Mancini, assumeva più tardi a fondamento del diritto internazionale (Della
nazione come fondamento del diritto delle genti, 1851). In Francia
l’affermazione del N. si lega soprattutto all'opera dello storico Michelet che
dava col libro Le Peuple (1843) uno dei principali documenti del N.
profetizzante. In Germania, un altro storico, Treitschke, intraprendeva
l’illustrazione e la difesa del N. tedesco che rimase collegato, alla sua
origine, con la politica di forza di Bismarck e poi di Guglielmo II. In Russia infine Dostojewski
si fece profeta del N. russo (cfr. Hans KoHN, Prophets and Peoples, 1946; trad.
ital., 1949; The Idea of Nationalism, New York, 1944). Sia la prima sia la seconda guerra mondiale sono
state combattute sotto l’insegna del nazionalismo. La seconda è stata
combattuta sotto l’insegna di un N. che aveva perso tutti i contatti con
l’universalismo settecentesco e riconosceva nella forza l’unico segno decisivo
accordato dalla Provvidenza storica alla nazione da lei favorita. Quest’idea,
che il fascismo italiano e il nazional-socialismo germanico avevano fatta
propria, non era un'idea nuova: era la vecchia idea hegeliana e romantica del
privilegio che lo Spirito del mondo accorda alla nazione in cui di preferenza
si incarna, giacchè l’unico segno di questo privilegio è appunto la forza
vittoriosa che tale nazione può esercitare sulle altre. Questo N. profetico non
abita più oggi i popoli europei che, dalla lezione delle due guerre sono stati
ricondotti agli ideali universalistici dell’illuminismo: tende tuttavia ad
affermarsi in altre regioni del globo terrestre, alle quali si può solo
augurare di far tesoro dell’esperienza culturale e storica della vecchia Europa.
NECESSARIO (gr. avayuatoc; lat. Necessarius; ingl. Necessary; franc.
Nécessaire; ted. Notwendig). Ciò che non può non essere; o che non può essere.
Questa è la definizione nominale tradizionale che costituisce anche una delle
nozioni più uniformemente e saldamente stabilite nella tradizione filosofica.
In tale definizione «ciò che non può essere» è l’impossibile che è il contrario
opposto del N. ed è quindi anch’esso N. come il nero, che è il colore opposto
al bianco, è anch'esso colore. Il contraddittorio del N., cioè il non-N. è
invece l’altra modalità fondamentale, cioè il possibile (v.). Le discussioni
logiche contemporanee sul N., quando non equivalgono alla negazione, espressa o
implicita di questa nozione, non sono altro di regola, che la riespressione di
questa definizione in termini di convenzionalismo moderno. Il primo a dare
un’esauriente analisi di « N.» è stato Aristotele. Egli ha distinto: a) il N.
come condizione o concausa, per cui si dice ad es. che il cibo è N. alla vita o
la medicina alla salute o l'andare in un certo posto a riscuotere una certa
somma; b) il N. come forza o costrizione per cui si dice che 612 è N. ciò che
impedisce od ostacola l’azione di un istinto o una scelta; c) il N. come ciò
che non può essere altrimenti, che è il senso fondamentale del concetto. A
questo senso infatti si possono, secondo Aristotele, ridurre gli altri. « Ciò a
cui siamo costretti si dice che è N. quando una forza qualsiasi ci costringe a
fare o a subire qualcosa che è contro l'istinto, sicchè la necessità consiste
in questo caso nel non poter fare o subire altrimenti. Lo stesso vale per le
condizioni della vita e del bene: giacchè quando il bene, la vita o l’essere
non possono esserci senza alcune condizioni queste son dette necessarie e si
dice che la causa è la necessità stessa » (Met., V, 5, 1014b 35). Nel senso
fondamentale, le dimostrazioni sono necessarie perchè non possono concludere
altrimenti; e non possono concludere altrimenti perchè le premesse non possono
essere diverse da quelle che sono (/bid., 1015b 7). Il significato a) di N. è
quello che Aristotele designa altrove come necessità ipotetica: è la necessità
che si trova nelle cose naturali e precisamente nella loro materia in quanto
costituisce la condizione di esse (Fis., II, 9, 200a 30; De Somno, 455b 26; De
part. an., 639b 24, 642a 9). Già Platone aveva ammesso questa specie di
necessità, ritenendola come uno dei costituenti del mondo (insieme con
l'intelligenza) e identificandola con la materia (Tim., 47 d, sgg.). Aristotele
distingue infine ciò che è N. in virtù di una causa esterna e ciò che è a se
stesso la causa della propria necessità. Le cose semplici sono necessarie in
questo secondo senso e perciò lo sono in modo primario ed eminente (2bid., 1015
b 10). Ma il concetto della necessità è sempre quello. Queste notazioni sono
rimaste pressochè immutate per tutta la storia della filosofia. Gli Stoici
definirono la necessità tenendo presente gli enunciati verbali più che le
condizioni di fatto; e dissero pertanto N. «ciò che è vero e non può rivelarsi
falso » (Droga. L., VII, 1, 75): dove il « non potersi rivelare falso »
significa, per ciò che è vero, il non poter essere altro. Nè mutano il concetto
del N. le distinzioni stabilite da San Tommaso in conformità della divisione
aristotelica delle quattro cause. San Tommaso enumera infatti: @) la necessità
materiale (o ex principio intrinseco) nel senso in cui si dice che «ogni cosa
composta da contrari è N. che si corrompa +; 5) la necessità formale, che è
quella naturale e assoluta, secondo la quale si dice che « è N. che un
triangolo abbia i tre angoli uguali a due retti »; c) la necessità finale o
utilità secondo la quale si dice che il cibo è N. alla vita o un cavallo al
viaggio; d) la necessità efficiente, o necessità di coazione, secondo la quale
si è costretti da una causa efficiente in modo tale che non si può agire
altrimenti. In tutti i casi, il N. rimane per San Tommaso NECESSARIO « ciò che
non può non essere » (S. 7h., I, q. 82, a. l;j De Ver., q.22, a. 5). È
immediatamente evidente che questa distinzione riproduce quella aristotelica.
La necessità materiale e quella finale sono la necessità ipotetica di
Aristotele; la necessità di coazione ha in Aristotele lo stesso nome e la
necessità « naturale e assoluta » è, per San Tommaso come per Aristotele, il
significato fondamentale della necessità. Queste distinzioni, talora indicate
con altri nomi, sono rimaste le stesse per lungo tempo, nella storia della
filosofia. Gli Scolastici le ripetono senza mutarle, come ripetono, anche quando
ci credono poco, il significato fondamentale di N. come ciò che non può essere
altrimenti (cfr., ad. es., GioVANNI DI SALISBURY, Metalogicus, II, 13). Colui
al quale si deve la prevalenza del concetto di necessità in metafisica e in
teologia, sia nella scolastica araba sia nella scolastica cristiana, Avicenna,
era partito dalla distinzione aristotelica (Mer., V, 5, 1015 b 10, già cit.)
tra ciò che è N. per sè e ciò che è N. per altro (Mer., II, 1, 2): una
distinzione che è alla base della dottrina di Spinoza (Er., I, 33, scol. 1) ed
è stata da allora in poi ripetuta innumerevoli volte. Le prime novità
concettuali, in questa storia uniforme, sono la definizione della necessità
logica e l’introduzione del concetto di necessità morale da parte di Leibniz.
Leibniz distinse: a) la necessità geometrica, che è quella appartenente alle
verità eterne «il cui opposto implica contraddizione +; 5) la necessità fisica,
che costituisce « l’ordine della natura e consiste nelle regole del movimento e
in qualche altra legge generale che è piaciuto a Dio dare alle cose creandole
+; c) la necessità morale che è «la scelta del saggio, in quanto è degna della
sua saggezza + cioè la scelta del « meglio » (Tliéod., Disc., $ 2). La
necessità fisica è fondata sulla necessità morale (è stato Dio a scegliere le
leggi della natura che costituiscono la necessità fisica e la sua scelta è
stata dettata dal fatto che erano le migliori possibili); ed entrambe le
necessità, la fisica e la morale, sono dette da Leibniz ipotetiche; esse, egli
afferma, non hanno niente a che fare con la necessità assoluta, che è
l'impossibilità del contrario (Nouv. Ess., II, 21, 13). Leibniz si avvale di
questa distinzione per difendere la libertà di Dio e quella dell’uomo e nello
stesso tempo per salvare l’infal‘ libilità della previsione divina: «La verità,
che dice ch’io domani scriverò, non è affatto necessaria. Ma supponiamo che Dio
la preveda, è N. che essa si verifichi: cioè è necessaria la conseguenza, che
essa si realizzi, dal momento che è stata prevista, essendo Dio infallibile: è
ciò che si chiama una necessità ipotetica » (Théod., I, $ 37; cfr. Discours de
Mét., 13). La differenza tra questa dottrina di Leibniz e quella tradizionale
consiste in ciò che NECESSARIO quest’ultima riconosceva come una specie di
necessità, riconducibile al significato fondamentale del termine, quella che
Leibniz considera come libertà e scelta: la necessità ipotetica. Leibniz ha, in
altri termini, ristretto il significato della necessità a quello che Aristotele
e la tradizione aristotelica consideravano come la necessità «primaria» o
«assoluta » o «naturale» e che Leibniz chiama «geometrica » o « metafisica ».
La definizione leibniziana di questa necessità come « ciò il cui opposto è
impossibile » 0 « ciò il cui opposto è contraddittorio» serve appunto a
limitare l’estensione di essa soltanto alle verità matematiche e a un ristretto
numero di verità metafisiche. Questo è il risultato importante e duraturo della
introduzione del concetto di necessità morale da parte di Leibniz. Quanto a
questo concetto, dal momento che esclude la necessità ed è la stessa
definizione della determinazione libera, ciò che gli si può obbiettare è
l’improprietà del nome: esso non è per nulla « necessità ». Tuttavia proprio
come tipo o specie di necessità, esso entrò nella filosofia del ’700, insieme
con la distinzione delle forme del necessario proposta da Leibniz. Wolff
rielaborava infatti questa distinzione e a sua volta distingueva: a)
l’assolutamente necessario, che è « ciò il cui opposto è impossibile o implica
contraddizione » (On., $ 279); 5) l’ipoteticamente N. che è «ciò il cui opposto
implica contraddizione o è impossibile soltanto in un'ipotesi data o sotto una
determinata condizione» (Onf., $ 302); c) il moralmente N., che è « ciò il cui
opposto è moralmente impossibile » (Phil. practica, I, $ 115). La differenza
tra l’assolutamente N. e l’ipoteticamente N. consiste in questo: il primo
esclude la contingenza e il secondo no (/bid., $ 317-18). A differenza di
Leibniz, Wolff tuttavia non riduce la necessità ipotetica alla necessità
morale, cioè alla libertà, ma la identifica con quella retta dal principio di
ragion sufficiente cioè con la causalità (Ibid., $ 320 sgg.). Wolff stesso
afferma che questa sua dottrina della necessità è identica con quella
tradizionale e in particolare con quella di San Tommaso (/bid., $ 327), cioè
con la definizione del N. come ciò che non può essere altrimenti; ed essa
certamente lo è, salvo che per il riconoscimento della necessità morale. Questa
dottrina viene semplicemente riprodotta da Kant, che anch’egli distingue «la
necessità materiale nell’esistenza » che
consiste nella connessione causale, dalla necessità «formale e logica nella
connessione dei concetti » (Crit. R. Pura, Anal., II, cap. II, sez. 3,
Postulati del pensiero empirico); e distingue ancora da queste due specie di
necessità, la «necessità morale», come costrizione o obbligo, che è il dovere
(Crir. R. Prat., I, Libro I, cap. III; trad. ital., pag. 96). 613 La necessità
materiale è la necessità reale o ipotetica. Dice Kant: « Tutto ciò che accade è
ipoteticamente necessario; ecco un principio che subordina il mutamento nel
mondo ad una legge cioè a una regola dell’esistenza necessaria senza la quale
la natura non vi sarebbe» (Crit. R. Pura; l. c.). E in realtà la connessione
causale rimane per Kant «ipotetica » perchè Kant la considera aperta dai due
lati e non ritiene legittimo considerarla chiusa a formare una totalità o serie
assoluta. Ovviamente, se ciò avvenisse, la necessità ipotetica diverrebbe necessità
assoluta o geometrica. A sua volta Schopenhauer riteneva che la necessità non
avesse altro senso tranne che la « inevitabilità dell’effetto quando la causa è
stata posta » e riteneva perfino contraddittorio parlare di un essere «
assolutamente necessario » cioè necessario senza condizioni (Uber die vierfache
Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 49). Ma con l’idealismo romantico,
proprio la necessità assoluta divenne la protagonista della filosofia. Fichte
affermava: « Qualsiasi cosa realmente esiste, esiste per assoluta necessità; ed
esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste. È impossibile che non
esista 0 che esista altrimenti da come è » (Grundzilge des gegenwdrtigen
Zeitalters, 9). Assoluto voleva pure essere il significato della necessità che
Hegel difiniva come «unità di possibilità e realtà»: definizione che esprime la
presenza della totalità delle condizioni in ogni momento del reale e quindi
della piena e assoluta necessità del reale stesso. « Quando si hanno tutte le
condizioni, dice Hegel, la cosa deve diventare reale » (Enc., $ 147). «Il N. è
mediato per mezzo di un circolo di circostanze: è così, perchè le circostanze
sono così ed insieme è così immediato, è così perchè è » (/bid., $ 149). In tal
modo la necessità diventa l’anima della realtà, la dialestica (v.) propria
della Ragione reale o della Realtà razionale. Questa estensione all’infinito
della necessità non innova, come è ovvio, le caratteristiche del concetto, che
rimane quello definito da Aristotele; come non innova tali caratteristiche
l’uso che del concetto fa il filosofo contemporaneo che più ha insistito sulla
necessità del reale, nei suoi vari gradi e forme: Nicolai Hartmann (cfr.
specialmente Mbglichkeit und Wirklichkeit, 1938): (v. PosSIBILE). Possiamo ora
dare uno sguardo alla sorte che è toccata, nella filosofia contemporanea, alle
tre forme del N. che sono comunemente ammesse da Wolff in poi, dando atto che
nessuna innovazione è stata portata al concetto stesso del N.: 1° il moralmente
N., cioè l’obbligatorio o il doveroso, per quanto talvolta si continui a
chiamarlo tale, non può essere incluso nelle forme del necessario; 614 2°
l’ipoteticamente N., identificandosi con il causale (v.) o il condizionale
(v.), condivide la sorte di questi concetti; 3° l’assolutamente N., il N. «
geometrico » o «logico » è quello al quale si fa più frequente riferimento nel
dominio del sapere filosofico e scientifico. « C'è soltanto una necessità
logica, dice Wittgenstein e così c’è soltanto una impossibilità logica » (Tract.
Logico-Philosophicus, 6.375). Quasi tutti i logici contemporanei sottoscrivono
o implicitamente ammettono, questa tesi di Wittgenstein. Non c’è accordo tra
essi, tuttavia, sulla definizione della necessità logica; Le principali
dottrine in proposito sono: a) la dottrina dell’analiticità; b) la dottrina
della regola; c) la dottrina dell’immunità; d) la dottrina della qualità. a) La
prima dottrina è l’erede della definizione leibniziana della necessità logica
come « impossibilità del contrario ». Peirce diceva che il /ogicamente o
essenzialmente N. è ciò che una persona che non conosce i fatti ma è
perfettamente a giorno delle regole del ragionamento e delle parole implicite
nel ragionamento stesso, sa che è vero. Una tale persona ad es. non sa se c'è o
no un animale detto basilisco 0 se vi sono cose come serpenti, galline e uova;
però sa che ogni basilisco è nato da un uovo di gallina covato da un serpente.
« Questo è essenzialmente N. perchè è ciò che la parola basilisco significa »
(Coll. Pap., 4.67). Lewis a sua volta ha detto che «un’asserzione è logicamente
necessaria se, e solo se, il contraddittorio di essa è incompatibile con se
stesso » (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 89) che è nient'altro
che una riformulazione della definizione di Leibniz. Strawson nello stesso
senso ha detto « un'asserzione è necessaria quando è la contraddittoria di
un’asserzione inconsistente » (Intr. to Logical Theory, 1952, pag. 22). Carnap,
osservando che il concetto di necessità logica è comunemente inteso nel senso
che si applica a una proposizione p «se e solo se la verità di p è fondata su
ragioni puramente logiche e non dipendente dalla contingenza dei fatti; o in
altre parole se l’assunzione di non-p condurrebbe a una contraddizione logica,
indipendentemente dai fatti » ha identificato la necessità logica con la verità
logica; e ha definito la verità logica, sulle orme di Leibniz, come quella che
è valida in tutti i possibili mondi, o, nella sua terminologia, è valida in
qualsiasi descrizione di stato di un sistema. La sua definizione della
descrizione di stato rende chiaro questo concetto: « Una classe di enunciati in
.S,, che contiene per ogni enunciato atomico o questo enunciato o la sua
negazione ma non entrambe le cose, e nessun altro enunciato, è chiamato una
descrizione di stato in S,; perchè esso ovviamente dà la completa descrizione
di un possibile stato dell’universo degli NECESSARIO individui rispetto a tutte
le proprietà e relazioni espresse dai predicati del sistema. Così le
descrizioni di stato rappresentano i mondi possibili di Leibniz o i possibili
stati di cose di Wittgenstein » (Meaning and Necessity, $ 2, $ 39). Questa è
l’espressione più rigorosa che la tesi della riduzione della necessità ad
analiticità abbia mai ricevuto. Essa tuttavia non è andata esente da critiche
(cfr., ad es., QUINE, From a Logical Point of View, II; A. Pap, Semantics and
Necessary Truth, pag. 150 sgg.). b) La seconda interpretazione della necessità
logica è quella che riduce gli enunciati a cui tale necessità si applica a
semplici regole: o regole di trasformazione o, più semplicemente, regole
linguistiche. La dottrina che le «verità necessarie » della matematica, per es.
la famosa proposizione di cui Kant parlava «7 + 5= 12», siano nient’altro che
regole di trasformazione cioè regole che permettono l’inferenza da una formula
all’altra e consentano pertanto la sostituibilità reciproca delle formule, fu
già esposta dal Circolo di Vienna e specialmente da Schlick e ritorna
frequentemente nella letteratura contemporanea (cfr., ad es., K. BRITTON, in
Proceedings of the Aristotelian Soclety, 21°, 1947). Come pure ritorna in essa
la dottrina che le proposizioni analitiche (o tautologie) che costituiscono le
« verità necessarie » della logica non sono altro che regole linguistiche o più
precisamente regole semantiche. Difatti l’enunciato «tutti gli scapoli sono non
sposati » può essere interpretata come una regola per l’uso della parola «
scapolo +, e una regola ricavata a sua volta dall’uso. L’obiezione addotta
talvolta contro queste dottrine che esse toglierebbero alla verità N. il rango
di « proposizioni +, perchè una proposizione è sempre o vera o falsa mentre una
regola non lo è, ma è piuttosto utile, conveniente, corretta, ecc. (cfr., ad
es., Pap, Op. cit., pag. 179 sgg.) non è molto concludente perchè dimostra
soltanto l’incompatibilità tra questa interpretazione della verità N. e il
concetto tradizionale di proposizione. c) La terza interpretazione della
necessità logica è quella data da Quine, secondo la quale essa sarebbe
l’immunità accordata a certe proposizioni nella matematica e nella logica in
quanto, per il carattere centrale che occupano nel sistema, la loro revisione
disturberebbe enormemente il sistema stesso, che invece tendiamo, per quanto è
possibile, a conservare nei tratti fondamentali. Da questo punto di vista N.
significherebbe non «ciò che non può essere altrimenti » ma piuttosto « ciò di
cui non si vuol fare a meno», non perchè sia impossibile farne a meno, ma
perchè è preferibile. Questa interpretazione è fondata sul rigetto della
distinzione tra verità analitiche (o di ragione) e verità sintetiche (o di
fatto) sulla quale si fondano NECESSITARISMO invece le interpretazioni di cui
in a) (QuINE, Methods of Logic, pag. XIII; From a Logical Point of View, II e VIII. Questa interpretazione equivale ovviamente alla
eliminazione del concetto stesso di necessità. d) La quarta interpretazione è
quella che la considera come una proprietà intrinseca delle proposizioni,
considerate come oggetti, nel senso di Carnap: e precisamente una proprietà che
le proposizioni posseggono antecedentemente alla formulazione delle convenzioni
linguistiche. Da questo punto di vista «spiegare la necessità dei princìpi
tradizionali dell’inferenza deduttiva in termini di convenzioni linguistiche
significa porre il carro davanti ai buoi». Questa è la tesi di A. Pap
(Semantics and Necessary Truth, spec. cap. 7; cfr. anche « Necessary
Propositions and Linguistics Rules», in Archivio di Filosofia, 1955, pag.
63-105). In questa dottrina la necessità logica non si distingue da una
qualitas occulta. Di queste quattro interpretazioni la sola che non equivale
alla negazione della necessità stessa è la prima, che identifica la necessità
con l’analiticità o tautologicità. Si tratta di un’interpretazione che è
collegata strettamente con il concetto che Wittgenstein espose della
tautologia: « Tra i possibili gruppi di condizioni di verità si dànno due casi
estremi. In uno, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità
delle proposizioni elementari; e noi diciamo in questo caso che le condizioni
di verità sono tautologiche. Nell’altro caso la proposizione è falsa per tutte
le possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie »
(Tractatus, 4.46). Per conseguenza «la tautologia non ha condizione di verità
perchè è incondizionatamente vera; e la contraddizione a nessuna condizione è
vera » (Ibid., 4.461). Questo equivale a dire che un’affermazione
incondizionatamente vera cioè una tautologia o una proposizione N. o comunque la
si voglia chiamare, è quella che esaurisce il rango delle possibilità. Questo è
pure il significato della dottrina di Carnap della verità logica come «
descrizione di stato» cioè come verità valida per tutti i mondi possibili o per
tutti i possibili stati di cose. Da questo punto di vista c’è necessità dove è
possibile enumerare tutte le possibilità; e necessità equivale, praticamente, a
onnipossibilità. Questa d’altronde non è dottrina recente. Ockham, nel sec. xIv
riteneva N. soltanto le proposizioni condizionali o equivalenti o quelle
intorno al possibile come, ad es., «Se c’è l’uomo, l’uomo è animale
ragionevole» o «Ogni uomo può essere animale ragionevole » (Quodl., V, q. 15).
Poichè solo convenzioni linguistiche d’altra natura possono limitare opportunamente
il rango di possibilità cui una proposizione fa riferimento, è abbastanza 615
chiaro che questo concetto di necessità è interamente riducibile a convenzione.
NECESSITARISMO (ingl. Necessitarianism; franc. Nécessitarisme). Questo termine,
assai poco usato in italiano ma che ha in inglese una lunga tradizione, è molto
utile per indicare l’insieme delle dottrine che, in un modo qualsiasi dànno un
posto eminente al concetto del necessario o si avvalgono sistematicamente di
esso. Possono essere enumerate almeno tre dottrine fondamentali di questo
genere: 18 La dottrina che ammette il destino cioè l’ordine finalistico o
provvidenziale del mondo; cioè un ordine che determina necessariamente ogni
cosa e ad ogni cosa garantisce la riuscita migliore. Questa dottrina può
chiamarsi provvidenzialismo o fatalismo; ma quest’ultimo nome è adoperato solo
da coloro che la combattono o almeno che ne combattono alcuni aspetti (v.
DESTINO; FATO; ProvviIDENZA). Il significato di necessario cui tale dottrina fa
riferimento è quello a) di Aristotele e c) di S. Tommaso. 2* La dottrina che
l’ordine del mondo consiste nella connessione causale universale; dottrina che
fa riferimento al necessario nel significato a) di Aristotele, d) di S.
Tommaso, 5) di Leibniz, di Wolff e di Kant. Questa dottrina è il determinismo
rigoroso o classico, che meglio si dovrebbe chiamare causalismo (v. CAUSALITÀ;
DETERMINISMO). 3» La dottrina che la necessità costituisce il significato
primario e fondamentale dell’essere; e che si avvale di esso come criterio per
la valutazione e l’analisi di tutte le cose esistenti. Questo significato di N.
è certamente il più importante e fondamentale, quello al quale il termine
dovrebbe di preferenza essere riferito. Il necessario è, per tale dottrina, la
categoria fondamentale; l’orizzonte generale che abbraccia tutti gli strumenti
di indagine e di spiegazione di cui è possibile servirsi. Molto spesso tale
dottrina non ammette la necessità nel senso delle dottrine 1* o 2: Aristotele e
S. Tommaso, ad es., che possono essere considerati come esempi molto importanti
di questa dottrina, pur ammettendo la necessità del destino non ammettono la
necessità causale assoluta; tuttavia sono necessitaristi nel senso che per essi
il significato fondamentale dell’essere è la necessità e che tale significato è
presente nella costruzione di tutti i concetti fondamentali della loro
filosofia. Nello stesso senso è necessitaristica la dottrina di Hegel e sono
necessitaristiche tutte le dottrine che si ispirano all’idealismo romantico. Ma
l’attrezzatura concettuale del N. è diffusa molto al di là di questa o quella
dottrina: concetti comé quelli di causa e di sostanza, con tutte le loro
derivazioni, che sono mumerosissime, dominano ancora vaste zone del discorso
comune, scientifico e filosofico; e intro616 ducono il loro senso
necessitaristico nelle analisi della scienza e della filosofia. NEGATIVO (gr.
aroparéc; lat. Negativus; ingl. Negative; franc. Négatif; ted. Negativ). Ciò
che effettua o implica una negazione, cioè una esclusione di possibilità.
Un’entità N., per es., una proposizione, non implica che sussista l’entità
positiva corrispondente alla quale poi venga aggiunta la negazione, ma è
semplicemente l’esclusione di una possibilità; e, il più delle volte, di una
possibilità formulata soltanto allo scopo di escluderla. I molteplici usi del
termine si lasciano ricondurre a questo significato fondamentale. « Risultato
N. + di un esperimento significa l’esclusione di una certa possibilità di
interpretazione o di spiegazione. «Effetto N.» di una certa operazione
significa l'esclusione di ciò che ci si aspettava come possibile
dall’operazione stessa. « Atteggiamento N.» nei confronti di una dottrina o di
una cosa qualsiasi è l’atteggiamento che esclude la possibilità che la dottrina
sia vera o che la cosa abbia un valore qualsiasi; ecc. NEGAZIONE (gr.
&répaor; lat. Negatio; inglese Negation; franc. Négation; ted. Verneinung,
Negation). Termine col quale si può designare tanto l’atto del negare, quanto
il contenuto negato, ossia la proposizione negativa, detta in greco &népao
(lat. negario: Boezio) e definita come «enunciato che divide qualcosa da
qualcosa » (De Interpr., 17 a 26), in quanto, secondo la medesima dottrina
aristotelica, essa separa o allontana due concetti. Sostanzialmente la
tradizione logica successiva ha conservato questa dottrina e quindi questo
significato del termine N.: soltanto i seguaci della teoria del giudizio come
assenso (Rosmini, Fr. Brentano, Husserl) considerano la N. come atto di diniego
(rifiuto, ripudio, Verneinung) di una rappresentazione o idea. Nella Logica
simbolica contemporanea la N. è rappresentata da un simbolo speciale (€ — +)
che premesso al simbolo di una proposizione « p + trasforma questa o
nell'affermazione che «p» è falsa (Russell) o in una nuova proposizione
(molecolare), funzione di verità di « p », e precisamente (nella Logica a due
valori) nella proposizione che è falsa quando «p + è vera e vera quando « p + è
falsa (Wittgenstein, Carnap). G.P. NEOCRITICISMO (ingl. Neo-Criticism; francese
Néocriticisme; ted. Neukantianismus). Il movimento del « ritorno a Kant »
iniziatosi in Germania verso la metà del secolo scorso e che ha dato origine ad
alcune tra le più importanti manifestazioni della filosofia contemporanea. I
tratti comuni di tutte le correnti del N. sono i seguenti: 1° la negazione
della metafisica e la riduzione della filosofia a riflessione sulla scienza,
cioè a teoria della NEGATIVO conoscenza; 2° la distinzione tra l’aspetto
psicologico e l’aspetto logico-oggettivo della conoscenza, distinzione in virtù
della quale la validità di una conoscenza è completamente indipendente dal modo
in cui essa viene psicologicamente acquisita o conservata; 3° il tentativo di
risalire dalle strutture della scienza, sia di quella della natura sia quella
dello spirito, alle strutture del soggetto che la renderebbero possibile. In
Germania, costituirono la corrente neocriticista: 1° la Scuola di Marburgo
(Marburger Schule) alla quale hanno appartenuto F. A. Lange, H. Cohen, P.
Natorp, E. Cassirer, e alla quale si riconnette, in parte, anche Nicolai
Hartmann; 2° la Scuola del Baden (Badische Schule), che fu fondata da W.
Windelband e H. Rickert; 3° lo storicismo tedesco con G. Simmel, G. Dilthey, E.
Troeltsch, ecc. Quest’ultimo indirizzo formulò il problema della storia
analogamente al modo in cui le altre scuole kantiane formulavano il problema
della scienza naturale (v. SToRICISMO). Fuori della Germania, si connettono
all’indirizzo neocritico C. Renouvier e L. Brunschvicg, in Francia; e S. H.
Hodgson e R. Adamson, in Inghilterra; Banfi in Italia. NEOHEGELISMO (ingl.
Neo-Hegelianism; franc. Néo-Hégélianisme; ted. Neuhegelianismus). Il ritorno
all’idealismo romantico che si è verificato in Inghilterra, in Italia e in
America negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro secolo.
Il N., come l’idealismo romantico di cui è una diretta filiazione, ha come sua
tesi fondamentale l’identità del finito e dell’infinito cioè la riduzione
dell’uomo e del mondo dell’esperienza umana all’Assoluto. H necidealismo
anglo-americano e il neocidealismo italiano si distinguono tra loro per il modo
in cui effettuano questa riduzione. L’idealismo anglo-americano l’effettua per
via negativa, mostrando che il finito, per la sua intrinseca irrazionalità, non
è reale o è reale solo nella misura in cui rivela e manifesta l’infinito.
L’idealismo italiano la effettua per via positiva, mostrando nella struttura
stessa del finito, nella sua intrinseca e necessaria razionalità, la presenza e
la realtà dell'infinito. Questa era stata anche la via tenuta da Hegel e da
tutto l’idealismo romantico. Alla corrente inglese appartengono G. H. Stirling,
T. H. Green, B. Bosanquet, J. E. McTaggart; e specialmente F. H. Bradley, che è
il maggiore rappresentante di essa. In America la maggiore figura del N. è
stata J. Royce. Dell'idealismo italiano i maggiori fappresentanti sono stati G.
Gentile e B. Croce. Su tutti, v. IDEALISMO. NEOIDEALISMO. V. NEOHEGELISMO.
NEOKANTISMO. V. NEOCRITICISMO. NEOPITAGORISMO (ingl. Neo-Pyrhagoreanism; franc.
Néo-pythagorisme; ted. NeupythagoNEOREALISMO reismus). La reviviscenza della
filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la comparsa di
scritti pitagorici di falsa attribuzione (Derti Aurei, Simboli, Lettere,
attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello e ad
Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di
ispirarsi alle dottrine del pitagorismo antico. Fra essi: Nigidio Figulo,
Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (1 sec.
d. C.). Le dottrine di questi scrittori non hanno nulla di originale ma
presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo (v.). NEOPLATONISMO
(ingl. Neo-Platonism; franc. Néo-platonisme; ted. Neuplatonismus). La scuola
filosofica fondata in Alessandria da Ammonio Sacca nel 1 secolo d. C. e che ha
come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo. Il N. è una
scolastica: è cioè l’utilizzazione della filosofia platonica (filtrata
attraverso il neopitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di
verità religiose cioè di verità che si ritenevano rivelate all’uomo ab antiquo
e da lui riscopribili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del N. sono i
seguenti: 1° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di natura
religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella
riflessione dell’uomo su se stesso; 2° il carattere assoluto della trascendenza
divina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni
determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile; 3° la teoria dell’emanazione
cioè della derivazione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che
diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la
conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del
mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un’immagine o parvenza
dell’altro; 4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo e la sua
progressiva interiorizzazione, sino al punto dell’estasi cioè dell’unione con
Dio. Nel N. si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la
Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l’imperatore Giuliano
detto l’Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu
Proclo. Ma le dottrine fondamentali del N. hanno avuto, e continuano ad avere,
un’influenza profonda su molti indirizzi del pensiero filosofico. Il
«platonismo » del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune
variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N.
rinascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore
importanza attribuita all’uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a
617 quello che è lo spirito generale del Rinascimento (v.). Una forma di
razionalismo religioso è invece il N. inglese che fiorì nella scuola di
Cambridge nel sec. xv (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un
lato si oppone al materialismo di Hobbes e dall’altro sostiene che le idee
fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella
ragione e nell’intelletto dell’uomo e perciò precedono la conoscenza empirica
delle cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N.
rinascimentale, specialmente di Ficino. NEOPOSITIVISMO (ingl. Neo-Positivism;
franc. Néo-positivisme; ted. Neupositivismus). 1. Lo stesso che empirismo
logico (v.). 2. Così talora è stato chiamato il bergsonismo (Le Roy, Un
positivisme nouveau, 1901). NEOREALISMO (ingl. New Realism; francese
Néo-realisme; ted. Neurealismus). Con questo termine si designano le correnti
del pensiero contemporaneo che assumono come loro insegna la negazione
dell’idealismo gnoseologico (v.) cioè la negazione della riduzione dell’oggetto
della conoscenza a un modo d’essere del soggetto. L’idealismo gnoseologico è
stato il clima dominante della filosofia dell’800: giacchè esso era partecipato
non solo dall'idealismo romantico ma anche dallo spiritualismo, dal
neocriticismo e in generale da tutte le filosofie coscienzialistiche. Eccezioni
a questa tendenza generale furono dapprima la filosofia dell’immanenza di G.
Schuppe e l’opera di Osvaldo Kiilpe (Einleitung in die Philosophie, 1895). Ma
una nuova storia cominciò per il realismo soltanto a partire dal saggio di G.
E. Moore, «La confutazione dell’idealismo » pubblicato nel Mind del 1903. In
seguito difendevano il realismo in Inghilterra B. Russell e S. Alexander;
mentre in America un volume collettivo del 1912 intitolato appunto Il nuovo
realismo affermava le tesi di un realismo aggiornato, tesi che sotto altra forma
venivano riproposte alcuni anni dopo nei Saggi di realismo critico (1920)
pubblicati da un altro gruppo di filosofi americani. Nel primo gruppo la figura
più nota fu quella di W. P. Montague; nel secondo gruppo quella di G.
Santayana. Più tardi il nuovo realismo ha trovato sostenitori in A. N.
Whitehead e in N. Hartmann. Il nuovo realismo presenta nel suo interno tanti
indirizzi dottrinali diversi quanti sono i filosofi che lo professano; ma si
fonda tuttavia su una tesi fondamentale comune che costituisce la sua novità e
il suo punto di distacco dal realismo tradizionale nonchè la sua linea di
difesa contro l’idealismo. Questa tesi è la seguente: il rapporto conoscitivo
(cioè il rapporto nel quale l’oggetto della cono618 scenza entra col soggetto,
cioè con la mente che lo apprende) non modifica la natura dell’oggetto stesso.
Questa tesi si ispira alla nozione matematica della «relazione esterna» cioè
della relazione che non modifica i termini relativi. Essa, come è ovvio,
elimina del tutto la dipendenza esistenziale o qualitativa dell'oggetto della
conoscenza dal soggetto e rende privo di senso l’idealismo. Lontanissimi come
sono tra loro, sotto tutti gli altri rispetti, Moore, Montague, Santayana,
Alexander, Hartmann, condividono questa tesi. NEOTOMISMO (ingl. Neo-Thomism;
francese Néo-thomisme; ted. Neuthomismus). Con questo termine o con quello
assai meno appropriato di « neoscolastica » s'intende quel movimento di ritorno
alla dottrina di S. Tommaso, nel seno della cultura cattolica, che fu iniziato
dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (4 agosto 1879). Questo movimento
consiste nella difesa polemica delle tesi filosofiche tomistiche contro i
diversi indirizzi della filosofia contemporanea e, indirettamente, nella
rielaborazione e nel rammodernamento di tali tesi. Una delle prime figure del
N. fu quella del cardinale belga Desiderato Mercier (morto nel 1925); mentre
tra le figure più note del mondo contemporaneo ci sono quelle di E. Gilson e di
J. Maritain. Abitualmente il tomismo accetta la problematica della filosofia
contemporanea ma cerca di ricondurre tale problematica alla sistematica
tomistica. Uno degli effetti più importanti della fioritura neotomista è la
rinnovata importanza che hanno assunto, a partire dagli ultimi decenni del
secolo scorso, gli studi di filosofia medievale cioè della scolastica classica.
NEOVITALISMO. V. ViraLISMO. NESSO (lat. Nexus; ingl. Bond; franc. Connexion;
ted. Zusammenhang). La connessione delle cose tra di loro o nell’ordine causale
o nell’ordine finale: Kant chiama il primo nexus effectivus, il secondo nexus
finalis (Crit. del Giud., $ 87). Whitehead ha chiamato con questo termine
(nexus) le connessioni reali tra le cose, da lui considerate come elementi
ultimi della realtà insieme alle cose stesse e alle percezioni (Process and
Reality, 1929). NESTORIANISMO (ingl. Nestorianism; francese Nestorianisme; ted.
Nestorianismus). La dottrina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428431)
secondo la quale, essendoci in Cristo due nature, ci sono anche due persone, di
cui l’una abita nell’altra come in un tempio. Nestorio negava pure che Maria
fosse madre di Dio e diceva favola pagana l’idea di un Dio ravvolto in fasce e
crocifisso. Questa interpretazione dell'incarnazione era stata già sostenuta da
Diodoro di Tarso (morto verso il 394) e dal suo discepolo NEOTOMISMO Teodoro di
Mopsuestia (morto verso il 428). Essa fu condannata dal concilio di Efeso del
431 ma continuò per lungo tempo a sopravvivere, e tuttora sopravvive presso
gruppi della Turchia asiatica e della Persia. NEUTRALISMO (ingl. Neutralism).
Termine adoperato da Peirce come sinonimo di monismo (Chance, Love and Logic,
II, 1; trad. ital., pagina 121) (v. MonISMO). NEUTRALIZZAZIONE (ted.
Neutralisierung). Con questo termine Husserl ha indicato la sospensione della
credenza per la quale «quello che è esistente o possibile o verosimile o
discutibile, come pure il non-esistente, in qualsiasi negazione o affermazione,
sono presenti alla coscienza ma non nella maniera del reale bensì come ‘ mero
pensato * o ‘mero pensiero * » (Ideen, I, $ 109) (vedi EPOCHÉ). NEUTRO, MONISMO
(ingl. Neutral Monism). Con questa espressione viene talvolta indicata in
America la tesi del neorealismo secondo la quale le entità che entrano a
comporre lo spirito e la materia non sono nè mentali nè materiali, ma
acquistano tali qualifiche in virtù delle relazioni in cui entrano. In realtà
questo punto di vista è stato per la prima volta sostenuto
dall’empirio-criticismo (v.) di Avenarius e da Mach. NEWTONISMO (ingl.
Newronianism; francese Newtonianisme; ted. Newtonianismus). Con questo termine
è stato indicato soprattutto la dottrina di Newton della gravitazione
universale. Cioè la generalizzazione delle leggi della gravitazione a tutto
l’universo e la formulazione di queste leggi mediante l’unica formula: i corpi
si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa
del quadrato delle distanze. Questa legge fu enunciata da Newton per la prima
volta nel Propositiones de motu del 1684, e poi nei Principi matematici di filosofia
naturale del 1687. NICHILISMO (ingl. Nihilism; franc. Nihilisme; ted.
Nihilismus). Termine usato più spesso con intento polemico, per indicare
dottrine che si rifiutano di riconoscere realtà o valori la cui ammissione si
ritiene importante. Così Hamilton usò il termine per qualificare la dottrina di
Hume che nega la realtà sostanziale (Lecsures on Metaphysics, I, pag. 293-94);
e in questo caso la parola non vuol dire più che fenomenismo. In altri casi
essa viene adoperata per indicare gli atteggiamenti di coloro che negano
determinati valori morali o politici. Soltanto Nietzsche fece un uso non
polemico del termine, servendosi di esso per qualificare la sua opposizione
radicale ai valori morali tradizionali e alle tradizionali credenze
metafisiche. «Il N., egli disse, non è soltanto un insieme di considerazioni
sul tema: ‘Tutto è vano’; non è solo la NOLONTÀ credenza che tutto merita di
morire, ma consiste nel mettere la mano in pasta, nel distruggere... È lo stato
degli spiriti forti e delle volontà forti cui non è possibile attenersi a un
giudizio negativo: la negazione attiva risponde meglio alla loro natura
profonda + (Wille zur Macht, ed. Kròner, XV, $ 24). NIENTE. V. NULLA. NIRVANA.
L’estinzione delle passioni e del desiderio di vivere, quindi della catena
delle nascite, nella dottrina buddistica. « Quest’isola incomparabile in cui
ogni cosa sparisce ed ogni attaccamento cessa, io la chiamo N., distruzione
della vecchiaia e della morte» (Surtanipdta, V, 11). Nella filosofia
occidentale Schopenhauer ha fatto propria questa nozione, vedendo in essa la
negazione della volontà di vivere, la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza
della natura dolorosa e tragica della vita (Die Welt, I, $ 71; II, cap. 41).
NODALE, LINEA (ted. Knotenlinie). Così Hegel chiamò il passaggio dalla quantità
alla qualità avvenuto per mutamento della quantità stessa (per es., quando il
mutamento della quantità di calore nell’acqua produce il passaggio dell’acqua
stessa dallo stato liquido al solido o all’aeriforme (Wissenschaft der Logik,
I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., I, pagina 444 sgg.). Questo concetto ha
avuto più fortuna fuori dello hegelismo che nell’hegelismo. Kierkegaard ne
trasse il suo concetto del salto (v.). Engels fece del passaggio dalla quantità
alla qualità una delle leggi fondamentali della dialettica (Dialektik der
Natur; trad. ital., pag. 57) (v. DIALETTICA; SALTO). NOEMA (ted. Noema). Nella
terminologia di Husserl, l’aspetto oggettivo dell’esperienza vissuta: cioè
l’oggetto, considerato dalla riflessione nei suoi vari modi d’essere daro (ad
es., il percepito, il ricordato, l’immaginato). Il N. è distinto dall’oggetto
stesso, che è la cosa: per es., l’oggetto della percezione dell’albero è
l’albero, ma il N. di questa percezione è il complesso dei predicati e dei modi
d’essere dati all’esperienza, per es., l'albero verde, illuminato, non
illuminato, percepito, ricordato, ecc. (Ideen, I, $ 88). L'aggettivo
corrispondente è Noematico. NOESI (ted. Noesis). Nella terminologia di Husserl,
l’aspetto soggettivo dell’esperienza vissuta, costituito da tutti gli atti di
comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il percepire, il
ricordare, l’immaginare, ecc. (/deen, I, $ 92). L'aggettivo corrispondente è
Noetico. NOETICA (ingl. Noetic; franc. Noétique; tedesco Noétik). Così Hamilton
chiamò la parte della logica che studia «le leggi fondamentali del pensiero »
cioè i quattro princìpi di Identità, Contraddizione, Terzo escluso e Ragion
sufficiente (Lectures on Logic, V, I, pag. 72). Quest’uso è stato seguito da pochi
altri autori. 619 NOIA (ingl. Boredom; franc. Ennui; ted. Langweile). Moralisti
e filosofi hanno talora insistito sul carattere cosmico o radicale di questo
sentimento. « Senza il divertimento, diceva Pascal, noi saremmo nella N. e la
N. ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento
ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte» (Pensées, 171).
Schopenhauer osservava che « non appena miseria e dolore concedono all’uomo una
tregua, la N. è subito tanto vicina che egli per necessità ha bisogno di un
passatempo »; e vedeva perciò la vita continuamente oscillare tra il dolore e
la N. (Die Welt, I, $ 57). Più profondamente e anticipando l’esistenzialismo,
Leopardi vedeva nella N. l’esperienza della nullità di tutto ciò che è: «Or che
cos'è la N.?» si chiedeva. « Niun male nè dolore particolare (anzi l’idea e la
natura della N. esclude la presenza di qualsiasi particolar male o dolore) ma
la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente
all’individuo, ed occupantelo » (Zibaldone, VI, pag. 421). Heidegger ha
ripetuto queste notazioni, scorgendo nella N. il sentimento che rivela la
totalità delle cose esistenti, nella loro indifferenza. «La vera N., egli ha
detto, non è quella che ci viene da un libro o da uno spettacolo o da un
divertimento che ci annoiano, ma quella che ci invade quando ‘ci si annoia’: la
N. profonda che, come nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi del nostro
esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi con tutto ciò che è intorno a noi,
in una singolare indifferenza. È questa la N. che rivela l’esistente nella sua
totalità » (Was ist Metaphysik? 58 ediz., 1949, pag. 28). La N. in questo senso
è molto vicina alla nausea (v.) di cui parla Sartre e che è anch’essa l’esperienza
dell’indifferenza delle cose nella loro totalità. Il precedente di essa può
forse essere scorto nella malinconia (Sckhwermut) che secondo Kierkegaard è lo
sbocco inevitabile della vita estetica. « Se si domanda a un malinconico quale
ragione abbia per essere così e che cosa gli pesi, risponderà che non lo sa,
che non lo può spiegare. In questo consiste l’infinità della malinconia »
(Entweder-Oder, in Werke, II, pag. 171). In questo senso la malinconia è
l’accidia medievale (Ibid., II, 168) ed è considerata da Kierkegaard come
«l’isterismo dello spirito» nonchè come il peccato fondamentale in quanto «è
peccato non volere profondamente e sentitamente» (/bid., pagina 171). NOLONTA
(lat. Noluntas; ingl. Nolition; francese Nolonté; ted. Nolitio). Il non volere
o rifuggire. Il termine è rarissimo, in tutte le lingue. Secondo S. Tommaso,
«il desiderio del bene si chiama volontà in quanto è il nome dell’atto di
volontà; ma la fuga dal male si dice piuttosto nolontà. 620 Sicchè come la
volontà è del bene, così la N. è del male» (S. 7h., II, 1, q. 8, a. 1). Nello
stesso senso il termine ricorre in Wolff (Phil. practica, I, $ 38). È chiaro
che in questo senso la N. è volontà positiva, come la cosiddetta volontà. Altri
autori invece l’hanno intesa nel senso di volontà inibita o assenza di volontà
(RENOUVIER e PRAT, Monadologie, pag. 231). Questo secondo senso è decisamente
improprio. NOME (gr. évoua; lat. Nomen; ingl. Name; franc. Nom; ted. Name). La
parola o il simbolo che denota un oggetto qualsiasi. I problemi che il N. fa
sorgere come parola o simbolo, per es. quello della sua origine o della sua
validità, si trovano discussi nella voce linguaggio (v.). Qui occorre soltanto
richiamare le determinazioni specifiche che i logici hanno dato al concetto di
N. Quando Platone definisce il N. come «lo strumento adatto a insegnare e a
farci discernere l’essenza, al modo in cui la spola è adatta a tessere la tela
» (Crat., 388 b), la sua definizione si adatta a qualsiasi termine o
espressione linguistica. Aristotele invece ha dato la prima analisi specifica
del nome. « Il N., egli ha detto, è un suono di voce significativo per
convenzione, che prescinde dal tempo e le cui parti non sono significative se
prese separatamente » (De Int., 2, 16a 19). In quanto « prescinde dal tempo »,
il N. si distingue dal verbo che ha sempre una determinazione temporale. In
quanto non ha parti di per sè significative, il nome si distingue dal discorso.
E poichè Aristotele osserva che l’espressione infinita « non uomo» non è un N.,
i logici posteriori aggiunsero alla definizione aristotelica del N. la
caratterizzazione « finita »; nonchè quella di « retta », per escludere i casi
obliqui del N. che sono di interesse per il grammatico e non per il logico
(Pietro Ispano, Summul. Log., 1.04). Lo stesso Aristotele avvertiva (De /nt.,
2, 16a 23) che il N. non sempre è semplice; e in questo senso la definizione di
esso veniva così modificata da Jungius nel sec. xvi: « Per N. si intende un
simbolo o segno, istituito per una cosa determinata e per la nozione che
rappresenta la cosa, sia che si tratti di un N. grammaticalmente unico, sia che
si tratti di un N. composto da più vocaboli (Log. Hamburgensis, 1638, IV, 2,
10). Nella logica contemporanea, la funzione del N. è stata analizzata
soprattutto a proposito di quella che Carnap ha chiamata «l’antinomia della
relazioneN. ». Questa antinomia era stata scorta da Frege (* Uber Sinn und
Bedeutung +, 1892, in Aritmetica e logica, ed. Geymonat, pag. 215-52) ma fu
formulata come antinomia da Russell (s On Denoting », 1905, ora in Logic and
Knowledge, pag. 41-56). L’antinomia risulta dal fatto che due nomi sinonimi
(aventi cioè lo stesso significato) debbono poter essere NOME sostituiti l’uno
all’altro senza che muti il significato e il valore di verità del contesto. Ora
« Sir Walter Scott» e «l’autore di Waverley» sono nomi sinonimi perciò
sostituibili. Tuttavia se nella frase « Giorgio IV domandò una volta se Scott
era l’autore di Waverley» si sostituisce ad «autore di Waverley » l’altro N.
sinonimo «Scott» la frase risulta falsa perchè diventa: « Giorgio IV domandò
una volta se Scott era Scott ». Questa antinomia ha avuto nella logica
contemporanea due soluzioni principali: la prima della quale consiste
essenzialmente nel ridurre la denotatazione a una descrizione in termini
direttamente o indirettamente riducibili a esperienze elementari. Questa
soluzione è stata proposta da Russell (che la espose nel saggio citato e poi
nel primo vol. dei Principia Mathematica, 1910). Secondo Russell, la frase «
Giorgio IV, ecc. » può significare: a) « Giorgio IV desiderava sapere se un
uomo e solo un uomo scrisse Waverley e se Scott fu quell'uomo +; oppure può
significare 5): « Un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e Giorgio IV
desiderava sapere se Scott fu quell'uomo». In questo secondo caso « l’autore di
Waverley ricorre, dice Russell, in modo primario (primary occurrence) perchè
suppone che Giorgio IV ha una qualche diretta conoscenza di Scott. Nella prima
invece la frase ricorre in modo secondario nel senso che non suppone una
diretta conoscenza di Scott («On Denoting»?, Op. cif., pag. 72). Questa teoria
oltre a presupporre la differenza tra conoscenza diretta e conoscenza
indiretta, equivale a ridurre i nomi propri a nomi comuni e i nomi comuni a
nomi propri, cioè denotanti elementi ricavati dall’esperienza diretta. Teorie
simili a queste sono state date da Quine (Methods of Logic, 1950, $ 33; From a
Logical Point of View, 1953, cap. 1) e da altri. La seconda soluzione
dell’antinomia della relazione-N. è quella proposta dallo stesso Frege. Essa
consiste nel distinguere il significato (Bedeutunp, Meaning) come denotazione,
dal senso (Sinn, Sense). La denotazione è il riferimento del N. all’oggetto: «
Sir Walter Scott » e « l’autore di Waver/ey » hanno la stessa denotazione perchè
si riferiscono allo stesso oggetto. Il senso è invece, come diceva Frege, «
qualcosa che viene subito afferrato da chi conosca sufficientemente la lingua
(o in genere il complesso di segni) cui il N. proprio appartiene » (« Uber Sinn
und Bedeutung », $ 1; ed. ital. cit., pag. 219); sicchè due nomi possono avere
diversi sensi, pur riferendosi allo stesso oggetto. Questo è proprio il caso
delle due espressioni citate; e poichè è possibile comprendere il senso di un
N. senza conoscere la sua denotazione, le domande del tipo di quella attribuita
a Giorgio IV significano una richiesta di informazione concernente l'identità
delle NON CAUSA PRO CAUSA loro denotazioni. Questa soluzione è stata ripetuta
con varianti da Carnap (Meaning and Necessity, $ 31-32) e da Church (/ntr. to
Mathematical Logic, 1958, $ 01). E sembra una soluzione preferibile perchè non
esige particolari presupposti sulla natura del linguaggio. NOMINALE,
DEFINIZIONE. V. DeriniZIONE. NOMINALISMO (lat. Nominalismus;
franceseNominalisme; ted. Nominalismus). La dottrina dei filosofi nominales o
nominalisti che costituirono una delle grandi correnti della Scolastica. I
termini nominalista (nominalis) o terminista (ferminista) furono usati solo al
principio del sec. xv (v. TERMINIsMO). Ma già Ottone di Frisinga nella sua
cronaca Sulle gesta di Federico (I, 47) affermava che Roscellino » fu il primo
nei nostri tempi a proporre in logica la dottrina delle parole (sententiam
vocum) ». AI principio del sec. x11 il N. veniva difeso da Abelardo (v.
UNIVERSALI); ma il suo trionfo nella Scolastica fu dovuto all’opera di
Guglielmo di Ochkam (1280-1349) che non per nulla fu detto Princeps Nominalium.
Così Ockham esprimeva la sua convinzione in materia: « Nessuna cosa fuori
dell’anima nè di per sè nè per qualcosa che le venga aggiunta, di reale o di
razionale, e comunque si consideri e si intenda, è universale: giacchè tanta è
l'impossibilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualsiasi modo universale
(a meno che ciò non avvenga per convenzione come quando si considera universale
la parola ‘uomo’ che è singolare) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per
qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino » (/n Sent.,
I, d. II, q.7 S-T). Dal punto di vista positivo, il N. ammette che l’universale
o concetto è un segno dotato della capacità di essere predicato di più cose. In
questo senso il concetto era già stato definito da Abelardo (v. UNIVERSALI,
DISPUTA DEGLI). Nel delineare una breve storia del N., a proposito di Nizolio,
Leibniz diceva che «sono nominalisti coloro che credono che, oltre le sostanze
singolari, non ci sono che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose
astratte e universali », e Leibniz faceva cominciare il N. così inteso da
Roscellino e includeva tra i nominalisti, oltre lo stesso Nizolio, anche
Tommaso Hobbes (De stilo philosophico Nizolii, 1670, Op., ed. Erdmann, pag.
69). Queste notazioni e inclusioni leibniziane sono state accettate dagli
storici della filosofia. In epoca più vicina a noi, il termine è stato
adoperato per designare l’interpretazione convenzionalistica della fisica: per
es. Poincaré lo adoperava nei confronti di Le Roy(La science et l’hypothèse,
pag. 3). Qualche volta i logici moderni usano il termine per indicare la
dottrina che il linguaggio delle scienze 621 contiene solo variabili
individuali, i cui valori sono oggetti concreti e non già classi, proprietà e
simili (Quine, From a Logical Point of View, VI, 4 sgg.; CARNAP, Meaning and
Necessity, $ 10). NOMINALIZZAZIONE (ted. Nominalisierung). Husserl ha inteso
per «legge di N.» quella secondo la quale «ad ogni proposizione, ed a ogni
forma parziale distinguibile nella proposizione, corrisponde un elemento
nominale» (/deen, I, $ 119): il che significa, per es., che alla proposizione «
S è P» può corrispondere l’elemento unico nominale «l'essere P di S», nella
quale «esser P» può significare la simiglianza, la pluralità, ecc. NOMOLOGIA
(ingl. Nomology; franc. Nomologie; ted. Nomologie). Termine raramente usato
nella filosofia dell’800 per indicare la scienza della legislazione. Husserl ha
chiamato « N. aritmetica » la matematica universale (Logische Untersuchungen,
I, $ 64). NOMOTETICO (ted. Nomothetisch). Kant chiama N., cioè dante leggi, il
giudizio riflettente (v.) in quanto fornisce massime per l’unificazione delle
leggi naturali; ed esclude che sia nomotetico il giudizio trascendentale « che
contiene le condizioni per la sussunzione sotto categorie + e non fa che
«indicare le condizioni dell’intuizione sensibile sotto le quali può esser data
realtà (applicazione) ad un concetto dato » (Crit. del Giud., $ 69). Windelband
ha chiamato nomotetiche le scienze naturali in contrapposto alle scienze dello
spirito o scienze storiche dette idiografiche (Préludien, 5* ediz., II, pag.
145) (v. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE). NON (ted. Nicht). Secondo Heidegger,
il N. esprime la limitazione fondamentale dell’esistenza giacchè « l’Esserci,
essendo come poter essere, è sempre o nell’una o nell’altra possibilità, ma N.
è mai l’una e l’altra perchè, nel progetto esistentivo, ha sempre rinunciato ad
una » (Sein und Zeit, $ 58). Il N. esprime così l’esclusione delle possibilità
che è sempre implicita nella scelta di quelle che l’Esserci (cioè l’uomo) fa
entrare nel suo progetto. In questo senso Heidegger parla del N. come della
colpa fondamentale dell’esistenza: « L'idea formale esistenziale del colpevole
va quindi definita così: esser fondamento di un essere che è determinato da un
N., cioè esser fondamento di una nullità» (/bid.). NON CAUSA PRO CAUSA (gr. cò
ui altiov © atriov). Uno dei sofismi enunciati da Aristotele (£/ .Sof., 5, 167b
21) che consiste nell’assumere come causa (cioè come premessa) ciò che non lo
è, donde segue una conseguenza impossibile e l’apparente confutazione
dell’avversario. È una fallacia che si verifica specialmente nella riduzione
all’assurdo. L'esempio fatto da Aristotele è il seguente. Si voglia ridurre
all’assurdo l’affermazione che l’anima e la vita sono la stessa 622 NON-ENS
cosa. Si procede così: la morte e la vita sono contrarie; la generazione e la
corruzione sono contrari; ma la morte è corruzione, quindi la vita è
generazione. Ma ciò è impossibile, perchè ciò che vive non genera ma è
generato; quindi l’anima e la vita non sono la stessa cosa. La fallacia qui
consiste nell’eliminare la premessa: « Anima e vita sono la stessa cosa» e
sostituirla con l’altra « Morte e vita sono cose contrarie». (Cfr. Pretro
IsPANO, Summ. Log., 7.56-57; ARNAULD, Log., III, 19, 3; JuNGIUS, Log., VI, 12,
11; ecc.). NON-ENS LOGICUM. Così W. Hamilton chiamava l’atto del pensiero
negativo cioè il non pensare a niente di preciso, che equivale a non pensare
(Lectures on Logic, I, 2* ed., 1867, p. 76). NON IO (ingl. Non Ego; franc. Non
moi; tedesco Nicht Ich). Con questo termine Fichte indicava il mondo della
natura e in generale il mondo oggettivo, in quanto è posto dall’Io ma opposto
all’Io stesso. « Non v’è nulla di posto originariamente, tranne l'Io; e questo
soltanto è posto assolutamente. Perciò un’opposizione assoluta non può aversi
se non ponendo qualcosa di opposto all’Io. Ma ciò che è opposto all’Io è =
Non-Io » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 2, 9). NOOGONIA (ted. Noogonie). Come «
sistema di N.» Kant ha designato la dottrina di Locke, in quanto descrive la
genesi dei concetti a partire dall’esperienza (Crit. R. Pura, Anal. dei
Principi. Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). NOOLOGIA (lat.
Noologia; franc. Noologie; ted. Noologie). Termine inventato da Calov nei suoi
Scripta philosophica (1650) per indicare una delle due scienze ausiliarie della
metafisica [l’altra è la gnostologia (v.)] e precisamente quella che ha per
oggetto le funzioni conoscitive. Il termine è stato ripreso nel secolo
successivo da Crusius e altri, nello stesso senso o in sensi analoghi. Kant
chiamò noologisti coloro che, come Platone, ritengono che le conoscenze pure
derivano dalla ragione, in contrapposizione agli empiristi che le ritengono
derivate dall’esperienza (Crit. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo, cap. IV).
Ampère propose di chiamare noologiche tutte le scienze dello spirito (Essai sur
la philosophie des sciences, 1834). Nessuno di questi usi ha avuto fortuna.
NOOSFERA (franc. Noosphère). Termine adoperato da Le Roy per indicare il
dominio dell’evoluzione propriamente umana, perciò contrapposto al dominio
dell’evoluzione biologica (biosfera) e tale che si compie solo con l’aiuto di
mezzi spirituali: l'industria, la società, il linguaggio, l’intelligenza, ecc. (L’exigence idéaliste et le fait
de l’évolution, 1927, pag. 195-96). NORMA (lat. Norma; ingl. Norm; franc. Norme; ted. Norm). Una
regola o criterio di giudizio. LOGICUM La N. può essere anche costituita da un
caso concreto, un modello o un esempio; ma il caso concreto, il modello o
l’esempio valgono come N. solo se possono essere utilizzati come criteri di
giudizio degli altri casi, o delle cose cui l’esempio o il modello fanno
riferimento. La N. si distingue dalla massima (v.) perchè non è, come la
massima (nel significato 2) solo una regola di condotta, ma può essere regola o
criterio di qualsiasi operazione o attività. E si distingue dalla /egge (v.)
perchè può mancare del carattere costrittivo della legge stessa; per es., una
N. del costume diventa legge quando viene resa coattiva da una pubblica
sanzione. La N. è concetto recente, nato nell’ambito del neocriticismo tedesco.
È un concetto che si è formato attraverso la distinzione e la contrapposizione
tra il dominio empirico del farto (cioè della necessità naturale) e il dominio
razionale del dover essere (cioè della necessità ideale). La N. non deriva la
sua validità dal fatto che venga o non venga seguita o applicata; ma solo dal
dover essere che esprime. I filosofi della scuola del Baden (Windelband e
Rickert) hanno insistito su questo carattere della norma. Ha detto Windelband:
« Il sole della necessità naturale splende ugualmente sul giusto e
sull’ingiusto. Ma la necessità che avvertiamo nella validità delle
determinazioni logiche, etiche ed estetiche, è una necessità ideale, che non è
quella del Mussen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen ed del
poter-essere-altrimenti » (Préludien, 43 ediz., 1911, II, pag. 69 sgg.). In
questo senso ha inteso la N. anche Kelsen che ha posto il concetto di essa alla
base della sua teoria del diritto. « La N., egli ha detto, è l’espressione
dell’idea che qualcosa debba accadere, e specialmente che un individuo debba
comportarsi in una data maniera. Nulla è detto dalla N. sull’effettivo
comportamento dell’individuo in questione » (Genera! Theory of Law and State,
1945, I, C, a, S; trad. ital., pag. 36). In
questo senso si è parlato e si parla di una «trascendenza» della N. nei
confronti delle situazioni che essa regola: con tale trascendenza si è
insistito (talora opportunamente) sull’indipendenza del valore della N. dalla
sua effettiva applicazione. Per es. non c'è dubbio che le norme dirette allo
scopo di ottenere un buon prodotto agricolo o industriale, quali sono
determinate da apposite discipline scientifiche e tecnologiche, rimangono
valide indipendentemente dal fatto che esse siano ignorate o trascurate nella maggior
parte dei casi. Questa indipendenza tuttavia non significa che le norme abbiano
un'origine misteriosa o inaccessibile o siano depositate in qualche regione
dell’essere che abbia solo un riferimento indiretto e lontano con i campi
dell’esperienza umana che esse mirano a regolare. Le norme esprimono,
abitualmente, la disciplina NOUMENO più opportuna di determinate attività, in
vista di dare a tali attività la maggiore efficienza e precisione possibile. Se
quindi esse non sono sempre generalizzazioni di quel che già è in atto o che
già si fa, perchè possono anche ispirarsi ad un ordinamento del tutto diverso,
non sono neppure estranee ai campi dell’attività umana che mirano a regolare.
In questo senso Dewey diceva: «La differenza che si suole registrare tra i modi
in cui gli uomini pensano e quelli in cui devono pensare è del tutto simile a
quella che corre fra la buona e la cattiva coltivazione o la buona e la cattiva
pratica medica. Gli uomini pensano come non devono quando seguono metodi
d’indagine che l’esperienza delle indagini passate mostra non adatti a
raggiungere il fine prefissato» (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 156). Da
questo punto di vista una N. è semplicemente una formula tecnica per lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. Si possono pertanto
distinguere due concetti di N.: 1° la N. come criterio infallibile per il
riconoscimento o la realizzazione di valori assoluti. Questo è il concetto che
è stato elaborato dalla filosofia dei valori (v.) e che viene tuttora accettato
dalle dottrine assolutistiche; 2° la N. come procedura che garantisce lo
svolgimento efficace di un’attività determinata. NORMALE (ingl. Normal; franc.
Normal; tedesco Normal). 1. Ciò che è conforme alla norma. 2. Ciò che è
conforme a un’abitudine o a una consuetudine o a una media approssimativa o
matematica o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad es.,
«condurre una vita N.» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo
gruppo sociale; o « ha un peso N.» o «una altezza N.» per dire che ha il peso o
l’altezza corrispondenti alla media di quelli degli individui della stessa età,
razza, ecc.; o «una mente N.» o «un’organismo N.» per indicare la buona salute
mentale o fisica. Questo uso del termine non è del tutto improprio: perchè, sebbene
le norme cui esso fa riferimento siano ottenute da generalizzazioni empiriche,
esse sono tuttavia adoperate come criterio di giudizio e stabiliscono quindi
una « normalità ». NORMATIVO (ingl. Normative; franc. Normatif; ted. Normativ).
L'aggettivo ha due sensi principali, che corrispondono ai due sensi che sono
attribuiti alla parola norma e cioè: 1° è N. ciò che prescrive la regola
infallibile per raggiungere la verità, la bellezza, il bene, ecc., cioè un bene
assoluto; 2° è N. una formula tecnica che garantisce lo svolgimento efficace di
una certa attività. Nella seconda metà dell’800 sono state dette N. nel senso
1° le scienze filosofiche speciali cioè la logica, l’etica e l’estetica, alle
quali si attribuì il compito di prescrivere le norme cui il pensiero, la 623
volontà e il sentimento avrebbero dovuto adeguarsi per raggiungere la verità,
il bene e la bellezza (Windelband, Rickert, Wundt, Simmel, Husserl, ecc.). La
qualifica di N. è stata in questo senso respinta dalle discipline anzidette (v.
le voci relative). Non si può tuttavia negare che esistano discipline N. nel
senso 2°, cioè nel senso di formulare, ipoteticamente, tecniche atte a
garantire lo svolgimento efficace di determinate attività. NOTA (lat. Nota;
ingl. Note; franc. Note; ted. Merkmal). Segno o caratteristica di un oggetto.
Sul principio: «la N. di una N. è una N. della cosa stessa» che Kant volle
sostituire al dictum de omni et nullo come fondamento del sillogismo v.
SiLLOGISMO. NOTAZIONE (ingl. Noration; franc. Notation; ted. Noration). Si
chiamano con questo termine i simboli primitivi della logica. La più comune
classificazione di tali simboli è quella che li divide in quattro classi e cioè
costanti, variabili, connettivi e operatori. Questi due ultimi sono talora
detti rispettivamente operatori e astrattori (v. le singole voci: CONNETTIVO;
COSTANTE; OPERATORE). NOTAZIONE (gr. Etvpororia; lat. Noratio; ingl. Notation;
franc. Notationj ted. Notation). In logica, l'argomento (/ocus) derivato
dall’etimologia del nome; come quando Platone fa derivare la voce séma (corpo)
da séma (tomba) come argomento che il corpo è la tomba dell’anima (Crar., 400
c). Questo tipo di argomento è chiarito da Cicerone (7op., 8, 35) ed è ripreso
dai Logici del ’600 (JunGIUS, Log., V, 25). NOUMENO (gr. voovpevov; ingl.
Noumenon; franc. Nouméne; ted. Noumenon). Questo termine è stato introdotto da
Kant per indicare l’oggetto della conoscenza intellettuale pura, che è poi la
cosa in sè (v.). Nella dissertazione del 1770 Kant dice: «L'oggetto della
sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non possa essere
conosciuto dall’intelligenza è l’intelligibile. Il primo dalle scuole degli
antichi era detto fenomeno, il secondo N.» (De mundi sensibilis, ecc., $ 3). In
realtà la parola N. è talora usata dai filosofi greci, ma non in contrapposto
con fenomeno, bensì talora in contrapposto con sensibile come in Platone: « Se
intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci saranno senza
dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi, sono soltanto pensati»
(Tim., 51 d); e talora in contrapposto con l’oggetto direttamente afferrabile,
come negli Stoici: « La comprensione si produce, secondo gli Stoici, 0 con la
sensazione e allora è comprensione di cose bianche o nere o ruvide o lisce o
col ragionamento e allora è comprensione di nessi dimostrativi come quando si
dimostra che gli dèi esistono e che esercitano la provvidenza. Delle cose
pensate invece 624 alcune sono pensate secondo l’occasione, altre secondo la
somiglianza, altre secondo la composizione e altre secondo contrarietà» (Dioa.
L., VII, 52). Più frequente è negli antichi (soprattutto in Platone, in
Aristotele e nei Neoplatonici) l’uso del termine intelligibile (vontéc) che
però viene contrapposto non a fenomeno, ma a sensibile (cfr., ad es.,
ARISTOTELE, Et. Nic., X, 4, 1174 b 34). NOZIONE (gr. tota, rpéinyic; lat.
Notio; ingl. Nozion; franc. Notion; ted. Notion). Due significati fondamentali:
uno generalissimo, per cui N. è qualsiasi atto d’operazione conoscitiva;
l’altro specifico, per cui è una speciale classe di atti od operazioni
conoscitive. Cicerone, che introdusse il termine, lo fa corrispondere sia ad
tyvorx che ha significato generalissimo, sia a rp6Anyis che è l’anticipazione,
cioè una specie particolare e privilegiata di conoscenze (Top., 7, 31). Nel
Medioevo Giovanni di Salisbury, adoperò il termine nel senso generale,
riferendolo appunto al greco toa (Meral., II, 20); ed in senso generalissimo lo
adoperava anche Jungius, che intendeva per N. «la prima operazione del nostro
intelletto cioè quella con la quale esprimiamo una cosa con un’immagine » (Log.
Hamburgensis, 1638, Prol., 3). Locke invece intendeva restringere il termine a
quelle idee complesse « che sembra abbiano origine e costante esistenza più nel
pensiero degli uomini che nella realtà delle cose » (Saggio, II, 22, 2); mentre
Leibniz osservava che « molti applicano la parola N. a ogni sorta di idee o di
concezioni, sia a quelle originali, sia a quelle derivate » (Nouv. Ess., II,
22, 2). Berkeley a sua volta restringeva il termine a indicare la conoscenza
che lo spirito ha di se stesso e della relazione tra le idee: conoscenza che
non è a sua volta un’idea (Princ. of Human Knowledge, I, $ 27, 89, 140, ecc.;
cfr. la nota al $ 27 della edizione dei Principles, in Works, ed. T. E. Jessop,
II, pag. 53). Anche Kant dava del termine un significato ristretto, intendendo
per esso «il concetto puro in quanto ha la sua origine unicamente
nell’intelletto » e riservando il termine « rappresentazione » per il
significato generale di N. (Cris. R. Pura, Dial. trasc., I, sez. 1). Viceversa
Wolff aveva affermato: «La rappresentazione delle cose nella mente è la N., da
altri detta idea» (Lop., $ 34). Tutti i significati specifici proposti per il
termine non hanno avuto fortuna; gli è rimasto ora quasi esclusivamente il
significato generico di operazione o atto o elemento conoscitivo in generale.
NOZIONI COMUNI (gr. xorval Evora; latino Notiones communes). Sono le
anticipazioni (v.) degli Stoici, alle quali spesso si è fatto riferimento nella
storia della filosofia: cfr., ad es., SPINOZA, Etàh., II, 38, Cor.; LEIBNIZ,
Nouv. Ess., Avant-propos; ecc. NOZIONE NULLA (gr. undéy, tò ud 8v; lat. Nihil;
ingl. Nothing, Nothingness; franc. Néant; ted. Nichts). Due concezioni del N.
si sono intercalate nella storia della filosofia: 1° il N. come non-essere; 2°
il N. come alterità o negazione. Queste due concezioni hanno i loro capistipite
rispettivamente in Parmenide e Platone. Parmenide affermò che «il N. non è»
(Fr., 6, 2) e che «non si può nè conoscere nè esprimere » (/bid., 4); Platone,
decidendosi a una specie di « parricidio » verso Parmenide (Sof., 242 d),
ammise l’essere del non-essere e definì il N. come alterità. « Risulta, egli
scrisse, che c’è un essere del non-essere, così per il movimento come per tutti
i generi, giacchè in tutti i generi l'alterità, che rende ciascuno di essi
altro da sè, fa un non-essere dell’essere di ciascuno: sicchè correttamente
diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e partecipano dell’essere »
(/bid., 256 d). Sicchè mentre per Parmenide il N. è assoluto non-essere quindi
non è pensabile nè esprimibile in alcun modo, per Platone il N. è l’alterità
dell’essere cioè la negazione di un essere determinato (per es., del movimento)
e l’indefinito riferimento a un altro genere dell’essere (a ciò che non è
movimento). 1° Alla tesi di Parmenide, portava un appoggio Gorgia affermando
che «il N. non è perchè se esistesse sarebbe insieme non-essere ed essere:
nonessere in quanto pensato come tale, essere in quanto sarebbe non-essere »
(Fr., 3, 26). Il N. definito da queste proposizioni è il N. assoluto: quella «
certa idea negativa del niente cioè di ciò che è infinitamente lontano da ogni
sorta di perfezione » di cui parlava Cartesio, opponendola a Dio che include
tutte le perfezioni (Méd., IV); o quel «concetto vuoto senza oggetto » che è la
negazione del « più alto concetto da cui si suol prendere le mosse in una
filosofia trascendentale » cioè dell’oggetto, di cui parlava Kant (Crif. R.
Pura, Anal. dei Princ.; Nota alla Anfibolia dei concetti della riflessione).
Del N. così inteso è stato fatto un uso prevalentemente teologico e metafisico:
da un lato è servito a definire Dio, quando si è voluto insistere sulla sua
eterogeneità dal mondo o a definire la materia quando si è voluto insistere
sulla sua eterogeneità dalle cose; dall'altro, è servito a introdurre
nell'essere una condizione o un elemento che ne spiegasse certi caratteri. Il
primo uso ricorre frequentemente nella teologia negativa. Già Scoto Eriugena aveva
identificato Dio col N. perchè Dio è Superessentia (cioè al di sopra della
sostanza) e perchè il niente è, dall'altro lato, «la negazione e l’assenza di
ogni essenza o sostanza, anzi di tutte le cose che sono state create in natura
» (De divis. nat., III, 19-21). Questa dottrina viene frequentemente ripetuta
nel Medioevo: come N. o «N. del N.» o « quintesNULLA senza del N.» viene
indicato Dio nel Zoher, uno dei libri della Kabala (cfr. SfRouYA, La Kabbale,
Paris, 1957, pag. 322). Un « N. superessente » Dio è detto da Maestro Eckhart
(Op., ed. Pfeiffer, pag. 139); e «un N. eterno» da Bòhme (Mysterium Magnum, I,
2). In tutte queste espressioni il N. esprime la negazione totale delle forme
d’essere conosciute, ritenute inadeguate alla natura di Dio. AI secondo uso del
concetto di N. hanno fatto ricorso i Neo-platonici per accentuare la differenza
tra la materia e le cose cioè tra il carattere informe dell’una e le
determinazioni delle altre. Così per Plotino la materia è il non-essere perchè
è priva di corporeità, di anima, di intelligenza, di vita, di forma, di
ragione, di limite, di potenza: cioè di tutti i caratteri che l’essere
possiede. « Bisogna dire, dice Plotino, che essa è non-essere ma non nel senso
del movimento che non è la quiete o reciprocamente, bensì è veramente il
non-essere, un’immagine o fantasma della massa corporea e una aspirazione
all’esistenza » (Enn., II, 6, 7. Nello stesso senso la materia è caratterizzata
da S. Agostino: « Se si potesse dire che il N. è e non è qualcosa, direi che questa
è la materia » (Conf., XII, 6, 2). Il terzo uso è proprio della filosofia
moderna ed è diretta a risolvere l’essere nel divenire o la possibilità in
impossibilità. AI primo scopo è diretta la concezione del N. sostenuta da
Hegel. Egli correttamente osserva che il vecchio detto Ex nihilo nihil fit non
esprime altro che la negazione del divenire, e contro questa negazione afferma
l’indissolubilità e la convertibilità reciproca dell’essere e del nulla. «
Dell’essere e del N., egli scrisse, è il caso di dire che in nessun luogo, nè
in cielo nè in terra, c'è qualcosa che non contenga in sè tanto l’essere quanto
il nulla. Senza dubbio, in quanto si parla di un certo qualcosa e di qualcosa
di reale, quelle determinazioni non si trovano più nella loro completa verità,
in cui stanno come essere e come N., ma vi si trovano in una determinazione
ulteriore e intese, per es., come positivo e negativo... Ma il positivo e il
negativo contengono il primo l’essere, il secondo il N. come loro base
astratta. Così perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la
potenza, ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo; coteste
qualità consistono nella produzione di un altro » (Wissenschaft der Logik, I,
sez. I, cap. I, C, nota I; cfr. Enc., $ 87). La caratteristica di una dottrina
siffatta è il teorema che il N. è il fondamento della negazione, non già la
negazione del nulla. Questo teorema è espresso da Hegel nel passo citato
dicendo che il positivo e il negativo contengono come loro base astratta il nulla.
Nella 49) — ABBagNnavO, Dizionario di filosofia. 625 filosofia contemporanea lo
stesso teorema è esplicitamente messo innanzi da Heidegger. «È il N., egli
dice, che è l'origine della negazione, non viceversa » (Was ist Metaphysik?,
1949, 5* ediz., pag. 33). Da questo punto di vista, il N. è «la negazione
radicale della totalità dell’esistente » (/bid., 1949, 5* ediz., pag. 27), cioè
è N. assoluto. Ma insieme costituisce il fondamento dell’essere e precisamente
dell’essere dell’uomo, in quanto questo essere è instabile (hinf@llie).
L’instabilità dell’essere dell’uomo è vissuta nella situazione emotiva
dell’angoscia. « L’esistente non è affatto distrutto dall’angoscia in modo che
rimanga, così, il nulla. Come potrebbe accadere diversamente, dato che l’angoscia
si trova nella più completa impotenza di fronte all’esistente nella sua
totalità? In realtà il N. si rivela proprio con e nell’esistente in quanto
questo ci sfugge e si dilegua nella sua totalità » (Ibid., 1949, 5* ediz., pag.
31). Questo significa che il N. è vissuto dall'uomo in quanto l’essere
dell’uomo (l'esistenza) non è e non può essere rurto l’essere: l’essere
dell’uomo consiste nel non essere l’essere nella sua totalità, cioè nel N.
dell’essere. Perciò Heidegger dice che il N. è lo stesso annullamento (« È
proprio il N. stesso che annulla»; Ibid., 5* ediz., 1949, pag. 31) e che esso è
«la condizione che rende possibile, nel nostro esserci, la rivelazione
dell’esistente come tale » (Ibid., 53 ediz., 1949, pag. 32). Il problema e la
ricerca dell’essere nascono dal fatto che l’uomo non è tutto l’essere, cioè che
il suo essere è il N. della totalità dell’essere. Sartre sostituisce alla
nozione di esistenza quella di coscienza ma continua a intendere per essa
l’essere dell’uomo che è il N. dell’essere: finisce così col ripetere i
concetti di Heidegger. « Il N. non è, egli dice, il N. è srato; il N. non si
annienta, il N. è sfaro annientato. Resta dunque che deve esistere un essere —
che non potrebbe essere l’in sè — che ha per proprietà di annullare il N., di
reggerlo col suo essere, di sostenerlo perpetuamente con la sua stessa
esistenza: un essere per il quale il N. viene alle cose» (L’étre er le néant,
pag. 58). Quest’essere è la coscienza che, essendo costituita da possibilità, è
sempre aperta verso il nulla. « Una possibilità resta sempre aperta che esso si
riveli come un nulla. Ma dal fatto stesso che si prospetti che un esistente
possa sempre risolversi come N., ogni questione suppone che si realizzi un
arretramento nientificatore, in rapporto al dato, e diviene una semplice
presentazione, oscillante tra l'essere e il N.» (/bid., pag. 59). In questo
modo l’uomo ha la possibilità di circoscrivere « un N. che lo isoli » cioè di
mettersi fuori dell’essere, per metterlo in questione e sottrarsi alla sua
totalità. È chiaro ciò che queste speculazioni sul N. intendono suggerire:
l’essere proprio dell'uomo, in quanto 626 costituito da possibilità, che come
tali possono non realizzarsi, e che in ogni caso escludono l’essere completo o
totale, e manifestandosi quindi in modo eminente nel dubbio, nel problema,
nella progettazione, ecc., è il N. del rutto dell’essere. Si tratta cioè di
speculazioni che vogliono definire il finito (la limitazione propria
dell’esistenza umana) servendosi di due infiniti: il tutto e il nulla. 2° La
seconda concezione fondamentale del N., il cui capostipite è Platone, considera
il N. come alterità o negazione. Per questa concezione non c’è un « N. assoluto
» cioè un N. che sia, nella terminologia kantiana, la negazione di ogni oggetto.
In questa terminologia il N. è soltanto privazione di qualche cosa: come
l’ombra o il freddo (nihil privativum) o un ente immaginario (ens imaginarium)
o l’oggetto di un concetto che contraddice se stesso (nihil negativum) (Crit.
R. Pura, Anal. dei Princìpi, Nota alle anfibolie dei concetti della
riflessione). Da questo punto di vista il N. è un oggetto (nel senso più
generale della parola); e c’è una nozione del N., a differenza di ciò che
pensava Wolff quando definiva il N. come «ciò a cui non corrisponde alcuna
nozione » (Ont., $ 57). In questo senso aveva ragione il vecchio Fredegiso di
Tours (sec. 1x) ad affermare che il N. è qualcosa; giacchè, come egli diceva,
«se qualcuno dirà che gli sembra che non sia N., questa stessa negazione lo
spingerà a riconoscere che il N. è qualcosa dal momento che dire: ‘ Mi sembra
che il N. sia N.” è equivalente a dire ‘ Mi sembra sia qualcosa ’» (De Nihilo
et Tenebris, in P. L., 105, col. 751). Ciò significa che, dal momento che si
parla del N., sia pure per dire che è N., il N. è un qualcosa di cui si parla,
cioè un oggetto in generale. Considerazioni di questo genere possono sembrare
puramente dialettiche, ma conservano il loro valore anche nella logica
contemporanea (cfr. GEYMONAT, Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino,
1953, pag. 101 sgg.). Questo concetto del N. non ha tuttavia avuto molta
fortuna tra i filosofi, e se ne intende anche la ragione: non si presta a un
uso teologico o metafisico. La migliore illustrazione di esso nella filosofia
contemporanea è quella data da Bergson: « L’idea di abolizione o di N. parziale
si forma nel corso della sostituzione di una cosa ad un’altra dal momento che
tale sostituzione è pensata da uno spirito che preferirebbe mantenere l’antica
cosa al posto della nuova o che almeno concepisce questa preferenza come
possibile. Essa implica dal lato soggettivo una preferenza, dal lato oggettivo
una sostituzione, e non è altro che una combinazione o piuttosto una
interferenza tra il sentimento di preferenza e questa idea di sostituzione»
(Év. créatr., 88 ediz., 1911, pag. 305-06). Ciò vuol dire che si dice che « non
c’è NULLIBISTI N.» quando non c’è la cosa che ci aspettavamo di trovarci o che
poteva esserci, e che l’idea del N. assoluto è una « pseudo idea », altrettanto
assurda di quella di un circolo quadrato (/bid., pag. 307). Si può insistere un
po’ meno sull’aspetto soggettivo di questo concetto del N. e di più
sull’aspetto oggettivo; si può dire, ad es., che il N. esprime la negazione o
l’assenza di una possibilità determinata o di un gruppo di possibilità, senza
ricorrere alla nozione di preferenza o di sostituzione; ma l’analisi di Bergson
rimane sostanzialmente corretta sia nella sua tesi positiva sia in quella
negativa. Essa è d'altronde conforme al concetto che della negazione hanno i
logici contemporanei; per es. a quello che Carnap espose in una critica rimasta
famosa al concetto del N. di Heidegger, concetto in cui egli vide riassunte
tutte le magagne della metafisica. Carnap affermò allora che la sola nozione di
N. logicamente corretta è la negazione di una possibilità determinata; che dire
« Non c’è N. fuori » significa «Non c’è qualcosa che sia fuori» «— (Fx) x è
fuori» (* Ùberwindung der Metaphysik», in Erkenntnis, II, 1931, pag. 229 sgg.).
Poichè la negazione che qualcosa sia fuori implica che qualcosa poteva esser
fuori, la negazione è, in questo senso, l’esclusione di una possibilità
determinata. NULLIBISTI (ingl. Nullibists; ted. Nullibisten). Così Henri Moore
chiamò coloro che credono che l’anima non occupi spazio e non abbia perciò una
sede determinata nel corpo (Enchiridion Metaphysicum, 1671, I, 27, 1). NUMERO
(gr. &piduéc; lat. Numerus; inglese Number; franc. Nombre; ted. Zahl).
Nella storia di questo concetto si possono distinguere quattro fasi concettuali
diverse che hanno dato luogo a quattro diverse definizioni di esso, e
precisamente: 1° la fase realistica; 2° la fase soggettivistica; 3° la fase
oggettivistica; 4° la fase convenzionalistica. 1° La fase realistica è
caratterizzata dalla tesi che il N. è un elemento costitutivo della realtà;
della realtà in quanto accessibile, non ai sensi, ma alla ragione. Fu questa la
tesi propria dei Pitagorici, i quali credevano, secondo la testimonianza di
Aristotele, che « le cose sono esse stesse numeri », cioè « composte di numeri
come di loro elementi + (Mer., XIV, 3, 1090a 21). A questa credenza è connessa
la definizione del N. come « un sistema di unità » che fu propria dei
Pitagorici (STOBEO, Ecl., I, 18): una definizione sulla quale si modellò quella
stessa di Euclide (« moltitudine di unità +, Z7., VII, 2) e che è rimasta per
molto tempo a fondamento delle matematiche. A sua volta Platone riteneva che il
N. si trovasse dovunque ci fosse un ordine, cioè un limite dell’illimitato. Tra
la molteplicità illimitata (per es. dei suoni vocali) e l’unità assoluta, il N.
si inserisce come un limite (per es. la distinNUMERO zione ed enumerazione
delle lettere dell’alfabeto): perciò si trova sempre dove c’è ordine ed
intelligenza (Fil., 18a sgg.). Dall’altro lato, il numero in questo senso non è
legato a qualcosa di visibile o di tangibile: è perciò diverso dal numero di
cui si avvale l’uomo nei suoi compiti pratici (Rep., 525 d). Con questa tesi
(che non è quella dei platonici pitagoreggianti che consideravano le idee come
numeri; cfr. ARIST., Met., XIV, 3) è sostanzialmente d’accordo lo stesso
Aristotele. «Le entità matematiche, egli dice, non sono sostanze più dei corpi;
precedono logicamente, ma non nell’esistenza, le cose sensibili e non possono
esistere separatamente. Ma dal momento che non possono neppure risiedere nelle
cose sensibili, o non debbono essere affatto o devono essere in qualche modo
speciale, che non è l’esistenza assoluta» (Mer., XIII, 3, 1077b 12). Questo
modo d'’esistenza speciale proprio delle entità matematiche è definito dalle
stesse proposizioni matematiche: « È strettamente vero, dice Aristotele, che ci
sono entità matematiche e che sono tali quali le matematiche dicono che esse
sono » (/bid., XIII, 3, 1077 b 31). Aristotele intende dire, che le entità
matematiche hanno un’esistenza analoga alle entità della fisica, per es. al
movimento: sono astratte dalle cause sensibili ma non sono separabili da esse.
Da questo punto di vista, il numero è « una pluralità misurata o una pluralità
di misura»; e l’unità non è un N. ma misura del N. (Mer., XIV, 1, 1088a 5): una
definizione la quale ripete quella platonica, e anticipa quella euclidea già
ricordata. 2° La seconda fase concettuale della nozione di N. si può far
cominciare con Cartesio. «Il N. che consideriamo in generale, egli disse, senza
riflettere su alcuna cosa creata, non esiste fuori del nostro pensiero come non
esistono tutte le altre idee generali che gli Scolastici comprendono sotto il
nome di universali » (Princ. Phil., I, 58). Il N. è in altri termini, un’idea,
un atto o una manifestazione del pensiero. La definizione che ne risulta è
quella di operazione: il N. è un’operazione di astrazione eseguita sulle cose
sensibili. Questo concetto del numero si trova ripetuto molte volte nella
filosofia moderna. Hobbes pose il N. tra le cose « non esistenti » che sono
soltanto «idee od immagini» (De Corp., VII, $ 1). Locke vede nel N. un’idea
complessa e precisamente un «modo semplice ottenuto mediante la ripetizione
dell’unità » (Saggio, II, 16 2); e nello stesso senso Leibniz dice che il N. è
un’idea adeguata o compiuta cioè « un’idea così distinta che tutti i suoi
ingredienti sono distinti» (Nouv. Ess., II, 31, 1). Berkeley afferma che il
numero «è interamente la creatura dello spirito » (Princ. of Human Knowledge,
I, 12). Newton afferma che per N. bisogna intendere 627 «non tanto la
moltitudine delle unità quanto il rapporto tra la quantità astratta di una
qualità ed una quantità dello stesso genere che si assume come unità»
(Arithmetica Universalis, cap. 2). Una definizione analoga a questa è data da
Wolff secondo la quale «il N. in genere ha con l'unità la stessa relazione che
una retta qualsiasi può avere con una retta data » (Ont., $ 406). Questa
definizione, come quella di Newton, fa del N. l’operazione con cui si
stabilisce un rapporto di misura. Kant non faceva che esprimere lo stesso
concetto generale affermando che il N. è uno scherma (v.) e precisamente che
esso è «la rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a uno
(omogenei) » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. l). La novità del
concetto kantiano è che il N. non è un’operazione empirica cioè effettuata sul
materiale sensibile ma un’operazione puramente intellettuale che opera sul
molteplice dato dall’intuizione pura (del tempo) il quale è assolutamente
omogeneo. Questo fa del N. qualcosa di indipendente dall’esperienza e dotato di
un genere di validità che non è quella empirica; ma il N. è pur sempre
un’operazione del soggetto. Mentre questa concezione kantiana veniva ripresentata
numerose volte nella filosofia dell’800, Stuart Mill ritornava al concetto del
N. come operazione empirica di astrazione. « Tutti i numeri, egli diceva,
devono essere numeri di qualcosa: non ci sono numeri in astratto ». Pertanto i
numeri sono prodotti da una «induzione reale, da una inferenza reale da fatti a
fatti» e tale induzione è nascosta soltanto dalla sua natura comprensiva e
dalla conseguente generalità del linguaggio cui mette capo (Logic, II, 6, 2).
Le posizioni di Kant e di Stuart Mill rimangono in qualche modo tipiche per
questa fase soggettiva del concetto di N.: il N. è una pura operazione
intellettuale per Kant; è una generalizzazione empirica per Stuart Mill; in
ogni caso appartiene alla sfera della soggettività. All’ambito di questa concezione
del N. appartengono le dottrine di Cantor e Dedekind. Per Cantor il N. è
fondato sulla facoltà del pensiero di aggruppare gli oggetti e di astrarre
dalla loro natura e dal loro ordine, dando così luogo al N. cardinale, o
soltanto dalla loro natura, dando così luogo al N. ordinale. Dedekind a sua
volta fondò il concetto di N. sulla operazione di appaiare o accoppiare le cose
insieme. Per quanto matematicamente feconde, queste nozioni mantengono il
concetto di N. nell’ambito della soggettività. 3° La terza fase concettuale
della nozione di N. cioè quella secondo la quale il N. è oggettivo ma non reale
fu iniziata dallo scritto di Frege sui Fondamenti dell’aritmetica (1884). Frege
riconosceva al N. il carattere concettuale ma col carattere con628 cettuale gli
riconosceva anche l’oggettività. Ciò in primo luogo esclude che il N. sia
un’operazione o una realtà psicologica, un’idea nel significato settecentesco
del termine: «Il N. non costituisce un oggetto della psicologia né può
considerarsi come un risultato di processi psichici, più che non possa
considerarsi tale il Mare del Nord », egli dice. «Io faccio una netta
distinzione fra ciò che è oggettivo e ciò che è palpabile, reale e occupa uno
spazio. Per es. l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono
oggettivi eppure non direi che sono reali come lo è la terra » (Die Grundlagen
der Arithmetik, $ 26; trad. ital., pag. 70-71). La matematica aveva già
stabilito l’insufficienza della definizione di N. come collezione di unità:
questa definizione infatti porterebbe ad escludere che 0 ed 1 siano numeri (e
Aristotele riconosceva la cosa per ciò che riguarda l’1; Mer., XIV, 1, 1088 a
5). Frege assume come base della definizione di numero l'estensione (v.) del
concetto e assume di dire che «il concetto F è ugualmente numeroso del concetto
G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli
oggetti che cadono sotto G e quelli che cadono sotto F». Posto ciò, dà del
numero la definizione seguente: «Il N. naturale che spetta al concetto F non è
altro che l’estensione del concetto ‘egualmente numeroso ’ ad F+» (/bid., $ 68;
pag. 134). Questa definizione di Frege è stata riespressa da Russell in termini
di classi anzichè di concetti. Dice Russell: « Quando si ha una relazione di
termine a termine fra tutti i termini di una collezione e tutti i termini di
un’altrdiciamo che le due collezioni sono simili. Noi possiamo allora vedere
che due collezioni simili hanno lo stesso N. di termini e definire il N. di una
collezione data come la classe di tutte le collezioni simili ad essa. Ne
risulta la seguente definizione formale: ‘il N. dei termini di una classe data
si definisce come la classe di tutte le classi simili alla classe data *» (Our
Knowledge of the External World, 3* ediz., 1926, cap. 7; trad. franc., pag.
163). La definizione di Russell, che fu posta alla base sia dei Principles of
Mathematics (1905) sia dei Principia Mathematica che egli pubblicò nel 1910 in
collaborazione con Whitehead (le due opere fondamentali della logica matematica
contemporanea), ha avuto vasta accoglienza nella filosofia e nella matematica
contemporanea. Essa tuttavia è apparsa talora troppo ristretta per le
possibilità di sviluppo della matematica odierna: la quale non intende rimanere
legata a un concetto di numero che risulti comunque precostituito per essa. 4°
La quarta fase è quella che si è venuta realizzando in stretta connessione con
l’assiomatica moderna e si può connettere con i nomi di Peano, NUMINOSO
Hilbert, Zermelo, Dingler. Per essa, il N. è un segno, definito da un adatto
sistema di assiomi. Dice, ad es., Dingler: « Noi ci costruiamo una serie di
segni (segni grafici) sempre riproducibili che deve possedere le seguenti
proprietà: a) la serie ha un primo termine; 5) la serie possiede una regola di
costruzione enunciabile in modo finito tale che: a) è sempre determinato
univocamente quale termine della serie viene immediatamente a destra di un
termine già segnato; 8) ogni termine della serie è diverso da tutti i termini
che lo precedono a sinistra + (Die Methode der Physik, 1937, cap. II, 3, $ 2;
trad, ital., pag. 137-38). Questo punto di vista può essere riassunto nel modo
seguente: a) non esiste un unico oggetto o entità detta « N.» di cui siano
specificazioni i numeri definiti nei vari sistemi numerici; 5) la validità dei
vari sistemi numerici dipende soltanto dalla consistenza intrinseca di ciascun
sistema, quale risulta definita dagli assiomi fondamentali; c) il concetto di
N., quale risulta nell’ambito di un sistema numerico, non è legato a una
interpretazione determinata ma è suscettibile di interpretazioni
indefinitivamente variabili. Il N. in altri termini non è privo affatto di
interpretazione (come un segno che non significhi niente) e non è legato ad
un'unica interpretazione privilegiata; ma è caratterizzato dalla possibilità di
interpretazioni diverse. Questa nozione del N. è quella abitualmente
presupposta dai più recenti sviluppi della matematica (v.). NUMINOSO (ingl.
Numinous; ted. Numinose). Così Rudolf Otto chiamò la coscienza di un mysterium
tremendum cioè di qualcosa di misterioso e terribile che ispira timore e
venerazione: coscienza che sarebbe la base dell’esperienza religiosa
dell’umanità (Das Heilige, 1917; trad. ital., // sacro, Bologna, 1926). NYAYA.
Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, caratterizzato dalla
importanza in esso assunta dalla dottrina della conoscenza e dei suoi oggetti.
Il N. enumera quattro mezzi di conoscenza: percezione, inferenza, analogia e
testimonianza; definisce la conoscenza vera come quella che non è soggetta a
contraddizioni o a dubbi e che riproduce l’oggetto come esso è; e si ferma a
determinare l'elenco degli oggetti conoscibili e dei loro tratti
caratteristici. Tra questi include sia il mondo fisico con i suoi elementi, sia
l’uomo nel suo corpo e le sue attività spirituali, sia lo spazio o il tempo,
Dio e in generale le condizioni di esistenza delle cose fisiche o spirituali
(cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). O O.
Questa lettera nella Logica formale « aristotelica » viene usata come simbolo
della proposizione particolare negativa (v. A). G. P. OBBEDIENZA (lat.
Oboedientia; ingl. Obedience; franc. Obéissance; ted. Gehorsamkeit). È, secondo
Spinoza, il significato specifico della fede. Questa infatti consiste «
nell’avere, intorno a Dio, quei sentimenti tolti i quali, viene anche meno lO.
a Dio e che sono invece necessariamente posti quando è posta l’O.» (7ract.
rheologico-politicus, cap. 14). Questa riduzione della fede all’O. è una
espressione dell’indirizzo di dottrina che riduce la fede ad atto pratico (v.
FEDE). OBBIETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Obiektive). 1. Lo
stesso che oggetto, quando la parola si adopera nel senso di fine o scopo (v.
OGGETTO). 2. Nel senso specifico proposto da Meinong, è l’oggetto del giudizio,
in quanto distinto dall’oggetto della rappresentazione. Per es., se si dice: «
È vero che vi sono gli antipodi », l'O. è costituito da «che vi sono gli
antipodi ». L’O. non è di necessità esistente. Se A non è, il non-essere di A è
un O. allo stesso titolo dell’essere di A (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.).
OBBIETTO. V. OgaetTO. OBBIEZIONE (ingl. Objection; franc. Objection; ted.
Einwurf). Un argomento la cui conclusione contraddice una certa tesi. Leibniz
osservava già che la verità non può soffrire ad opera di « O. invincibili ». «
Bisogna, egli diceva, cedere sempre alle dimostrazioni sia che si propongano
per affermare, sia che si avanzino in forma di obbiezioni. Ed è ingiusto e
inutile voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che sono solo
O.: giacchè l’avversario ha lo stesso diritto e può invertire i nomi, onorando
i suoi argomenti con il nome di prove e abbassando i nostri con quello
spregiativo di O.» (Théod., Discours, $ 25). OBBLIGAZIONE (lat. Obligatio; ingl. Obligation; francese Obligation; ted. Verpflichtung).
x. Il carattere costrittivo che ad un rapporto interpersonale è conferito da
una legge giuridica o da una norma morale. Questo carattere è diverso dalla
necessità (v.) per la quale è impossibile che la cosa sia o accada altrimenti:
1’O. non impedisce che, in linea di fatto, il rapporto che essa regola si
atteggi altrimenti; ma implica, in questo caso, l'intervento di una sanzione.
Talvolta il carattere obbligatorio del rapporto si esprime con la nozione di
necessità morale o ideale (v. NECESSITÀ) senza che con ciò si intenda ridurlo
alla necessità vera e propria. Soltanto Bergson ha sostanzialmente cercato di
ridurre l’O. alla necessità di fatto, intendendo per O. le abitudini sociali e per
O. in generale «l’abitudine di contrarre abitudini » (Deux Sources, cap. I). 2.
Nella logica terministica medievale, l'impegno per cui l'interlocutore ammette
nella discussione qualcosa che precedentemente non ammetteva. Questa è la
definizione data da Ockham (Summa Log., III, 38). Ockham ammette sei specie di
obbligazioni: l'istituzione, la petizione, la posizione, la deposizione, la
dubitazione e il sit verum. L’istituzione (institutio) consiste nel dare a un
vocabolo un nuovo significato per la durata della disputa e non oltre (Summa
Log., III, III, 38) La petizione (petitio) consiste nell’obbligare
l’interlocutore a questo o quell’atto che concerne la sua ‘ funzione, per es. a
concedere una proposizione (Ibid., III, III, 39). La deposizione (depositio) è
l'obbligazione a sostenere una proposizione come falsa (Ibid., III, III, 42).
La dubitazione (dubitatio) 630 è l’obbligazione di sostenere qualcosa come
dubbia (Ibid., III, III, 43). Per la posizione e il sit verum vedi le
rispettive voci. OBIETTAZIONE (ted. Objektation). Secondo Nicolai Hartmann, il
termine significa « divenire oggetto per un soggetto» e definisce la natura
della conoscenza. L’O. è il contrario della obiettivazione: questa è la
trasformazione di qualcosa di soggettivo in forma oggettiva mentre
l’obiettazione esprime il processo per cui un oggetto indipendente dal soggetto
diventa oggetto di conoscenza (Systematische Philosophie, 1931, $ 11).
OBVERSIONE (ingl. Obversion; franc. Obversion; ted. Obversion). Questo termine
di origine recente (e dovuto probabilmente a JEVONS, Elementary Lessons in
Logic, pag. 85) designa la trasformazione di una proposizione in una
proposizione equipollente mediante la doppia negazione: per es., la
trasformazione della proposizione « tutti gli uomini sono mortali» in « nessun
uomo è non mortale ». OCCAMISMO (ingl. Ockhamism; franc. Occamisme; ted.
Ockamismus). Con questo termine è stato chiamato sin dal sec. xv l’indirizzo
fatto prevalere da Ockham nell’ultimo periodo della scolastica medievale,
indirizzo caratterizzato dai capisaldi seguenti: 1° l’empirismo, cioè il
privilegio accordato all’esperienza (o « conoscenza intuitiva +) per la prova e
il controllo della verità; 2° il nominalismo, cioè la negazione della realtà
degli universali e la loro riduzione a segni naturali; 3° il zerminismo, cioè
la logica della supposizione (v.) per la quale i concetti sono termini che
stanno in luogo delle cose reali; 4° lo scetticismo teologico per il quale si
ritiene impossibile dimostrare o razionalizzare le verità della fede e si
attribuisce alle stesse prove dell’esistenza di Dio un valore solo probabile.
Per quest’ultimo punto, Lutero si chiamò e fu chiamato occamista. Gli altri
punti furono difesi e illustrati nella scolastica della seconda metà del sec.
xrv e dei primi decenni del Sec. XV. OCCASIONALISMO (ingl. Occasionalism;
franc. Occasionalisme; ted. Occasionalismus). La dottrina che la causa di tutte
le cose è soltanto Dio e che le cosiddette cause (seconde o finite) sono
soltanto occasioni di cui Dio si avvale per mandare ad effetto i suoi decreti.
Questa dottrina fu per la prima volta difesa dalla sètta filosofica araba dei
Motakallimun (cfr. MAIMONIDE, Guide des égarés, I, 73); e fu poi ripresa
nell’età cartesiana, da quel gruppo di pensatori che vollero utilizzare la
dottrina di Cartesio per una difesa delle credenze religiose tradizionali, cioè
da Luigi De La Forge, Geraldo di Cordemoy, Giovanni Clauberg e Arnoldo
Geulincx, tutti vissuti nel OBIETTAZIONE sec. xvi. Geulincx fu il migliore
espositore della dottrina, che mira sostanzialmente a negare all’uomo ogni
effettivo potere nel mondo e ad attribuirlo a Dio. Contro l’O. si schierarono
invece Spinoza e Leibniz; mentre in sua difesa scriveva Nicolò Malebranche,
traendone la conseguenza che la conoscenza umana, non potendo essere prodotta
dalle cose (che non sono cause), è una visione delle cose in Dio (Recherche de
la vérité, 1674-75). OCCASIONE (ingl. Occasion; franc. Occasion; ted.
Gelegenheit). La situazione che provoca o facilita l’intervento di un’azione
libera. Cause occasionali: le cause considerate come occasioni per l'azione
diretta di Dio (v. OCCASIONALISMO). Kierkegaard ha messo in luce il valore
dell’O. come «categoria del finito » e che può essere « sia pretesto sia causa
». In questo senso l’O. è « l’ultima categoria, la vera categoria di
transizione dalla sfera dell’idea a quella della realtà » (Aut Aut, «I primi
amori»; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 186 sgg.). OCCULTE, QUALITÀ. V.
OccuLTo. OCCULTISMO (ingl. Occultism; franc. Occultisme; ted. Okkultismus). La
credenza in fenomeni che si ritengono prodotti da forze occulte o nella
validità delle scienze occulte. Per O. si può perciò anche intendere l’insieme
di tali scienze cioè la magia, l’astrologia, la metapsichica, la teosofia, ecc.
(v. le singole voci). OCCULTO (ingl. Occul; franc. Occulte; tedesco Okkult).
Ciò che si nasconde alla vista e perciò può essere scoperto solo da chi ha una
seconda vista, nel senso di essere iniziato a una forma superiore di sapere.
Scienza occulta in questo senso è, in primo luogo, la magia: Cornelio Agrippa
nel De occulta philosophia (1510) includeva nella magia tutte le scienze
possibili. Ma scienze O. si chiamano oggi anche la teosofia, la parapsicologia,
ecc., sia perchè hanno a che fare con fenomeni che si ritengono manifestazioni
di forze O. sia perchè si ritiene che lo studio di tali fenomeni debba essere
riservato a coloro che sono stati iniziati a un ordine superiore di conoscenze
esoteriche. Qualità O. si cominciarono a chiamare, a partire dal sec. XVII, le
cause formali e finali dell’aristotelismo e della scolastica, intendendosi
sottolineare con questa espressione che appellarsi a tali cause equivaleva ad
appellarsi a fattori più sconosciuti dei fenomeni stessi, quindi incapaci di
spiegarli. « Gli aristotelici, diceva Newton, dettero il nome di qualità O. non
alle qualità manifeste ma a quelle qualità che supponevano esser nei corpi come
cause sconosciute di effetti manifesti » (Opricks, 1704, III, 1, q. 31).
OFELIMITÀ (ingl. Ophelimity; franc. Ophélimité; ted. Ophelimitàt). Termine
creato da Vilfredo Pareto (Cours d’économie politique, Lausanne, OGGETTIVO
1896, $ 5-6), per designare la qualità fondamentale degli oggetti economici
cioè il valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità; ad es., uno stupefacente
ha O. ma non utilità. OGGETTITÀ (franc. Objectité; ted. Objektitàr). Termine di
cui Schopenhauer si servi per definire il corpo e le cose naturali; che
sarebbero «l’O. della volontà» nel senso di essere «la volontà oggettivata
ossia divenuta rappresentazione » (Die Welt, I, $ 18, 25, ecc.). OGGETTI,
TEORIA DEGLI (ted. Gegenstandstheorie). Così A. Meinong chiamò la scienza che
considera gli oggetti in quanto oggetti cioè prescindendo dalle loro
specificazioni (realtà o irrealtà, ecc.). Questa scienza non è la metafisica
nel senso tradizionale perchè questa considera la totalità degli O. esistenti,
che sono solo una piccola parte degli oggetti possibili (cfr. Uber Annahmen,
1902; Gegenstandstheorie, 1904; Zur Grundlegung der allgemeinen Werththeorie, 1923)
(v. OBBIETTIVO; OGGETTO). OGGETTIVISMO (ingl. Objectivism; francese
Objectivisme; ted. Objektivismus). Qualsiasi dottrina la quale ammetta che
esistano oggetti (significati, concetti, verità, valori, norme, ecc.) validi
indipendentemente dal soggetto cioè indipendentemente dalle credenze e dalle
opinioni dei vari soggetti. OGGETTIVITÀ (ingl. Objectivity; francese
Objectivité; ted. Objektivitàt). 1. In senso oggettivo: carattere di ciò che è
oggetto. In questo senso Husserl parlava di una «O. primaria» che apparterrebbe
alle cose e le privilegerebbe di fronte ad altri oggetti come proprietà,
relazioni, stati di fatto, insiemi, ecc. (Zdeen, I, $ 10) (v. OGGETTO). 2. In
senso soggettivo: carattere della considerazione che cerca di vedere l’oggetto
così com'è prescindendo dalle preferenze o dagli interessi di chi lo considera
e soltanto in base a procedure intersoggettive di accertamento e di controllo.
In questo significato, l’O. è l'ideale della ricerca scientifica: ideale cui
essa si avvicina nella misura in cui dispone di procedure adeguate. OGGETTIVO
(ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Objektiv). Ciò che esiste come oggetto
o ha un oggetto o appartiene ad un oggetto. Questo aggettivo ha, a prima vista,
assai più significati del corrispondente sostantivo; giacchè oltre ai
significati che sono connessi a quest’ultimo, è stato usato a significare: ciò
che è valido per tutti; ciò che è esterno rispetto alla coscienza o al
pensiero; ciò che è indipendente dal soggetto; ciò che è conforme a certi metodi
o regole; ecc. A tali significati ha dato prevalentemente luogo la
determinazione kantiana dell’oggetto di conoscenza come oggetto reale o
empiricamente dato. Si possono 631 enumerare tre significati fondamentali del
termine: 1° ciò che esiste come oggetto; 2° ciò che ha un oggetto; 3° ciò che è
valido per tutti. I due ultimi sono strettamente connessi tra loro e con gli
altri significati elencati. 1° Il primo significato è quello corrispondente al
significato fondamentale di oggetto: O. è ciò che esiste come termine o limite
di un'operazione attiva o passiva. A tale definizione risponde in primo luogo
l’uso che del termine fu fatto nell’ultima età della Scolastica da Duns Scoto
in poi. Per esso infatti fu inteso ciò che esiste come oggetto dell’intelletto,
in quanto è pensato o immaginato, senza che ciò implichi che esista anche fuori
dell’intelletto stesso o nella realtà. In questo senso adoperavano il termine
Duns Scoto (De An., 17, 14), Antonio Andrea (Super artem veterem, 1517, f.
87r.), Francesco Majrone (In Sent., I, d. 47, q. 4) e Durando di S. Pourgain
(In Sent., I, d. 19, q. S, 7). Dice Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non
abbia esistenza fuori dell’anima, come i moderni dicono, non c’è dubbio
tuttavia che, secondo il parere di tutti, l’universale ha esistenza O.
nell’intelletto giacchè l’intelletto può intendere il leone in universale senza
intendere questo leone » (Super artem veterem, 1485, f. S9r.) « Esistere
oggettivamente » significa, in questo caso, esistere sotto forma di
rappresentazione o di idea cioè come oggetto del pensiero o della percezione:
un significato che ricorre identicamente in Cartesio (Médir., III, 11), in
Spinoza (Er., I, 30; II, 8 cor.; ecc.) e in Berkeley (Siris, $ 292). In tutti
questi casi, l’O. non designa nè ciò che è reale nè ciò che è irreale, ma
semplicemente ciò che è oggetto dell’intelletto e che può, ad una seconda
considerazione, rivelarsi sia reale che irreale. 2° Corrispondentemente alla
limitazione che l’oggetto di conoscenza ha ricevuto da Kant come oggetto
«reale», c’è il secondo significato di O. come di ciò che ha per oggetto una
realtà empiricamente data. In questo senso Kant afferma che la conoscenza è
«oggettiva» o « oggettivamente valida ». Già nelle sue distinzioni
terminologiche Kant include questo significato: « Una percezione che si
riferisca unicamente al soggetto, come modificazione del suo stato, è
sensazione; una percezione O. è conoscenza. Questa è o un’intuizione o un
concetto. Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed è singolare; questo
gli si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota, che può essere comune a
più cose» (Cri. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I. Da questo punto di vista,
«validità O.» e «realtà» coincidono. Dice infatti Kant: «Le nostre
considerazioni insegnano la realtà, cioè la validità O., dello spazio rispetto
a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno 632 come oggetto» (/bid.,
$ 3); e analogamente dice del tempo: « Le nostre considerazioni dimostrano la
realtà empirica del tempo cioè la sua validità O. rispetto a tutti gli oggetti
che possono essere legati ai nostri sensi » (/bid., $ 6). In tal senso, O. è
ciò che è empiricamente reale; e l’empiricamente reale è, per Kant, il prodotto
di una sintesi che, per essere effettuata nella coscienza comune o generica,
vale per tutti i soggetti pensanti e non per uno solo di essi (Pro/eg., $ 22).
Kant dice: «I giudizi sono © soggettivi, quando le rappresentazioni vengono
riferite solo ad una coscienza in un soggetto ed in esso unificate; o sono O.
quando sono collegate in una coscienza genericamente cioè necessariamente +»
(/bid., $ 22). Queste considerazioni servono di passaggio alla definizione di
O. che Kant dette nel dominio pratico e sentimentale: chiamando O. le leggi
pratiche «che possono essere riconosciute valide per la volontà di ogni essere
razionale » (Crir. R. Prat., $ 1); e « principio O. + l'accordo universale nel
giudizio di gusto (Crit. del Giud., $ 22). 3° Queste considerazioni kantiane
stabiliscono il trapasso al terzo significato fondamentale di O., cioè «valido
per tutti». Questo significato assai diffuso nelle scuole criticiste e
idealiste contemporanee, fu ben espresso da Poincaré: « Una realtà
completamente indipendente dallo spirito che la concepisce, la vede o la sente,
è una impossibilità. Un mondo esterno in questo senso, se anche esistesse, ci
sarebbe inaccessibile. Ma ciò che chiamiamo realtà O. è, in ultima analisi, ciò
che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti» (La valeur
de la science, 1905, pag. 9). Poincaré riferiva questa considerazione alle
matematiche; ma quasi contemporaneamente lo stesso concetto di oggettività
veniva fatto valere nella metodologia delle scienze sociali da Max Weber: il
quale osservava che «la verità scientifica è quella che è valida per tutti
coloro che cercano la verità » e che anche nelle scienze sociali ci sono
risultati che non sono soggettivi nel senso di essere validi per una sola
persona e non per le altre (« L’oggettività nelle scienze sociali e nella
politica sociale », 1904, in 7he Methodology of the Social Sciences, 1949, pag.
84). Questo tipo di oggettività si chiama oggi intersoggettività; e la
condizione fondamentale di essa è riconosciuta nel possesso e nell’uso di
speciali tecniche procedurali che, in un dato campo, garantiscano la messa a
prova e il controllo dei risultati di un'indagine. « Valido per tutti»
significa perciò anche « intersoggettivamente valido » o « conforme a un metodo
qualificato +». E allo stesso concetto di O. si connettono i significati di « indipendente
dal soggetto» e di «esterno alla coscienza +. Ciò che è O. nel senso d'esser
valido OGGETTIVO, IDEALISMO per tutti è difatti indipendente da questo o quel
soggetto, cioè dalle sue particolari preferenze o valutazioni; e dall’altro
lato il solo mezzo che un soggetto particolare ha per disciplinare o tenere a
freno le sue preferenze e valutazioni è quello di far ricorso a qualificati
procedimenti di metodo. Infine l’equivalenza tra O. ed esterno è la
trascrizione di questi stessi concetti sul piano di quel linguaggio
coscienzialistico nel quale le parole «esterno» ed «interno» trovano una
qualche giustificazione del loro uso (v. ESTERIORITÀ; REALTÀ). OGGETTIVO,
IDEALISMO (ted. Objektiver Idealismus). Uno dei tre tipi fondamentali di
filosofia cioè di intuizione del mondo, secondo Dilthey, e precisamente quella
che è fondata sul sentimento e dominata dalla categoria del valore. In questo
tipo di filosofia Dilthey comprendeva Eraclito, gli Stoici, Spinoza, Leibniz,
Shaftsbury, Goethe, Schelling, Schleiermacher, Hegel, e riteneva proprio di
essa il panteismo (Das Wesen der Philosophie, 1907, III, 2; trad. ital., in
Critica della Ragione storica, pag. 469) (v. IDEALISMO DELLA LIBERTÀ;
NATURALISMO). OGGETTO (lat.
Obiectum; ingl. Object; francese Objet; ted. Objekt,
Gegenstand). Il termine di una qualsiasi operazione, attiva o passiva, pratica,
conoscitiva o linguistica. Il significato della parola è generalissimo e
corrisponde al significato di cosa (v.). O. è il fine a cui si tende, la cosa
che si desidera, la qualità o la realtà percepita, l’immagine fantasticata, il
significato espresso o il concetto pensato. La persona è oggetto di amore o di
odio, di stima, di considerazione o di studio; e in questo senso l’io stesso è
o può essere oggetto. Ogni attività o passività ha come suo termine o limite
un’O., qualificato in corrispondenza del carattere specifico dell'attività o
della passività. Accanto a questo significato generalissimo e fondamentale, per
il quale il termine è insostituibile, si riscontra talora, nel linguaggio
filosofico e nel linguaggio comune, un significato più ristretto o specifico,
per il quale l’O. è tale solo se provvisto di una particolare validità: ad es.
se è «reale» o «esterno» o « indipendente», ecc. (v. OGGETTIVO). Questo secondo
significato tuttavia non elimina ma presuppone il primo. La parola è stata
introdotta nella filosofia dagli Scolastici del sec. xm. Essa è chiaramente
definita da San Tommaso il quale dice che «l’O. di una potenza o di un abito è
propriamente ciò sotto la cui ragione (ratio) è compreso tutto ciò che si
riferisce alla potenza o all’abito in questione. Per es.: l’uomo e la pietra si
riferiscono alla vista in quanto sono colorati: ciò che è colorato è dunque
l’O. proprio della vista» (S. 7%., I, q.1, a. 7). Questa nozione di O. veniva
sostanzialmente ripresa da OGGETTO Duns Scoto che definiva l’O. di un sapere
come la materia (subjectum) del sapere stesso in quanto appresa o conosciuta.
Una materia conoscibile diventa, secondo Duns, O. conosciuto mediante un abito
intellettuale che sia relativo a questo oggetto (Op. Ox., Prol., q. 3, a. 2, n.
4). Jungius non faceva che esprimere nel modo più semplice la stessa nozione
quando affermava: « Si dice O. ciò intorno cui vertono le facoltà, gli abiti e
i loro atti» (Logica, 1638, I, 9, 37). Wolff a sua volta diceva: «O. è l’ente
che termina l’azione dell’agente o nel quale terminano le azioni dell’agente:
sicchè è quasi un limite dell’azione » (Ont., $ 949). Questo significato è
rimasto fondamentale nell'uso che del termine è stato fatto nella filosofia
moderna e contemporanea. La questione del carattere reale o ideale dell’O. in
generale o di una classe specifica di O. (ad es. degli O. fisici o cose), non
ha influito su di esso. Così l’O. della conoscenza può essere considerato
un’idea (come voleva Berkeley) o una rappresentazione (come voleva
Schopenhauer) o una cosa materiale (come voleva la Scuola scozzese del senso
comune) o un fenomeno (come voleva Kant), ma esso è sempre, come O., il termine
o limite dell'operazione conoscitiva. Tuttavia proprio Kant inizia l’uso
ristretto del termine per il quale l’O., o più esattamente l’O. di conoscenza
è, di preferenza, l’O. « reale» o «empirico ». Dice Kant infatti: « C'è gran
differenza tra l'essere qualcosa data alla mia ragione come O. assolutamente o
solo come O. nell’idea. Nel primo caso, i miei concetti passano a determinare
l’O.; nel secondo non c'è realmente che solo uno schema al quale non viene
attribuito direttamente alcun O., neppure ipoteticamente, ma che serve soltanto
a rappresentare altri O., nella loro unità sistematica, per mezzo della
relazione loro all’idea. Così io dico: il concetto di una intelligenza suprema
è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò
che esso si riferisca direttamente ad un O. (poichè il suo valore oggettivo non
può essere giustificato in questo modo) ma è solo uno schema, ordinato secondo
le condizioni della massima razionalità del concetto di una cosa in generale »
(Crif. R. Pura, Dialettica, Appendice). Queste considerazioni di Kant tornano a
dire che l’idea della ragion pura, propriamente parlando, non ha O. perchè l'O.
è soltanto quello empirico (la cosa naturale) e l’idea si riferisce solo
indirettamente a un gruppo di tali oggetti. Tuttavia questo significato
specifico dell'O. non elimina, neppure per Kant, il significato generale e
fondamentale. Kant infatti non solo considera il concetto di O. come il
concetto « più alto » in filosofia (v. Ia chiusa di questo articolo), ma anche
parla di una « distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e
noumeni» e considera 633 lo stesso noumeno come « l’O. di un’intuizione non
sensibile» ammessa in linea ipotetica, in quanto potrebbe essere propria di un
intelletto divino (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III). D'altronde per
Kant, oltre che l’O. di conoscenza, c’è «l’O. della ragion pratica» che è «la
rappresentazione di un O. come di un effetto possibile mediante la libertà »
(Crif. R. Prat., I, Libro I, cap. 2): il che vuol dire che l’O. è in questo
caso il termine o il risultato di un’azione libera. Ciò che in ogni caso
costituisce l’O. è la sua funzione di limite o termine di un’attività o di
un’operazione qualsiasi. Tale nozione non viene meno neppure nelle più radicali
forme dell’idealismo: per lo stesso Fichte l'O. è infatti il limite
dell’attività dell’Io. «L’Io pone se stesso come limitato dal non io +, egli
dice (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, A); e il non io non è che 1’O. (/bid., $
4, E, III; trad. ital., pag. 143). Analogamente, ogni altra determinazione che
i filosofi possono dare della natura dell’O. assume come punto di partenza la
definizione generale di esso. Ad es. l’O. può essere considerato come un dato
(come fanno abitualmente gli empiristi) o come un problema (come hanno fatto i neocriticisti,
per es. NatoRP, Platos Ideenlehre, pag. 367); ma può essere l’una o l’altra
cosa solo se viene considerato come il termine o il limite dell’attività
conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, il ricorso della nozione di
intenzionalità (v.) ha permesso di riconoscere chiaramente il carattere
generale della nozione di oggetto. Brentano che per primo ha reintrodotto
quella nozione, dice che « ogni fenomeno psichico include in sè qualcosa come
O., sebbene non sempre allo stesso modo. Nella rappresentazione c’è qualcosa di
rappresentato, nel giudizio qualcosa di riconosciuto o negato, nell'amore
qualcosa di amato, nell’odio qualcosa di odiato, ecc. + (Psychologie vom
empirischen Standpunkt, 1874, I, pag. 115). E Husserl ha ancora generalizzato il
concetto, distinguendo l’O. dall’ « O. afferrato ». « Si deve notare, egli ha
detto, che l’O. intenzionale di una coscienza (preso come pieno correlato di
questa) non è affatto uguale all’O. afferrato (erfasstes). Noi siamo soliti di
assumere senz’altro l’essere afferrato nel concetto di O. (di O. intenzionale)
in quanto, pensando ad esso o parlandone, ne facciamo un O. nel senso
dell'afferrato. ...Certo non possiamo rivolgerci ad una cosa fisica se non
afferrandola; e lo stesso si dica di tutte le oggettività schiettamente
rappresentabili... Invece nell’atto del valutare, in quello del gioire,
dell’amare, dell'agire, noi siamo rivolti rispettivamente al valore, all’O.
felicitante, all’O. amato, all’azione, senza afferrare nulla di tutto questo »
(Zdeen, I, $ 37). Parallelamente ed analogamente, Meinong difendeva il
significato 634 generalissimo della nozione di O. (Gegenstand) dividendola
nelle due classi degli O. della rappresentazione od obbietti (Objekre) e degli
O. del giudizio od obbiettivi (Objektive) (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.).
Quasi contemporaneamente, nel dominio della logica matematica, Frege difendeva
una nozione sostanzialmente identica dell’O., identificando l’O. con il
significato. « Il significato di una parola, egli diceva, è l’O. che noi
indichiamo con essa» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 3; trad. ital., pag.
222): e intendeva dire che l’O. è il termine o il limite dell’operazione
linguistica, cioè dell’uso del segno. A sua volta Wittgenstein diceva «Il nome
variabile ‘x’ è il segno proprio dello pseudo concetto oggetto. Ogni qualvolta
il termine O. (‘ cosa ’, ‘ entità ’, ecc.) è usato corretta» mente, viene
espresso nel simbolismo logico dal nome variabile» (7ract. /ogico-philos.,
4.1272). Non molto lontano da questa è la nozione di O. esposta da Dewey per il
quale O. è il risultato di un’operazione di indagine. «Il nome O., egli dice,
sarà riservato alla materia trattata nella misura in cui essa è stata prodotta
e ordinata in forma sistematica per mezzo dell’indagine; proletticamente,
oggetti sono gli obbiettivi dell’indagine. L’ambiguità che si potrebbe
riscontrare nell’uso del termine in questo senso (poichè di regola la parola si
applica alle cose osservate e pensate) è soltanto apparente, giacchè le cose
esistono come O. per noi solo in quanto siano state preliminarmente determinate
quali risultati di indagine » (Logic, cap. 6; trad. ital., pag. 175). È facile
vedere che la differenza tra queste definizioni di O. è soltanto la differenza
fra le attività o le operazioni che si considerano: l’O. è il termine del
significato, se si considera il linguaggio e in generale l’uso dei segni; è il
termine di un’operazione di indagine se si considera la ricerca scientifica; e
così via; ma in ogni caso è (come già ritenevano gli Scolastici) il termine o
il limite di un’operazione determinata. La parola O. è perciò il termine più
generale di cui disponga il linguaggio filosofico. Kant aveva ragione a questo
proposito affermando che se «il più alto concetto da cui si suol prendere le
mosse in una filosofia trascendentale è la divisione di possibile e
impossibile», poichè ogni divisione presuppone un concetto da dividere, «
dev'essere addotto un concetto ancora più alto e questo è il concetto di un O.
in gezerale, assunto in modo problematico e senza decidere se esso sia qualcosa
o niente» (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti
della riflessione). È ovvio che il concetto di O. non coincide interamente con
nessuna delle sue specificazioni possibili. Le cose, i corpi fisici, le entità
logiche e matematiche, i valori, gli stati psichici, ecc., sono tutti O.,
specificati o specificabili per via di particolari modi d’essere OGNI o di
particolari procedure di accertamento; ma nessuna di queste classi di O.
possiede un’oggettività privilegiata e nessuna si presta ad esprimere, nel suo
àmbito, la caratteristica dell'O. in generale. OGNI (gr. nic; lat. Omnis; in. Any; fr. Chaque; ted. Jeder). Nella logica contemporanea, O.» è un
operatore di campo, di cui il simbolo più usato è ‘(x) *», per es. in formule
come ‘(x)-f(x) ”, che si legge « per ogni x, f(x) è vero». Esso corrisponde ad
un prodotto logico (o congiunzione logica) operato nel campo di validità della
(x), cioè alla congiunzione ‘f(a) e f(b) e f(c) e... *. Ove f(x) sia un predicato,
questa equivale alla formula consueta ‘ O. x è f” o anche ‘tutti gli x sono f
della logica tradizionale. Aristotele aveva usato «O.» nella proposizione
universale affermativa: «Ogni A è B» e quest’uso fu seguito dalla logica
medievale. In questo uso la funzione di « O. » non si distingue da quella di
«tutti». Tuttavia la logica terministica medievale distinse due significati di
« tutti »: il significato collettivo per cui, ad es., sì dice « Tutti gli
Apostoli sono 12» dal quale non segue che « Questi Apostoli sono 12»; e il
significato distributivo per cui, ad es., si dice « Tutti gli uomini desiderano
naturalmente conoscere +, dal quale segue «O. uomo desidera naturalmente
conoscere ». In quest’ultimo caso «O.» indica una disposizione della cosa che
può fungere da soggetto o da predicato (Pietro Hispano, Summ. Log., 12.04-06).
Nella logica moderna la distinzione tra O. e tutto è stata fatta valere da
Frege (Grundgesetz der Arithmetik, 1893, I, $ 17) e da Russell. Quest’ultimo
ritiene che tale distinzione consiste nel fatto che un’asserzione contenente
una variabile x, per es. ‘x = x”, può essere fatta valere o per lutti gli
esempi o per uno qualsiasi degli esempi senza decidere a quale esempio si
faccia riferimento. In questo secondo caso si fa uso dell’operatore ogni. Così
nelle dimostrazioni di Euclide si assume, per ragionare, un triangolo qualsiasi
ABC senza determinare che specie di triangolo sia. In tal caso, il triangolo
ABC vale come una variabile reale: esso è qualsiasi triangolo, per quanto
rimanga lo stesso attraverso la dimostrazione. L’operatore tutti invece fa leva
su variabili apparenti che sono quelle le quali, comunque determinate, non
mutano il valore della funzione. Russell ritiene che la distinzione tra rutti e
O. sia necessaria al ragionamento deduttivo (Marhematical Logic as Based on the
Theory of Types, 1908, in Logic and Knowledge, pag. 64 sgg.; cfr. Principles of
Mathematics, $ 60-61; Principia Mathematica). OLIGARCHIA. V. Governo, FORME DI.
OLISMO (ingl. Holism; franc. Totalisme; tedesco Holismus). 1. Una variante
della dottrina ONIROLOGIA dell’evoluzione emergente (v.) che consiste nel
capovolgimento dell’ipotesi meccanistica e nel ritenere che non già i fenomeni
biologici siano dipendenti da quelli fisico-chimici, ma questi ultimi dai
primi. Questa ipotesi non è che una forma appena mascherata di vitalismo. Cfr., J. C. SMuTs, Holism and
Evolution, 1927; J. S. HALDANE, The Philosovhical Basis of Biology, 1931;
DRIEscH, Zur Kritik es Holismus, 1936. 2.
K. Popper ha chiamato O. la tendenza degli storicisti a sostenere che
l’organismo sociale, come quello biologico, è qualcosa in più della semplice
somma complessiva dei suoi membri ed è anche qualcosa in più della semplice
somma complessiva delle relazioni esistenti tra i membri (The Poverty of
Historicism, 1944, $ 7). OLOMERIANI (ingl. Holomerians; ted. Holomerianer).
Così Henry More chiamò coloro che credono che l’anima risieda nella totalità
del corpo piuttosto che in una parte di esso (Enchiridion Metaphysicum, I, 27,
1). OMEOMERIE (gr. suotoptperar; ingl. Homeomeries; franc. Homéomériesj ted.
Homoiomerien). Con questa espressione che significa « parti simili » Aristotele
chiamò i semi di Anassagora cioè le parti (che non sono elementi perchè sempre
a loro volta divisibili) che secondo Anassagora compongono un corpo e che sono
in prevalenza simili al corpo stesso. Così, per quanto in ogni corpo vi siano
particelle o semi di tutti gli altri corpi, in ogni corpo tuttavia è prevalente
una certa specie di particelle che è quella che dà nome al corpo stesso
(ARIST., De Caelo, III, 3, 302 b 3; Met., I, 3, 984a 14; cfr. Diog. L., II, 8;
LucrEzIO, De rer. nat., I, 830; Sesto EMPIR., Adv. Math., X, 25). OMINISMO
(ted. Hominismus). Termine creato da Windelband per indicare il relativismo e
cioè la dottrina che l’uomo è la misura di tutte le cose (v. RELATIVISMO).
OMOGENEITÀ (ingl. Homogeneity; francese Homogénéité; ted. Homogeneitàt). La
relazione tra cose che appartengono allo stesso genere (per es., bianco e
nero); o hanno la stessa composizione (per es., le parti di un oggetto composto
dallo stesso materiale); o che hanno tra loro parti simili cioè che si
corrispondono termine a termine (per es., due orologi costruiti allo stesso
modo). Spencer usò il termine nel senso di indifferenziazione e definì
l’evoluzione come il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, cioè da ciò che è
indifferenziato a ciò che è differenziato in parti tra loro diverse (First
Principles, $ 145). Kant chiamò «principio della O.» la regola della ragione di
cercare unificazioni concettuali sempre più estese cioè generi sempre più alti;
635 regola che farebbe da contrapposto simmetrico a quella della specificazione
(v.) e con questa confluirebbe nella legge dell’affinità (v.) (Crit. R. Pura,
Appendice alla dialettica trascendentale). Hamilton ripetette sostanzialmente
queste nozioni kantiane. Egli chiamò «legge di O.» l’enunciato che « Due
concetti per quanto differenti tra loro possono sempre essere subordinati a un
concetto più alto; o che, in altri termini, le cose più dissimili devono, in
certi rispetti, essere simili». Accanto a questa, Hamilton enunciò pure «la
legge di eterogeneità » secondo la quale «Ogni concetto contiene sotto di sè
altri concetti; e perciò, quando venga divisa, si discende sempre ad altri concetti,
mai agli individui; o che, in altri termini le cose più omogenee o simili
devono in certi rispetti essere eterogenee o dissimili ». Queste due leggi
governano, secondo Hamilton, tutta la classificazione delle cose in generi e
specie (HAMILTON, Lectures on Logic, $ 40; vol. I, 22 ediz., 1865, pag.
209-10). OMOIUSIA-OMUSIA (gr. suorcvola, suovola). Si disse che l’intera
disputa teologica che mise capo al Concilio di Nicea (325) vertesse intorno a
un iota: cioè alla differenza tra l’omoiusia, la dottrina di Ario che ammetteva
solo una somiglianza tra la sostanza di Dio-Padre e quella del Logos e l’omusia
cioè la dottrina di Atanasio che ammetteva l’identità della sostanza di
Dio-Padre con quella del Logos. La decisione del Concilio in favore dell’omusia
stabilì il principale caposaldo dogmatico della teologia cristiana. OMOLOGIA
(gr. suoroyla; ingl. Homology; franc. Homologie; ted. Homologie). 1. Per gli
Stoici questo era il termine tecnico per indicare l'accordo con la natura quale
regola fondamentale della condotta (STOBEO, Ecl., II, 76, 3): termine che
Cicerone tradusse con convenientia (De Fin., III, 6, 21). 2. L’O. è oggi un
concetto scientifico variamente definito nelle varie discipline. In geometria
si dicono omologhi gli elementi di due figure simili che si corrispondono. In
biologia si dicono omologhi gli organi che si corrispondono per la loro
situazione nei confronti dell’intero organismo, pur non avendo la stessa
funzione (com'è invece degli organi analoghi) (v. ANALOGIA). OMONIMIA (ingl.
Homonymy; franc. Homonymie; ted. Homonymie). In Aristotele designa l’ambiguità
di un termine, cioè il fatto che il termine stesso venga usato a denotare cose
diverse. L’O, della frase si chiama anfibolia (v.) (v. EquIvoco; UNIVOCO). G.
P. OMOTEISMO (ingl. Homotheism; ted. Homotheismus). Lo stesso che
antropomorfismo (v.). Termine creato da Ernesto Haeckel. ONIROLOGIA.
L'’interpretazione dei sogni (v. SOGNO). 636 ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA. Vedi
TEODICRA. ONORE (gr. «ia; ingl. Honor; franc. Honneur; ted. Ehre). Ogni manifestazione
di considerazione e di stima tributata ad un uomo da altri uomini, come pure
l’autorità o il prestigio o la carica di cui venga riconosciuto investito. Gli
antichi considerarono l’O. come uno dei beni fondamentali della vita sociale; e
Aristotele riconobbe che c’è una virtù nei confronti dell'O., come c'è una
virtù (la liberalità) nei confronti del denaro. Tale virtù è la magnanimità
(v.), il cui eccesso è l'ambizione e il cui difetto è la piccolezza d’animo
(Et. Nic., II, 7, 1107b 20). Questa accentuazione dell’importanza dell’O.
ritenuto come «il premio della virtù e del ben fare» (/bid., VIII, 14, 1163b 3)
deriva all’etica greca, dalla quale è passata nel costume e nel diritto della
tradizione occidentale, dalla sua impostazione aristocratica. La «
rispettabilità » è, nel mondo moderno, l’analogo di questo antico concetto. È
abbastanza ovvio tuttavia che «il ben fare + (svepyeota) del quale, oltre che
della virtù, l'O. dovrebbe essere il premio, secondo Aristotele, include una
buona dose di conformismo ai pregiudizi dominanti nel gruppo o nella classe
sociale che conferisce l’O. e l’analogo moderno dell’O., la rispettabilità, non
include una dose minore di conformismo. Non fa perciò meraviglia che l’O. abbia
spesso suggerito e continui a suggerire azioni immorali o malvagie o veri e
propri delitti, sia nella vita privata, sia nei rapporti tra i popoli, nei
quali 1’O. ha spesso avuto una parte predominante nel suscitare o mantenere
vivi i conflitti. ONTICO (ingl. Ontic; franc. Ontique; tedesco Ontisch).
Esistente: distinto da ontologico che si riferisce all’essere categoriale cioè
all’essenza o alla natura dell’esistente. Ad es., la proprietà empirica di un
oggetto è una proprietà O., la possibilità o la necessità è una proprietà
ontologica. La distinzione è stata sottolineata da Heidegger: «‘ Ontologico’
nel senso che alla parola è dato dalla volgarizzazione filosofica (e qui si fa
avanti la radicale confusione) significa ciò che invece dovrebbe venir detto O.
cioè un atteggiamento verso l'ente tale da lasciarlo essere in se stesso, in
ciò che è e com'è. Ma con tutto ciò non è ancora stato posto il problema
dell’essere, nè tanto meno raggiunto ciò che deve costituire il fondamento per
la possibilità di una ‘ontologia ’» (Vom Wesen des Grundes, I, n. 14; trad.
ital., pag. 23). ONTOGENESI. V. BrogENETICA, LEGGE. ONTOLOGIA. V. METAFISICA.
ONTOLOGICA, PROVA. V. Dio, Prove DI. ONTOLOGISMO (ingl. Ontologism; francese
Ontologisme; ted. Ontologismus). La dottrina seONNIPOTENZA, ONNISCIENZA condo
la quale «il lavoro filosofico non comincia nell’uomo ma în Dio, non sale dallo
spirito all'Ente, ma discende dall’Ente allo spirito» (GIOBERTI, Intr. allo
studio della fil, 1840, II, pag. 175). L’O. si oppone allo psicologismo che
segue il cammino opposto e si ritiene proprio della filosofia moderna a
cominciare da Cartesio. La tesi fondamentale dell'O. è che l’uomo possiede una
visione o intuizione immediata o diretta dell’ente: o dell’ente genericamente
inteso come nozione generale dell’essere, come ritiene Rosmini; o dell’ente
inteso come lo stesso Ente supremo cioè Dio, come ritiene Gioberti. Questa tesi
fondamentale deriva agli ontologisti dall’agostinismo scolastico che aveva
sempre insistito sulla diretta illuminazione dell’intelletto umano da parte di
Dio; e, più immediatamente, dagli Occasionalisti e da Malebranche che avevano
ridotto ogni specie di conoscenza alla visione in Dio (v. AGOSTINISMO;
OCCASIONALISMO). L’O. rientra tuttavia nel quadro di quel ritorno romantico
alla tradizione che, nella prima metà dell’800, domina la filosofia europea e
fa leva sui due concetti strettamente connessi di rivelazione e di tradizione:
difatti l'intuizione dell’ente è intesa come la rivelazione che l’ente fa di se
stesso all’uomo. L’O. di Rosmini limita questa rivelazione alla nozione
generale dell’essere o «essere possibile », inteso come forma fondamentale e
originaria della mente umana e come condizione di ogni conoscenza, che sarebbe
sintesi tra l’idea dell'essere e un dato sensibile (Nuovo saggio sull’origine
delle idee, 1830, $ 492, 537). L’atto della conoscenza così intesa è la
percezione intellettiva (v.). Gioberti invece ritenne che Dio si rivela
all'uomo (all’intuito) nella sua stessa attività creatrice; e vide l’intuito
stesso espresso pienamente nella formula «l’Ente crea l’esistente » che pone in
relazione tre realtà: la Causa prima, le sostanze create e l’azione creativa
(Intr. allo studio della fil., 1840, II, pag. 183). Sia Rosmini che Gioberti
sono in polemica con la filosofia moderna che accusano di soggettivismo, di
psicologismo e di nullismo; ma in realtà, come si è detto, la loro dottrina è
di stampo schiettamente romantico e trova riscontro nella filosofia del secondo
Schelling, in quella di Schleiermacher e di altri epigoni romantici. Una
continuazione dell’O. nella filosofia contemporanea si può considerare la
filosofia di P. Carabellese, che ha cercato di conciliare Rosmini con Kant.
Carabellese considera la coscienza, che è il punto di partenza e l’unico
fondamento della filosofia, come la consapevolezza che il soggetto ha
dell’essere; ma, a differenza di Rosmini e di Gioberti, considera l’essere come
assolutamente immanente alla coscienza stessa. Tuttavia anche Carabellese
chiama OPINIONE tale essere Dio; e considera Dio come il fondamento dell’oggettività
di tutte le cose particolari che la coscienza può attingere (Critica del
concreto, 1921; 7 problema teologico come filosofia, 1931). ONTOTEOLOGIA. V.
TroLogia, 2°. OPERATORE (ingl. Operator; franc. Opérateur; ted. Operator). In
logica: un simbolo improprio [o sincategorematico (v.)], che può essere usato,
insieme con una o più variabili e con una o più costanti o forme, per produrre
una nuova costante o forma. Questa è la definizione data da A. Church (Intr. to
Mathematical Logic, 1956, $ 06): ed è la definizione più generica che permette
di comprendere nell’ambito del termine, oltre i quantificatori, anche:
l’operatore di astrazione © astrattore (che viene indicato con una variabile
preceduta dalla lettera 2) e al quale secondo taluni logici si riducono tutti
gli altri; e l’O. di descrizione o descrittore « (1) che, se è la variabile
dell'O. come in (? x), si legge: «l’x tale che ». Gli O. quantificatori o
quantificatori sono: il quantificatore universale, per cui si usa la notazione
«(x)» messa prima dell’operando e che si legge « per tutti gli x è vero che»;
il quantificatore esistenziale, per il quale si usa abitualmente la notazione
(3) che, se x è la variabile del quantificatore, come in (HA x), si legge
«esiste un x tale che». L’applicazione di uno o più quantificatori a un
operando si chiama quantificazione. Le notazioni citate sono quelle adoperate
più comunemente nella logica contemporanea, ma non sono le sole. Per maggiori
ragguagli, confronta la citata Insroduction di Church. OPERAZIONE (lat. Operatio;
ingl. Operation; franc. Opération; ted. Operation). 1. Attività in generale.
Questo è il significato che il termine ebbe nel Medioevo, quando fu usato come
traduzione del greco èvépyera che vale attualità o attività. Questo è il senso
in cui adoperò la parola S. Tommaso (ad es., S. 7à., II, 1, q. 3, a. 2), e per
il quale vale il principio che «il modo di operare di ciascuna cosa segue il
suo modo d’essere» (/bid., I, q. 89, a. 1). 2. Funzione nel significato 1: cioè
l’attività caratterizzata da un certo fine e propria di un essere determinato.
In tal senso si dice, ad es., che «l’O. della fisica è quella di calcolare
risultati che possono essere confrontati con l’esperimento » o che «l’O. della
scienza è di dimostrare », ecc. 3. Funzione nel significato 2: relazione o
correlazione. In questo senso si parla di O. matematiche o logiche. 4. Tecnica
manuale cioè procedimento manipolativo da effettuarsi secondo regole
determinate; per es., O. di misura, O. di produzione, ecc. OPERAZIONISMO (ingl.
Operationism; francese Opérationisme; ted. Operationismus). La dot637 trina
secondo la quale il significato di un concetto scientifico consiste unicamente
in un determinato insieme di operazioni. Ha proposto per primo questa dottrina
P. W. Bridgman che così l’ha illustrata, con un esempio rimasto classico: « Noi
conosciamo ciò che intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la
lunghezza di qualsiasi oggetto e il fisico non richiede niente di più. Per
trovare la lunghezza di un oggetto dobbiamo eseguire certe operazioni fisiche.
Il concetto di lunghezza è perciò fissato quando le operazioni con le quali la
lunghezza è misurata sono fissate: cioè il concetto di lunghezza implica niente
di meno e niente di più che l’insieme delle operazioni con le quali la lunghezza
è determinata. In generale con un concetto noi non intendiamo niente di più che
insieme di operazioni; i/ concetto è sinonimo con il corrispondente insieme di
operazioni. Se il concetto è fisico, come la lunghezza, le operazioni sono
operazioni fisiche reali, per es., quelle con cui la lunghezza è misurata; se
il concetto è mentale, come, per es., la continuità matematica, le operazioni
sono operazioni mentali cioè quelle mediante le quali determiniamo se un dato
aggregato di grandezze è continuo» (The Logic of Modern Physics, 1927, pag. 5).
Come si vede le operazioni cui Bridgman faceva riferimento sono quelle di cui
al significato 4 e 1; ma la sua dottrina è stata estesa in riferimento a
qualsiasi specie di operazione ed è stata soprattutto utilizzata, fuori della
fisica, dagli psicologi (cfr. S. S. STEVENS, « Psychology and the Science of
Science », in Readings in Philosophy of Science, ed. P.P., Wiener, 1953, pag.
158-84). In base a quest’estensione della dottrina dell'O. e conseguentemente
del concetto di operazione, i soli caratteri riconoscibili al tipo di
operazione che può valere come significato dei concetti scientifici sono quelli
della pubblicità e ripetibilità: il primo esclude il carattere privato di certe
attività puramente mentali, il secondo prescrive l’intersoggettività delle
operazioni stesse. Si dubita tuttavia oggi che il criterio operazionistico
possa valere per tutti i concetti scientifici (cfr., ad es., G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pagina 56 sgg.). OPINIONE (gr. 36ta; lat. Opinio;
ingl. Opinion; franc. Opinion; ted. Meinung). Il termine ha due significati:
nel primo, più comune e ristretto, designa ogni conoscenza (o credenza) che non
includa alcuna garanzia della propria validità; nel secondo designa
genericamente qualsiasi asserzione o dichiarazione, conoscenza o credenza, sia
che includa sia che non includa una garanzia della propria validità. Questo
secondo significato viene più spesso usato che definito esplicitamente. Nel
primo significato, l’O. si contrappone alla scienza (v.). 638 Il primo
significato si trova già in Parmenide che contrappone «le opinioni dei mortali»
alla verità (Fr., 1, 29-30). Ma entrambi i significati si trovano già in
Platone. Questi da un lato considera l’O. come qualcosa di mezzo tra la conoscenza
e l’ignoranza (Rep., 478 c), e come comprendente la sfera della conoscenza
sensibile (congettura e credenza) (Ibid., VI, 510 a); e da questo punto di
vista afferma che neppure l’O. vera sta ferma nell’anima « finchè non venga
legata con un ragionamento c usale » e così diventi scienza (Men., 98 a; cfr.
Fil., 59 a). Dall’altro considera come O. il discorso che l’anima fa con se
stessa e in cui consiste il pensiero (Teet., 190 a-c): nel qual senso la
scienza stessa non è che una specie di opinione. I due significati si ritrovano
egualmente in Aristotele, che da un lato afferma, con Platone, che le O., a
differenza della dimostrazione e della definizione, sono soggette a mutare c
perciò non costituiscono scienza (Met., VII, 15, 1039b 31); dall’altro dichiara:
«Per principi intendo le O. comuni sulle quali tutti gli uomini fondano le loro
dimostrazioni: per es., che un’asserzione dev'essere affermativa o negativa,
che niente può simultaneamente essere e non essere, ecc.» (/bid., III, 2, 996 b
27). Nella tradizione posteriore, il significato generico si è perduto ed è
rimasto l’altro. Gli Stoici definirono l’O. «un assenso debole e fallace»
(SESTO EMP., Adv. math., VII, 151; cfr. Cicer., Tusc., IV, 7, 15); e nello
stesso senso Epicuro chiamò l’O. « un’assunzione a cui può capitare di essere
sia vera che falsa » (Dio. L., X, 33). In altre parole, S. Tommaso esprimeva la
stessa cosa dicendo: «L’O. è l’atto dell’intelletto che si porta su una parte
della contraddizione con la paura dell’altra » (S. 7à., I, q. 79, a. 9). Wolff
chiamava O. «la proposizione insufficientemente provata? (Log., $ 602); e
Spinoza identificava l’O. con la conoscenza del primo genere, che è la più
bassa ed incerta e procede da segni (Et., IT, 40, Scol. IM. Kant parimenti
dice: « L’O. è una credenza insufficiente tanto soggettivamente quanto
oggettivamente, accompagnata dalla consapevolezza ». La consapevolezza consiste
nel fatto che « non si può presumere di opinare senza almeno sapere qualcosa
per mezzo del quale il giudizio problematico abbia una certa connessione con la
verità »: altrimenti, «tutto è soltanto un giuoco dell’immaginazione senza la
minima relazione con la verità » (Cri. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. 2, sez.
3). Kant affermava pure (/oc. cit.) che « nei giudizi derivanti dalla ragion
pura non è affatto permesso opinare»; e che pertanto non si può opinare nè nel
dominio della matematica nè nel dominio morale. Ma Hegel negava che ci fossero
opinioni anche nel dominio della filosofia. « Un’O. egli diceva, è una
rappresentazione soggettiva, un OPPOSIZIONE pensiero casuale, un’immaginazione
che io mi formo in questa o quella maniera e che altri può avere in modo
diverso: l’O. è un pensiero mio, non già un pensiero in sè universale, che sia
in sè e per sè. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacchè non ci sono
opinioni filosofiche » (Geschichte der Philosophie, in Werke, ed. Glockner,
XVII, pag. 40; trad. ital., vol. I, pag. 21). Questo punto di vista è stato ed
è condiviso da tutte le filosofie assolutistiche ed è in realtà il punto di
vista della metafisica tradizionale. Quello espresso da Kant, circa
l’impossibilità delle opinioni in campo scientifico, è stato invece condiviso
dalla scienza positivistica dell’800. Ma il fallibilismo che prevale oggi sia
nella scienza che nella filosofia rende assai meno sdegnosi e sprezzanti verso
l’opinione. Da un lato non si ritiene che l’O. sia così privata o
incomunicabile come Hegel affermava. Un’O. scientifica o filosofica può essere
condivisa da molti proprio come O. cioè senza l’illusorio o surrettizio suo
camuffamento in verità purchè rappresenti, a una certa fase della ricerca,
l’ipotesi più ragionevole o la teoria meglio appoggiata dai fatti. Dice Dewey:
« Nella soluzione di problemi che pretendono ad una esattezza minore della trattazione
dei casi giuridici, i giudizi sono chiamati O. per distinguerli dai giudizi o
asserzioni veramente giustificati. Ma se l’O. professata è fondata, è essa
stessa prodotto di indagine e in quanto tale è un giudizio » (Logic, 1939, VII;
trad. ital., pag. 179). Dall'altro lato, le stesse ipotesi o teorie meglio
stabilite presentano una certa latitudine di interpretazioni possibili che
lascia vasto campo a una diversità di opinioni. Infine la ripugnanza, condivisa
(e con buone ragioni) da scienziati e filosofi a considerare come assoluta o
necessaria la verità scientifica o filosofica, diminuisce il divario tra la
verità stessa e l’O. o tra l’O. e la scienza. Il concetto di O. non è oggi
mutato da quello che gli antichi definivano: un impegno debole e soggetto a
revisione, l’assenza di ogni garanzia di validità, costituiscono, anche oggi,
le caratteristiche che si riconoscono proprie dell’opinione. Il campo dell’O.
si è tuttavia esteso assai di più di quanto gli antichi non ritenessero e di
quanto non ritenevano nè ritengano i filosofi assolutisti; e soprattutto si è
indebolita la nettezza dei confini tra scienza e O.: giacchè non c’è posto o
regione della scienza in cui non si intersechino fra loro O. e verità.
OPPOSIZIONE (gr. 4 dvrixetueva; lat. Oppositio; ingl. Opposition; franc.
Opposition; ted. Gegensatz, Opposition). La relazione di esclusione fra termini
o oggetti in generale. Aristotele distinse quattro forme di opposizione: 1°
l’O. correlativa come, ad es., quella che intercede tra il doppio e la metà; 2°
1°O. contraria come quella che intercede tra il bene e ORDINE il male, il
bianco e il nero, ecc.; 3° l’O. tra possesso e privazione come quella che
intercede tra la vista e la cecità; 4° l’O. contraddittoria che è la
contraddizione (Car. 10, 11 b 15 sgg.) (v. su ciascuna di queste forme le
singole voci: CONTRADDIZIONE; (CONTRARIETÀ; ‘CORRELAZIONE; POSSESSO; ed inoltre
QUADRATO DEGLI OPPOSTI). ORA (gr. 7è vv; lat. Nunc; ingl. Now; francese
Instant; ted. Jetzr). Con questo termine s’intende nel linguaggio della
tradizione filosofica, l’istante come limite o condizione del tempo, quindi
diverso dall'attimo (v.) che è una specie di incontro tra l'eternità e il
tempo. Secondo Aristotele, l'O. è il presente istantaneo, senza durata, che
funge da limite mobile tra il passato e il futuro (Fis., IV, 11, 219 a 25). La
nozione ritorna frequentemente nelle speculazioni medievali sul tempo. Talvolta
l’O. fu concepita come una res fluens che subito si corrompe e manca ed è
soppiantata da un’altra (cfr. PIETRO AUREOLO, In Sent., II, d. 2, q.1, a. 3).
Questa concezione fu combattuta da Ockham che identificò l’istante con la
posizione del mobile il cui movimento si assume come misura del tempo (Summulae
in libros physicorum, IV, 8). Nella filosofia contemporanea, il termine è stato
adoperato da Husserl per indicare l’orizzonte temporale dell’esperienza
vissuta. Poichè nessuna esperienza può cessare senza la coscienza di cessare o
di essere cessata, questa coscienza è un nuovo istante presente od ora. « Ciò
significa che ogni O. di un’esperienza ha un orizzonte di esperienze che hanno
anch’esse la forma originaria dell’O. e come tali costituiscono l’orizzonte
originario dell’io puro, il suo complessivo originario O. di coscienza »
(Ideen, I, $ 82). ORDINE (gr. t4Ec; lat. Ordo; ingl. Order; franc. Ordre; ted.
Ordnung). Una qualsiasi relazione tra due o più oggetti che possa essere
espressa con una regola. Questa nozione, che è la più generale, fu espressa da
Leibniz per la prima volta in un passo del Discorso di metafisica (1686): « Ciò
che passa per straordinario lo è solo rispetto a qualche O. particolare
stabilito tra le creature perchè, quanto all’O. universale, tutto è
perfettamente armonico. Ciò è talmente vero che non solo non accade nulla nel
mondo che sia assolutamente fuori regola, ma non si saprebbe nemmeno immaginare
qualcosa che sia tale. Supponiamo infatti che qualcuno segni una quantità di
punti sulla carta in un modo qualsiasi: io dico che è possibile trovare una
linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme secondo una certa
regola, e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’O. con cui la mano
li ha tracciati. E se qualcuno traccia una linea continua, ora retta ora curva
ora d'altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune
639 a tutti i punti di questa linea in virtù della quale i mutamenti stessi
della linea risultano spiegati. Per es. non vi è alcun viso il cui contorno non
faccia parte di una linea geometrica e non possa essere tracciato d’un sol
tratto a mezzo di un certo movimento regolato. Ma quando una regola è molto
complessa ciò che le appartiene passa per irregolare. Così si può dire che in
qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre
regolare e fornito di un O. generale » (Discours de mét., $ 6). L’O. in questo
senso consiste semplicemente nella possibilità di esprimere con una regola,
cioè in modo generale e costante, una relazione qualsiasi intercedente tra due
o più oggetti qualsiasi. La nozione di O. in questo senso non si distingue
pertanto da quella di relazione costante. Ma questo è però solo il significato
generalissimo della nozione stessa. Nell'ambito di esso si possono distinguere
tre nozioni specifiche: 1° L’O. seriale; 2° L’O. totale; 3° Il grado o livello.
1° L’O. seriale è quello proprio della relazione di prima e dopo. Aristotele
osservò che questa relazione ricorre là dove vi è un principio perchè in tal
caso le cose possono essere più o meno vicino al principio. Un prima o un dopo
può essere determinato rispetto allo spazio e al tempo o al movimento o alla
potenza o alla disposizione. Anche nella conoscenza qualcosa vien prima
dell’altra o per definizione o nel senso in cui la sensazione vien prima del
concetto. In generale di due cose vien prima quella che può stare senza
l’altra: tale, è secondo Aristotele, l’espressione più generale di questa forma
d’ordine (Mer., V, 11, 1018 b 9). Aristotele sembra così privilegiare come O.
seriale 1’O. causale che è per l’appunto quello nel quale la causa può stare
senza l’effetto, ma l’effetto non può stare senza la causa onde viene dopo di
essa: un’interpretazione che ritorna frequentemente nella tradizione
filosofica. Sant'Agostino diceva, per es.: «O dimostrate che qualche cosa può
avvenire senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo O.
di cause», identificando così la nozione stessa di O. con quella di causalità
(De Ord., I, 4, 11). E Spinoza faceva coincidere l’O. delle cose con la loro
connessione causale; e considerava come sinonimi le due espressioni «1’O. di
tutta la natura» e «il nesso delle cause» (Er., II, 7, Scol.). Kant non solo
effettuava la stessa identificazione ma addirittura considerava l’O. causale
come condizione dell’O. temporale. « Una cosa, egli diceva, può acquistare il
suo posto determinato nel tempo solo a condizione che si presupponga, nello
stato precedente, un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo
una regola; donde risulta in primo luogo che non posso capovolgere la serie e
fare che il conseguente sia ante640 riore al precedente; e in secondo luogo
che, quando lo stato precedente è posto, un determinato avvenimento deve
immancabilmente e necessariamente seguire » (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ.,
cap. II, sez. 3, Analogie dell’esperienza). Analogamente, per Bergson, l’O.
naturale è quello «fisico» o « geometrico» o «automatico », fuori del quale non
c’è che l’O. « vitale » o « voluto » cioè l'O. dei fini (Év. créatr., 83 ediz.,
1911, pag. 251-52). Tuttavia questo privilegio accordato all’O. causale non
sempre oscura il concetto formale dell’ordine seriale. S. Tommaso riprendeva la
definizione di Aristotele: «Si parla sempre di O., egli diceva, nei confronti
di qualche principio. E poichè si parla di principio in molti modi; cioè
secondo il luogo, come quando si parla del punto; secondo l’intelletto, come
quando si parla del principio della dimostrazione; e secondo le cause singole;
così anche si parla dell’O.» (S. 7A., I, q. 42, a. 3). In questo passo l’O.
causale è soltanto una esemplificazione dell’O. generale. Allo stesso modo
Wolff definiva 1'’O. come «l’ovvia similitudine per la quale le cose si
collocano l’una rispetto all'altra o si seguono l’un l’altra »: dove l’ovvia
similitudine è la costanza della relazione (Ont., $ 472). Lo stesso Kant
esprimeva chiaramente il concetto di O. seriale quando identificava l’O. con la
regolarità, come fece a proposito del concetto formale di natura (Crit. R.
Pura, $ 26). C. I. Lewis, osserva che 1°O. aritmetico, che viene imposto agli
oggetti naturali, consente «ad una infinita molteplicità di essere sottoposta
ad una finita semplicità di regole » (Mind and the World-Order, 1929; ediz.
1956, pag. 363). I matematici e i logici, da Cantor in poi, considerano come O.
una relazione delimitata da certe regole. Per es., se si assume la relazione
precede, bastano le regole seguenti a ottenere un O. semplice: 1° nessun
termine precede se stesso; 2° se 4 precede 6 e b precede c, allora a precede c;
3° se a e è sono due termini differenti qualsiasi, o 4 precede 6 o b precede a.
Si può infine avere quello che Cantor chiamò un «insieme ben ordinato »
ammettendo una quarta regola: in ogni classe non vuota di termini c'è un primo
termine cioè un termine che precede tutti gli altri della classe (cfr. A.
CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 55). 2° La seconda specie di O. è quella
che consiste nella disposizione reciproca delle parti di un tutto: come notava
Aristotele, questa specie di O. può concernere il luogo, la potenza o la forma
(Mer., V, 19, 1022 b 1). Questo è IO. che gli Stoici definivano, secondo la
testimonianza di Cicerone (Tusc., I, 40, 142) come «la disposizione degli
oggetti nei loro luoghi adatti ed appropriati »; una definizione la quale, come
è ovvio, presuppone che sia predisposto, per ogni oggetto, il luogo adatto
ORESSI ed appropriato in vista del fine che è proprio dell’oggetto; ed è perciò
fondata sul concetto di fine. Se l’O. seriale è, essenzialmente, un O. causale,
l’O. totale è, essenzialmente, un O. finale. È questo 1’O. che Aristotele aveva
paragonato a quello di un esercito o di una casa e di cui aveva detto: «Tutte
le cose sono ordinate insieme intorno ad un'unica cosa: come in una casa in cui
gli uomini liberi hanno regolato tutta o la maggior parte della loro attività
mentre gli schiavi contribuiscono poco al bene comune» (Mer., 12, 10, 1075a
18). È l’O. che S. Tommaso chiamava «O. dei fini» o « degli agenti » (S. 7%.,
I, II, q.109 a. ©, che Kant ha chiamato O. morale o regno dei fini (v.) e
Bergson «O. vitale» (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 251). Ovviamente, quando
quest’O. viene attribuito al mondo, si considera il mondo stesso, o almeno il
suo O., come il prodotto di un agente libero. 3° Infine il terzo concetto di O.
è quello di grado o livello. Già S. Tommaso faceva la distinzione tra l’O. come
gerarchia e l’O. come singolo grado della gerarchia stessa: « Nel primo senso,
egli diceva, l’ordine comprende sotto di sè diversi gradi; nel secondo è un
grado solo, sicchè si parla di più ordini di un’unica gerarchia » (S. 7h., I,
q. 108, a. 2). In questo secondo senso l'O. è semplicemente il grado, il piano
o il livello, di un O. totale. ORESSI. V. APPETIZIONE. ORFISMO (lat. Orphismus;
ingl. Orphism; franc. Orphisme; ted. Orphismus). Una setta filosofico-religiosa
assai diffusa nella Grecia a partire dal sec. VI a. C. e che si riteneva
fondata da Orfeo. La credenza fondamentale della setta era che la vita terrena
fosse una semplice preparazione per una vita più alta, che poteva essere
meritata per mezzo di cerimonie e di riti purificatori, che costituivano l’armamentario
segreto della setta. Questa credenza passò in diverse scuole filosofiche della
Grecia antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza attribuita da
alcuni filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo, all’O. nella
determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene riconosciuta da
alcuno. Cfr. O. KERN,
Orphicorum Fragmenta, Berlino, 1923; I. M. LinFORTH, The Arts of Orpheus, 1941.
ORGANICISMO (ingl. Organicism; franc.
Organicisme; ted. Organizismus). Ogni dottrina che interpreti il mondo, la
natura o la società per analogia con l'organismo. L’O. è pertanto assai antico
e diffuso giacchè sotto di essi ricadono sia le antiche speculazioni fisiche
del mondo come « grande animale» sia le speculazioni politiche dello Stato concepito
per analogia con l’uomo. Ma in realtà il termine (che è recente e deriva dalla
biologia) viene abitualmente riferito soltanto a dottrine recenti; in
particolare, a quella di Whitehead il quale ORGANISMO ha chiamato il suo
proprio punto di vista con questo termine o con quello di «filosofia
dell’organismo ». La dottrina di Whitehead fa proprio il concetto classico di
organismo, come totalità le cui parti non precedono il tutto, e considera
l’intero universo come un organismo in questo senso (Process and Reality,
1929). Essa è un O. anche perchè attribuisce la sensibilità a tutto il mondo
reale (/bid., pag. 249). Fuori della filosofia, il termine è stato talora
adoperato per designare le teorie sociologiche che interpretano la società
umana come un organismo: ad es., la dottrina di Spencer (Principles of
Sociology, 1876). ORGANICO (ingl. Organic; franc. Organique; ted. Organisch).
Che è un organismo o appartiene all'organismo. Oltre i significati relativi a
questo termine, l’aggettivo è stato ed è talora adoperato per indicare quella
subordinazione delle parti al tutto che si ritiene propria dell’organismo. Così
Saint-Simon e Comte adoperarono l’aggettivo O. per indicare le epoche in cui
tutte le manifestazioni della vita sono subordinate ad un unico principio, come
avvenne, ad es., nel Medioevo nei confronti del principio teologico (v. CRISI).
ORGANISMO (gr. èpravixdv obpa; lat. Corpus Organicum; ingl. Organism; franc.
Organisme; tedesco Organismus). Il corpo vivente in ciò che specificamente lo
distingue da quello non vivente. Il concetto di O. fu per la prima volta
formulato da Aristotele nel modo seguente: «Se la scure deve spaccare il legno,
deve di necessità essere dura; e se dev'essere dura, dev’essere di necessità di
bronzo o di ferro. Ora esattamente allo stesso modo, il corpo, che è uno
strumento come la scure — giacchè sia le sue singole parti sia esso stesso
nella sua totalità hanno ciascuno un loro fine — deve di necessità essere fatto
così e così, se deve compiere la sua funzione » (De Part. An., I, 1, 642a 10).
In questa nozione il tratto fondamentale è che l’intera struttura dell’O. è
subordinata alla sua funzione cioè al suo fine di sopravvivere come O.; e da
questo tratto deriva l’altro, della subordinazione delle parti al tutto. Perciò
Aristotele dice, a proposito della composizione degli animali, che una casa non
esiste in vista dei mattoni e delle pietre, ma mattoni e pietre esistono in
vista della casa (/bid., II, 1, 646a 27); e che «la scienza della natura si
occupa della composizione e della totalità della sostanza e non delle parti che
non possono esistere separatamente dalla sostanza stessa » (/bid., I, 5, 645 a
33). La subordinazione delle parti al tutto che, esso solo, è la sostanza, è
rimasta la caratteristica fondamentale dell'organismo. Ma questa caratteristica
è ovviamente determinata dalla struttura finalistica dell'organismo. Proprio
perchè questo nella sua to41 641 talità dev’essere adatto al suo fine e
subordinato ad esso, le parti dell'O. devono essere subordinate alla totalità
dell’O. stesso. Il concetto di fine è rimasto pertanto da Aristotele in poi a
fondamento della nozione di O. e rimase tale anche quando, con Cartesio, l’O.
cominciò ad essere considerato come una macchina. «Coloro che sanno, diceva
Cartesio, quanti automi o macchine moventi l’ingegnosità umana può costruire
senza adoperare che pochi pezzi relativamente alla grande moltitudine di ossa,
muscoli, nervi, arterie, vene, ecc., che sono nel corpo di ciascuno di noi,
considerano questo corpo come una macchina che, essendo uscita dalle mani di
Dio, è incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più ammirevoli di
quelle che possono essere inventate dagli uomini » (Disc., V). Un orologio o
una macchina infatti non è senza scopo; ed equiparando l’O. a una macchina,
Cartesio non intendeva negare la sua finalità ma semplicemente presentare la
tesi che la struttura finalistica dell’O. dipende, non già da una forza esterna
all’O. stesso cioè dall’anima, ma dalla varietà e dalla coordinazione delle
parti, cioè dalla stessa organizzazione. Del resto anche Leibniz, che insistè
fortemente sull’ordinamento finalistico dell’universo, considerò l’O. come una
macchina. «Ogni corpo organico, egli disse, è una specie di macchina divina o
di automa naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali »
(Mon., $ 64). Solo da Kant la finalità di un automa o di una macchina fu per la
prima volta distinta da quella dell’organismo. «In un orologio, osserva, Kant,
una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre ma non è la causa
efficiente della produzione delle altre: una parte esiste bensì in vista delle
altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’orologio e
della sua forma... sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee
di un tutto possibile mediante la sua causalità ». Nell’O. invece, «ogni parte
è concepita come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il
tutto, vale a dire come uno strumento (organo) +: come « uno strumento che
produce le altre parti ed è reciprocamente prodotto da esse +. In altri termini
le parti di un O. sono nello stesso tempo causa ed effetto l’una rispetto
all’altra e tutte rispetto alla totalità dell’organismo. In tal senso l’O. non
possiede la semplice forza motrice, come la macchina, ma ha anche « una forza
formatrice tale che si comunica alle materie che non l’hanno e che perciò può
organizzare; una forza formatrice che si propaga e che non può essere spiegata
con la sola facoltà del movimento » (Crit. del Giud., $ 65). Queste notazioni
kantiane, chiarendo assai bene il finalismo intrinseco dell’O., rendono in
qualche 642 modo inutile il finalismo complessivo della natura o lo fanno
passare in seconda linea. L’organizzazione finalistica dell’O. infatti può
essere compresa o ammessa indipendentemente dal finalismo universale della
natura. Tuttavia, le speculazioni della filosofia romantica sull’organismo, pur
prendendo lo spunto dai concetti kantiani, tendono appunto a risolvere la
finalità intrinseca dell'O. nella finalità universale; o meglio ad estendere la
prima all’intero universo. Dice, ad es., Schelling: « Nel prodotto naturale è
ancora congiunto quello che, nell’operare libero, si è separato in servizio del
fenomeno. Ogni pianta è interamente quello che dev'essere; il libero è in essa
necessario e il necessario libero... Solo la natura organica dà la completa
immagine della libertà e della necessità riunite nel mondo esterno » (System
des transzendentalen Idealismus, V; trad. ital., pag. 289). Ancora più
arbitrariamente, Hegel considera come primo O. la terra perchè è « un sistema
universale di corpi individuali » (Enc., $ 338); ed afferma che, nonostante la
vitalità naturale si rompa nella molteplicità degli animali viventi, questi «
nell’idea sono una sola vita, un unico sistema organico di vita » (Ibid., $
337). Qui l’O. non è considerato nei suoi tratti specifici ma semplicemente
dissolto nel finalismo cosmico. E a questo stesso risultato giunge la dottrina
di Bergson che vede nell’O. il risultato di uno slancio vitale (o corrente di
coscienza) che penetra e assoggetta la materia bruta. Quello che dal punto di
vista della scienza è una « macchina », dal punto di vista della filosofia è
l’equilibrio raggiunto dallo slancio vitale nel suo sforzo formatore. « Per
noi, egli dice, l’insieme di una macchina organizzata rappresenta bensì
l'insieme del lavoro organizzativo (benchè anche questo non sia vero che
approssimativamente) ma le parti della macchina non corrispondono alle parti
del lavoro giacchè la materialità della macchina non rappresenta più un insieme
di mezzi adoperati ma un insieme di ostacoli aggirati: è una negazione più che
una realtà positiva» (Év. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 102). La realtà
positiva è soltanto lo slancio vitale, cioè la coscienza. La disputa metafisica
tra finalismo e meccanismo o tra materialismo e vitalismo non influisce sul
concetto di organismo. Quella che dopo Kant si è convenuto di chiamare «
finalità interna» dell’O. non è stata messa in dubbio neppure (come si è visto)
da coloro che concepivano l’O. come macchina. Dall’altro lato la risoluzione
della finalità intrinseca dell’O. nel finalismo cosmico, che è cara a tutte le
forme del vitalismo e in generale a tutte le interpretazioni metafisiche
dell’O., non aiuta per nulla a chiarire il concetto di O. perchè non fa che
dare, con l'appello a una tesi generica, una soluORGANISMO zione apparente al
problema di intendere le forme specifiche di azione della finalità organica. I
biologi contemporanei tendono pertanto a mettersi fuori dell’antitesi fra
meccanismo e finalismo. Goldstein ritiene inutile l’appello all’enselechia come
quello al finalismo cosmico; ma ritiene indispensabile insistere sull’azione
dell'O. come totalità. Questo conduce ad ammettere il finalismo interno dell'O.
stesso: « L’ipotesi di un compito determinato, egli dice, è superflua per la
comprensione dell’O., ma l’ipotesi di uno scopo determinato (la realizzazione
dell’essenza dell'O.) è assai feconda per la nostra comprensione dell’O. » (Der
Aufbau des Organismus, 1934, pag. 264). Più recentemente Simpson ha detto: «
Noi sappiamo che il fuoco non è un elemento O principio separato ma è un
processo e un’organizzazione della materia in cui la condotta della materia è
diversa da quella che è nel non-fuoco. Allo stesso modo, la veduta
materialistica non è abbandonata quando la vita viene considerata come un
processo e un’organizzazione in cui la condotta della materia è diversa da
quella che si riscontra negli stati non viventi » (The Meaning of Evolution,
1952, pag. 125). Dall'altro lato la capacità dell’O. di sfruttare le
possibilità o opportunità che la sua struttura o le sue proprie variazioni o
l’am-biente stesso gli offrono, quello che Simpson chiama l’opportunismo della
vita, non è altro che la stessa « finalità intrinseca » di cui parlano gli
altri biologi. Questa era stata anche riconosciuta da uno dei fondatori del
Circolo di Vienna, Moritz Schlick. «Un gruppo di processi o di organi, egli
aveva detto, è chiamato finalistico rispetto a un effetto definito, se
quest’effetto è l’effetto normale nella cooperazione dei processi o degli
organi. L’accento qui va sulla cooperazione; in un caso specifico, questi
processi, dipendenti dalle circostanze, possono accadere in vari modi ma sono
dipendenti l’uno dall’altro e legati insieme in modo che producono sempre
approssimativamente la stessa sorta di effetti » (« Naturphilosophie », in Die
Philosophie in ihren Einzelgebieten, Berlin, 1925; trad. ingl., in Readings in
the Philosophy of Science, 1953, pag. 529). Questo concetto di finalismo non ha
certamente nulla a che fare con la tesi del finalismo universale: si tratta di
un finalismo limitato, specifico, che procede per tentativi e riesce solo in
certi casi: non dell’infallibile piano universale in cui tutti gli esseri
trovano una loro salvaguardia. Esso è stato talvolta chiamato releonomia (v.).
Da questo punto di vista l’O. può essere considerato una macchina, dotata
tuttavia di unità funzionale, coerente ed integrale e, per di più, che si
costruisce da sè, sul fondamento di un piano o progetto che si mantiene
relativamente invariante da una generazione all’altra (cfr., ad es., J MonoD,
Le hasard ORIZZONTE et la nécessité, 1970, cap. III). V. CIBERNETICA; SISTEMA;
STRUTTURA. ORGANO (gr. 8pyavov; lat. Organum; inglese Organ; franc. Organe;
ted. Organ). Nel senso specifico della biologia, dalla quale il termine è
passato alla filosofia, l’O. fu definito da Aristotele in base alla funzione da
esso compiuta e per analogia con lo strumento inorganico: « Ogni strumento,
egli disse, ed ogni parte del corpo ha un suo fine cioè una sua azione
specifica... Come la sega è fatta per segare ma non il segare per la sega,
sicchè il segare è la sua funzione specifica così il corpo è fatto per l’anima
e le parti del corpo hanno per natura ciascuna la propria funzione» (De Part.
An., 1, 5, 645b 12). Questo concetto è rimasto costante, nella biologia, nella
filosofia e in tutti gli altri campi in cui viene adoperato. ORGANON (gr.
3pyavov; lat. Organum). Con questo titolo fu indicato, dai commentatori greci,
l'insieme delle opere logiche di Aristotele cioè: il libro delle Categorie; il
libro dell’Interpretazione; i due libri degli Analitici primi; i due libri
degli Analitici posteriori; gli otto libri dei Topici e il libro degli Elenchi
sofistici. Due altre volte il nome di O. compare come titolo di libro: cioè col
Novum Organum (1620) di Francesco Bacone che esplicitamente contrappose la sua
logica alla logica aristotelica; e col Neues O. (1764) di J. H. Lambert, il
filosofo illuminista tedesco con il quale Kant intrattenne un’importante
corrispondenza. L’uso di tale titolo tuttavia non ha un rapporto preciso con il
compito attribuito alla /ogica (v). ORIENTAMENTO (ingl. Orientation; francese
Orientation; ted. Orientierung). Questo termine fu introdotto in filosofia da
Kant che intese per esso il problema del modo in cui la ragione deve condursi
fuori dei limiti, assai ristretti, del sapere empirico cioè della conoscenza
effettiva: « Orientarsi nel pensiero in generale, disse Kant, significa: data
l’insufficienza dei princìpi oggettivi della ragione, determinarsi nel dominio
del verosimile, secondo un principio soggettivo della ragione stessa » (Was
Heisst: sich im Denken Orientieren?, 1786, A, 310). Kant escludeva che l’uomo
potesse orientarsi in base alla fede o ad un supposto sapere intuitivo. Il
termine è stato ripreso da Jaspers che ha intitolato «O. filosofico nel mondo »
il primo volume della sua Philosophie (1932). LO. nel mondo, si ha secondo
Jaspers quando l’uomo considera se stesso come un elemento o cosa del mondo,
fra innumerevoli elementi o cose, e cerca di trovare così la sua via. L’O. però
mette capo soltanto alla rottura del mondo in una molteplicità di prospettive
cosmiche (Phil., I, pag. 69 sgg.). Fuori di questi significati specifici, il
termine viene ampiamente adoperato, con significato assai poco pre643 ciso, nel
linguaggio comune e filosofico contemraneo. ORIGINE (lat. Origo; ingl. Origin;
franc. Origine; ted. Ursprung). Il termine ha due significati che vengono
spesso confusi: 1° cominciamento o atto o fase iniziale; 2° fondamento o
principio. Il «ritorno alle O.» che fu il tratto caratteristico del
Rinascimento (v.) è una nozione fondata sullo scambio dei due significati. E
sullo stesso scambio si fondò l’importanza dei cosiddetti problemi di origine,
quali furono dibattuti nel sec. xvm e nel sec. x1x: l’O. delle idee, della
vita, del linguaggio, delle specie viventi, ecc.; giacchè nei problemi così
posti l’O. non significava solo la nascita nel tempo ma altresì il principio o
il fondamento dell'oggetto di cui si cercava l’origine. Lo stesso significato
equivoco aveva la parola nel vecchio problema dell’O. del male: Se Dio c’è,
donde viene il male? E se non c’è, donde viene il bene? (cfr. S. Acostino,
Conf., VII, 5). «Giudizio di O.» chiamò H. Cohen il giudizio nel quale qualcosa
è dato, non come materiale grezzo, ma come ciò che il pensiero stesso può
trovare: come il segno x della matematica che significa, non
l’indeterminatezza, ma la determinabilità (Logik, 1902, pag. 83). ORIZZONTE (gr. repityov; lat.
Horizon; inglese Horizon; franc. Horizon;
ted. Horizont). Il limite che circoscrive le possibilità di una ricerca, di un
pensiero o di un’attività qualsiasi: un limite che si può spostare ma si
ripresenta dopo ogni spostamento. Il termine fu introdotto in filosofia da
Anassimandro (sec. vi a. C.) che considerò il Principio (l’infinito o apeiron)
come ciò che « abbraccia tutte le cose e le dirige » (ARIST., Fis., III, 4, 203
b 11). Nel senso moderno il concetto fu chiarito da Kant che intese per
orizzonte il limite o la misura dell’estensione della conoscenza e distinse un
orizzonte /ogico che concerne i poteri conoscitivi in rapporto all’interesse
dell’intelletto; un orizzonte estetico che concerne il gusto in rapporto
all’interesse del sentimento e un orizzonte pratico che concerne l’utile in
rapporto all’interesse della volontà. In generale « l’orizzonte concerne il
giudizio e la determinazione di ciò che l’uomo può sapere, riesce a sapere ©
deve sapere»; e può essere oggertivo, nel qual caso è storico oppure razionale;
o soggettivo nel qual caso è universale o assoluto oppure particolare o privato
(Logik, Einleitung, $ VI, A). La nozione è stata ripresa nella filosofia
contemporanea e in primo luogo da Husserl, che ha inteso per O. il limite temporale
(inteso come presente o ora) in cui cade ogni esperienza vissuta (/deen, I, $
82); poi da Jaspers attraverso il quale è passata nel corrente uso filosofico.
Dice Jaspers: « Noi sempre viviamo e pensiamo in un O. circoscritto. 644 Per il
fatto stesso che si tratta di un O., abbiamo il presentimento di un O. più
vasto che comprenda a sua volta l’O. raggiunto: sorge così il problema di un O.
che abbracci ogni altro O. (O. conglobante, das Umgreifende). L’O. conglobante
è un O. nel quale si offre a noi ogni tipo determinato di realtà e di verità ma
è anche ciò in cui ogni singolo O. è compreso come in quell’O. che tutto
congloba e che non è neppure più pensabile come O. » (Vernunft und Existenz,
1935, pag. 29). Mentre il concetto di O. conglobante, che è quello di O. di
tutti gli orizzonti possibili, rimane proprio della filosofia di Jaspers,
quello di O. può essere utilmente adoperato da qualsiasi indirizzo filosofico
per indicare i limiti di validità di una ricerca determinata, o il tipo di
validità cui aspirano gli strumenti di cui si serve (cfr. C. D. Burns, The
Horizon of Experience, 1934; ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pagina 95
segg.). ORMICA, TEORIA (ingl. Hormic Theory). Così è comunemente chiamata nella
letteratura anglosassone la teoria secondo la quale le emozioni dipendono da
certi istinti fondamentali (spuì = = istinto), che sarebbero alla base di tutta
l’attività psichica. La teoria è stata sostenuta da G. F. Stout, J. Dewey, S.
Alexander, T. P. Nunn (che per primo ha adoperato l’espressione) e
principalmente da W. McDougall. Su di essa vedi J. C. FLUGEL, Studies in
Feeling and Desire, London, 1955 (v. EMOZIONE). ORTOGENESI (ingl.
Ortlogenesis). La dottrina che l’evoluzione della vita segua una linea retta o
tenda a seguirla. Le interpretazioni date dai biologi a questo concetto sono
disparate; sostanzialmente l’O. è la tesi difesa da coloro che ammettono il
finalismo della vita. Talora, ma più raramente, il punto di vista opposto
all’O. si chiama poligenesi: il riconoscimento di linee di evoluzione diverse e
disparate nei fenomeni della vita (confronta G. G. Simpson, The Meaning of
Evolution, 1952, pag. 132). OSSERVAZIONE (ingl. Observation; francese
Observation; ted. Beobachtung). L'accertamento o la constatazione di un fatto,
sia che si tratti di un accertamento spontaneo od occasionale sia che si.
tratti di un accertamento metodico o progettato. L’O. è stata talora ristretta
al primo significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza o
l'esperimento come accertamento deliberato o metodico (cfr. C. BERNARD,
/ntroduction è l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, cap. 1). E talora
è stata ristretta al secondo significato, nel qual caso ad essa si contrappone
l’esperienza ingenua o primitiva o comune o occasionale (in tal senso il
termine è adoperato solitamente nel linguaggio scientifico contemporaneo).
Stando ciò, si possono comprendere sotto il termine entrambi ORMICA, TEORIA i
significati e distinguere: 1° lO. naturale, che è quella nella quale le
condizioni dell’O. non sono progettate o progettabili; e 2° l’O. sperimentale
(o esperimento) che è l’O. progettata, caratterizzata dal controllo delle
variabili. In questo secondo tipo di O., si può agire sulla variabile
indipendente e si può studiare il corrispondente comportamento della variabile
dipendente cioè della funzione collegata. Ogni O., sia naturale che
sperimentale, presenta la divisione tra sistema osservante e sistema osservato.
La validità di questa divisione è stata messa a prova (e riconfermata) dalla fisica
dei quanta, a proposito delle relazioni di indeterminazione (v.) cioè
dell’azione che il sistema osservante esercita su quello osservato. Bohr e
Heisenberg hanno mostrato che, mentre il limite tra sistema osservante e
sistema osservato non è rigido, nel senso che sono possibili descrizioni
diverse di uno stesso fenomeno nelle quali quel limite è diversamente situato
(cfr. BoHR, « Wirkumsquantum und Naturbeschreibung », in Nasurwissenschaften,
1929 [26], pag. 484-85), esso non può venir meno senza che venga meno il
carattere fisico del sistema. Si può infatti evitare di calcolare l’azione
disturbatrice del sistema osservante includendo, nel calcolo, lo stesso sistema
osservante. Ma poichè anche così l’indeterminazione rimane a proposito dell'O.
di quest’ultimo, bisognerebbe includere nel sistema osservato anche i nostri
occhi. In questo caso, nota Heisenberg, «si potrebbe trattare quantitativamente
la catena di cause ed effetti solo quando si considerasse come parte del
sistema osservato l’intero universo; ma allora la fisica sparirebbe e
rimarrebbe soltanto uno schema matematico. La suddivisione del mondo in sistema
osservante e sistema osservato impedisce così la netta formulazione della legge
causale» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1).
Come nota lo stesso Heisenberg, per « sistema osservante + non si deve
intendere necessariamente l’osservatore umano giacchè per esso si può intendere
anche una lastra fotografica o un apparato qualsiasi. Perciò la divisione, tra
sistema osservante e sistema osservato, che la fisica ritiene indispensabile
per dare significato fisico (cioè non puramente matematico) ai suoi enunciati,
non equivale alla distinzione filosofica tradizionale tra oggetto e soggetto:
alla quale d'altronde contrasta anche l’asserita mobilità del limite di
demarcazione fra i due sistemi. OSTACOLO (ingl. Obstacle, Hindrance; francese
Obstacle; ted. Hinderniss). Il limite di una attività. Così definì l’O. Fichte:
« Che significa un’attività determinata e come diviene essa tale? semplicemente
per il fatto che ad essa viene contrapposto un O.» (Sittenlehre, 1798, Intr., $ VI;
Werke, IV, pag. 7). Cfr. R. Le SENNE, Obstacle et Valeur, 1934. OTTIMISMO OSTENSIVO (gr. Sewmtwés; lat. Ostensivus;
ingl. Ostensive; franc. Ostensif; ted. Ostensiv). Si qualificano così le prove
dirette cioè che provano positivamente la verità di una tesi, per distinguerle
dalle prove indirette che tendono a provare una tesi negativamente, con la
dimostrazione della falsità del suo contrario. Le prove indirette sono dette
apagogiche (v. ABDUZIONE; RIDUZIONE). La distinzione è in Aristotele (An. Pr.,
I, 23, 40b 27) ed è riprodotta da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 8, 2). Secondo Kant,
l’uso delle prove apagogiche dovrebbe essere proscritto in filosofia, mentre è
legittimo nelle scienze sperimentali (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. 1, sez. 4). OTTIMISMO (ingl. Optimism; franc. Optimisme; ted.
Optimismus). Questo termine si cominciò a diffondere nella cultura europea
durante le discussioni filosofiche sull’ordine e sulla bontà del mondo cui
dette luogo il terremoto di Lisbona del 1755. In un Poema sul disastro di
Lisbona (1755) Voltaire aveva combattuto la massima « tutto è bene »
considerandola come un insulto ai dolori della vita; e alcuni anni dopo nel
romanzo Candido o l°O. (1759), aveva fatto una satira feroce di questa massima
e dell’intero atteggiamento su di essa imperniato. L’O. trovava però altri
difensori, tra i quali Kant che, nello stesso anno 1759 pubblicava un breve
scritto intitolato « Saggi di talune considerazioni sull’O. » (Versuch einiger
Betrachtungen iîber den Optimismus) (in seguito da lui ripudiato) nel quale
difendeva la bontà del mondo in base alla tesi leibniziana che «quando Dio fa
una scelta, sceglie sempre la cosa migliore ». Come Voltaire diceva, l’O. non è
altra cosa che la teoria del finalismo universale. Così nel suo romanzo fa
parlare il Dottor Pangloss maestro di « metafisico-teologo-cosmolonigologia »:
« È dimostrato che le cose non possono essere altri645 menti: giacchè essendo
tutto fatto per un fine, tutto è necessariamente volto al fine migliore. Notate
bene che il naso è stato fatto per portare le lenti; e così noi abbiamo le
lenti, ecc. ». Leibniz aveva detto che « Dio ha scelto il mondo che è più
perfetto cioè quello che è nello stesso tempo il più semplice in ipotesi e il
più ricco in fenomeni » (Disc. de mét., $ 6); e che «se nel mondo non ci fosse
il minimo male, non si tratterebbe più del mondo: il quale tutto considerato e
sommato è stato trovato il migliore dal creatore che l’ha scelto » (7héod., I,
9). Questo può essere espresso con la frase con cui Candide costantemente
conclude le sue sfortunate peripezie: « Noi viviamo nel migliore dei mondi
possibili: frase che è rimasta come l’espressione popolare dell’ottimismo. L’O.
è sempre proprio di tutte le dottrine che ammettono il finalismo universale e
specialmente: 1° delle dottrine spiritualistiche a sfondo teologico, come sono
la metafisica aristotelica e quella scolastica, il leibnizianesimo e le forme
moderne e contemporanee del coscienzialismo spiritualistico; 2° delle dottrine
idealistiche (nel senso romantico del termine) che condividono il principio
della coincidenza tra realtà e razionalità (principio che significa ciò che
Voltaire esprimeva dicendo che «le cose non possono essere altrimenti +), delle
quali è tipica la dottrina di Hegel. L’opposto dell’O., non è il pessimismo
che, nella formulazione data ad esso da Schopenhauer, pur predicando che «la
vita è dolore + ritiene il mondo nella sua totalità finalisticamente
organizzato in vista dell’ordine migliore (Die Welt, I, $ 28); ma la negazione
del finalismo con il riconoscimento del carattere imperfetto, accidentale e
problematico degli ordini riscontrabili nell’universo. p P, p. Nella logica
contemporanea con P viene indicato un determinato calcolo delle proposizioni e
con p (e le lettere che seguono in ordine alfabetico q, ”, ecc.) una singola
proposizione. PACE (ingl. Peace; franc. Paix; ted. Friede). La più famosa
definizione della P. è quella data da Cicerone nelle Filippiche: « Pax est
tranquilla libertas » (Phil, 2, 44, 113): una definizione che è stata molte
volte ripetuta. Più in generale la P. è stata definita da Hobbes come la
cessazione dello stato di guerra cioè come la cessazione del conflitto
universale fra gli uomini. Pertanto « Cercare di conseguire la P.+ è, secondo
Hobbes, la prima legge di natura (Leviath., I, 14). Come Hobbes, Kant riteneva
che lo stato di P. fra uomini non è affatto uno stato di natura e che pertanto
esso dev'essere istituito perchè «la mancanza di ostilità non significa ancora
sicurezza e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che può solo
aver luogo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui
tale garanzia abbia richiesto invano» (Zum ewigen Frieden, 1796, $ 2). Un
concetto metafisico è invece la P. per Whitehead, che la intende come «
l’armonia delle armonie che placa la turbolenza distruttiva e completa la
civiltà» (Adventures of Ideas, XX, 8 2). PAIDEIA. V. CULTURA. PALINGENESI (gr.
raQiryevecla; ingl. Palingenesis; franc. Palingénésie; ted. Palingenesie).
Secondo gli Stoici, la rinascita del mondo dopo la fine di un ciclo di vita
(NEMES., De nat. hom., 38; cfr. MARC’AURELIO, Ricordî, XI, 1: «la periodica
rinascita del mondo»). La parola è stata usata spesso in questo senso o in
senso analogo (per es., da C. BONNET, Palingénésie philosophique, 1769, e da
GiosERTI, Protologia, 1857) e talora anche in sensi ristretti o particolari:
per designare la rinascita dell'anima o, in senso retorico, per indicare un
qualsiasi rinnovamento radicale (v. APOCATASTASI). PAMPNEUMATISMO (ted.
Panpneumatismus). Termine adoperato da Eduard von Hartmann, nello stesso senso
di pampsichismo (cfr. Philosophischen Fragmente, pag. 68). PAMPSICHISMO (ingl.
Panpsychism; francese Panpsychisme; ted. Panpsychismus). Il termine, che viene
spesso confuso con ilozoismo (v.), designa in realtà una teoria simmetrica e
opposta all’ilozoismo. Questo consiste nell’attribuire alla materia (o alle sue
parti) poteri o attività psichiche ed è perciò materialismo; il P. consiste nel
ridurre la materia stessa ad anima, cioè a proprietà o attributi psichici ed è
spiritualismo. Con ciò la materia non viene negata (come fa l’immaterialismo
[v.]); ma i suoi attributi fondamentali, per es., l’estensione, il movimento,
ecc., vengono ridotti all’azione di forze o attributi spirituali. In questo
senso la nascita del P. si può riconoscere nei Platonici inglesi del ’600
(Scuola di Cambridge). Cudworth partendo dal principio che « nessun effetto può
sorpassare la forza della propria causa» negava che la vita e l’essere, e tanto
meno la ragione e l’intelletto, potessero derivare da una materia senza vita. E
concludeva che «lo spirito è l’essere primogenito, il signore naturale di tutto
ciò che è» (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 4). Ma poichè
le cose non possono essere prodotte dal meccanismo della materia, e poichè Dio
non produce immediatamente e miracolosamente tutte le cose, bisogna ammettere
una natura plastica che sia uno strumento inferiore e subordinato di quella
parte della provvidenza che consiste nel movimento regolare e ordinato della
materia (/bid., I, 1, 3). A sua volta More elaborava il concetto della monade
fisica cioè di una particella così piccola da non poter essere PARADOSSO
ulteriormente divisa. La monade fisica non ha grandezza fisica propriamente
detta, ma è tuttavia estesa e l’estensione è una qualità spirituale,
incorporea, un attributo di Dio (Enchiridion Metaphysicum, I, 9, 3; I, 8, 15).
In questo modo Cudworth e More riducevano la materia e il meccanismo, nei loro
attributi fondamentali — estensione e movimento — a una manifestazione di
elementi o forze spirituali. Proprio a questi autori si è probabilmente
ispirato Leibniz, che ha dato al P. la sua forma classica. Secondo Leibniz, la
materia stessa è costituita da monadi nel senso di essere un aggregato di
sostanze spirituali, come un gregge di pecore o come un mucchio di vermi. Gli
elementi della materia perciò non hanno niente di corporeo: sono atomi di
sostanza o punti metafisici, come si potrebbero chiamare le monadi (Op., ed.
Gerhardt, IV, pag. 483). Il P. di Leibniz fu riprodotto da Lotze nel Microcosmo
(I; trad. ital., pag. 50) che identificò gli atomi di cui parla la teoria
meccanistica della scienza con centri di forza spirituale, cioè con monadi nel
senso leibniziano. Il P. è la caratteristica metafisica dello spiritualismo
contemporaneo (v. SPIRITUALISMO): di quello francese (Ravaisson, Lachelier,
Hamelin) come di quello inglese (Ward) e italiano (Martinetti, Varisco).
PANANIMISMO. Lo stesso che animismo (v.). PANCALISMO (ingl. Pancalism; franc.
Pancalisme). Termine adoperato da J. M. Baldwin per indicare la sua propria
dottrina secondo la quale la bellezza, come oggetto della attività estetica,
realizza la conciliazione tra l’attività conoscitiva e l’attività pratica,
unificando il mondo dell’esperienza (cfr. Genetic Theory of Reality, being the
Outcome of Genetic Logic, as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality called
Pancalism, 1915). PANCOSMISMO (ingl. Pancosmism; francese Pancosmisme).Lo
stesso che materialismo. Il termine fu usato da Grote per designare la dottrina
dei presocratici ilozoisti (Plaro and the Other Companions of Socrates, 1, 1,
18). Il termine non ha avuto fortuna. PANENTEISMO (ingl. Panentheism; francese
Panenthéisme; ted. Panentheismus). Termine creato da Christian Krause
(1781-1832) per designare una sintesi tra teismo e panteismo che consisterebbe
nell’ammettere che tutto ciò che è, è in Dio ed esiste come rivelazione o
realizzazione di Dio (Vorlesungen iiber das System der Philosophie, 1828, pag.
254 sgg.). In realtà questo punto di vista è proprio quello del panteismo
classico e pertanto non si vede l’utilità del termine, che difatti non ha avuto
fortuna (v. Dio). PANLOGISMO (ingl. Panlogism; franc. Panlogisme; ted.
Panlogismus). Termine che fu adope647 rato da J. E. Erdmann per designare la
dottrina di Hegel (Geschichte der neueren Philosophie, 1853, III, 2, pag. 853)
e che viene tuttora adoperato (seppure non troppo frequentemente) per designare
la stessa dottrina o dottrine analoghe, che ammettano, cioè, l’identità del
razionale e del reale. PANSATANISMO (ted. Pansatanismus). Termine adoperato
polemicamente da O. Liebmann per designare la dottrina di Schopenhauer, in
contrapposto caricaturale con panteismo (Zur AnaIysis der Wirklichkeiît, 2>
ediz., 1880, pag. 230). PANSOFIA (lat. Pansophia). Termine adoperato da G. A.
Comenius per designare il principio «insegnare tutto a tutti» (Pansophiae
Prodromus, 1639; Schola Pansophiae, 1670). Kant chiama P. l’insieme della
polistoria che è il sapere storico e della polimatia che è il sapere razionale
(Logik, Intr., $ vi). PANSPERMIA (ted. Panspermie). La dottrina sostenuta da S.
Arrhenius che la vita sulla terra proviene da semi organici diffusi in tutto
l’universo (Werden der Welten, 1907). PANTEISMO (ingl. Pantheism; franc.
Panthéisme; ted. Pantheismus). Il termine panteista fu usato per la prima volta
da J. Toland (Socianinism Truly Stated, 1705) e quello di P. dal suo avversario
Fay (1709). È la dottrina che considera Dio come la matura del mondo, cioè che
identifica la causalità divina con la causalità naturale. Una forma di P.
umanistico è la cosiddetta « teologia senza Dio ». V. Dio; Dio, MORTE DI.
PANTELISMO (ted. Panthelismus). Lo stesso che volontarismo (v.). Il termine fu
usato da E. von Hartmann (Philosophischen Fragmente, pagina 68). PARABOLA (gr.
rapaBorn; lat. Parabola; inglese Parable; franc. Parabole; ted. Parabel).
Argomento che consiste nell’addurre un paragone o un parallelo: come quando
Socrate afferma che non si devono scegliere a sorte i governanti come non si
scelgono a sorte gli atleti per una gara. Così illustra Aristotele la nozione
(Rer., II, 19, 1393 b 4). Un senso analogo la parola ha negli Evangeli (cfr.
Marc., XII, 1). PARADIGMA (gr. rapdderyua; ingl. Paradigm; franc. Paradigme;
ted. Paradigma). Modello o esempio. Platone adoperò la parola nel primo senso
(cfr. Tim., 29b, 48 e; ecc.) in quanto considera come P. il mondo degli esseri
eterni, di cui è immagine il mondo sensibile. Aristotele nella logica usa il
termine nel secondo significato (An. Pr., II, 24, 68 b 38); sul quale v.
ESEMPIO. PARADOSSO (gr. rapàdotoc Xoyvos; ingl. Paradox; franc. Paradoxe; ted.
Paradox). Ciò che è contrario alla «opinione dei più», cioè al sistema di
credenze comuni cui si fa riferimento; 648 oppure contrario a principi che si
ritengono ben stabiliti o a proposizioni scientifiche. La riduzione di un
discorso a un'opinione paradossale è considerata da Aristotele negli Elenchi
sofistici (cap. 12) come il secondo dei fini che si propone la Sofistica (la
prima essendo la confutazione, cioè il provar falsa l’asserzione
dell’avversario). Bernardo Bolzano intitolò Paradossi dell’infinito (1851) il
libro in cui presentò per primo il concetto dell’infinito non più come limite
di una serie ma come un tipo speciale di grandezza, dotato di proprie
caratteristiche: concetto che doveva venire definitivamente stabilito nella
matematica ad opera di Cantor e Dedekind (v. INFINITO). E, sul suo esempio,
sono stati chiamati talvolta P. le contraddizioni che nascono dall’uso del
procedimento riflessivo, e che più comunemente si chiamano antinomie (v.). Nel
senso religioso, si è chiamato P. l’affermazione dei diritti della fede e della
verità del suo contenuto in contrasto con le esigenze della ragione. P. è, per
es., la trascendenza assoluta e l’ineffabilità di Dio affermata dalla teologia
negariva (v.); P. è il «credo quia absurdum» (v.) di Tertulliano; P. è l’intera
fede secondo Kierkegaard, perchè tutte le categorie del pensiero religioso sono
impensabili e la fede crede nonostante tutto e assume tutti i rischi (cfr. Die
Krankheit zum Tode, 1849). Kierkegaard vide nel P. il rapporto stesso tra
l’uomo e Dio: « Il P. non è una concessione ma una caregoria: una
determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente e
conoscente, e la verità eterna » (Diario, VIII, A 11). PARALLELISMO PSICOFISICO (ingl.
Psychophysical Parallelism; franc. Parallélisme Psychophysique; ted. Psycho-physischer
Parallelismus). La espressione fu coniata da Teodoro
Fechner (Zendavesta, II, pag. 141), per designare la dottrina che gli eventi
psichici e quelli fisici costituiscono due serie parallele di eventi, che non
agiscono gli uni sugli altri ma sono causalmente determinati soltanto dagli
eventi omogenei: gli eventi mentali dagli eventi mentali e gli eventi fisici
dagli eventi fisici. Questa dottrina era suggerita dall’esigenza (o dal
desiderio) di non sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi
fisici e dall’impossibilità di considerare quest’ultimi dipendenti dai primi.
Essa è servita per parecchi decenni come ipotesi di lavoro della psicologia
sperimentale nel suo primo organizzarsi a scienza autonoma o relativamente
autonoma (v. PsicoLogia). Fu pertanto ammessa e seguita da coloro che
contribuirono ai primi passi di questa scienza e in particolare da Wundt.
Questi intese come « principio del P. psicofisico » il principio che « tutti i
contenuti empirici che appartengono contemporaneamente alla sfera di
considerazione mediata o scientifica e a quella immediata o PARALLELISMO
PSICOFISICO psicologica stanno in relazione reciproca, in quanto ogni evento
elementare del campo psichico esprime un corrispondente evento nel campo fisico
» (System der Philosophie, 2% ediz., 1897, pag. 602). Questa dottrina veniva da
un lato contrapposta al monismo (v.) che tende a ridurre gli eventi mentali
agli eventi fisici o almeno a sottoporre gli eventi mentali alla causalità
degli eventi fisici; e dall’altro, allo spiritualismo (v.) che consiste nel
tentativo simmetrico e opposto. Essa perciò è stata bene accettata come ipotesi
di lavoro di una ricerca che non voleva ancorare la sua validità ad una
determinata metafisica. Nel periodo in cui la dottrina del P. ha costituito il
presupposto della psicologia sperimentale ed è stato il tema di numerosissime
discussioni tra psicologi e tra filosofi, si è cercato di connetterla con
qualche illustre precedente storico; e il più ovvio di tali precedenti era
senza dubbio la metafisica di Spinoza. Spinoza difatti aveva detto che « un
modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola e medesima cosa
espressa in due maniere » (Er., II, VII, Schol.); ed aveva negato
l’interferenza della causalità dell’estensione e della causalità del pensiero,
affermando che la causa di un pensiero è sempre un pensiero che la causa di un
corpo è sempre un corpo (/bid., III, 2), mentre l’ordine e la concatenazione
delle cose sono sempre le stesse (/bid., III, 2, Schol.). Queste affermazioni
potevano essere interpretate come espressione della dottrina del P.: per quanto
l’intento di Spinoza non fosse quello di garantire l’indipendenza causale
reciproca dei fatti fisici e dei fatti mentali, quanto quello di garantire la
loro comune subordinazione alla diretta causalità di Dio. La dottrina di
Spinoza non è veramente un P. ma un monismo panteistico. D'altronde, la
dottrina del P. deve i suoi successi, non alla sua validità metafisica ma,
all’opposto, alla limitazione dell'impegno metafisico che essa implicava,
potendo essere accettata come ipotesi di lavoro indipendentemente dalla
credenza monistica o da quella spiritualistica e non escludendo nè l’una nè
l’altra. Quando la psicologia ha abbandonato la dottrina in esame, questa è
caduta da sè e ha cessato di essere un tema vivo di discussione (v.
PSICOLOGIA). PARALOGISMO (gr. rapadoyionée; inglese Paralogism; franc.
Paralogisme; ted. Paralogismus). Da Aristotele (Soph. E/., passim) in poi
questo termine viene usato per indicare un sillogismo o comunque un argomento
falso in forma (v. anche FaLLacia). In Kant « P. della Ragion pura » designa la
falsa argomentazione della psicologia razionale, la quale si illude di poter
dedurre dal semplice « io penso » determinazioni materiali ma @ priori del
concetto (idea) di «anima». G. P. PARTE PARAPSICOLOGIA. V. METAPSICHICA.
PARENETICA (gr. rapawverixà réxym; latino Praeceptiva; ingl. Parenetic; franc.
Parénétique). Secondo gli Stoici, quella parte della morale che consiste nel
fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze: lo
stesso che precettistica (cfr. SenECA, Ep., 95). Parenetico: esortatorio.
PARENTESI (ingl. Parentheses; franc. Parenthèses; ted. Parenthese). In logica e
in matematica, le P. sono un segno di associazione. Cosl nell’espressione [n —
(x — y)] le P. interne servono esclusivamente a mostrare l’associazione delle
parti x — y dell’espressione. Nella terminologia della fenomenologia
contemporanea « mettere in P.» significa effettuare la sospensione o epoché fenomenologica
(v. EPOCHE). PARIMPARI (gr.
dprionépirtov; ingl. Even-0dd; franc. Pair-impair; ted. Gerade-ungerad). Così i Pitagorici antichi definirono l’unità, come
principio del numero e delle cose, in quanto essa sarebbe limitata come
l'impari e illimitata come il pari (ARIST., Mer., I, 5, 986 a 15). PAROLA (lat.
Verbum; ingl. Word; franc. Parole; ted. Wort). 1. Secondo la distinzione fatta
prevalere da Saussure tra P., lingua (v.) e linguaggio (v.), la P. sarebbe la
manifestazione linguistica dell’individuo. A differenza della lingua, che è una
funzione sociale, registrata passivamente dall’individuo, la P. è «l’atto
individuale di volontà e di intelligenza nel quale conviene distinguere: 1° le
combinazioni nelle quali il soggetto parlante utilizza il codice della lingua
per esprimere il suo pensiero personale; 2° il meccanismo psicologico che gli
permette di esteriorizzare queste combinazioni » (Cours de Linguistique
Générale, 1916, pag. 31). 2. Il termine P. ha un’ambiguità, che i logici hanno
messo in chiaro. La P. può essere infatti da un lato un singolo evento, che è
nuovo ogni volta che si ripete; e in tale senso diciamo, per es., che un libro
è composto di cinquantamila parole. Dall'altro il termine può significare la
P.-significato, che è la stessa per quante volte si ripeta e in tal senso
possiamo dire, dello stesso libro, che esso è composto di cinquemila parole.
Nel primo senso, ad es., la P. è, se si ripete dieci volte in una pagina, è
dieci parole; nel secondo senso, è una sola parola. Peirce propose di chiamare
la parola nel primo significato token (segno o gettone) e nel secondo
significato type (tipo) (Coll. Pap., 4.537) (v. Tipo). Altri parlano allo
stesso proposito e corrispondentemente di segno e simbolo (cfr., M. BLACK,
Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181 sgg.). PARONIMO (gr.
napfwpoc; lat. Denominativus). Così Aristotele chiamò gli oggetti che traggono
la loro designazione da un certo nome, modifi649 candone il caso: come
grammatico che deriva da grammatica e coraggioso da coraggio (Car., 1, la 11).
I P. hanno tra di loro in comune l’essenza espressa dalla definizione (cfr.
Boezio, In Car., I, P.L. 64, col. 167; Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01;
JunGIUS, Logica Hamburgensis, I, 2, 16). In questo sono simili ai sinonimi o univoci.
Aristotele considera i P. come una certa specie di oggetti designabili, accanto
agli omonimi o equivoci e ai sinonimi o univoci (v. Equrvoco; UNIVOCO).
PARSIMONIA, LEGGE DELLA. V. EcoNOMIA. PARSISMO (ingl. Parsism; franc. Parsisme;
ted. Parsismus). La religione dualistica degli antichi Persiani [v. MALE 1 5);
Zoroastrismo]. PARTE (gr. uépoc; lat. Pars; ingl. Part; francese Part; ted.
Teil). Aristotele distinse tre significati principali del termine: 1° ciò cui
mette capo la divisione di una quantità e in questo senso due è P. di tre, a
meno che non si restringa il significato di parte all’unità di misura, nel qual
caso solo uno (e non due) è P. di tre; 2° ciò a cui mette capo la divisione di
un genere che non sia una quantità e in tal senso sono parti le specie di un
genere; 3° ciò a cui mette capo l’analisi di una proposizione che vale da
definizione; e in questo senso il genere è P. della specie (perchè è la specie
che viene definita) (Met., V, 25, 1023 b 12). San Tommaso a sua volta chiamò
parti quanzitative, quelle nel significato 1° di Aristotele; parti essenziali
quella nei significati 2° e 3° (S. 7h., I, q.76, a.8; III, q.90, a. 2). E
aggiunse ad esse: la P. subbiettiva «alla quale è presente, simultaneamente ed
egualmente, l’intera virtù del tutto come l’intera virtù dell’animale in quanto
tale si conserva in qualsiasi specie animale +; e la P. potenziale « alla quale
è presente il tutto secondo l’intera sua essenza, come l’intera essenza
dell’anima è presente a ognuna delle sue potenze » (S. 7h., III, q. 90, a. 3).
Ma è abbastanza ovvio che queste due ultime specie di P. sono state escogitate
a scopi teologici. Altre distinzioni sono state introdotte per altri scopi come
quella tra la P. prossima e la P. remota, a seconda che tra la P. e il tutto cada
o non cada un’altra P. (cfr. JuNGIUS, Log., 1, 9, 11-12); e quella tra la P.
aliquota e la P. aliquanta, a seconda che la ripetizione della parte arrivi
esattamente ad adeguare il tutto o risulti, a un certo punto, minore o maggiore
di esso (confronta WOoLFF, Onf., $ 360). La maggior parte di queste distinzioni
sono oggi cadute in disuso e lo stesso concetto di P., col venir meno del
vecchio assioma, «la P. è minore del tutto » (v. INFINITO), ha cessato di
essere definito a partire dal tutto e viene abitualmente definito mediante un
certo tipo di relazione. Così Peirce dice: « Una P. di una collezione, detta il
furto 650 di essa, è una collezione tale che ogni cosa che sia u della P. è «
del tutto, ma qualcosa che è « del tutto non è « della P. » (Co//. Pap.,
4.173). PARTECIPAZIONE (gr. pé8eE; lat. Parte cipatio; ingl. Participation;
franc. Participation; ted. Teilnahme, Partizipation). 1. Uno dei due concetti
di cui Platone si avvalse per definire il rapporto tra le cose sensibili e le
idee; l’altro è quello di presenza o parusia (rapovela). «Nient'altro rende
bella una cosa, egli disse, se non la presenza o la P. del bello in sè, quali
che siano la via o il modo nei quali presenza o P. abbiano luogo » (Fed., 100
d). Più tardi Platone intese la P. come imitazione: «A me pare che le idee
stiano come esemplari nella natura; e che gli altri oggetti somiglino ad esse e
ne siano copie; e che questa P. delle cose alle idee non consiste in altro che
nell’essere immagini di esse » (Parm., 132 d). Platone stesso non ha dato molte
altre determinazioni su questo importante concetto della sua filosofia. Ad esso
tuttavia fece ricorso la metafisica medievale quando si trattò di distinguere «
l’essere per essenza » che appartiene solamente a Dio dall’ « essere per P. » che
appartiene alle creature: distinzione che garantiva la subordinazione
dell’essere delle cose all’essere di Dio. «Come ciò che ha fuoco e non è fuoco,
è infocato (ignitum), per P., dice San Tommaso, così ciò che ha l’essere e non
è l’essere è ente per P.» (S. 7h., I, q. 3, a. 4). Ma l’uso esteso che è stato
fatto di questo concetto nella metafisica tradizionale non ha molto contribuito
a chiarirlo; e il concetto è rimasto indefinito ed oscuro come era già per
Platone. 2. L. Lévy-Bruhl ha fatto un uso esteso del concetto di partecipazione
per illustrare la mentalità dei primitivi. Nell’ambito di questa mentalità, la
partecipazione sarebbe anteriore alla distinzione tra le cose che si
partecipano. « La partecipazione non si stabilisce tra un morto e un cadavere
più o meno nettamente rappresentati (nel quale caso avrebbe la natura di una
relazione e dovrebbe essere possibile chiarirla mediante l’intelletto); essa
non viene dopo le rappresentazioni, non le presuppone, ma è anteriore ad esse o
almeno simultanea. Ciò che è dato per primo è la partecipazione» (Les carnets,
I; trad. ital., pag. 36-37). PARTICOLARE (gr. xatà pépoc; lat. Particularis; ingl. Particular; franc. Particulier). Che è una parte o
appartiene ad una parte. La proposizione P. fu definita da Aristotele nel modo
seguente: « Chiamo P. la proposizione che esprime l’inerenza a qualche cosa o
la non inerenza a qualche cosa o la non inerenza a ogni cosa» (An. Pr., I, 1,
24a 13). Il contrario della proposizione P. è quella universale (v.). La logica
medievale indicò con la lettera / la proposizione P. affermativa e con lettera
PARTECIPAZIONE O la proposizione P. negativa. Una proposizione P. della forma
«alcuni F sono G» si può leggere in vari modi: « qualche F è G3, «qualche cosa
è insieme F e G », « qualche cosa che è un F è un G?», «c’è un FG», «ci sono
FG», «FG esiste», ecc. (cfr. W. v. O.
QuInE, Methods of Logic, $ 12). PARTIZIONE (gr. pepiou6s; lat. Parzitio; ingl. Partition; franc. Partition; ted.
Partition). Gli Stoici intesero con questo termine « l’ordinamento di un genere
nei suoi luoghi» (Diog. L., VII, 1, 62) cioè l’enumerazione delle parti che
compongono il tutto, come quando si enumerano le membra del corpo umano; e la
distinsero pertanto dalla divisione che è l’enumerazione delle specie appartenenti
a un genere (CicER., Top., 5-7, 28, 30) (v. DIVISIONE). PARUSIA. V.
PARTECIPAZIONE. PASSATO. V. Tempo. PASSIONE (ingl. Passion; franc. Passion;
ted. Leidenschaft). Questo termine può significare: 1° lo stesso che affezione,
cioè modificazione passiva nel senso più generale del greco rà$oc e del latino
passio (per questo significato v. AFFEZIONE); 2° lo stesso che emozione (v.),
nel qual significato esso è stato adoperato quasi universalmente sino al sec.
xvi, quando si è venuto determinando il significato specifico che oggi possiede
cioè; 3° l’azione di controllo e di direzione esercitata da un’emozione
determinata sull’intera personalità di un individuo umano. In questo senso, che
è il solo proprio e specifico, la parola viene oggi comunemente adoperata. Così
l’espressione francese, divenuta internazionale, «amour-passion » indica una
forma di emozione amorosa che domina la personalità ed è travolgente rispetto
ad ostacoli morali e sociali (cfr. pure « Crime de passion» o « Delitto
passionale +). Nelle frasi «P. del gioco» o « P. delle donne» o « P. del denaro
», il significato di un indirizzo dominante e globale impresso all’intera
personalità è altrettanto chiaro, com’è chiaro nelle espressioni « P. politica
», «P. religiosa», ecc. Il concetto nasce con le analisi dei moralisti del °600
e °700 che hanno messo in luce la tendenza delle emozioni a penetrare la
personalità e a dominarla. Pascal diceva «Quando si conosce la P. dominante di
qualcuno si è sicuri di piacergli » (Pensées, 106). Nella quale espressione
l’aggettivo « dominante » esprime bene il carattere della passione. Le Maximes
di La Rochefoucauld insistono con un certo cinismo su questo carattere
dominante delle passioni (« Se resistiamo alle nostre passioni, è più per la
loro debolezza che per la nostra forza», 122), e Vauvenargue nel Discours sur
la liberté (1737) diceva: « Per resistere alla P. bisognerebbe almeno voler
resistere. Ma farà la P. nascere il desiderio di combattere la P., PASSIONE 651
nell’assenza della ragione vinta e dispersa?». E aggiungeva: « Le passioni
hanno appreso agli uomini la ragione» (Réflexions et maximes, 154). Nello
stesso spirito Helvètius dichiarava: «Le passioni sono nel campo morale ciò che
il movimento è nel campo fisico » (De l’esprit, III, 4); e Condillac definiva
la P.: « Un desiderio che non permette di averne altri o che, almeno, è il più
dominante » (7raité des sensations, I, 3, $ 3). Kant ci ha dato a questo
proposito le determinazioni più precise. La P. è l’inclinazione che impedisce
alla ragione di paragonarla con le altre inclinazioni e così di effettuare una
scelta fra esse (Antr., $ 80). Perciò la P. esclude il dominio di sè cioè
impedisce o rende impossibile che la volontà si determini in base a princìpi
(Crir. del Giud., $ 29). Kant insiste, con notazioni felici, sulla capacità
della P. di dominare l’intera condotta dell’uomo, di impadronirsi della sua
personalità. A differenza dell’emozione che è precipitosa e irriflessiva, la P.
prende tempo ed è riflessiva, per raggiungere il suo scopo, sebbene possa
essere violenta. L’emozione è come un fiotto che rompe la diga; la P. è come
una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L'emozione è come
un’ebrezza che si smaltisce, sebbene ne segua il mal di capo; la P. invece è
come una malattia per intossicazione o per deformazione, che ha bisogno di un
medico interno o esterno dell’anima, il quale, tuttavia, non sa per lo più
prescrivere una cura radicale, ma, quasi sempre, solo palliativi (Antr., $ 74).
Per il pericolo che la passione rappresenta per la scelta razionale e la
libertà morale dell’uomo, Kant rigetta ogni esaltazione delle passioni. Egli
cita la frase: « Nulla di grande nel mondo è stato mai compiuto senza violente
passioni », per commentarla così: « Questo si può ammettere di parecchie
inclinazioni, di quelle cioè delle quali la natura vivente (anche quella
dell’uomo) non può far a meno, come di un bisogno naturale e fisico. Ma che
esse possano, anzi debbano, diventar passioni, questo la Provvidenza non ha
voluto. Spiegarle da questo punto di vista può esser concesso a un poeta, per
es., al Pope, il quale scrisse: « Se la ragione è una bussola, le passioni sono
i venti »; ma il filosofo non può ammettere questo principio neppure per
valutare le passioni come un artificio provvisorio della Provvidenza la quale
le avrebbe poste nella natura umana prima che gli uomini fossero arrivati ad un
grado conveniente di civiltà » (Antr., $ 80). Il Romanticismo accetta e fa suo
il concetto della P. che i moralisti francesi e Kant avevano elaborato;
concetto secondo il quale essa non è un’emozione o uno stato affettivo
particolare, ma piuttosto il dominio totale e profondo che uno stato affettivo
esercita su tutta la personalità (o «soggettività +) dell’individuo. Dall’altro
lato però il Romanticismo capovolge la valutazione negativa della P. che aveva
data Kant. Ed è significativo che colui il quale ha espresso con più rigore il
punto di vista romantico su questo punto, cioè Hegel, non ha fatto che
capovolgere le valutazioni kantiane. Hegel definisce la P. come «la totalità
dello spirito pratico in quanto si pone in una singola delle molte
determinazioni limitate che sono tra loro in contrasto (Enc., $ 473)». Ed
aggiunge: «La P. contiene nella sua determinazione che essa è confinata ad una
particolarità della determinazione del volere, nella quale l’intera
soggettività dell’individuo s’immerge, quale che sia poi il contenuto di questa
determinazione. Ma per questo carattere formale la P. non è nè buona nè
cattiva: la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto in un unico
contenuto tutto l'interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del
carattere, del godimento. Niente di grande è stato compiuto, nè può esser
compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita,
quella che inveisce contro la forma della P. in quanto tale » (Enc., $ 474).
Qui, mentre s’insiste sul carattere totale della P., che limita ad un unico
contenuto o determinazione « l’intera soggettività dell'individuo » e cioè
«l’interesse vivente del suo spirito, ecc.» si riprende la frase criticata da
Kant e si dichiara espressione di una moralità morta o ipocrita la condanna
kantiana. E il curioso è che Kant aveva in anticipo criticato un altro tratto
caratteristico della filosofia di Hegel: la giustificazione delle passioni come
strumenti della provvidenza cosmica, come «astuzie » della Ragione infinita per
realizzare i suoi scopi: tesi che è fra le più caratteristiche della filosofia
della storia di Hegel (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 63 sgg.).
Da un diverso punto di vista l’esaltazione della P. fu fatta anche da Nietzsche
che vedeva un sintomo di debolezza nella « paura dei sensi, dei desideri e
delle passioni, quando essa arriva a sconsigliarli +; e vedeva nella P.
dominante «la forma suprema della salute » perchè in essa «la coordinazione dei
sistemi interni e il loro lavoro al servizio di uno stesso fine sono meglio
realizzati: il che è pressapoco la definizione della salute» (Wille zur Macht,
ed. Kroner, $ 778). Un punto di vista equidistante tra la condanna e
l’esaltazione della P. sembra prevalere nella cultura contemporanea. Così, ad
es., si esprime Dewey: « La fase emozionale, appassionata dell’azione non può
nè deve essere eliminata a vantaggio di una esangue ragione. Più passioni, non
meno, è la risposta... La razionalità non è la forza da evocare contro impulsi
ed abiti, ma piuttosto il raggiungimento di una armonia operante fra diversi
desideri » (Human Nature and Conduct, pag. 195-96). 652 PASSIVO (gr. ra8ntx6c;
lat. Passivus; inglese Passive; franc. Passif; ted. Passiv). Che subisce
un'azione, che è affetto da qualche cosa. È l’aggettivo corrispondente ad
affezione (v.) e contrario ad attivo (V.). PASTORALE, FILOSOFIA (lat.
Pastoralis philosophia). Così chiamò Bacone quella filosofia «che contempla il
mondo placidamente e quasi per ozio »: rimprovero che egli rivolge anche alla
filosofia di Telesio (Phil. Works, III, $ 45). PATETICO (ingl. Parhetic; franc.
Parhétique; ted. Pathetisch). F. Schiller designò con questo termine una delle
specie del sublime (v.) pratico e precisamente quello che deriva da un oggetto
in se stesso minaccioso per la natura fisica dell’uomo, quindi doloroso. Il
sublime pratico contemplativo invece è quello nel quale non è l’oggetto ma la
contemplazione di esso a istituire la sua temibilità e quindi la sublimità (Vom
Erhabenen, zur weiteren Ausfuhrung einiger Kantischen Ideen, 1793; Uber das
Pathetische, 1793). PATOLOGICO (ingl. Parhological; franc. Pathologique; ted.
Pathologisch). Ciò che è una malattia o la manifestazione di una malattia. Il
solo uso specificamente filosofico di questo termine è quello che Kant ne fece
designando con esso tutto ciò che concerne o costituisce «la facoltà di
desiderare inferiore» cioè il complesso delle inclinazioni naturali umane. Dal
punto di vista kantiano, non P. è soltanto la cosiddetta «facoltà di desiderare
superiore » cioè la ragion pratica in quanto indipendente da tutte le
inclinazioni sensibili (Cri. R. Prat., $ 3, scol. I). G. Bentham chiamò
patologia la considerazione e la classificazione dei moventi sensibili della
condotta, indicando con quel termine «la teoria della sensibilità passiva »;
mentre chiamava dinamica « l’uso possibile, da parte del moralista e del
legislatore di quegli stessi moventi per determinare la condotta umana in vista
della massima felicità possibile » (Springs of Action, 1817). PATRISTICA (ingl.
Patristic; franc. Patristique; ted. Patristik). Si indica con questo nome la
filosofia cristiana dei primi secoli. Essa consiste nell’elaborazione
dottrinale delle credenze religiose del cristianesimo e nella loro difesa
contro gli attacchi dei pagani e contro le eresie. La P. è caratterizzata dalla
mancanza della distinzione tra religione e filosofia. La religione cristiana
appare ai Padri della Chiesa, come l’espressione compiuta e definitiva della
verità che la filosofia greca aveva solo imperfettamente e parzialmente
raggiunta. Difatti la Ragione (/ogos) che si è fatta carne nel Cristo e che si
è nella parola di Lui rivelata pienamente agli uomini, è quella stessa a cui i
filosofi pagani si sono ispirati e che hanno cercato di tradurre nelle loro
speculazioni. PASSIVO La P. si suole comunemente dividere in tre periodi. Il
primo che va sino al 200 circa è dedicato alla difesa del Cristianesimo contro
i suoi avversari pagani e gnostici (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ireneo, Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano, Lattanzio). Il secondo periodo
che va dal 200 a circa il 450 è caratterizzato dalla formulazione dottrinale
delle credenze cristiane. È il periodo dei primi grandi sistemi di filosofia
cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio Di Nazianzio,
Gregorio di Nissa, Sant'Agostino). Il ferzo periodo che va dalla metà del v
secolo sino alla fine dell’vm secolo è caratterizzato dalla rielaborazione e
sistemazione delle dottrine già formulate e dalla mancanza di formulazioni
originali (Nemesio, Pseudo Dionigi, Massimo Confessore, Giovanni Damasceno,
Marciano Capella, Boezio, Isidoro di Siviglia, Breda il Venerabile). L'eredità
della P. fu raccolta, agli inizi della rinascita carolingia, dalla Scolastica
(v.). PAURA. V. EMOZIONE. PAZZIA (gr. uopla; lat. Srultitia; ingl. Madness;
franc. Folie; ted. Wahn). 1. Quella che Platone chiamava la P. buona, cioè la
P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè:
1° come inspirazione o dono divino; 2° come amore della vita e tendenza a
viverla nella sua semplicità. 1° Il primo significato è quello che le attribuì
Platone nel Fedro, affermando che «i maggiori beni ci sono elargiti per mezzo
d’una P. che è un dono divino » (Fedr., 244 a). Questa P. si manifesta in
quattro forme: a) la P. profetica, che è a fondamento della mantica cioè
dell’arte per cui si predice il futuro; 5) la P. purificatoria che consente di
allontanare i mali per mezzo di purificazioni e di iniziazioni nel presente e
nell’avvenire; c) la P. poetica che è ispirata dalle muse (Ibid., 244a, 245 a);
e finalmente, la forma più alta cioè d) la P. amorosa alla quale l’uomo è
invogliato dal ricordo della bellezza ideale risvegliato in lui dalla bellezza
delle cose del mondo (/bid., 249 e). Ovviamente le prime tre forme di P. sono
forme di ispirazione divina, riconducibili all’entusiasmo (v.). L'amore invece,
è P. in un senso diverso cioè come aspirazione all’essere autentico,
risvegliata da quella manifestazione « più amabile e più evidente» di esso che
è la bellezza. Ora questo è già il secondo significato di pazzia. 2° Nel
secondo significato, la P. è infatti amore della vita nella sua semplicità,
contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi sa
tutto tranne che vivere ed amare. L’Elogio della pazzia (Stultiae laus, 1509)
di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo significato del
termine. Ecco come Erasmo delinea il ritratto del saggio stoico: « Egli è sordo
alla voce dei sensi, PECCATO ORIGINALE non sente alcuna emozione, l’amore e la
pietà non fanno alcuna impressione sul suo cuore duro come diamante, nulla gli
sfugge, mai non dubita, la sua vista è da lince, tutto pesa con la massima
esattezza, non perdona nulla; trova in se stesso la sua felicità, si crede il
solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il solo libero: in una
parola si crede il tutto; e il più bello è che è il solo a credersi tale ».
Ora, si domanda Erasmo, chi non preferirebbe a questo saggio « un uomo
qualsiasi, tolto alla folla degli uomini pazzi, il quale, per quanto pazzo,
sapesse comandare o obbedire ai pazzi e farsi amare da tutti; e che fosse
compiacente con la moglie, buono con i figli, allegro nei banchetti, socievole
con tutti quelli con i quali convive, e infine che non si credesse straniero a
tutto ciò che appartiene all'umanità?» (E/, 30). La P. di cui parla Erasmo è la
semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel
campo della religione è la fede e la carità contrapposte alle cerimonie
esterne, ai riti meccanizzati e all’ipocrisia dei bacchettoni (Ibid, 54).
Questa forma di P. non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione divina,
ma è umana e laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti più
significativi del Rinascimento. 2. Lo stesso che psicosi (v.). PECCATO (lat.
Peccatum; ingl. Sin; francese Péché; ted. SuUnde). La trasgressione
intenzionale di un comando divino. Il termine ha una connotazione
prevalentemente religiosa: P. non è la trasgressione di una norma morale o
giuridica ma la trasgressione di una norma che si ritiene imposta o stabilita
dalla divinità. Il riconoscimento del carattere divino di una norma e
l'intenzione di violarla, sono i due elementi di questo concetto: elementi
senza i quali il concetto stesso si confonde con quelli di colpa, delitto,
errore, reato, ecc., che esprimono la trasgressione di una norma morale o
giuridica. Il concetto del P. è stato in questi termini elaborato dalla
teologia cristiana. Sant'Agostino definiva il P. come «ciò che è detto o fatto
o desiderato contro la legge eterna +, intendendo per legge eterna la volontà
divina che è diretta a conservare l’ordine del mondo e a far sì che l’uomo
desideri di più il bene maggiore e meno il bene minore (Contra Faustum, XXII,
27). E San Tommaso non faceva che accettare questa definizione annotando che la
legge eterna per l’uomo è duplice: « L’una è vicina ed omogenea, cioè la stessa
ragione umana, l’altra è la regola prima, cioè la legge eterna che è quasi la
ragione di Dio» (S. Th., II, 1, q.71, a. 6). San Tommaso insiste da un lato
sulla volontarietà, cioè intenzionalità, del P.: volontarietà per cui si
potrebbe definire il P. mediante la sola volontà 653 se non fosse che anche gli
atti esterni appartengono al P. stesso e devono pertanto essere menzionati
nella definizione di esso (/bid., ad 2°). Dall'altro lato insiste sul punto che
ogni P. è, come tale, un P. contro Dio, per quanto i peccati contro Dio
costituiscano, da un altro punto di vista, una speciale categoria di peccati
(S. Th., II, 1, q. 72, a. 4, ad 1°) Questo concetto del P. si può dire che sia
rimasto immutato attraverso i tempi. Kant lo ripete definendo il P. «la trasgressione
della legge morale in quanto comando divino» (Religion, I, sez. IV; II, sez. 1,
c; trad. ital., Durante, pag. 31, 68); e lo ripete Kierkegaard affermando che
il P. è davanti a Dio e che esso consiste « nel voler disperatamente essere se
stesso o nel non voler disperatamente essere se stesso » il che significa che
consiste nella disperazione di non aver fede (Die Krankheit zum Tode, II, cap.
I; trad. ital, Fabro, pag. 300). Ciò che Kierkegaard aggiunge è il carattere
eccezionale del P. che corrisponde al carattere eccezionale della fede. Il P.
non è di tutti i giorni. « Essere un peccatore nel senso più rigoroso, egli
dice, è ben lungi dall’essere un merito. Ma d’altra parte, come si può trovare
una coscienza essenziale del P. (che è d'altronde indispensabile per il
Cristianesimo) in una vita talmente immersa nella trivialità, così ridotta allo
scimmiottamento piatto degli altri, che è quasi impossibile darle un nome, che
è troppo priva di spirito per poterla chiamare P.? + (/bid., II, B, Aggiunta A;
trad. ital., pag. 328). PECCATO ORIGINALE (lat. Peccatum Originale; ingl.
Original Sin; franc. Péché originel; ted. Erbsind). Le discussioni
filosofico-teologiche intorno al P. originale hanno avuto di regola per oggetto
il modo in cui tale P. si è trasmesso da Adamo agli altri uomini. San Tommaso
enumerava due ipotesi principali addotte per la soluzione di questo problema e
cioè: l’ipotesi del traducianesimo (v.) secondo la quale «l’anima razionale si
trasmette con il seme sicché da un'anima infetta derivano anime infette »;
l’ipotesi dell’ereditarietà secondo la quale «la colpa dell'anima del primo
parente si trasmette alla prole, per quanto non si trasmette l’anima stessa, al
modo in cui i difetti del corpo si trasmettono di padre in figlio ». Entrambe
queste ipotesi sembravano a San Tommaso insostenibili ed egli annunciava la sua
dicendo che «tutti gli uomini che nascono da Adamo possono considerarsi come un
unico uomo in quanto hanno la stessa natura, che essi ricevono dal primo
parente; al modo in cui nelle città tutti gli uomini che appartengono alla
stessa comunità si ritengono un unico corpo e l’intera comunità quasi un unico
uomo » (II,. 1, q.81, a. 1). Alcuni secoli dopo, nella sua Teodicea (1710)
Leibniz enumerava le stesse ipotesi 654 (Théod., I, $ 86), che sono rimaste
quelle tra le quali ha oscillato il pensiero teologico. D'altronde
un’interpretazione filosofica (e non teologica) del P. originale si ha soltanto
con Kant e Kierkegaard. Kant osservò che non bisogna confondere la questione dell’origine
temporale di una cosa con quella della sua origine razionale: al problema
dell’origine temporale cerca di rispondere la dottrina biblica del P.
originale; ma al problema dell’origine razionale del male risponde la dottrina
del « male radicale » secondo la quale la disposizione innata dell’uomo al male
deriva dalla natura delle sue massime. « La proposizione: l’uomo è cattivo,
dice Kant, non significa altro se non che l’uomo è consapevole della legge
morale e che tuttavia ha accolto nella sua massima di allontanarsi
occasionalmente da tale legge. Dire che egli è cattivo per natura significa che
ciò vale per tutta la specie umana; non già nel senso che tale qualità si possa
dedurre dal concetto della specie umana (dal concetto di uomo in generale) giacchè
allora sarebbe necessaria; ma nel senso che l’uomo, così come lo si conosce per
esperienza, non può essere giudicato diversamente o nel senso che si può
presupporre la tendenza al male in ogni uomo, anche nel migliore, come
oggettivamente necessaria » (Religion, I, 3; trad. ital, Durante, pag. 18).
Sostanzialmente identica con questa è l’interpretazione che del P. originale ha
dato Kierkegaard, scorgendo la condizione e la realtà psicologica di esso
nell’angoscia. «Il divieto di Dio, egli dice, angoscia Adamo perchè sveglia in
lui la possibilità della libertà. Ciò che nell’innocenza era il nulla
dell'angoscia è ora entrato nell’innocenza stessa ed è qui di nuovo un nulla
cioè /a possibilità angosciante di potere. Cosa sia ciò che egli può, egli non
ne ha idea alcuna; altrimenti si presupporrebbe, come avviene di solito, quel
che segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Non c’è in Adamo che la
possibilità di potere, come forma superiore di ignoranza, come superiore
espressione di angoscia, perchè in un senso più alto, questa possibilità è e
non è, ed Adamo l’ama e la fugge» (Der Begriff Angst, I, $ S; trad. ital,
Fabro, pag. 54). Anche qui, come si vede, non si tratta dell’origine temporale
ma dell’origine razionale del P. originale; e anche qui quest’origine è vista
in una possibilità: nella possibilità indeterminata o « indefinita », come
Kierkegaard la chiama, che è anche la possibilità di agire contro il divieto
divino. Secondo Kierkegaard, come secondo Kant, il P. originale consisterebbe
pertanto nel prospettarsi di una possibilità che, come tale, può implicare
l'infrazione alla norma morale o al divieto divino. PEDAGOGIA (ingl. Pedagogy;
franc. Pédagogie; ted. Pédagogik). Questo termine che in PEDAGOGIA origine
significò la pratica o la professione dell’educatore è passato poi a
significare qualsiasi reoria dell’educazione: intendendosi per reoria non solo
un'elaborazione ordinata e generalizzata delle modalità e delle possibilità
dell’educazione ma anche una riflessione occasionale o un presupposto qualsiasi
della pratica educativa. In questo senso, la pedagogia non aveva nell'antichità
classica la dignità di una scienza autonoma ma era considerata come parte
dell’etica o della politica ed elaborata perciò unicamente rispetto al fine che
l’etica o la politica proponevano all'uomo; mentre dall’altro lato gli
espedienti o i mezzi pedagogici venivano considerati soltanto nei confronti
della prima educazione cioè nei confronti dell’educazione dell’età infantile,
perciò delle più elementari acquisizioni (il leggere, lo scrivere e il far di
conto). La riflessione pedagogica appare così, fino a un certo punto, divisa in
due branche, che procedono ognuna per conto suo: la prima, di natura
schiettamente filosofica ed elaborata in vista del fine che l'etica propone per
l’uomo; la seconda, di natura empirica o pratica, elaborata in vista del primo
e più elementare addestramento del bambino alla vita. Si può dire che questi
due tronconi vengono per la prima volta a saldarsi nel sec. xvil per opera di
G. A. Comenio, che ebbe la pretesa di portare nel dominio della P. quella
organizzazione metodologica che Francesco Bacone aveva avuto la pretesa di
portare nel dominio delle altre scienze; ed elaborò pertanto un completo
sistema pedagogico, fondato sul principio della pansofia (v.), che partiva
dalla considerazione del fine educativo per giungere alla considerazione dei
mezzi e degli strumenti didattici. A partire da Comenio, l’esperienza
pedagogica dell’occidente si è andata arricchendo e approfondendo con i tentativi
di trovare nuovi metodi dell’educazione. L’opera di Locke, di Rousseau, di
Pestalozzi, di Fròbel, è molto importante sotto questo punto di vista e anche
perchè cercò di accordare i metodi di educazione con le nuove concezioni
filosofiche che via via si presentavano. Si può dire così che Locke rappresenta
la P. dell’empirismo, Rousseau la P. dell’illuminismo, Pestalozzi la P. del
criticismo e Fréebel quella del romanticismo. Tuttavia, l’organizzazione
scientifica della P. deve molto a Herbart che per la prima volta distinse e unì
i due tronconi della tradizione pedagogica in un sistema coerente. Herbart
infatti distinse la considerazione dei fini dell’educazione, che la P. deve
attingere dall’erica e la considerazione dei mezzi educativi che la P. deve attingere
invece dalla psicologia; e cercò di elaborare distintamente e correlativamente
queste due parti integranti (Allgemeine Padagogik, 1806; Umris péidagogischer
Vorlesungen, 1835). PENA Da questo punto in poi la psicologia è diventata la
scienza ausiliaria fondamentale della pedagogia. La sola e non felice eccezione
a questa connessione è stata rappresentata da quella forma dell’idealismo
romantico che è prevalsa in Italia nei primi decenni del nostro secolo. Questa
forma di idealismo negava la diversità delle persone, ritenendole unite nello
Spirito universale, e identificava pertanto lo sviluppo personale dell’uomo con
lo sviluppo universale dello Spirito. Queste tesi venivano presentate come una
risoluzione della P. nella filosofia. Diceva Gentile: « Quando per spirito non
s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma
dello Spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia, posto che la realtà sia
concepita assolutamente come Spirito) diventa P. e la forma scientifica dei singoli
problemi pedagogici diventa la filosofia » (Sommario di pedagogia, II, 1912,
pag. 15). Contemporaneamente, tuttavia, si faceva il tentativo simmetrico e
opposto di ridurre la P. a scienza meccanica, sul modello della fisica,
cambiandole il nome in pedologia (v.): sul fondamento che con la padronanza del
meccanismo psicologico si può dirigere la formazione mentale degli uomini al
modo con cui si possono dirigere, utilizzando le leggi di natura, le forze
della natura. La P. contemporanea, nella sua forma più matura, si può far
cominciare proprio quando questo duplice e opposto tentativo di riduzione
dell’uomo a spirito assoluto o a meccanismo viene tralasciato e l’uomo comincia
ad essere inteso e considerato come natura senza essere degradato a meccanismo.
La nozione di condizionamento (v. ConDIZIONE) è quella che oggi prevale nella
P. e che ha espulso da essa sia l’indeterminismo idealistico sia il
determinismo meccanistico. Inoltre l’esperienza pedagogica si è oggi arricchita
attraverso la considerazione del fatto educativo nelle società primitive:
considerazione che ha reso possibile da un lato una generalizzazione del
concetto stesso di educazione (v.) dall’altro confronti e paralleli efficaci
sul terreno dei mezzi educativi. Oltre alla psicologia, l'antropologia e la
sociologia concorrono oggi a fornire alla P. il suo armamentario di mezzi
educativi; laddove il problema dei fini rimane aperto e i fini stessi tendono a
essere presentati, dal punto di vista pedagogico, in forma ipotetica piuttosto che
nella forma assoluta e dogmatica con cui venivano assunti dalla P. tradizionale
(v. CULTURA; EDUCAZIONE). PEDOLOGIA (ingl. Paidology; franc. Pédologie; ted.
Paidologie). La scienza esatta dell’educazione, in opposizione alla pedagogia
che sarebbe l’arte empirica dell’educazione. Questo fu almeno il significato
dato al termine da coloro che l’introdussero: il tedesco O. Chrisman
(Paidologie, 1894) e il francese E. Blum (cfr. i suoi articoli in Revue 655
Philosophigue, maggio 1897, novembre 1898). La P. avrebbe dovuto avere come
presupposto la psicologia sperimentale e da essa desumere gli strumenti
dell’educazione, relativamente alle varie età dell’uomo. Questo concetto non è
venuto meno cd è anzi a fondamento di buona parte della psicologia
contemporanea; ma il termine P., dopo una breve voga, è stato abbandonato.
PEDOTECNICA (franc. Pédorechnique). Una «Società di P.» fu fondata nel 1906 a
Bruxelles da Decroly: il termine aveva lo stesso significato di pedologia.
PEIRASTICA (gr. respaotixi réxm). Secondo Aristotele, l’arte di mettere alla
prova una tesi, deducendo le conseguenze di essa. È una parte della dialettica
e si distingue dalla sofistica in quanto si rivolge all’avversario ignorante
mentre la sofistica tende a mettere in iscacco anche colui che è dotato di
scienza (E/. Sof., 8, 169b 25; 171 b 4). PELAGIANISMO (ingl. Pelagianism;
francese Pélagianisme; ted. Pelagianismus). La dottrina del monaco inglese
Pelagio che ai princìpi del sec. v insegnò a Roma e a Cartagine, in polemica
con S. Agostino, la dottrina che il peccato di Adamo non ha indebolito la
capacità umana di fare il bene, ma è solo un esempio cattivo che rende più
difficile e gravoso il compito dell’uomo. S. Agostino combattè con molti
scritti questa tesi a partire dal 412, sostenendo la tesi opposta: che con
Adamo e in Adamo ha peccato tutta l’umanità e che quindi il genere umano è una
sola « massa dannata », nessun membro della quale può essere sottratto alla
punizione se non dalla misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (cfr. De Civ.
Dei, XIII, 14) (v. GRAZIA). PENA (gr. 8; lat. Poena; ingl. Penalty; francese
Peine; ted. Strafe). Privazione o afflizione prevista da una legge positiva per
chi si renda colpevole di una infrazione di essa. Il concetto della pena varia
a seconda delle giustificazioni che sono state date di essa; e tali
giustificazioni variano a seconda che si tenga presente come scopo della pena;
1° l’ordine della giustizia; 2° la salvezza del reo; 3° la difesa dei
cittadini. 1° Il più antico concetto della pena è quello che le attribuisce
l'ufficio di ripristinare l'ordine proprio della giustizia. Questo è il compito
che le attribuisce Aristotele: il quale nega che la giustizia consista nella P.
del taglione e ritiene che il fine della P. consista nel ripristinare la proporzione
in cui la giustizia consiste: « Quando uno abbia ricevuto percosse e un altro
le abbia inferte oppure quando uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il dànno e
il diritto non hanno tra loro un rapporto d’uguaglianza; ma il giudice cerca di
rimediare a 656 questa inuguaglianza con la P. che infligge, riducendo il
vantaggio carpito » (Er. Nic., V, 4, 1132 a 5; cfr. 8, 1132 b 21). Questo
concetto era stato già esteso dall'uomo al mondo da Anassimandro di Mileto che
aveva affermato: « Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare
gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia» (Fr. I, Diels). La P. serve
qui a ripristinare l’ordine cosmico. Questa è anche la funzione che le si
attribuisce da un punto di vista religioso. Plotino dice: « Noi compiamo la
funzione che è propria, per natura, dell'anima finchè non ci sviamo nel
molteplice dell’universo; e se ci sviamo paghiamo la P. sia con il nostro
stesso sviamento sia con la sorte disgraziata che ci attende più tardi » (Emn.,
II, 3, 8). Le stesse parole si trovano in S. Agostino (De Civ. Dei, V, 22). E
S. Tommaso dice: « Poichè il peccato è un atto contrario all’ordine è ovvio che
chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso ordine
consegue che esso sia represso: e questa repressione è la P.» (S. 7h., I, II,
q. 87, a. 1). Nello stesso spirito Kant affermava, in modo solo apparentemente
paradossale: « Anche quando la società civile si dissolvesse con il consenso di
tutti i suoi membri (se per es., un popolo abitante un'isola si decidesse a
separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo assassino che si
trovasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato, affinchè ciascuno porti
la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha
reclamato quella punizione » (Mer. der Sitten, J, II, sez. 1, E; trad. ital.,
pag. 144). Dallo stesso punto di vista Hegel considerava la P. come «la vera
conciliazione del diritto con se stesso », come «rispetto oggettivo e
conciliazione della legge che restaura se stessa mediante l’annullamento del
delitto e si realizza quindi come valida » (Fil. del Dir., $ 220). Quelle
citate sono le voci principali che possono esser raccolte tra i filosofi in
favore della teoria della P. come ripristino dell’ordine di giustizia. Ma
queste voci hanno ispirato e tuttora ispirano numerose dottrine giuridiche
nonchè istituzioni e leggi su di esse fondate. 2° Il concetto della P. come
salvezza o emendamento del reo va spesso congiunto con quello precedente. La
più celebre difesa di esso è forse il Gorgia platonico la cui tesi è che è
meglio subire l'ingiustizia anzichè commetterla e che, per chi ha commesso
ingiustizia, la cosa migliore è di subirne la pena. «Se una colpa viene
commessa, dice Platone, bisogna al più presto recarsi colà dove si possa
pagarne la P. cioè presso il giudice come presso il medico, affinchè la
malattia dell’ingiustizia non diventi cronica e non renda l’anima guasta e
inguaribile + (Gorg., 480 a). Difatti, « colui che paga la P. patisce un bene»
nel senso che PENA «se è punito giustamente, diventa migliore» e «si libera dal
male» (/bid., 477 a): sicchè la P. è una purificazione o liberazione che
dev’essere voluta dallo stesso colpevole. Questo ufficio purificatore è spesso
riconosciuto da coloro che vedono nella P. la restituzione della giustizia. Se
Kant affermava che «la P. non può mai esser decretata come un mezzo per
raggiungere un bene sia a profitto del criminale stesso sia a profitto della
società civile, ma deve essergli applicata soltanto perchè ha commesso un
delitto» (Mer. der Sitten, I, II, sez. 1, E; pag. 142) negando così ogni
connessione fra le due concezioni della P., S. Tommaso stesso riconosceva
invece tale connessione. « Le P. della vita presente, egli diceva, sono
medicinali; e così quando una P. non basta a trattenere l’uomo, se ne aggiunge
un’altra, come fanno i medici che adoperano diverse medicine quando una sola
non è efficace » (S. TA., II, 2, q. 39 a. 4, ad 3°). Hegel analogamente
affermava che la P. non è soltanto la conciliazione della legge con se stessa
ma anche la conciliazione del delinquente con la sua legge cioè con la legge «
conosciuta e valida per lui e a sua protezione »: conciliazione nella quale il
delinquente trova « l’appagamento della giustizia e il suo fatto proprio » (Fil.
del Dir., $ 220). 3° La terza concezione della P. è quella che le attribuisce
l’ufficio della difesa sociale. Da questo punto di vista la P. è: a) un movente
o stimolo per la condotta dei cittadini; 5) una condizione fisica che mette il
delinquente nell’impossibilità di nuocere. I filosofi hanno soprattutto
accentuato il primo carattere. Già Aristotele notava che tutti coloro che non
hanno sortito da natura un’indole liberale, e sono i più, si astengono da atti
vergognosi soltanto per la paura delle pene. «I più, dice egli, obbediscono
alla necessità più che alla ragione e alle P. più che all’onore» (Et. Nic., X,
9, 1180 a 4; cfr. 1179b 11). Ma questo che Aristotele riteneva un movente per
le anime servili viene assunto, dalla concezione in esame della P., come il
movente unico e fondamentale. Hobbes afferma che «è inefficace la proibizione
che non sia accompagnata dal timore delle P. ed è quindi inefficace una legge
che non contenga entrambe le parti, quella che vieta di commettere un torto e
quella che punisce chi lo commette » (De Cive, 1642, XIV, $ 7). Questo concetto
doveva essere fatto proprio dalla filosofia giuridica dell’illuminismo. Lo
riprende Samuele Pufendorf il quale assegna alla P. il compito principale « di
distogliere, con la sua acerbità, gli uomini dai peccati» (De jure naturae,
1672, VIII, 3, 4), senza escludere tuttavia l'emendamento del reo (/bid., VIII,
3, 9). Ma fu specialmente Cesare Beccaria che fece prevalere questo concetto,
da lui posto a base dell’opera Dei diritti e delle pene PENSIERO (1764).
Secondo Beccaria, la P. non è che il motivo sensibile per rafforzare e
garantire l’azione delle leggi sicchè « le pene che oltrepassano la necessità
di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di loro natura»
(Dei diritti e delle pene, $ 2). Dallo stesso punto di vista Bentham
considerava la P. come una delle varie specie di sanzioni (v.) che hanno la
funzione di essere « stimolanti della condotta umana » in quanto «
trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle speranze e dei
timori: delle speranze di un’eccedenza di piaceri, dei timori che prevedono per
anticipazione un’eccedenza di dolore (Deontology, 1834, I, 7). Gli stessi
concetti fondamentali sono stati fatti valere dalla cosiddetta «Scuola positiva
italiana » (Lombroso, Ferri, ecc.) che li ha difesi, con una certa fortuna,
nelle dispute filosofico-giuridiche intorno al diritto penale. Non c'è dubbio
che la maggior parte dei giuristi, dei filosofi del diritto nonchè dei codici e
dei diritti positivi vigenti nelle varie nazioni del mondo si ispirano a una
concezione mista o eclettica della P. considerandola, il più delle volte, sotto
tutti e tre gli angoli visuali qui prospettati. Questo sincretismo non dà
nessuna difficoltà dal punto di vista teorico, anche se i tre punti di vista
non hanno tra loro lo stesso grado di omogeneità. I primi due si legano
abbastanza bene insieme e si trovano, anche in linea di fatto, frequentemente
uniti mentre il terzo appartiene a un differente ordine di pensiero: i primi
due si ispirano a un’etica del fine, l’altro a un'etica del movente (v. ETICA).
Ma le difficoltà cominciano sul terreno pratico, quando si tratta di stabilire
la misura della pena. Su questo campo difatti le tre diverse concezioni
manifestano la loro eterogeneità. Dal primo punto di vista, tutte le infrazioni
all’ordine della giustizia sono equivalenti: un furto insignificante rompe
quest'ordine come un delitto perpetrato con frode o violenza. Dal secondo punto
di vista, si è portati a credere che la pena, come la purga, sia tanto più
efficace quanto è più forte. Ed è solo dal terzo punto di vista, come già
notava Hegel, cioè dal punto di vista della dannosità per la società civile,
che le P. si lasciano graduare con una misura opportuna (cfr. HeGEL, Fil. del
Dir., $ 218). Su questo terreno pertanto la confusione o la mescolanza dei vari
concetti di P. è tutt'altro che innocente ed è il motivo principale del
disordine e delle sperequazioni esistenti nei sistemi penali vigenti. PENSANTE,
PENSIERO. V. ATTUALISMO. PENSIERO (gr. vénow, duvora; lat. Cogitatio; ingl.
Thought; franc. Pensée; ted. Denken). Si possono distinguere i seguenti
significati del termine: 1° qualsiasi attività mentale o spirituale; 2°
l’attività dell’intelletto, o della ragione in quanto distinta 42 657 da quella
dei sensi e della volontà; 3° l’attività discorsiva; 4° l’attività intuitiva.
1° Il significato più vasto del termine, per il quale con esso si intende
qualsiasi attività spirituale o l’insieme di tali attività, fu introdotto da Cartesio.
«Con la parola ‘pensare’, egli diceva, intendo tutto ciò che accade in noi in
modo tale che noi lo percepiamo immediatamente da noi stessi: perciò non
solamente intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è la stessa cosa che
pensare » (Princ. Phil., I, 9; cfr. Méd., ID). Questo significato si trova
conservato nei cartesiani (cfr., ad es., MALEBRANCHE, Recherche de la vérité,
I, 3, 2) e accettato da Spinoza che include tra i modi del P. «l’amore, il
desiderio e ogni altra affezione dell'animo » (Et., II, assioma III). Locke
accennava a questo significato, pur notando che in inglese pensiero significa
più propriamente « l’operazione dello spirito sulle proprie idee » (cioè P.
discorsivo) e preferendo perciò la parola « percezione» (Saggio, II, 9, 1). Lo
stesso significato veniva accettato da Leibniz che definiva il P. come «una
percezione congiunta con la ragione, percezione che le bestie, per quanto
possiamo vedere, non posseggono? (Op., ed. Erdmann, pag. 464); e osservava che
si poteva prendere il termine P. anche nel significato più generale di
percezione, nel qual caso il P. apparterrebbe a tutte le entelechie (cioè anche
agli animali) (Nouv. Ess., II, 21, 72). La tradizione di questo significato si
interrompe con Kant e non viene più ripresa nella filosofia moderna. 2° Il
secondo significato è quello per cui il termine designa l’attività
dell’intelletto in genere, .in quanto è distinta da un lato dalla sensibilità,
dall’altro dall’attività pratica. In questo significato Platone adopera talvolta
la parola vénow, come quando designa con essa l’intera conoscenza intellettiva,
che comprende sia il P. discorsivo ($wvota) sia l'intelletto intuitivo (voce)
(Rep., VII, 534); talaltra la parola Suvoa, come fa quando definisce il P. in
generale come il dialogo dell’anima con se stessa. «Quando l’anima pensa, egli
dice, non fa altro che discutere con se stessa per via di domande e risposte,
affermazioni e negazioni; e quando, presto o tardi o d’un subito, si determina
e asserisce e non dubita più, diciamo che essa è giunta ad una opinione»
(7eer., 190e, 19la; cfr. Sof., 264 e). Nello stesso senso generale Aristotele
adopera la parola Suvowa come quando dice: « Pensabile significa ciò di cui c'è
un P.» (Met., V, 15, 1021 a 31). Questo significato, che è il più esteso (dopo
quello precedente), si è conservato nella tradizione e viene condiviso da tutti
coloro che ammettono la nozione dell’intelletto come facoltà di pensare in
generale: in realtà le due nozioni coincidono. 658 S. Agostino (De Trin., XIV,
7) e S. Tommaso (S. Th., II, 2, q. 2, a. 1) ammettono questo significato
generico accanto a quello specifico di P. discorsivo (v. oltre). Il P., in
questo senso, costituisce l’attività propria di una certa facoltà dello spirito
umano in quanto distinta da altre facoltà e precisamente quella di cui è
propria l’attività conoscitiva superiore (non sensibile). Wolff definiva in
questo senso: « Diciamo di pensare quando siamo consapevoli di quel che accade
in noi e che rappresenta le cose che sono fuori di noi» (Psychol. empirica, $
23). Questo significato costituisce anche oggi l’uso più comune del termine nel
linguaggio ordinario. 3° Il terzo significato di P. è quello che lo specifica
come P. discorsivo. È questo il P. che Platone chiamava dianoia e considerava
come l’organo proprio delle scienze propedeutiche cioè dell'aritmetica, della
geometria, dell'astronomia e della musica: P. che Platone riteneva
avvicinamento e preparazione al pensiero intuitivo dell’intelletto (Rep., VI,
S11 d). S. Agostino negava che il Verbo di Dio potesse chiamarsi P. in questo
senso (De Trin., XV, 16); e lo negava S. Tommaso, perchè il pensare è in questo
senso «una considerazione dell’intelletto accompagnata dall’indagine,
anteriore, perciò, alla perfezione che l'intelletto attinge nella certezza
della visione » (S. 7h., II, 2, q. 2, a. 1; cfr. I, q. 34, a. 1). Questo è,
secondo S. Tommaso, il significato « più proprio » della parola « P.». E a
questo significato è riconducibile l’altro che egli distingue come terzo
significato (il primo essendo quello generico di cui al n. 2) del P. come «atto
della facoltà cogitativa» (virtus cogitativa) o ragione particolare (ratio
particularis); che è il P. che corrisponde alla capacità valutativa degli
animali e consiste nel riunire e paragonare le intenzioni particolari, come la
ragione intellettiva o P. discorsivo consiste nel riunire e paragonare le
intenzioni universali (Ibid., I, q. 78, a. 4). Vico non faceva che esprimere
gli stessi concetti affermando, nel De antiquissima Italorum sapientia (1710) che
a Dio appartiene l’intendere (intelligere) che è la conoscenza perfetta,
risultante da tutti gli elementi che costituiscono l'oggetto e all’uomo solo il
pensare (cogitare) che è quasi l’andar raccogliendo alcuni degli elementi
costitutivi dell’oggetto (De anriquissima Italorum sapientia, I, 1). Alla
stessa nozione di P. si riferiva l’empirismo quando affermava, per es., con
Hume che tutto ciò che il P. può fare consiste « nel potere di comporre,
trasportare, aumentare o diminuire i materiali forniti dai sensi e dalla
esperienza » (/ng. Conc. Underst., 1I; trad. ital., 1910, pag. 17). E questo è
infine il concetto che del P. ebbe Kant. « Pensare, egli disse, è collegare
rappresentazioni in una coscienza +» (Prol/., $ 22). Il che significa che «
pensare è la conoscenza per conPENSIERO cetti »; che «i concetti si riferiscono
come predicati di giudizi possibili a qualche rappresentazione di un oggetto
ancora indeterminato» e che pertanto, quando questo oggetto non è dato
all’intuizione sensibile, si ha bensì un «P. formale» ma non una conoscenza
vera e propria che consiste nella unità del concetto e dell’intuizione (Crif.
R. Pura, Anal. dei concetti, sez. 1, $ 22). Al P. in questo senso si riferiva
Hamilton considerandolo « l’atto o il prodotto della facoltà discorsiva o
facoltà delle relazioni » (Lectures on Logic, V, 10; I, pag. 73). Dal punto di
vista di questa nozione, l’attività del P. è definita in termini di sintesi,
unificazione, confronto, coordinazione, selezione, trasformazione, ecc., dei
dati che sono offerti al P., ma non da lui stesso prodotti. Pertanto la
caratteristica del P. come attività discorsiva è in ultima analisi una
caratteristica negativa: il P. discorsivo non si identifica mai con il suo
oggetto ma verte intorno a questo oggetto cioè lo caratterizza o lo esprime. In
questo senso Frege chiama P. il contenuto di una proposizione cioè il suo senso
(v.) («Uber Sinn und Bedeutung», $ 5; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag.
225). In questo stesso senso Wittgenstein diceva: « Il P. è la proposizione
significante » e identificava P. e linguaggio, sul fondamento che «la totalità
delle proposizioni è il linguaggio» (Tracratus logicophilosophicus, 3.5; 4;
4.001). 4° La caratteristica propria del concetto del P. come intuizione è la
sua identità con l’oggetto. Il P. è in questo senso l’attività propria
dell’intelletto intuitivo: cioè di quell’intelletto che è visione diretta
dell'intelligibile, secondo Platone (Rep., VI, 511 c); o che, secondo
Aristotele, si identifica con l’intelligibile stesso nella sua attività (Mer.,
XII, 2, 1072 b 18 sgg.). Per il P. così inteso gli antichi usarono
costantemente la parola inze/letto (v.) e si è visto come S. Agostino e S.
Tommaso si rifiutassero di estendere ad esso il significato di « P. ». Ma
nell’idealismo romantico, mentre l’intelletto veniva degradato a facoltà
dell’immobile (v. INTELLETTO), il P. veniva promosso al posto già tenuto
dall’intelletto intuitivo e identificato con esso. Così fece per primo Fichte
identificando il P. stesso con l’Io o Autocoscienza infinita
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1) e così fecero Schelling e Hegel. Schelling
affermava: « Il mio io contiene un essere che precede ogni pensare e
rappresentare. Esso è in quanto è pensato ed è pensato perchè è... Esso si
produce con il mio P., per via di una causalità assoluta» (Vom Ich als Prinzip
der Philosophie, 1795, $ 3). Hegel a sua volta espresse nella forma più chiara
l’identificazione del P. con l’autocoscienza creatrice cioè come attività che
coincida con la sua propria produzione. Definendo la logica come «scienza del
P.» egli affermava che « essa PERCEZIONE contiene il P. in quanto è insieme
anche la cosa in se stessa o contiene la cosa in se stessa in quanto è insieme
anche il puro P.» (Wissenschaft der Logik, Intr., Concetto generale; trad.
ital, I, pag. 32). E partendo dal concetto discorsivo del P. così Hegel giunge
al concetto intuitivo di esso: « Il P. nel suo aspetto più prossimo appare
anzitutto nel suo ordinario significato soggettivo, come una delle attività o
facoltà spirituali accanto ad altre, alla sensibilità, all’intuizione, alla
fantasia, all’appetizione, al volere, ecc. Il prodotto di questa attività, il
carattere o forma del P. è l’universale, l’astratto in genere. Il P. come
attività è perciò l’universale attivo, è propriamente quello che fa se stesso
giacchè il fatto, il prodotto, è appunto l’universale. Il P., rappresentato
come soggetto, è il pensante; e la semplice espressione del soggetto esistente
come pensante è l’io » (Enc., $ 20). In altri termini il P. è insieme
l’attività produttiva e il suo prodotto (l’universale o concetto): è perciò
l’essenza o la verità di ogni cosa (Zbid., $ 21). Da Hegel in poi questa
nozione intuitiva del P. è stata talora qualificata dai suoi sostenitori come
il concetto «speculativo » del P. stesso: e assunto come l’unico concetto
adeguato del P. inteso nella sua infinità, nella sua forza creatrice. Ma in
realtà si è sempre trattato dalla vecchia nozione di intelletto intuitivo,
estesa anche all’uomo, senza più tener conto dei limiti e delle condizioni che
gli antichi ponevano a questa estensione. PENTIMENTO (lat. Paenitentia; ingl.
Repentance; franc. Repentir; ted. Reue). L'afflitto riconoscimento d’una
propria colpa. Questa è la definizione sulla quale i filosofi si accordano, pur
esprimendola con parole diverse (S. ToMMASsO, S. Th., III, q. 85, a. 1;
CARTESIO, Passions de l’dme, IN, 191; Spinoza, Etica, III; Definizione delle
passioni, 27; HegeL, Werke, ed. Glockner, X, pagina 372; ecc.). I filosofi sono
pure d’accordo nell’ammettere il valore morale del pentimento. Spinoza per
quanto ritenga che il P. « non è una virtù cioè non deriva dalla ragione » e
che pertanto chi si pente è doppiamente misero o impotente (cioè una volta
perchè ha agito male e una seconda volta perchè se ne affligge) riconosce che
colui che è sottoposto al P. si può tuttavia ridurre molto più facilmente degli
altri a vivere secondo ragione (Eth., IV, 54). Montaigne che dedicò al P. uno
dei suoi più notevoli saggi (Essaîs, III, 2) aveva tuttavia notato che il P. non
deve trasformarsi nel desiderio «di essere un altro ». « Il P., egli scrisse,
non tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, come non le tocca
il rimpianto. Io immagino infinite nature più alte e più regolate della mia; ma
con ciò non miglioro le mie facoltà come il mio braccio e il mio spirito non
divengono più vigorosi perchè 659 io ne concepisca un altro che lo sia »
(/bid., ed. Rat, III, pag. 28). In senso analogo si esprime Kierkegaard che ha
visto nel P. il punto culminante della vita etica e nello stesso tempo il segno
del suo interno conflitto. Il P. è inerente alla scelta che, nella vita etica,
l’uomo fa di se stesso. « Scegliere se stessi è identico al pentirsi di se
stesso... Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sè non dentro di sè;
si pente metafisicamente e non eticamente. Pentirsi esteticamente è repellente
perchè è una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile e fuori
posto poichè non è l’individuo che ha creato il mondo e non occorre che egli si
prenda tanto a cuore }a vanità del mondo stesso » (Entweder -Oder, in Werke,
II, pag. 223; Furcht und Zittern, in Werke, II, pag. 143). Cfr. M. ScHELER, Reue und
Wiedergeburt, in Vom Ewigen im Menschen, 4* ediz., 1954. PER ACCIDENS (gr. xatà cvpfefyx6c). Ciò che è o
accade senza connessione necessaria col soggetto dell’accadimento, come quando
accade che un musico costruisce; difatti tra l’esser musico e l’esser
costruttore non c'è connessione (confronta ARISTOTELE, Mer., V, 7, 1017a 10).
PERATOLOGIA. Termine con cui Ardigò indicò la parte generale della filosofia
cioè quella parte che ha per oggetto ciò che è al di là dei singoli campi delle
scienze filosofiche speciali cioè della psicologia e della sociologia (Opere
filosofiche, II, 1884, passim). PERCETTO (ingl. Percepi). Nel linguaggio della
psicologia contemporanea, il P. è l’esperienza privata di un oggetto cioè il
modo in cui l’oggetto appare a un singolo soggetto. Il nome è stato coniato per
analogia con « concetto ». PERCEZIONE (gr. dvraiyic; lat. Perceptio; ingl.
Perception; franc. Perception; ted. Wahrnehmung, Perception). Si possono
distinguere di questo termine tre significati principali: 1° un significato
generalissimo per il quale designa qualsiasi attività conoscitiva in generale;
2° un significato più ristretto per il quale designa l’atto o la funzione
conoscitiva cui un oggetto reale è presente; 3° un significato specifico o
tecnico per il quale designa un'operazione determinata dell’uomo nei suoi
rapporti con l’ambiente. Nel primo significato, la P. non si distingue dal
pensiero. Nel secondo significato, è la conoscenza empirica cioè immediata,
certa ed esauriente, dell’oggetto reale. Nel terzo significato, è
l’interpretazione degli stimoli. Solo nell’ambito di quest’ultimo significato,
si può intendere quello che la psicologia oggi discute come « problema della
percezione ». 1° Nel suo significato più generale il termine fu adoperato da
Telesio, il quale disse che « la sensazione è la P. delle azioni delle cose,
degli impulsi 660 dell'aria e delle proprie passioni e mutazioni, soprattutto
di queste » (De rer. nat., VII, 3). Questa dottrina era presentata in
opposizione polemica con la tesi che la sensazione consistesse semplicemente
nell’azione delle cose o nella modificazione dello spirito: Telesio insiste che
essa invece consiste nella P. dell’una o dell’altra. La stessa dottrina veniva
difesa da Bacone che esplicitamente si rifaceva alla distinzione di Telesio (De
Auem. Scient., IV, 3). E Cartesio a sua volta adoperava la parola per indicare
tutti gli atti conoscitivi, in quanto passivi rispetto all’oggetto, nei
confronti degli atti della volontà che sono attivi (Passions de l’éme, I, 17).
Cartesio divise le percezioni in quelle che si rapportano agli oggetti esterni,
quelle che si rapportano al corpo e quelle che si rapportano all'anima (/bid.,
I, 23-25). In questo senso generalissimo, la parola fu usata anche da Locke:
«La P. è la prima facoltà dell’anima che si eserciti intorno alle nostre idee;
perciò è la prima idea che noi raggiungiamo per mezzo della riflessione e la
più semplice... Nella pura e semplice P., lo spirito, d’ordinario, è solamente
passivo non potendo a meno di percepire ciò che in atto percepisce» (Saggio,
II, 9, 1). Allo stesso modo, Leibniz intende la P. come ciò che l’anima dell’uomo
e l’anima dell’animale hanno in comune, cioè come « l’espressione di molte cose
in una» e la distingue dalla appercezione o pensiero per il fatto che
quest’ultima è accompagnata dalla riflessione (Nouv. Ess., II, 9, 1; cfr. Op.,
ed. Erdmann, pag. 438, 464, ecc.). Non diverso è il senso generale che Kant
attribuì alla parola chiamando P. una « rappresentazione con coscienza » e
distinguendola in sensazione, se essa viene riferita soltanto al soggetto e
conoscenza se è oggettiva (Crit. R. Pura, Dialettica, Libro I, sez. 1). È
abbastanza ovvio che P. in questo senso significa lo stesso che pensiero in
generale; e lo stesso Locke notava questa identità di significato, pur
preferendo per suo conto la parola P., perchè pensiero in inglese indica «
l’operazione dello spirito sulle proprie idee » mentre nella P. lo spirito
ordinariamente è passivo (Saggio, II, 9, 1). 2° Il secondo significato del
termine è più ristretto ed esprime l’atto conoscitivo oggettivo, quello che
afferra o manifesta un oggetto reale determinato (fisico o mentale). Questo è
il significato originario del termine, quale fu usato dagli Stoici come
equivalente di comprensione (xattAnpic): «Gli stoici definiscono a questo modo
la sensazione: la sensazione è P. mediante il sensorio oppure comprensione »
(AEzio, P/ac., IV, 8, 1; cfr. EPICURO, Fr. 250; PLoTINO, Enn., VI, 7, 3, 29;
ecc.). Cicerone tradusse con perceptio il termine greco, avendo soprattutto di
mira il senso di rappresentazione catalettica (Acad., II, 6, 17; De finibus,
III, 5, 17); e in PERCEZIONE senso analogo il termine fu usato da S. Agostino
(De Trin., IV, 20) e da S. Tommaso il quale ultimo intendeva con esso « una
certa conoscenza sperimentale » (S. 7A., I, q. 63, a. 5, ad 2°). La parola
veniva reintrodotta nell’uso filosofico da Telesio e Bacone (come si è detto) e
da essi il suo significato cominciava ad essere distinto da quello di
sensazione. Ma soltanto Cartesio ne stabiliva il nuovo e più complesso
significato. Parlando delle percezioni esterne, egli affermava che, per quanto
esse siano prodotte da movimenti provenienti dalle cose esterne, « noi le
riferiamo alle cose che supponiamo esser loro cause in modo tale da credere di
vedere la torcia e di udire la campana, quando invece sentiamo solamente i
movimenti che vengono da esse» (Passions de l’îme, I, 23). Da questo punto in
poi la distinzione tra sensazione e P. diventa un teorema fondamentale della
teoria della percezione. Questa distinzione viene espressa da C. Bonnet (Essai
analytique sur les facultés de l’îame, 1759, XIV, 195-96) e dalla scuola
scozzese nel senso comune, specialmente da Reid (/nquiry into the Human Mind,
1764, VI, 20). In virtù di essa la sensazione viene ridotta all’idea semplice
di Locke: ad un’unità elementare prodotta direttamente nel soggetto dall’azione
causale dell’oggetto. La P., dall'altro lato, diventa un atto complesso che
include una molteplicità di sensazioni, presenti e passate, nonchè il loro
riferimento all'oggetto, cioè un atto giudicativo. Già Kant identificando la P.
con l’intuizione empirica (Prol., $ 10), che è la conoscenza oggettiva cioè il
risultato dell'attività giudicante esercitata sul molteplice sensibile, aveva
considerato incluso nella P. l’atto giudicativo. La presenza di un giudizio
alla P. diviene un luogo comune nella filosofia del sec. xrx. Hegel non faceva
che portare al limite questa tesi, quando considerava la P., e la cosa che ne è
l’oggetto, come un prodotto dell’Universale, cioè della Coscienza o del
Pensiero. « Per noi o in sè, egli diceva, l’Universale come principio è
l’essenza della P., e di contro a questa astrazione i due distinti, il
percipiente e il percepito, sono l’inessenziale » (Phdnomen. des Geistes, I,
Coscienza, II; trad. ital., I, pag. 97). Ma al di fuori di questa tesi
estremistica (che è stata tuttavia ripetuta sino a qualche tempo fa dalle
scuole idealistiche) la distinzione tra sensazione e P. e il riconoscimento del
carattere attivo o giudicativo della P. ha avuto come base il riferimento di
essa all'oggetto esterno. Così fece Hamilton, che si ispirava alla dottrina
della scuola scozzese (Lectures on Metaphysics, 5® ediz., 1870, II, pag. 129
sgg.); e così fece Spencer che molto contribuì a diffondere questo punto di
vista (Principles of Psychology, 1855, $ 353). Bol. zano (Wissenschaftslehre, 1837,
I, pag. 161), Brentano (Psychologie vom empirischen Standpunkte, PERCEZIONE
1874, I, 3, $ 1), Helmoltz (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879, pag. 36)
sottolineavano l’azione del pensiero o dell’intelletto nella P.; e Brentano
identificava la P. stessa con il giudizio o la credenza (/oc. cit.). In senso
non diverso, Husserl distingueva la P. dagli altri atti intenzionali della
coscienza in base al tratto che essa permette di « afferrare» l'oggetto (/deen,
I, $ 37). Alla percezione la cosa stessa è presente nel suo essere, come è
presente alla cosa il soggetto che percepisce (cfr. G. BRAND, Welt, Ich und
Zeit, 1955, 3). Solo apparentemente diversa è la nozione bergsoniana della « P.
pura ». Dice Bergson: «La P. non è che una selezione. Essa non crea nulla: il
suo compito è quello di eliminare dall’insieme delle immagini tutte quelle
sulle quali io non avrei alcuna presa e poi, dalle immagini ritenute stesse,
tutto ciò che non interessa i bisogni di quell'immagine particolare che chiamo
corpo + (Matiére et mémoire, pag. 235). In questo modo la P. delineerebbe,
nello sterminato campo delle immagini conservate della coscienza, l'oggetto
determinato da servire ai bisogni dell’azione e che delimita l’azione possibile
del mio corpo. Ma anche cosl il compito della P. rimane quello di afferrare o
delineare un oggetto. Il concetto di P. cui queste dottrine fanno riferimento,
è sufficientemente uniforme: la P. è l’atto con cui la coscienza « afferra » o
« pone + un oggetto; e quest’atto utilizza un certo numero di dati elementari,
cioè di sensazioni. Tale concetto suppone pertanto: 1° la nozione di coscienza
come attività introspettiva o autoriflessiva; 2° la nozione dell’oggetto
percepito come un’entità singola perfettamente isolabile e data; 3° la nozione
di unità elementari sensibili. L'abbandono di questi tre presupposti
caratterizza la nuova fase del problema della P., propria della psicologia e
della filosofia contemporanee. 3° Per il terzo concetto, la P. non è che
l’interpretazione degli stimoli, cioè il ritrovamento o la costruzione del
significato di essi. Questa definizione è una formula semplificata e generica
per esprimere i tratti più evidenti che alla P. riconoscono le teorie
psicologiche contemporanee. F. H. Allport ha enumerate (e criticamente
analizzate) tredici tali teorie (Theories of Perception and the Concept of
Structure, 1955). Bisogna tuttavia osservare che esse, proposte, come sono
quasi tutte, da psicologi ricercatori che le hanno formulate come
generalizzazioni sperimentali, raramente rappresentano alternative che si
escludano mutuamente, mentre il più delle volte non fanno che porre in evidenza
o considerare come fondamentali fattori o condizioni che un certo ordine di
ricerche ha messo in luce. Si possono, tuttavia, distinguere due gruppi di teorie:
a) quelle che insistono sull’importanza dei fattori o delle condizioni
oggettive; 661 b) quelle che insistono sull’importanza dei fattori o delle
condizioni soggettive. a) Al primo gruppo di dottrine appartiene in primo luogo
la psicologia della forma (Gestalttheorie) che è sostanzialmente una teoria
della percezione. La psicologia della forma s’inizia con il lavoro di Max
Wertheimer sulla P. del movimento (1912) e ha come suoi altri rappresentanti
principali Wolfgang Kéhler (Gestalt Psychology, 1929) e Kurt Koffka (Beitràge
zur Psychologie der Gestalt, 1919). L’obbiettivo polemico della psicologia
della forma sono i presupposti 2° e 3° della concezione tradizionale della
percezione. Essa ha mostrato, in primo luogo, che non esistono (salvo che come
astrazione artificiale) sensazioni elementari che entrino a comporre la P. di
un oggetto; e in secondo luogo che non esiste un oggetto di P. come entità
isolata o isolabile. Ciò che si percepisce è una totalità che fa parte di una
totalità. La psicologia della forma si è dedicata a determinare le «leggi» in
base alle quali tali totalità sono costituite, cioè le «leggi di organizzazione
». Esse sono quelle della prossimità, della somiglianza, della direzione, della
buona figura, del destino comune, della chiusura, ecc.: leggi che possono
essere vedute in atto anche in esperienze semplicissime: come, ad es., quelle
che rivelano la tendenza a raggruppare insieme, in un’unica percezione, segni
simili o sufficientemente vicini o costituenti una figura regolare. L'affermazione
fondamentale della teoria della forma è che la P. concerne sempre una totalità,
le cui parti, se considerate separatamente, non presentano i suoi stessi
caratteri; che sono quelli della massima semplicità e chiarezza possibile e
della massima possibile simmetria e regolarità. Tali caratteri hanno convinto
talvolta i gestaltisti ad ammettere la cosiddetta teoria del « tutto
determinante »: cioè la teoria che il tutto trascende le sue parti e determina
dinamicamente le parti stesse secondo leggi sue proprie. Il tutto rassomiglia
così alla «cosa + di cui parla Husserl, nei confronti della P. trascendente: in
quanto l'essenza della cosa integra in sè, e nello stesso tempo trascende, la
totalità delle sue apparizioni. Questa è la teoria della P. che è
sostanzialmente accettata nella Phénoménologie de la perception (1945) di M.
Merleau-Ponty. Un'importante variante di essa è la teoria del campo topologico
di Lewin secondo la quale l’individuo, ridotto a un punto privo di dimensioni,
è sottoposto all’azione delle forze che agiscono nel campo e che egli sente
come estranee al suo corpo. In questa condizione l’individuo è considerato in
«locomozione» cioè come moventesi verso una meta positiva o come allontanantesi
da una meta negativa. Lo spazio in cui avviene questo movimento è il cosiddetto
« spazio di vita » 662 cioè la regione nella quale l’individuo ha esperienza
della sua azione: uno spazio che non ha proprietà metriche o direzioni
determinate ed è perciò fopologico, nel senso che può avere ad ogni momento
qualsiasi dimensione o forma geometrica, purchè conservi le proprietà che
rendono possibile il movimento (LEWIN, Principles of Topological Psychology,
1936). Varianti di questa teoria possono essere considerate quella di Hebb che
fa corrispondere al campo percettivo un campo fisiologico cioè un « meccanismo
di azione neutrale selettiva » che prenderebbe posto, per ogni particolareP.,
in qualche punto del sistema nervoso centrale (The Organization of Behavior,
New York, 1949); e quella del « campo tonico-sensorio » secondo la quale «le
proprietà percettuali di un oggetto sono una funzione del modo in cui gli
stimoli provenienti dall’oggetto modificano l’esistente stato tonico-sensorio
dell’organismo » (WERNER e WAPNER, « Toward a General Theory of Perception», in
Psychological Review, 1952, pag. 324-38). Tutte le teorie qui accennate,
imperniate come sono sui concetti di «totalità » o di «campo», privilegiano in
qualche modo l’aspetto oggettivo della percezione. b) Un secondo gruppo di
teorie tiene invece d’occhio prevalentemente l’aspetto soggettivo della P.
medesima. Per tali teorie, cade anche il presupposto 1° della concezione 2*
della P., cioè quello della coscienza. Queste dottrine infatti non fanno
ricorso alla nozione di coscienza e alla considerazione introspettiva. Una mole
imponente di osservazioni sperimentali ha messo in luce l’importanza, per la
P., dello stato di preparazione o predisposizione del soggetto cioè di quello
che si chiama solitamente l’apparecchiatura (set) percettiva. Il fatto
fondamentale è che l'essere apparecchiati per un certo stimolo o per una certa
reazione ad uno stimolo, facilita l’atto del percepire o lo fa compiere con
maggiore prontezza, energia o intensità. L’apparecchiatura è, in altri termini,
un processo selettivo che determina preferenze, priorità, differenze
qualitative o quantitative in ciò che si percepisce. L’apparecchiatura non è
qualcosa di diverso dallo stesso processo percettivo nè è un meccanismo innato
o prefissato, ma uno schema variabile che è appreso o costruito, per quanto non
sempre volontariamente (cfr. il cap. 9 della citata opera di Allport). Le più
recenti teorie della P. tengono largamente conto di questi fatti. La teoria
rransazionale, per es., considera, in base ad essi, la P. come una transazione
cioè come un accadimento che prende posto tra l’organismo e l’ambiente e non
può quindi essere ridotto nè all’azione dell’oggetto o del soggetto nè
all’azione reciproca dei due. Come transazione, la P. deriva la sua natura
dalla situazione totale in cui prende posto e ha le sue PERCEZIONE radici sia
nell'esperienza passata dell’individuo sia nelle sue aspettazioni per il futuro
(DEWEY e BENTLEY, Xnowing and the Known, 1949; CANTRIL, AMES, HAsTORF,
ITTELSON, «Psychology and Scientific Research», in Science, 1949, pag. 461,
491, 517; ITTELSON e CANTRIL, Perception: a Transactional Approach, 1954). Da
questo punto di vista può essere agevolmente posto in luce il carattere attivo
e selettivo della P., il fatto che essa si avvale di indizi, in base ai quali
ricostruisce il significato dell'oggetto e infine l’altro tratto fondamentale,
cioè che essa è costituita da probabilità, non da certezze. Questi tratti sono
messi innanzi dal cosiddetto funzionalismo che è stato chiamato il «New.Look»
della teoria della P.; ed hanno condotto alla teoria della motivazione e alla
teoria delle ipotesi. La prima teoria che è detta anche teoria dello « stato
direttivo » è fondata sul riconoscimento dell’infiuenza che i bisogni corporei,
le aspettazioni dell’individuo (ad es., un castigo o un premio) e la
personalità di lui hanno sull’oggetto percepito e sulla rapidità e intensità
della P. (BRUNER e KRECH, Perceprion and Personality: a Symposium, Durbam,
1950). Nella seconda teoria confluiscono tutti i dati sperimentali sui quali
hanno fatto leva le teorie del presente gruppo e buona parte dei dati
sperimentali sui quali si fondavano le teorie del primo gruppo. L’idea
fondamentale della teoria dell’ipotesi è che le percezioni (come d’altronde
anche il ricordo o il pensiero) costituiscono ipotesi che l’organismo avanza in
determinate situazioni e che sono confermate, abbandonate o modificate a
seconda della situazione stessa. L’apparecchiatura (ser) di cui parlava una
delle precedenti teorie è per l'appunto l’avvio a un'ipotesi di questo genere.
L’apparecchiatura costituisce infatti l’aspettazione percettuale, che è fondata
sull’esperienza precedente e anticipa quella futura. Abitualmente, nella P., le
apparecchiature sono state stabilite da lungo tempo, attraverso la precedente
attività percettiva e possono essere pronte ad entrare in azione quando
l’organismo entra in una data situazione. Attraverso tali apparecchiature,
l’organismo sceglie, organizza e trasforma le «informazioni» che gli giungono
dall’ambiente. Queste informazioni sono indizi o segnalazioni che servono sia a
«evocare» l’ipotesi sia a confermarla o smentirla. Le principali correlazioni
funzionali tra le variabili che la teoria comporta sono le seguenti: I) Più
forte è l’ipotesi, maggiore è la probabilità della sua evocazione e minore la
somma di indizi richiesta per confermarla. Da ciò segue che quando l’ipotesi è
debole, è richiesta per la sua conferma una mole estesa di informazioni
appropriate. II) Più forte è l’ipotesi, maggiore è la somma di indizi richiesta
per infirmarla; e più debole PERFEZIONE l’ipotesi, minore è la quantità di
indizi contrari richiesti per infirmarla (cfr. l'art. di L. PostMAN, in Social
Psychology at the Crossroads, a cura di RoHRER e SHERIF, New York, 1951; e
ALLPORT, op. cit., cap. 15). Questa teoria non fa che riassumere, nella forma
meno dogmatica, sia i dati sperimentali raccolti da un imponente numero di
osservatori sia i tratti essenziali che alla P. avevano riconosciuto le
dottrine contemporanee della psicologia a partire dalla Gestalttheorie. Tali
tratti possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la P. non è la
conoscenza esauriente e totale dell’oggetto che le teorie di cui al numero 2°
vedevano in essa, ma un’interpretazione provvisoria e incompleta, fatta in base
a indizi o a segnalazioni. 2° La percezione non implica alcuna garanzia della
sua validità cioè alcuna certezza. Essa si mantiene nella sfera del probabile.
3° Come ogni conoscenza probabile, la P. deriva la sua validità dall’esser
messa a prova e dal riuscire confermata o rigettata dalla prova. 4° La P. non è
conoscenza perfetta e immodificabile, ma possiede la caratteristica della
correggibilità. PERCEZIONE INTELLETTIVA. Così Rosmini chiamò l’atto
fondamentale della conoscenza, in quanto è una sintesi tra l’idea dell’essere
in generale e l’idea empirica derivante dalla sensazione (delle cose esterne) o
dal sentimento (che l’io ha di sè) (Nuovo saggio sull'origine delle idee, 1830,
$ 492, 537, ecc.). PERCEZIONI PICCOLE. V. Inconscio. PERCEZIONISMO (ingl.
Perceptionism; francese Perceptionnisme; ted. Perceptionismus). La dottrina che
ammette la realtà degli oggetti della percezione. Lo stesso che realismo
ingenuo (vedi REALISMO). PERFECTIHABIA. Così Ermolao Barbaro tradusse in latino
il termine greco « entelechia » (cfr. LERBNIZ, Monad., $ 48). PERFETTO (gr.
céews; lat. Perfectus; inglese Perfect; franc. Parfait; ted. Vollkommen).
Aristotele distingueva tre significati del termine: 1° ciò che non manca di
alcuna sua parte o al di là di cui non può trovarsi alcuna parte che gli
appartenga; 2° ciò che possiede, nella sua specie, un’eccellenza che non può
essere sorpassata; e così è P. un flautista o un ladro di cui non ci sia il
migliore; 3° ciò che ha raggiunto il suo fine, posto che si tratti di un fine
buono (Mer., V, 16, 1021 b 12 sgg.). Nel primo senso è P. ciò che è completo
cioè non manca di alcuna sua parte integrante. Nel secondo senso è P. ciò che è
eccellente rispetto ad altro della stessa specie; nel terzo senso è P. ciò che
è reale o attuale perchè ha raggiunto il suo fine. Questi significati sono
rimasti propri del termine lungo la storia della filosofia. È chiaro che mentre
663 il significato 2° è relativo quindi non metafisico, perchè esprime solo
l’eccellenza relativa di una cosa in un dato ordine di cose, gli altri due sono
assoluti e sono rimasti propri della tradizione metafisica. PERFEZIONE (ingl.
Perfection; franc. Perfection; ted. Vollkommenheit). Questa parola è stata
usata dai filosofi soltanto corrispondentemente ai significati 1° e 3° del
corrispondente aggettivo: non si considera come P. la P. relativa cioè lo stato
di una cosa che eccelle fra quelle della sua specie. Dice S. Tommaso: « La P.
di una cosa è duplice, cioè prima e seconda. La prima P. è quella per la quale
una cosa è perfetta nella sua sostanza e tale P è la forma del tutto che emerge
dall’integrità delle parti. La P. seconda è quella del fine; ma il fine o è
l’operazione, come il fine del citarista è quello di suonar la cetra; o è la
cosa cui si perviene attraverso l’operazione, come il fine del costruttore è la
casa che costruisce. La prima P. è causa della seconda P.: la forma è infatti
il principio delle operazioni » (S. 7h., I, q. 73, a. 1). Esattamente lo stesso
concetto veniva esposto da Kant: « La P. indica talvolta un concetto che
appartiene alla filosofia trascendentale, quello della totalità degli elementi
diversi che riuniti insieme costituiscono una cosa; ma esso può intendersi
anche come appartenente alla re/eologia, e allora significa l’accordo delle
proprietà di una cosa con un fine» (Met. der Sitten, Intr., V, A; cfr. Crit.
del Giud., $ 15). Queste determinazioni riducono la P.: 1° alla integrità del
tutto; 2° alla realizzazione del fine. Ma tendono in realtà a privilegiare il
primo concetto che, applicato alla totalità dell’essere, ha portato nella
tradizione filosofica, a identificare P. e realtà. Lo stesso S. Tommaso infatti
ha descritto la P. di Dio e della creatura come consistente nel possesso
dell’essere: « Dio, che è la totalità del suo essere, possiede l’essere secondo
l’intera virtù dell’essere stesso e non può mancare di alcuna nobiltà che
competa a una cosa qualsiasi. Come ogni nobiltà e P. inerisce a una cosa in
quanto la cosa è, così ogni difetto le inerisce in quanto, in qualche modo, non
è» (Contra Gent., I, 28). Da questo punto di vista una cosa è tanto più
perfetta quanto più ha di essere; e poichè Dio ha tutto l'essere, è totalmente
perfetto. Queste equazioni costituivano luoghi comuni della scolastica
medievale. Lo stesso Duns Scoto le ripete, affermando che la forma nelle
creature implica qualche imperfezione perchè è forma partecipata e parziale,
mentre la forma non ha imperfezione in Dio perchè non è nè partecipazione nè
parte (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, a. 3, n. 22). Esattamente a questo concetto di
P. faceva ricorso Cartesio affermando che le idee «che rappresentano sostanze
sono senza dubbio qualcosa di più e contengono in sè più realtà oggettiva cioè
664 partecipano per rappresentazione a più gradi d’essere 0 di P., di quelle
che rappresentano soltanto modi o accidenti » (Med., III). Esplicitamente
Spinoza identificava realtà e P. (Zr., II, def. 6); e Leibniz dichiarava di
intendere per P. « la grandezza della realtà positiva presa precisamente,
mettendo da parte i limiti o i confini delle cose che la posseggono» (Monad., $
41). Kant parlava in questo senso di una P. frascendentale che è «l’integrità
di ogni cosa nel suo genere + e di una P. metafisica come « l'integrità di una
cosa semplicemente come cosa in genere», distinguendo da esse la P. come attitudine
o convenienza di una cosa a vari fini (Crit. R. Prat., I, I, cap. I, scol. II).
Il concetto di P. è rimasto fissato, nel corso ulteriore della filosofia, da
queste determinazioni: come integrità del tutto o rispondenza al fine; e
costantemente, nel primo significato, è stato identificato con il concetto di
essere. Fuori delle sue sopravvivenze metafisiche e teologiche, la nozione di
P. viene scarsamente utilizzata nella filosofia contemporanea. Quando viene
utilizzata, il riferimento ai significati tradizionali è evidente: così accade,
ad es., in Bergson che identifica la P. con l’assoluto ed entrambi con la
totalità dell’essere (‘ Introduction à la Métaphysique », in La pensée et le
mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 204). PERFEZIONISMO (ingl. Perfectionism;
francese Perfectionnisme; ted. Perfektionismus, Perfektibilismus). La parola
viene adoperata (raramente) in due significati: 1° per indicare l’ideale morale
che consiste nel perseguire la propria o altrui perfezione morale, cioè la
capacità di agire in conformità del dovere: capacità che implica anche la
cultura delle facoltà fisiche e mentali dell’uomo. In questo senso è P.
l'ideale morale espresso da Kant nella introduzione al secondo volume della
Metafisica dei costumi; 2° per indicare la credenza nel progresso accompagnata
dall’impegno di contribuire al progresso stesso. In questo senso la parola
viene talora usata nella filosofia anglosassone contemporanea. PERFORMATIVO
(ingl. Performative; francese Performatif). Così John L. Austin ha chiamato una
classe di enunciati che hanno la forma apparente degli enunciati descrittivi ma
non sono tali e rispondono a due condizioni: 1° Non descrivono nè riportano nè
constatano nulla e non sono veri o falsi. 2° Il pronunciare l’enunciato è
l’effettuazione di un’azione o di una parte di essa e precisamente di un’azione
che non è normalmente descritta come un semplice « dire qualcosa ». Esempi di
P. sono il classico «Si» con cui gli sposi rispondono alla domanda sacramentale
nel corso di una cerimonia matrimoniale; o le frasi seguenti: «Io chiamo questo
bastimento ‘ Regina Elisabetta ’ » pronunziata nella cerimonia del varo di una
nave PERFEZIONISMO quando si spezza la bottiglia contro lo scafo; « Lascio in
eredità il mio orologio a mio fratello » o frasi simili che ricorrono nei
testamenti; « Scommetto con te mille lire che domani pioverà » (cfr. How to do
Things with Words, 1962, pag. 5). Austin ha chiamato illocuzione (illocution)
il P. per distinguerlo dalla locuzione che è un’espressione fornita di
denotazione e connotazione, e dalla perlocuzione, che è la forma persuasiva di
un’espreszione (/bid., pag. 98 sgg.). PERIEKON. V. ORIZZONTE. PER IMPOSSIBILE.
V. Assurpo. PERIPATETISMO. V. ARISTOTELISMO. PERIPEZIA (gr. repinttea; ingl.
Peripety; franc. Péripétie; ted. Peripetie). Secondo Aristotele, uno degli
elementi fondamentali della tragedia e precisamente dell'intreccio tragico.
Consiste in un cambiamento improvviso di condizioni o di fortuna che deve
prodursi in modo verosimile e necessario (Poer., 11, 1452a 22). PERLOCUZIONE.
V. PERFORMATIVO. PER LO PIÙ (gr. tri tè rod; ingl. Mostly; ted. Zumeist).
L'espressione è adoperata da Aristotele per indicare ciò che accade in modo
uniforme e costante ma non sempre e di necessità; accidentale è ciò che non
accade nè sempre nè per lo più (Mer., VI, 2, 1026 b 30). Ciò che è sempre o di
ecessità è l'oggetto delle scienze teoretiche; ciò che è per lo più, è oggetto
delle scienze praticopoietiche; l’accidentale non può essere oggetto di
scienza. Heidegger ha adoperato l’espressione per indicare l'insieme dei modi
d’essere che costituiscono la «medietà» (Sein und Zeit, $ 9) (v. MEDIETÀ).
PERMANENZA (ingl. Permanence; francese Permanence; ted. Beharrlichkeit).
Secondo Kant «la P. esprime in generale il tempo come correlato costante di
ogni esserci dell'apparenza, di ogni mutamento e di ogni concomitanza ». La P.
è in altri termini il tempo come durata (Crif. R. Pura, Anal. dei princ., cap.
II, sez. 3, Prima analogia) (v. ANALOGIE DELL'ESPERIENZA). PERPETUITÀ. V.
ETERNITÀ. PER SÈ (gr. xad'asré; lat. Per se; ingl. By itself; franc. Par soi;
ted. Fr sich). Ciò che è in virtù della sua sostanza e non per altro; o che è
nella coscienza e per la coscienza. Questi sono i due significati fondamentali
del termine, che risalgono rispettivamente ad Aristotele e Hegel. A) Per suo
conto, Aristotele (Mer., V, 18, 1022 a 24 sgg.) enumerava cinque significati
del termine: 1° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù della sua
essenza necessaria o sostanza. Ad es., Callia è per sè ciò che egli è
sostanzialmente, cioè uomo; PERSONA 2° si dice che una cosa è per sè ciò che
essa è in virtù di una parte della sua essenza necessaria cioè in virtù di una
parte della sua definizione (giacchè la definizione esprime l’essenza
necessaria). In tal senso si dice che Callia è per sè animale perchè «animale »
è parte della definizione di Callia; 3° in terzo luogo si dice che una cosa è
per sè ciò che essa è in virtù di una sua qualità o determinazione primaria. In
tal senso si dice che l’uomo è per sè vivo in quanto la vita è una sua
determinazione primaria (essendo parte dell’anima, che è sostanza dell’uomo);
4° si dice per sè quello ché non ha, o di cui non si considera, una causa
esterna. In questo senso l’uomo è per sè in quanto è uomo, cioè in quanto la sua
causa è la sua stessa sostanza, non in quanto è animale o bipede, ecc.; 5° si
dice che è per sè la cosa che è ciò che le appartiene in proprio o appartiene a
essa soltanto. In tal senso si può dire che l’anima per sè pensa. Questi cinque
significati sono in realtà tutti riconducibili al primo cioè a quello per il
quale si dice che è per sè la cosa che è in virtù della sua sostanza. Difatti
il significato 2° si riferisce alle parti della sostanza, il significato 3°
alle qualità o determinazioni che derivano dalla sostanza, il significato 4° e
il significato 5° alla causalità propria della sostanza. Il significato
fondamentale o generico, per cui è per sè ciò che è in virtù della sua
sostanza, è rimasto quello al quale più frequentemente si è fatto riferimento
nella storia della filosofia. Questo è, ad es., il significato che
all’espressione attribuiscono sia S. Tommaso che Duns Scoto. S. Tommaso afferma
che « Dio è lo stesso essere per sè sussistente » (S. 7h., I, q. 44, a. 1), in
quanto l’essere appartiene all'essenza o sostanza di Dio (4bid., I, q. 3, a.
4); e che l’anima non può corrompersi perchè è «forma per sè sussistente »
(Ibid., I, q. 75, a. 6). Duns Scoto riserva l’essere per sè alla forma totale e
perfetta in cui entrano tutte le parti ma che a sua volta non è parte (Quodi.,
q. 9, n. 17). Entrambi i filosofi designano quindi come per sè l’essere
sostanziale, sebbene Duns Scoto restringa, più di S. Tommaso, il significato di
questo. B) Il secondo significato fondamentale del termine è quello che Hegel
gli ha attribuito come essere attuale o effettuale [in contrapposto a in sé
(v.), essere possibile] e quindi come essere che si è sviluppato attraverso la
riflessione e la coscienza. Dice Hegel « Diciamo che qualcosa è per sè in
quanto toglie l’esser altro, la sua relazione e la sua comunanza con altro, in
quanto cioè ha respinta e ha fatto astrazione da esso... La coscienza contiene
già in sè come tale la determinazione dell’essere per sè in quanto si
rappresenta un oggetto che sente, intuisce, ecc., in quanto cioè ha in sè il
contenuto 665 dell’oggetto stesso... Ma la coscienza di sè è l’esser per sè
compiuto e posto giacchè in essa l’aspetto del riferirsi ad altro, ad un
oggetto esterno, è superato» Wissenschaft der Logik, I, I, 3, A; trad. ital., I,
pag. 173-74). In questo senso la coscienza è per sè perchè ha annullato o tolto
di mezzo l’altro (l’oggetto esterno) e l’ha risolto in un suo proprio contenuto
interno. Sartre ha, nella filosofia contemporanea, ripreso questo concetto
chiamando «essere per sè » o senz'altro « per sè » la coscienza in quanto è
l’annullamento o « il niente » dell’oggetto, cioè dell’in sè (L’étre et le
néant, pag. 115 sgg.). Lo stesso significato è attribuito all’espressione da
Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945, pag. 423 sgg.). PERSEITÀ
(lat. Perseitas; ingl. Perseity; francese Perséîté). Termine adoperato nella
Scolastica (ma raramente) per indicare lo stato e la condizione di ciò che è
per sé (v.). PERSONA (gr. rpSowrov, èingorao; lat. Persona; ingl. Person;
franc. Personne; ted. Person). Nel senso più comune del termine: l’uomo nelle
sue relazioni con il mondo o con se stesso. Nel senso più generale (in quanto
la parola è stata applicata a Dio oltre che all’uomo): un soggetto di
relazioni. Si possono distinguere le seguenti fasi del concetto: 1° compito e
relazione-sostanza; 2° auto-relazione (relazione con se stesso); 3°
eterorelazione (relazione col mondo). 1° Il termine P. significa maschera (nel
senso di personaggio: ingl. Character; franc. Personnage; ted. Rolle) e proprio
in questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo
popolare per indicare i compiti rappresentati dall’uomo nella vita. Dice
Epitteto: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il
quale sarà o breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace
che tu rappresenti la P. di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente.
Il simile se ti è assegnata la P. di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo
comune. Atteso che a te si spetta solamente di rappresentare bene quella qual
si sia P. che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro » (Manuale,
17, trad. Leopardi; cfr. Dissertazioni, I, 29, ecc.). Il concetto di compito in
questo senso può essere ridotto a quello di relazione: un compito non è che un
complesso di relazioni che legano l’uomo a una data situazione e lo definiscono
nei rispetti di essa. La nozione di P. si rivelò perciò utile quando si trattò
di esprimere le relazioni che intercedono tra Dio e il Cristo (considerato come
il Logos o Verbo) e tra essi e lo Spirito; ma nel contempo fu la fonte di
fraintendimenti e di eresie. Difatti, da un lato la relazione sembrava alcunchè
di aggiunto, e di accidentalmente aggiunto, alla sostanza della cosa; 666 tale
almeno era il suo concetto nella filosofia tradizionale e in particolare in
quella aristotelica (v. RELAZIONE). Dall’altro, il nome stesso di P., evocando
la maschera da teatro, sembrava implicare il carattere apparente o non
sostanziale della persona. Di qui nacquero le lunghe dispute trinitarie che
caratterizzano la storia dei primi secoli del Cristianesimo e che portarono
alle decisioni del Concilio di Nicea (325). Per evitare il riferimento della
nozione di P. alla maschera, gli scrittori greci adottarono, invece di prosopon,
la parola hypostasis, che nel suo significato di «supporto » ben rivela le
preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma circa il carattere accidentale
che la relazione sembra avere per sua natura, molti padri della Chiesa non
trovarono di meglio che negare che la P. fosse relazione e insistere sulla sua
sostanzialità. Così faceva, ad es., S. Agostino, affermando che P. significa
semplicemente « sostanza » e che perciò il Padre è P. rispetto a sè (ad se) non
rispetto al Figlio, ecc. (De Trin., VII, 6). Boezio dava su questo fondamento
la definizione di P. che rimase classica in tutto il Medioevo: «P. è la
sostanza individuale di natura razionale » (De duabus naturis et una persona
Christi, 3, P. L., 64, col. 1345). Ma, come S. Tommaso notava (S. 7h., I, q.
29, a. 4, contra), lo stesso Boezio ammetteva che «ogni nome attinente alle P.
significa una relazione »; e d’altronde non c’era altro modo di chiarire il
significato delle persone divine oltre quello di chiarire le relazioni fra di
esse nonchè le loro relazioni con il mondo e con gli uomini. S. Tommaso
pertanto, in uno dei suoi testi più notevoli per chiarezza e forza filosofica
(a prescindere dal significato teologico-religioso), cioè nella sua
delucidazione del dogma trinitario, ripristina il significato del concetto di
P. come relazione, pure affermando nello stesso tempo la sostanzialità della
relazione in divinis. « Non c'è in Dio distinzione se non in virtù delle
relazioni di origine. Ma la relazione in Dio non è come un accidente che inerisca
al soggetto, ma è la stessa essenza divina sicchè è sussistente al modo stesso
in cui sussiste l’essenza divina. Come la deità è Dio così la paternità divina
è Dio Padre, che è P. divina: dunque la P. divina significa la relazione in
quanto sussistente; cioè significa la relazione nella forma della sostanza, che
è l’ipostasi sussistente nella natura divina; sebbene ciò che sussiste nella
natura divina non sia altro che la natura divina » (S. 7h., I, q. 29, a. 4). In
tal modo, insieme col carattere sostanziale o ipostatico della P., veniva
energicamente sottolineato il suo significato di relazione. Questo per ciò che
riguarda le P. divine. Per ciò che riguarda la P. in generale, S. Tommaso
affermava che, a differenza dell’individuo che di per sè è indistinto, PERSONA
«la P., in una natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura;
come nella natura umana significa queste carni e queste ossa e quest’anima che
sono i princìpi che individuano l’uomo » (/bid., I, q. 29, a. 4). Anche nel
senso comune la P. perciò è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. 2° A
partire da Cartesio, mentre s’indebolisce o vien meno il riconoscimento del
carattere sostanziale della P., si accentua la sua natura di relazione e
specialmente di autorelazione o relazione dell’uomo con se stesso. Il concetto
di P. inquesto senso si identifica con quello di Io come coscienza e viene
prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità
personale cioè l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke
afferma che la P. « è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e
riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli
è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che
è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso» (Saggio, II, 27, 11). La P. è
qui identificata con l'identità personale cioè con la relazione che l’uomo ha
con se stesso, e quest’ultima con la coscienza. Leibniz è d’accordo con Locke
su questo punto; ma insiste anche sull’identità fisica o reale come un’altra
componente della P., oltre l’identità morale o della coscienza (Nouv. Ess., II,
27, 9). Il rapporto consapevole dell’uomo con se stesso diventa da questo punto
in poi la caratteristica fondamentale della persona. Dice Wolff: «La P. è
l’ente che conserva la memoria di sè cioè ricorda di essere quello stesso che
precedentemente fu in questo o quello stato + (Psychol. rationalis, $ 741). E
Kant analogamente afferma: « Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio
io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla terra.
Per questo egli è una P. e, in forza dell’unità di coscienza persistente
attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, è una sola e medesima P.»
(Antr., $ 1). Hegel intendeva per P. il soggetto autocosciente in quanto
«semplice riferimento a sè nella propria individualità » (Fil. del Dir., 8 35).
Lotze dice: « L'essenza della P. non si richiama a una passata o presente
opposizione dell’io nei confronti del non io, ma consiste in un immediato
essere per sè» (Mikrokosmus, I, 1856, pag. 575). E Renouvier: «La coscienza
prende il nome di P. quando è portata a quel grado superiore di distinzione e
di estensione insieme, in cui essa attinge la conoscenza di sè e
dell’universale e il potere di formare concetti ed applicare quelle leggi
fondamentali dello spirito che sono le categorie + (Nouvelle monadologie, 1899,
pag. 111). Poichè la P. è in questo senso semplicemente la relazione dell’uomo
con se stesso, che è la definizione della coscienza, essa si identifica con la
coscienza; e PERSONALISMO tale identificazione è l’unico dato concettuale che
si può rintracciare in quella esaltazione retorica della P. che contrassegna
alcune forme contemporanee del personalismo (v.). 3° Contro la precedente
interpretazione della P. stanno ovviamente le posizioni filosofiche che si
rifiutano di ridurre l’essere dell’uomo alla coscienza e polemizzano contro la
forma più radicale di questa interpretazione, che è lo hegelismo. In questo
senso l'antropologia della sinistra hegeliana e del marxismo, per quanto non si
sia dichiaratamente preoccupata di illustrare il concetto di P., costituisce
l'avvio a un rinnovamento di tale concetto o la messa in luce di un aspetto sul
quale la tradizione filosofica era rimasta muta: cioè quello per il quale la P.
umana è costituita o condizionata essenzialmente dai « rapporti di produzione e
di lavoro » cioè dai rapporti in cui l'uomo entra con la natura e con gli altri
uomini per soddisfare i suoi bisogni (cfr. Marx, Deutsche Ideologie, I).
Dall'altro lato, la dottrina morale kantiana aveva già dato del concetto di P.
una caratterizzazione in termini di etero-relazione, cioè di relazione con gli
altri. Quando Kant diceva che «gli esseri ragionevoli sono chiamate persone
perchè la loro natura li indica già come fini in se stessi vale a dire come
qualcosa che non può essere adoperato unicamente come mezzo » (Grundlegung zur
Metaphysik der Sitren, IN), faceva consistere la natura della P., dal punto di
vista morale, nel rapporto inter-soggettivo. Tuttavia soltanto con la
fenomenologia il concetto di P. come etero-relazione fa il suo ingresso
esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l’io come il « polo di tutta
la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che essa crea »
(Carr. Med., $ 44) accentuava quella relazione ad altro in cui l’intenzionalità
consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la P. viene esplicitamente definita
corne + rapporto con il mondo». La P. è secondo Scheler definita essenzialmente
da tale rapporto, come l'io è definito dal rapporto con il mondo esterno,
l'individuo dal rapporto con la società, il corpo dal rapporto con l’ambiente.
Secondo Scheler «il mondo non è che il correlato oggettivo della P., quindi ad
ogni P. individuale corrisponde un mondo individuale» (Der Formalismus in der
Ethik, 1913, pag. 408). Le sfere oggettive che si possono distinguere nel mondo
(oggetti interni, oggetti esterni, oggetti corporei, ecc.) diventano concrete
soltanto come parti di un mondo che è il correlato di una P. cioè come dominio
delle possibilità d'azione della P. stessa. La P. in questo senso non va
confusa con l’anima, l’io o la coscienza: uno schiavo, ad es., è tutte queste
cose ma non è P. perchè non ha la possibilità d’agire sul proprio corpo e un
elemento del suo mondo gli sfugge 667 (Ibid., pag. 499). «La P., dice ancora
Scheler, è data solo là dove è dato un poter fare per mezzo del corpo e
precisamente un poter fare che non si fonda solo sul ricordo delle sensazioni
occasionate dai movimenti esterni e delle esperienze attive, ma precede l’agire
effettivo (/bid., pag. 499). Nonostante i numerosi e non sempre coerenti
andirivieni metafisici che Scheler ha fatto subìre alla sua dottrina, il suo
concetto della P. come di un « rapporto con il mondo » è stato fecondo anche
perchè è stato assunto come punto di partenza dall’analisi esistenziale di
Heidegger (Sein und Zeit, $ 10): la quale si è precisamente imperniata sul
concetto della P. umana, cioè dell’esserci, come rapporto con il mondo. Questo
concetto di P. che, come si è visto non coincide con quello di io, è stato
formulato in termini analoghi ed è abitualmente adoperato nelle scienze
sociali. Le definizione abitualmente ricorrente in tali scienze della P. come
«l’individuo provvisto di status sociale» fa riferimento appunto alla rete dei
rapporti sociali che costituiscono lo status della persona. La considerazione
della P., come dell’unità individuale con cui si ha a che fare nel dominio
considerato da quelle scienze, corrisponde alla stessa determinazione
concettuale del termine come di un agente morale, o un soggetto di diritti
civili e politici o, in generale, un membro di un gruppo sociale. L'uomo è P.
in quanto, in tali suoi compiti, è essenzialmente definito dalle sue relazioni
con gli altri. PERSONA CIVILE (lat. Persona Civilis; ingl. Juristic Person;
franc. Personne juridique; ted. Juristische Person). Secondo Hobbes la P. in
questo senso è «ciò a cui sono attribuite parole e azioni umane o proprie o
altrui»: se alla P. sono attribuite azioni proprie, si tratta di una P.
naturale, se le sono attribuite azioni altrui si tratta di P. artificiale (De
Homine, 15, $ 1). Questa di Hobbes è la più generale e nello stesso tempo
precisa definizione della P. civile e giuridica che sia stata data da filosofi.
Hegel stesso non fa che definire la P. in questo senso come generica «capacità
giuridica » (Fil. del dir., $ 36). PERSONALISMO (ingl. Personalism; francese
Personnalisme; ted. Personalismus). Il termine è stato ed è usato a designare tre
dottrine diverse ma connesse, cioè: 1° Una dottrina reologica cioè quella che
afferma la personalità di Dio, come causa creatrice del mondo, in polemica con
il panteismo che identifica Dio e il mondo. Questo è il senso originario in cui
il termine è stato adoperato per le prime volte da Schleiermacher (Reden,
1799), e poi da Goethe, Feuerbach, Teichmiiller, ecc. 2° Una dottrina
metafisica cioè quella secondo la quale il mondo è costituito da una totalità
668 di spiriti finiti che costituiscono nel loro insieme un ordine ideale nel
quale ognuno di essi conserva la sua autonomia. Questa concezione fu presentata
per la prima volta con il nome di P. da G. H. Howison, in polemica con Royce e
in generale con l’idealismo assoluto (nella discussione pubblicata con il
titolo The Conception of God, 1897). In seguito il termine fu usato per
designare la stessa concezione fondamentale da Renouvier (Le personnalisme,
1903) da W. E. Hocking e da altri scrittori in America dove fu creata anche una
rivista destinata a difenderla (The Personalist, 1919). Il P. in questo senso
non è che uno spiritualismo monadologico di stampo leibnizianolotziano; e il
termine P. è rimasto infatti in America a indicare la dottrina che in Europa si
chiama spiritualismo (v.). 3° Una dottrina efico-politica cioè quella che
insiste sul valore assoluto della persona e sui suoi legami di solidarietà con
le altre persone, in polemica contro il collettivismo da un lato, che tende a
vedere nella persona nient'altro che un’unità numerica, e l’individualismo
dall’altro che tende a indebolire i legami di solidarietà tra le persone. In
questo senso il termine è stato adoperato da Eugenio Diihring nella sua
Geschichte der NationalOkonomie del 1899; e ripreso, dopo la seconda guerra
mondiale, da E. Mounier (Le personnalisme, 1950) e, sulla sua scia, da numerosi
pensatori cattolici, sostenitori del P. metafisico. Nell’oratoria piuttosto
confusa, che è la caratteristica dominante di questo indirizzo, il tratto
concettuale che si riesce a scorgere è il concetto della persona come
auto-relazione o coscienza. PERSONALITÀ (ingl. Personality; franc.
Personnalité; ted. Personlichkeit). 1. La condizione o il modo d’essere della
persona. In questo senso il termine fu già usato da S. Tommaso (S. 7h., I, q.
39, a. 3, ad 4°) ed è comunemente usato dai filosofi (che spesso lo adoperano
come sinonimo di persona). 2. Nel significato tecnico della psicologia
contemporanea, la P. è l’organizzazione che la persona imprime alla
molteplicità dei rapporti che la costituiscono. In questo senso Nietzsche
parlava di persona e osservava che « alcuni uomini si compongono di più persone
e la maggior parte non sono affatto persone. Dovunque predominano le qualità
medie che importano affinchè un tipo si perpetui, essere una persona sarebbe un
lusso... si tratta di rappresentanti o di strumenti di trasmissione » (Wille
zur Macht, ed. 1901, $ 394). A questi concetti di Nietzsche sono vicini quelli
della psicologia contemporanea. Dice H. J. Eysenck: «La P. è la più o meno
stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento,
dell’intelletto e del PERSONALITÀ fisico di una persona: organizzazione che
determina il suo adattamento totale all’ambiente. Il carattere denota il più o
meno stabile e durevole sistema di comportamento conativo (volonta) della
persona. Il temperamento il suo più o meno stabile e durevole sistema di
comportamento affettivo (emozione); l’intelletto il suo più o meno stabile o
durevole sistema di comportamento cognitivo (intelligenza); il fisico il suo
più o meno stabile e durevole sistema di configurazione corporea e di dotazione
neuroendocrina » (The Structure of Human Personality, 1953, pag. 2). In questa
definizione in cui entrano elementi già accertati da Roback, Allport, McKinnon,
l’elemento dominante è costituito dal concetto di organizzazione, struttura o
sistema: cioè dall'elemento che consente la previsione probabile del
comportamento di una persona. Non molto diversa dalla precedente è quindi
l’altra definizione, puramente funzionale, data della P. allo scopo di rendere
possibili le ricerche ad essa relative; «P. è ciò che permette la previsione di
quello che una persona farà in una data situazione » (R. B. CATTEL,
Personality, 1950, pag. 2). Dalla P. in questo senso, l'io si distingue come
quella parte della P. stessa che è nota o aperta alla persona e a cui la
persona fa riferimento con quel pronome: parte che può non coincidere, e
abitualmente non coincide, con la totalità della P. (v. Io). PERSPICACIA (gr.
dvyylvora; lat. Perspicacitas; ingl. Perspicacity; franc. Perspicacité; tedesco
Scharfsinn). Prontezza di mente, secondo Platone (Carm., 160 a); giustezza di
mira, secondo Aristotele (Er. Nic., VI, 9, 1142b 6). La prima definizione
coglie la rapidità del processo intellettivo, l’altra la sua buona riuscita; e
sembrano definizioni complementari. Kant invece ha definito la P. come «la
capacità di notare le più piccole somiglianze e dissomiglianze »: capacità che
dà luogo a osservazioni che si chiamano sottigliezze o addirittura
sofisticherie, quando sono inutili (Ansr., I, $ 44) (v. SAGACIA). PERSPICUITÀ
(lat. Perspicuitas; ingl. Perspicuity; franc. Perspicuité; ted. Perspicuitàt).
È il termine latino che traduce il greco tvapyera (cfr. Cicer., Acad., II, 6,
17) (v. EvIDENZA). PERSUASIONE (gr. rei06; lat. Persuasio; inglese Persuasion;
franc. Persuasion; ted. Uberreduny). 1. Una credenza la cui certezza poggia su
basi prevalentemente soggettive, cioè private e incomunicabili. La distinzione
tra persuasione e insegnamento razionale fu stabilita già da Platone. «Il
pensiero, diceva Platone, si genera in noi per via di insegnamento, l’opinione
per via di persuasione. Il primo si fonda sempre su un ragionamento vero,
l’altra manca di questa base; l’uno rimane saldo di fronte alla P., l’altra se
ne lascia modificare » (7im., 51, e). PESSIMISMO 669 Kant espose chiaramente
questo stesso concetto: «Se la credenza ha il suo fondamento nella natura
particolare del soggetto, si chiama persuasione. La P. è una semplice apparenza
perchè il fondamento del giudizio, che è unicamente nel soggetto, viene
considerato come oggettivo. Quindi un tal giudizio ha solo una validità privata
e la credenza non si può comunicare + (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap.
II, sez. 3). Da questo punto di vista la pietra di paragone che consente di
distinguere tra P. e convinzione (v.) è «la possibilità di comunicare la
credenza e ritrovarla valida per la ragione di ogni uomo» (/bid.); la
convinzione è comunicabile, la P. non lo è. La distinzione kantiana è stata
accettata e semplificata da C. Perelmann e L. Olbrechts-Tytecha: « Ci
proponiamo di chiamare persuasiva un’argomentazione che pretende valere
soltanto per un uditorio particolare e di chiamare convincente quella che si
crede ottenga l’adesione di ogni essere razionale » (Traité de l’argumentation,
1958, $ 6). Talvolta, la P. è stata distinta dalla convinzione in quanto si è
ritenuto che essa coinvolga il sentimento oltre che la ragione e che pertanto
essa sola possa impegnare ciò che Pascal chiamava «l’automa », cioè i
comportamenti affettivi e abituali dell’uomo. Diceva Pascal: « Noi siamo automi
tanto quanto siamo spirito; di là viene che lo strumento per il quale la P. si
fa non è la sola dimostrazione » (Pensées, 252). D’Alembert ha espresso molto
bene questo punto di vista: «La convinzione tiene più allo spirito, la P. al
cuore; si dice che l’oratore deve non solo convincere cioè provare ciò che
enuncia, ma anche persuadere cioè toccare e commuovere. La convinzione suppone
qualche prova, la P. non sempre... Ci si persuade facilmente di ciò che fa
piacere; si è talvolta dolenti d’esser convinti di ciò che non si voleva
credere » (CEuvres posthumes, 1799, II, pag. 89). Altre volte la P. è stata
considerata come la forma superiore della certezza perchè connessa con la
stessa verità oggettiva. Così ha fatto Heidegger che l’ha intesa come «un modo
della certezza » e precisamente quello fondato sulla testimonianza dello stesso
« ente scoperto » cioè dello stesso vero (Sein und Zeit, $ 52). Analogamente
Jaspers ha posto la P. al di sopra della «conferma pragmatica » e della «
evidenza costrittiva » come il terzo ed ultimo grado della verità oggettiva
(Vernunft und Existenz, 1935, III, $ 3). Dall’altro lato, si è insistito sul
carattere «emotivo » della P., nel senso che essa farebbe appello a motivi «
non razionali » (C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944, cap. 6). Ciò che
emerge da queste indicazioni è il carattere privato e in una certa misura
incomunicabile della P. o per meglio dire dei motivi che sono a fondamento
della credenza in cui essa consiste. 2. L'atto o il procedimento del
persuadere, cioè l’indurre alla persuasione. PERSUASIVO (gr. mbavév; lat.
Persuasibile; ingl. Persuasive; franc. Persuasif; ted. Uberzeugend). Il
criterio della verità difeso dagli scettici della Nuova Accademia e in primo
luogo da Carneade. Persuasiva è la rappresentazione che appare vera, che può
anche essere falsa ma è per /o più vera. Diceva Carneade: « Poichè raramente ci
si imbatte nel caso di una rappresentazione vera, non ci si deve rifiutare di
credere alla rappresentazione che per lo più dice il vero: infatti giudizi e
azioni si regolano sul per lo più » (Sesto EMP., Adv. Math., VII, 175). La
rappresentazione persuasiva, secondo i seguaci di Carneade, deve poi essere
anche coerente e ponderata, sebbene questi caratteri non aggiungano nulla alla
sua persuasività (/bid., VII, 184). PESSIMISMO (ingl. Pessimism; franc.
Pessimisme; ted. Pessimismus). In generale, la credenza che lo stato delle
cose, in qualche parte del mondo o nella totalità di esso, è il peggiore
possibile. Il termine cominciò ad essere adoperato in Inghilterra, ai principi
del sec. x1X, per antitesi con ottimismo. La tesi del P. potrebbe perciò essere
espressa come il rovesciamento di quella dell’ottimismo, con l’asserzione che
il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili. Ma espresso in questa forma
il P. è un’intera metafisica e si può parlare di P. solo a proposito della
filosofia di Schopenhauer e dei suoi seguaci. Comunemente, però, si parla di P.
anche in un senso più limitato e parziale: cioè quando ricorre almeno una delle
tesi seguenti: 1° Nella vita umana i dolori superano i piaceri e la felicità è
irraggiungibile. In questa forma il P. fu difeso dal cirenaico Egesia, detto
«il persuaditor di morte » (Dioc. L., II, 8, 94). 2° Nella vita umana i mali
superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende malvagie, ignobili o
ripugnanti. In questa forma il P. fu difeso dal Padre apologista Arnobio ai
princìpi del rv secolo: la stessa esistenza dell'uomo appare ad Arnobio inutile
all'economia del mondo, il quale resterebbe immutato se l’uomo non ci fosse
(Adv. nationes, II, 37). 3° Ogni vita è in generale male o dolore. Questa è la
tesi del P. metafisico, quale si trova sostenuta nel Buddismo antico e da
Schopenhauer (Die Welt, I, $ 57 sgg.). 4° Il mondo è nella sua totalità la
manifestazione di una forza irrazionale: secondo Schopenhauer di una « Volontà
di vita » che dilania e tormenta se stessa (Die Welt, I, $ 61); secondo E.
Hartmann, di un principio inconscio che diventando progressivamente consapevole
distrugge le illusioni che reggono il mondo (Philosophie des Unbewussten,
1869). 670 PETITIO Tutte le forme del P. negano la possibilità del progresso e
in generale di ogni miglioramento nel campo specifico in cui si fanno valere.
Ciò che esse non negano è invece il carattere finalistico del mondo: che è
ammesso e difeso sia da Schopenhauer (Die Welt, I, $ 28) sia da Hartmann (Op.
cit.; trad. franc., II, pag. 65). La cosa è tanto più strana in quanto
l’essenza dell’ortimismo (v.) sta per l’appunto nel finalismo; e il P. pretende
di essere l’antitesi dell’ottimismo. PETITIO PRINCIPII. È la notissima fa/lacia
(v.), già analizzata da Aristotele (Top., VIII, 13, 162 b; Soph. El., 5, 167 b;
An. pr., II, 16, 64 b), consistente nel presupporre per la dimostrazione un
equivalente o sinonimo di ciò che si vuol dimostrare (cfr. Pietro Ispano, Summ.
Log., 7.53). G. P. PIACERE (gr. iSovh; lat. Voluptas; inglese Pleasure; franc.
Plaisir; ted. Lust). P. e dolore costituiscono le tonalità fondamentali di
qualsiasi tipo o forma di «emozione». La determinazione delle loro
caratteristiche dipende dalla funzione che si attribuisce alle emozioni ed è
perciò connessa con la teoria generale delle emozioni stesse. Qui c’è da
osservare che la parola conserva, nella tradizione filosofica, un significato
diverso da felicità anche quando viene collegata con questa: il P. è difatti
l'indice di uno stato o condizione particolare 0 temporanea di soddisfazione,
mentre la felicità è uno stato costante e duraturo di soddisfacimento totale o
quasi totale (v. FELICITÀ). La più famosa definizione del P. fu quella data da
Aristotele, che utilizzava d’altronde concetti platonici (Rep., IX, 583 sgg.;
Fil., 53c): «Il P. è l’arto di un abito che è conforme natura » (Er. Nic., VII,
12, 1153 a 14): nella quale si deve ricordare che abito significa «
disposizione costante ». Questa definizione serviva ad Aristotele a sganciare
il P. dalla sua connessione con la sensibilità: giacchè un abito può essere sia
sensibile che non sensibile. Dal Rinascimento in poi la funzione biologica del
P. fu quella sulla quale si fondarono le definizioni di esso. Telesio lo
considera come ciò che favorisce la conservazione dell’organismo (De rer. nat.,
IX, 2). Cartesio definì la gioia, ritenuta una delle sei emozioni fondamentali
come « l’emozione piacevole dell'anima nella quale consiste il godimento del
bene che le impressioni del cervello le rappresentano come suo» (Passions de
l’éme, $ 91). Spinoza affermava: « Per gioia intendo la passione per la quale
la mente sale ad una perfezione maggiore » (Er., III, 11): che è una parafrasi
della definizione aristotelica. Mentre ad una definizione biologica ritornava
Hobbes, vedendo nel P. il segno di un movimento giovevole al corpo, trasmesso
dagli organi senzienti al cuore (De Corp., 25, 12). Nietzsche affermava: «Il
P.: sensazione PRINCIPII di un accrescimento di potenza » (Wille zur Macht, ed.
Kròner, $ 660). Di fronte a queste teorie che si possono dire positive del P.,
sta la teoria negativa di Schopenhauer secondo la quale il P. è semplicemente
la cessazione del dolore, sicchè è conosciuto o sentito solo mediatamente,
attraverso il ricordo della sofferenza o della privazione passata (Die Welt, I,
$ 58). La psicologia moderna ha conservato i tratti tradizionalmente
riconosciuti al piacere. Ha cioè riconfermato la sua funzione biologica ma
nello stesso tempo ha riconfermato, sulla base dell’osservazione, il carattere
arrivo che Aristotele riconosceva al P. (cfr. J. C. FLugEL, Studies in Feeling
and Desire, 1955, pag. 118 sgg.). Principio di P. (ingl. Pleasure Principle;
tedesco Lustprinzip) ha chiamato Freud uno dei due princìpi fondamentali che
regolano il funzionamento mentale, e precisamente quello che dirige l’attività
psichica alla liberazione dal dolore. L’altro principio sarebbe quello di
rea/tà, per il quale la ricerca del P. non si effettua per le vie più brevi, ma
obbedendo alle condizioni imposte dal mondo esterno (7riebe und
Triebschicksale, 1915). PIANO (ingl. Plane; franc. Plan; ted. Schicht). Questa
nozione viene adoperata in filosofia per designare gradi o livelli dell’essere
caratterizzati da qualità proprie, cioè non riducibili a quelle di altri gradi
o livelli. Il concetto di P. fu in questo senso introdotto da Boutroux: «
Nell’universo, egli diceva, si possono distinguere parecchi mondi, che formano
come P. sovrapposti gli uni agli altri. Al di sopra del mondo della pura
necessità, cioè della quantità senza qualità, che è identico con il nulla, si
possono distinguere: il mondo delle cause, il mondo delle nozioni, il mondo
fisico, il mondo vivente e il mondo pensante» (De la contingence des lois de la
nature, 1874, Concl.). Ogni P. è caratterizzato secondo Boutroux: 1° da una
certa dipendenza dal P. inferiore; 2° dalla irreducibilità delle sue qualità
fondamentali e delle sue leggi specifiche alla qualità o alle leggi del P.
inferiore. In questo consisterebbe la contingenza della realtà. Una concezione
analoga è stata ripresa da N. Hartmann che ha distinto quattro piani della
realtà: l’inorganico, l’organico, lo psichico e lo spirituale (Der Aufbau der
realen Welt, 1940). Anche Hartmann ammette che ogni P. della realtà sia
regolato da leggi proprie e irreducibili; ma a differenza di Boutroux accentua
la dipendenza dei P. superiori dagli inferiori. Ad es., le leggi del mondo
psichico non sono riducibili a quelli del mondo organico, ma le presuppongono,
aggiungendosi ad esse: rappresentano perciò un super-dererminismo che si
aggiunge al determinismo delle leggi inferiori. Perciò la conclusione cui mette
capo l’analisi della straPLATONISMO 67) tificazione dell’essere fatta da
Hartmann non è la contingenza ma la super-necessità (v. LIBERTÀ). PICNATOMI
(ted. Pyknatomen). Così E. Haeckel chiamò gli atomi, dotati di movimento e di
sensibilità, che egli riteneva elementi costitutivi di ogni forma d'essere, in
quanto prodotti dal condensarsi (picnosi) della materia primitiva (Weltratsel,
1899; trad. ital., 1904, pag. 296 sgg.). PIETÀ. V. CoMPAssIoNE. PIETISMO (ingl.
Pietism; franc. Piétisme; tedesco Pietismus). Una reazione contro l’ortodossia
protestante che si determinò nell’Europa settentrionale e specialmente in
Germania nella seconda metà del xvii secolo. Il capo di questo movimento fu
Filippo Spener (1635-1705) e una delle sue figure più eminenti fu il
pedagogista Augusto Franke (1663-1727). Il P. intendeva ritornare alle tesi
originarie della Riforma protestante: libera interpretazione della Bibbia e
negazione della teologia; culto interiore o morale di Dio e negazione del culto
esterno, dei riti e di ogni organizzazione ecclesiastica; impegno nella vita
civile e negazione del valore delle cosiddette « opere» di natura religiosa. Da
quest’ultimo tratto deriva l’accoglimento, nelle istituzioni educative del P.,
di molti insegnamenti di carattere pratico e utilitario (cfr. A. RITSCHL,
Geschichte des Pietismus, 3 voll, 1880-86). PIGRIZIA DELLA RAGIONE. V. RAgION
PIGRA. PIRRONISMO (ingl. Pyrrhonism; franc. Pyrrhonisme; ted. Pyrrhonismus). La
forma estrema dello scetticismo greco, quale fu difesa da Pirrone di Elide che
visse al tempo di Alessandro Magno (che seguì nella sua spedizione in Oriente)
e morì verso il 270 avanti Cristo. Conosciamo la sua dottrina dai Si/loi (versi
scherzosi) di Timone di Fliunte e dalle esposizioni di Diogene Laerzio e di
Sesto Empirico. La tesi fondamentale del P. è la necessità di sospendere
l’assenso. Poichè per l’uomo le cose sono inafferrabili, l’unico atteggiamento
legittimo è quello di non giudicarle nè vere nè false, nè belle nè brutte, nè
buone nè cattive, ecc. Il non giudicare significa anche il non preferire o il
non rifuggire: sicchè la sospensione del giudizio è già di per se stessa
afarassia, cioè assenza di turbamento. Diogene Laerzio racconta che Pirrone
andava in giro senza guardare e senza scansar nulla, affrontando carri se ne
incontrava, precipizi, cani, ecc. (Dog. L., IX, 62). Un ritorno al P. si ebbe
più tardi, tra la fine dell’ultimo secolo a. C. e la fine del 1 secolo d. C.
per opera di Enesidemo di Cnosso, che insegnò in Alessandria, di Agrippa e del
medico Sesto Empirico. Quest'ultimo che svolse la sua attività tra il 180 e il
210 d. C. ci ha lasciato tre scritti: /potiposi Pirroniana, Contro i dogmatici,
Contro i matematici, che costituiscono la summa di tutto lo scetticismo antico.
La tesi pirroniana della sospensione dell’assenso è mantenuta rigorosamente; ma
come guida per la condotta della vita sono assunte l’apparenza sensibile e le
norme della vita comune (Ip. Pirr., I, 21) (cfr. Mario DAL PRA, Lo scetticismo
greco, 1950). PISTIS SOPHIA. Secondo la cosmogonia degli Gnostici è l’ultimo
degli Eoni (v.) cioè delle emanazioni, l’eone decaduto, che dà origine alla
materia (IePoLITO, Philosophumena, VI, 30 sgg.) (cfr. GNOSTICISMO). PITAGORISMO
(ingl. Pythagoreanism; francese Pytliagorisme; ted. Pythagoreismus). La
dottrina dell’antica scuola pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al
fondatore di essa, Pitagora, del quale ben poco si sa di certo e che
probabilmente non scrisse nulla. Le tesi caratteristiche del P. furono le
seguenti: 1° la dottrina della metempsicosi (v.) sulla quale erano fondate le
credenze mistiche e i riti della setta; 2° la dottrina che i numeri
costituiscono i principi o gli elementi costitutivi delle cose: dottrina, che
attraverso il platonismo, ha presieduto anche agli inizi della scienza moderna;
3° la dottrina che i corpi celesti (che i Pitagorici portavano a dieci per
ragioni di simmetria) girino tutti intorno a un fuoco centrale (hesria) di cui
il sole sarebbe un riflesso. Questa dottrina è il primo accenno di quello che
sarà, nell’età moderna, il sistema copernicano. Cfr. I Pitagorici,
Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro Cardini, Firenze, 1958 e
la bibliografia ivi contenuta. PIÙ-VITA, PIÙ-CHE-VITA (ted. Mehr Leben,
Mehr-als-Leben). Espressioni coniate da G. Simmel per indicare rispettivamente
il processo della vita e le forme cui esso dà luogo. Come «P.-vita », la vita è
il processo che supera continuamente i limiti che pone a se stessa. Come «
P.-che-vita » la vita è l'insieme delle forme finite che emergono dal processo
vitale e si contrappongono ad esso (Lebensanschauune, 1918, pagine 22-23).
PLASTICA, NATURA (ingl. Plastic Nature; franc. Nature Plastique; ted.
Plastische Natur). La forza P. o formativa, diretta ed emanata da Dio, ma
diversa da lui, cui è affidato il compito di ordinare la materia. È il concetto
della natura ectipa ammesso dai Platonici di Cambridge (v. EcTIPO). PLATONISMO
(ingl. Platonism; franc. Platonisme; ted. Platonismus). Gli elementi della
dottrina platonica che sono stati assunti, a partire da Aristotele, come
caratteristici di tale dottrina, possono essere ricapitolati nel modo seguente:
672 1° La dottrina delle idee secondo la quale oggetto della conoscenza
scientifica sono entità o valori che hanno uno status diverso da quello delle
cose naturali e caratterizzato dall’unità e dalla immutabilità (v. Ipea). In
base a questa dottrina la conoscenza sensibile, che ha per oggetto le cose
nella loro molteplicità e mutevolezza, non ha il minimo valore di verità e può
solo ostacolare l'acquisizione della conoscenza autentica. 2° La dottrina della
superiorità della saggezza sulla sapienza, cioè del fine politico della
filosofia: la quale ha come suo scopo finale la realizzazione della giustizia
nei rapporti fra gli uomini e quindi in ogni singolo uomo (v. SAPIENZA). 3° La
dottrina della dialettica come procedimento scientifico per eccellenza cioè
come metodo attraverso il quale la ricerca associata in primo luogo giunge a
riconoscere un’unica idea e in secondo luogo passa a dividere l’unica idea nelle
sue articolazioni specifiche (v. DIALETTICA). Questi sono anche i tre punti sui
quali Aristotele polemizzò con Platone e che, mentre segnano il distacco tra P.
e aristotelismo, sono rimasti attraverso i secoli a caratterizzare il P.
stesso. Essi, com'è ovvio, non esauriscono la dottrina originale di Platone,
che pertanto non coincide con il «P.». È da notare che le tesi su esposte non
caratterizzano il cosiddetto P. del Rinascimento. Ma in realtà questo P. è un
neoplatonismo, che si rifà alle tesi fondamentali del neoplatonismo antico
(v.). PLEROMA (gr. r\mpwue). Secondo lo gnostico Valentino (tr secolo) la
totalità della vita divina in quanto piena o perfetta (IRENEO, Adv. haer., I,
11, 1). PLURALISMO (ingl. Pluralism; franc. Pluralisme; ted. Pluralismus). x. A
partire da Wolff, questo termine è stato contrapposto ad egoismo (v.) come e
quel modo di pensare per cui non si abbraccia nel proprio io tutto il mondo, ma
ci si considera e comporta soltanto come cittadini del mondo» (KANT, Antr., I,
$ 2). Ma mentre il termine egoismo è rimasto a designare un atteggiamento
morale giacchè per la dottrina metafisica corrispondente è prevalso quello di
solipsismo (v.) il termine P. nell’uso che ne è stato fatto in seguito, ha
assunto un significato metafisico, passando a designare la dottrina che ammette
nel mondo una pluralità di sostanze. Di tale dottrina l’espressione tipica è la
monadologia di Leibniz; e in questo senso il termine è stato ripreso da alcuni
spiritualisti moderni (J. Warp, The Realm of Ends or Pluralism and Theism,
1912; W. JaMEs, A Pluralistic Universe, 1909). James ha soprattutto insistito
sull’esigenza cui il P. viene incontro: quella di considerare l’universo,
anzichè come una massa compatta in cui tutto è determinato nel bene o nel male
e non PLEROMA c’è posto per la libertà, come una specie di repubblica federale
in cui gli individui siano bensì solidali tra loro ma conservino la loro
autonomia e libertà. L’universo pluralistico è, secondo James, un pluriverso o
multiverso: la sua unità non è l’implicazione universale o l’integrazione
assoluta, ma continuità, contiguità e concatenazione: è una unità di tipo
sinechistico, nel senso dato a questa parola da Peirce (A Pluralistic Universe,
pag. 325). Un universo così fatto si differenzia dall’universo monadologico di
Leibniz proprio per il carattere non assoluto nè necessitante dell’unità che lo
costituisce. Dio stesso, nell'universo pluralistico, è finito. 2. Nella
terminologia contemporanea si indica spesso con questo nome il riconoscimento
della possibilità di soluzioni diverse di uno stesso problema o di
interpretazioni diverse di una stessa realtà o concetto o di una diversità di
fattori o di situazioni o di sviluppi nello stesso campo. Così si parla di « P.
estetico » quando si ammette che un'opera d’arte possa essere trovata « bella »
per motivi diversi, che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. E si
parla di P. sociologico quando si ammette o si riconosce l’azione di più gruppi
sociali relativamente indipendenti gli uni dagli altri. PLUSVALORE (ingl.
Surplus Value; francese Plus-value; ted. Mehrwert). Uno dei concetti
fondamentali dell'economia di Marx. Poichè il valore si genera dal lavoro e non
è altro che lavoro materializzato, se l’intraprenditore corrispondesse al
salariato il totale valore prodotto dal suo lavoro, non si avrebbe il fenomeno,
schiettamente capitalistico, del denaro che genera denaro. Ma poichè
l’intraprenditore corrisponde al salariato, non il corrispondente del valore da
lui prodotto, ma solo il costo della sua forza-lavoro (vale a dire ciò che
basta a produrla, il minimo vitale) si ha il fenomeno del P., che non è altro,
che quella parte di valore prodotto dal lavoro salariato, di cui il capitalista
si appropria (cfr. Kapital, I, sez. 3). PNEUMA (gr. mvedua; lat. Spiritus;
inglese Pneuma; franc. Pneuma; ted. Pneuma). Il termine ha ricevuto un
significato tecnico soltanto dagli Stoici che hanno inteso per esso quello
spirito o soffio animatore mediante il quale Dio agisce sulle cose,
ordinandole, vivificandole e dirigendole. « Pare agli Stoici, dice Diogene
Laerzio, che la natura sia un fuoco artefice diretto alla generazione, cioè uno
P. della specie del fuoco e dell’attività formativa (VII, 156; PLuT., De Stoic.
repugn., 43, 1054). Virgilio alludeva a questa concezione con i versi famosi: «
Spiritus intus alit Totamque infusa per artus, Mens agitat molem et toto se
corpore miscet » (En., VI, 726): ai quali versi Giordano Bruno ricorreva per
illustrare la sua concezione dell’Intelletto artefice o «fabro del mondo» (De
/a causa, POESIA 673 principio e uno, II). I maghi del Rinascimento parlavano
nello stesso senso dello spirito attraverso il quale l’anima del mondo opera in
tutte le parti dell'universo visibile (AGRIPPA, De Occulta philosophia, I, 14).
Nel senso stoico, il P. era stato inteso nel libro della Sapienza (I, 5-7,
ecc.). E in senso analogo, S. Paolo aveva parlato del « corpo pneumatico » che
egli contrapponeva al « corpo psichico + o animale, come quello che è vivo e
vivifica e risorgerà dopo la morte (I Cor., XIV, 44 sgg.). P., nella tradizione
cristiana, non è altro che lo Spirito Santo del quale S. Tommaso diceva: « Il
nome di spirito nelle cose corporee sembra significare un certo movimento o
impulso giacchè chiamiamo spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio
dell’amore di muovere e di spingere la volontà dell'amante verso l’amato. E
poichè la divina persona procede per via dell'amore col quale Dio è
convenientemente amato, essa si chiama Spirito Santo » (S. 7h., I, q.36, a. 1).
Infine dalla stessa dottrina dello spirito vivificante deriva quella degli
spiriti « psichici » « animali » 0 « corporei » che furono ammessi dalla
medicina antica (v. PNEUMATICI) e da quella medievale e di cui i filosofi fanno
spesso menzione. Menzionarono gli spiriti animali S. Tommaso (In Sent., IV, 49,
3; cfr. S. Th., I, q. 76, a. 7, ad 2°); e più tardi Telesio (De rer. nat., V,
5); Bacone (Nov. Org., II, 7; De Augm. Scient., IV, 2), Hobbes (De Corp., 25,
10) e specialmente Cartesio che ne riespose per conto proprio la dottrina (Passions
de lame, I, 10). Nel senso comune di aria o respiro, la parola viene invece
usata da alcuni filosofi che considerano l'anima come aria: per es., da
Anassimene, per il quale la dottrina non è che un corollario del principio che
tutto è aria (Fr. 2, Diels); e da Epicuro (Ad Herod., 63). PNEUMATICA. V.
PNEUMATOLOGIA. PNEUMATICI (gr. rvevuérixor; lat. Spiritales; ingl. Pneumatics;
franc. Pneumatiques; ted. Pneumatiker). Con questo termine sono stati indicati:
1° i seguaci della scuola medica di Galeno: il quale, ispirandosi agli Stoici,
aveva identificato nello pneuma (v.) il principio della vita e distingueva lo
pneuma psichico che ha sede nel cervello, il pneuma zotico o animale che ha
sede nel cuore e il pneuma fisico o naturale che ha sede nel fegato,
attribuendo a ciascuno di essi speciali funzioni nell’organismo; 2° alcuni
padri della Chiesa e alcuni gnostici che insistevano sulla distinzione, che si
trova nel Nuovo Testamento (v. PNEUMA) tra corpo psichico o animale e corpo P.
e sulla superiorità di quest’ultimo; 3° alcuni chimici del sec. xvn e xvin
(Boyle, Black, Cavendish, ecc.) che iniziarono le ricerche sui gas e scoprirono
un certo numero di elementi e composti gassosi. 43 — ABDAGNANO, Dizionario di
filosofia. PNEUMATOLOGIA o PNEUMATICA (ingl. Preumatology; franc.
Pneumatologie, Pneumatique; ted. Pneumatologie, Pneumatik). Leibniz introdusse
il termine pneumatica per indicare «la conoscenza di Dio, delle anime e delle
sostanze semplici in generale» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag.
199). Il termine voleva significare «scienza degli spiriti» e fu ripreso da
Wolff per indicare l’insieme della psicologia e della teologia naturale (Log.,
1728, Disc. Prel., $ 79). Crusius adottava il termine P. per indicare «la
scienza dell’essenza necessaria di uno spirito e delle distinzioni e qualità
che possono essere date a priori» (Entwurf der notwendigen Vernunft wahrheiten,
$ 424). Rosmini escludeva dalla P. la considerazione di Dio e la restringeva
allo studio degli « spiriti creati » cioè dell'anima umana e degli angeli
(Psico/., 1850, $ 27). D’Alembert restringeva il termine a significare « la
prima parte della scienza dell'uomo + cioè «la conoscenza speculativa
dell’anima umana » che indicava anche con il nome di metafisica particolare. La
conoscenza delle operazioni dell'anima invece costituiva per D’Alembert
l'oggetto della logica e della morale (Discours préliminaire de l’Encyclopédie,
in CEuvres, edizione Condorcet, 1853, pag. 116). Kant osservava a questo
proposito che la psicologia razionale non potrà mai diventare pneumatologia
cioè vera e propria scienza, allo stesso modo in cui la teologia non può
diventare teosofia (Crit. del Giud., $ 89). Il termine è ora caduto
completamente in disuso. POESIA (gr. rolnoc; lat. Poesia; ingl. Poetry; franc.
Poésie; ted. Dichtung). Una forma finale dell'espressione linguistica, di cui
il ritmo o la musica sia condizione essenziale. Si possono distinguere tre
concezioni fondamentali e cioè: 1° la P. come stimolo o partecipazione emotiva;
2° la P. come verità; 3° la P. come modo privilegiato di espressione
linguistica. 1° La concezione della P. come stimolo emotivo fu esposta per la
prima volta da Platone: « La parte dell'anima che nelle nostre private
disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete di lacrime e vorrebbe
sospirare e lamentarsi a suo agio. essendo questa la sua natura, è proprio
quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento.., Riguardo
all’amore, alla collera e a tutti i movimenti dolorosi o piacevoli dell'anima,
che sono inseparabili da ogni nostra azione, si può dire che gli stessi effetti
produca l'imitazione poetica: giacchè mentre bisognerebbe inaridirli essa li
innaffia e nutrisce e così rende padrone di noi quelle facoltà che dovrebbero
invece ubbidire affinchè noi divenissimo più felici e migliori » (Rep., X, 606
a-d). Platone osserva a questo proposito che il lato emotivo 674 dell’arte non
è minore per il fatto che in essa si tratta di emozioni altrui perchè «
necessariamente le emozioni altrui diventano nostre » (/bid., 606 b). Non c’è
dubbio pertanto che la caratteristica fondamentale della P. imitativa (nonchè
la ragione per la sua condanna) sia per Platone la partecipazione emotiva su
cui essa è fondata e il rafforzamento delle emozioni che a tale partecipazione
consegue. Giambattista Vico da un lato estese la partecipazione emotiva,
riconosciuta propria della P., all’intero universo; dall’altro tolse ad essa il
carattere di condanna che Platone le aveva attribuito. « Il sublime lavoro
della P., egli scrisse, è alle cose insensate dare senso e passione ed è
proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate fra mani e, trastullandosi,
favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità
filologico-filosofica ne approva che gli uomini del mondo fanciullo, per
natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 37). La P. è pertanto
secondo Vico legata ai «robusti sensi» e alle « vigorosissime fantasie » degli
uomini primitivi o bestioni; e il suo triplice scopo è quello di « ritruovare
favole sublimi confacenti all’intento popolaresco », di «perturbare all’eccesso
» e di « insegnare il volgo a virtuosamente operare» (/bid., II; cfr. Lettera a
Gherardo degli Angioli). Da questo punto di vista P. e filosofia stanno agli
antipodi e «la fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio »
(/bid., Degn. 36). Lo stesso concetto della P. come stimolo o partecipazione
emotiva si trova nella teoria dell’empatia (v.) che considera l’attività
estetica come la proiezione delle emozioni del soggetto nell’oggetto estetico.
L’empatia è, secondo il principale sostenitore della teoria Teodoro Lipps, un
atto originale, essenzialmente indipendente dall’associazione delle idee e
radicato profondamente nella stessa struttura dello spirito umano (Aesthetik I,
1903, pag. 112 sgg.): essa è così postulata come una facoltà a sè alla quale è
affidata, con la funzione di animare la bruta materialità del mondo esterno,
quella di rendere il mondo familiare e piacevole all’uomo. Infine l’ultimo
erede di questo concetto della P. è il neocempirismo contemporaneo. Sulla base
della distinzione tra l’uso simbolico del linguaggio e il suo uso emotivo,
nella P. è stata riconosciuta « la suprema forma del linguaggio emotivo » cioè
di quel linguaggio che ha unicamente lo scopo di stimolare « emozioni e
atteggiamenti » (I. A. RICHARDS, Principles of Literary Criticism, 1924; 148
ediz., 1955, pag. 273). La funzione simbolica (o scientifica) del linguaggio
consiste nel simbolizzare il riferimento all’oggetto e nel comunicare tale riferimento
all’ascoltatore cioè nel causare nell’ascoltatore il riferimento allo stesso
oggetto. Invece la funzione emotiva consiste nelPOESIA l’esprimere emozioni,
atteggiamenti, ecc., nell’evocarli nell’ascoltatore: funzioni che possono
essere comprese in quella della «evocazione » cioè della stimolazione
dell’emozione (C. K. OGDEN, I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1923, 10
ediz., 1952, pag. 149). Ovviamente, questo punto di vista non è che la
ripetizione quasi letterale del punto di vista platonico. E non diverso
significato ha la definizione data da C. Morris del discorso poetico come «
discorso principalmente valutativo-apprezzativo » cioè diretto a «ricordare e
sostenere valutazioni già raggiunte» o a «esplorare nuove valutazioni + (Signs,
Language and Behavior, 1946, V, 7). 2° La concezione della P. come verità
rimonta ad Aristotele. Aristotele riportò la P. alla tendenza all’imitazione,
che ritenne innata in tutti gli uomini come manifestazione della tendenza al
conoscere (Poer., 6, 1448 b 5-14). L’imitazione poetica ha, secondo Aristotele,
una validità conoscitiva superiore all’imitazione storiografica, perchè la P.
non rappresenta le cose realmente accadute ma «le cose ibili secondo
verisimiglianza e necessità » (/bid., 1451 a 38). Perciò essa «è più filosofica
e più elevata della storia perchè esprime l’universale mentre la storia esprime
il particolare. Si ha l’universale infatti quando a un individuo di una certa
indole accade di dire o di fare certe cose in base alla verisimiglianza e alla necessità,
ed è questo a cui mira la P. che dà nome al personaggio proprio in base a tal
criterio. Si ha invece il particolare quando si dice, ad es., che cosa fece
Alcibiade e che cosa gli capitò » (/bid., 9, 1451 b 1, 10). Queste famose
determinazioni aristoteliche equivalgono a porre la P. nella sfera della verità
filosofica: giacchè questa coglie l’essenza necessaria delle cose e l'essenza,
nel dominio delle vicende umane, è costituita dai rapporti di verisimiglianza e
necessità che sono oggetto della poesia. La P. pertanto non ha un grado di
verità inferiore alla filosofia ma ha la stessa verità della filosofia nel
dominio che le è proprio e che è quello dei fatti umani. Questa concezione
della P. ha dominato la tradizione filosofica, nella quale possono distinguersi
di essa due interpretazioni fondamentali: A) si può scorgere nella P. una
verità per grado o per natura diversa da quella intellettuale o filosofica; B)
si può scorgere nella P. la verità filosofica assoluta. A) La prima posizione è
quella con cui è nata l'estetica moderna. Baumgarten affermò che l’oggetto
estetico, la bellezza, è «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto
tale » e che perciò esso non coincide con l’oggetto dell’intelletto cioè con la
conoscenza distinta (Aesthetica, 1750-58, $ 14). Come perfezione della
conoscenza sensibile, la bellezza è universale, ma di un’universalità diversa
da quella della conoscenza perchè astrae POESIA dall’ordine e dai segni e
realizza una forma di unificazione puramente fenomenica (/bid., $ 18). In
particolare la P. è, secondo Baumgarten, « un discorso sensibile perfetto» tale
cioè che i suoi vari elementi (le rappresentazioni, i loro nessi, le voci o
segni che le esprimono) tendono alla conoscenza delle rappresentazioni
sensibili (Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus,
1735, $ 1-9). La determinazione « sensibile + chiarisce il carattere della P.
per il quale essa ha per oggetto rappresentazioni chiare, sì, ma confuse:
mentre le rappresentazioni chiare e distinte cioè complete e adeguate non sono
sensibili e quindi neppure poetiche, sicchè filosofia e P. non si trovano
insieme, richiedendo la prima quella distinzione di concetti che la seconda
respinge al di fuori del suo dominio (Medit., cit., $ 14). Analogamente Vico affermava:
« La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette
incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta quale questa or degli
addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere di tali primi
uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e
vigorosissime fantasie» (Sc. Nuova, 1744, II, Della sapienza poetica). Ma fu
Hegel che dette a questa tesi la migliore espressione. «La P., egli scrisse, è
più antica del linguaggio prosastico artisticamente formato. Essa è la
rappresentazione originaria del vero, è il sapere nel quale l’universale non è
stato ancora separato dalla sua esistenza vivente nel particolare, nel quale la
legge e il fenomeno, lo scopo e il mezzo non sono ancora stati contrapposti
l’uno all’altro, per poi venir di nuovo connessi con il ragionamento, ma si
comprendono l’uno nell'altro e attraverso l’altro. Perciò la P. non si limita
ad esprimere attraverso l’immagine un contenuto che è già conosciuto per sè
nella sua universalità, ma all’apposto, conformemente al suo concetto
immediato, essa rimane nell’unità sostanziale nella quale non ancora è stata
fatta una tale separazione o stabilito un tale rapporto + (Vorlesungen iiber
die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 239). Con ciò la P. (come l’intero
dominio dell’arte) rimane pur sempre, per Hegel, al di qua o al di sotto della
filosofia, nella quale soltanto l’Idea si rivela o si attua nella sua vera
natura, che è universalità o ragione, non immediatezza o immagine; ma appartiene
tuttavia, insieme con la filosofia e con la religione (alla quale anche è
subordinata) alla sfera della Verità assoluta. Nell’idealismo di derivazione
romantica il concetto di P. è rimasto sostanzialmente quello espresso da Hegel.
Croce, dopo avere insistito sulla priorità dell’arte rispetto alla conoscenza
intellettuale vera e propria, quindi sulla sua relativa autonomia di fronte
alla filosofia (con la quale però non ha mai negato 675 che l’arte condividesse
lo status di conoscenza), ha finito per insistere sempre più sui caratteri di
totalità e di universalità dell’espressione artistica: caratteri che
ravvicinano tale espressione alla verità filosofica. « L'espressione poetica,
egli scrisse, è, diversamente dal sentimento, una feorési, un conoscere e perciò
stesso, laddove il sentimento aderisce al particolare e per alto e nobile che
sia nella sua scaturigine, si muove necessariamente nella unilateralità della
passione, nell’antinomia del bene e del male e nell’ansia del godere e del
soffrire, la P. riannoda il particolare all’universale, accoglie sorpassandoli
del pari dolore e piacere e di sopra il cozzare delle parti contro le parti,
innalza la visione delle parti nel tutto, sul contrasto l'armonia,
sull’angustia del finito la distesa dell’infinito. Questa impronta di
universalità e di totalità è il suo carattere » (La poesia, 1936, pag. 8-9).
Con ciò il valore della P. veniva posto proprio nella sua teoreticità cioè
nella sua validità conoscitiva; e la P. veniva ad essere quello che già Hegel
aveva detto che fosse: una verità filosofica che si manifesta nell’immediatezza
dell'immagine anzichè nell’universalità del concetto. B) Accanto a questa
concezione sta l’altra che, pur essendo strettamente imparentata con essa, vede
nella P. non l’approssimazione alla verità assoluta ma la stessa verità
assoluta. Già Schiller si era espresso, a proposito della poesia in questi
termini. Nello scritto Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96) aveva
affermato che il poeta o è natura egli stesso cioè sente naturalmente e quindi
imita la natura; o si sente estraniato dalla natura e ne va in cerca
nostalgicamente configurandola come ideale. Nel primo caso, il poeta è ingenuo
come nell’antica Grecia; nel secondo caso è sentimentale, come nell'età
moderna. Ma in entrambi i casi, la P. è l'assoluto. Difatti la P. ingenua è
rappresentazione assoluta cioè conclusa, totale e definitiva; e la P.
sentimentale è rappresentazione dell’assoluto cioè di un ideale compiuto, per
quanto lontano, di perfezione (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 122 sgg.).
Schiller fu ben deciso a mantenere su questo punto la superiorità della P.
sulla filosofia: egli non esitava ad affermare che«l’unicoverouomo è il poeta e
nei suoi confronti il miglior filosofo è solo una caricatura » (Carteggio
Goethe-Schiller, 7-1-1795; trad. Santangelo). Questa tesi rappresenta
indubbiamente un filone importante e ben determinato della concezione romantica
della poesia. Diceva Schelling: «La facoltà poetica è ciò che nella prima
potenza è l’intuizione originaria; e viceversa, la sola intuizione produttiva
che si ripeta nella più alta potenza è ciò che noi chiamiamo facoltà poetica »
(System des transzendentalen Idealismus, 1800, VI, $ 3). La facoltà poetica
realizza in atto l’unità dell’attività conscia e dell’attività inconscia, che
costituisce 676 la natura dell’Io assoluto. « Ciò che chiamiamo natura è un
poema, chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. Ma se l’enigma si potesse
svelare noi vi conosceremmo l'odissea dello Spirito, il quale, per mirabile
illusione, cercando se stesso, sfugge se stesso» (/bid.). Nella filosofia
contemporanea questo punto di vista è stato riespresso da Heidegger: « La P. è
la nominazione fondatrice dell'essere e dell’essenza di tutte le cose; non è un
qualsiasi semplice dire ma è quello per il quale si trova inizialmente rivelato
tutto ciò che noi dibattiamo e trattiamo in seguito nel linguaggio di tutti i
giorni. In conseguenza, la P. non riceve mai il linguaggio come una materia da
manipolare e che gli sarebbe presupposta ma al contrario è la P. che comincia a
rendere possibile il linguaggio. La P. è il linguaggio primitivo di un popolo e
l’essenza del linguaggio dev'essere compresa a partire dall’essenza della P.»
(Holderlin und das Wesen der Dichtung, 1936, $ 5). Come linguaggio originario,
la P. è la verità stessa vale a dire la manifestazione o svelamento dell’Essere
(Holzwege, 1950, pag. 252 sgg.). 3° La terza concezione fondamentale è a prima
vista meno filosofica delle altre perchè non consiste nel riconoscere alla P.
un compito determinato in una metafisica particolare nè nel connetterla con una
determinata facoltà o categoria dello spirito o nel riservarle un posto
nell’enciclopedia del sapere umano, ma soltanto nel porre in luce certi tratti
che la P. possiede nelle sue più riuscite realizzazioni storiche e nel
riassumerli in una definizione generalizzante. Tuttavia questo è il solo
procedimento che può dar luogo a una definizione funzionale della P.: ad una
definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro
dei poeti. A tale definizione hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più
che i filosofi, per quanto anche questi hanno talora saputo cogliere aspetti
importanti di essa. Ovviamente, da questo punto di vista, la P., almeno a prima
vista, non è che un certo modo privilegiato di espressione linguistica:
privilegiato in virtù di una speciale funzione che gli si riconosca. Il
privilegio riconosciuto al modo poetico dell’espressione è frequentemente
determinato come «libertà ». Kant dopo aver detto che « le arti della parola »
sono l’eloquenza e la P., afferma: «L’eloquenza è l’arte di trattare un compito
dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell'immaginazione; la P. è
l'arte di dare ad un libero giuoco dell’immaginazione il carattere di un compito
dell’intelletto » (Crit. del Giud., $ 51). Qui la nozione di « giuoco » serve a
sottolineare il carattere libero dell’attività poetica nei confronti di
qualsiasi scopo uti-litario; e la nozione di « compito dell’intelletto » sta
POESIA a significare la disciplina che la P. si dà pur nella libertà del suo
giuoco. Da questo punto di vista la funzione dell’espressione poetica è la
liberazione del linguaggio dai suoi usi utilitari e la sua elaborazione in una
disciplina autonoma. Sugli stessi caratteri dell'espressione poetica ha
insistito Dewey. Se tra prosa e P. egli dice, non c’è una differenza
esattamente definibile, tra prosaico e poetico c’è un abisso in quanto sono
termini estremi limitativi di tendenze dell’esperienza. Il prosaico realizza il
potere delle parole di esprimere « per mezzo dell'estensione »; il poetico
quello di esprimere per mezzo dell’intensione. Il prosaico è questione di
descrizione e di narrazione e accumula dettagli; il poetico, inverte il
processo, « condensa e abbrevia, dando così alle parole un’energia di
espansione che è quasi esplosiva ». Perciò nella P. « ogni parola è
immaginativa, come fu in verità anche in prosa fino a quando, per il logorio
dell’uso, le parole non furono ridotte ad essere semplici enumeratori +» e «la
forza immaginativa della letteratura è un’intensificazione della funzione
idealizzante assolta dalle parole nel linguaggio ordinario » (Art as
Experience, 1934, cap. 10; trad. ital, pag. 284-85). L'intensione di cui parla
Dewey non è un'intensità emotiva, ma un’intensità espressiva, cioè una carica
maggiore del significato delle parole non consunte dall’uso. Ora che alla P.
sia affidata questa funzione di conservare e ripristinare nel linguaggio la sua
carica di significato, di ripulirlo e mantenerlo efficiente, di rinnovarlo e
perfezionarlo, è quanto hanno detto, da un secolo a questa parte, molti poeti
che hanno riflettuto sul loro proprio lavoro. Le tesi fondamentali della
concezione della P. elaborata o presupposta dai poeti moderni possono essere
ricapitolate nel modo seguente: 1° L'indipendenza della P. da ogni scopo
interessato o utilitario. Questo carattere venne espresso con la formula
dell’arte per l’arte, alla quale aderirono nel secolo scorso artisti come
Flaubert, Gautier, Baudelaire, Walter Pater, Oscar Wilde e Allan Poe.
L'obbiettivo contro cui questa formula è diretta è la subordinazione della P.
all’emozione o alla verità o al dovere; il suo significato positivo è la
libertà della P. nel senso in cui era stato affermato, per es., da Kant. «
Comporre semplicemente versi, scrivere un romanzo, scalpellare il marmo, son
cose che andavan bene una volta, dice Flaubert, quando non c’era la missione
sociale del poeta. Ora ogni opera deve avere il suo significato morale, il suo
ben dosato insegnamento; bisogna che un sonetto abbia una portata filosofica,
che un dramma pesti le dita ai monarchi e. che un acquarello ingentilisca i
costumi. L’avvocatume s'insinua dappertutto insieme con la smania di discutere,
di perorare e arringare» (Leftre dè POESIA Louise Colet, 18 settembre 1846). E
Gautier proclamava nell’editoriale introduttivo del periodico L’artiste (14
dicembre 1856): «Noi crediamo nell'autonomia dell’arte; per noi l’arte non è un
mezzo per un fine; un artista che persegue un obbiettivo diverso dal bello non
è, secondo noi, un artista ». La formula dell’arte per l’arte è perciò
sostanzialmente la difesa della P. contro ogni tentativo di farne lo strumento
di propaganda di uno scopo qualsiasi. 2° Il riconoscimento della bellezza come
unico fine della poesia. Poichè l’arte non può essere subordinata al bene o al
vero o a cose che pretendano avere tali caratteri, rimane, come suo unico fine,
la bellezza; e precisamente la bellezza formale cioè indipendente dai contenuti
che le sono offerti dall'emozione o dall’intelletto. Dice Flaubert: « Poeta
della forma! Ecce la gran parola ingiuriosa che gli utilitari gettano in faccia
ai veri artisti... Non ci sono bei pensieri senza belle forme e viceversa... Si
rimprovera chi scrive in buono stile di trascurare l’idea, il fine morale; come
se il compito del medico non fosse di sanare, quello del pittore di dipingere,
quello dell’usignolo di cantare e il fine dell’arte non fosse, anzitutto, il
bello +» (Lettre à Louise Colet, 18 settembre 1846). E Poe affermava: « La P. come
arte della parola è la creazione ritmica della bellezza. Il solo arbitro di
essa è il gusto: con l’intelletto o con la coscienza essa ha solo relazioni
collaterali. Ameno che non sia per caso, non si cura assolutamente nè del
dovere nè della verità » (« The Poetic Principle », Works, ed. Harrison, XIV,
pag. 275). 3° Il carattere oggettivo della bellezza, per cui essa è al di là
dell’emozione vissuta. Diceva Flaubert: « Meno si sente una cosa € più si è
atti ad esprimerla qual è (qual è sempre, in sè, nella sua universalità.
liberata da tutte le sue contingenze effimere), Bisogna però possedere la
facoltà di farla sentire a se stessi, facoltà che non è altro che il genio »
{Lettre à Louise Colet, 6 luglio 1852). E T. S. Eliot ha ribadito: «La P. non è
un libero movimento dell’emozione ma una fuga dall'emozione; non è
l'espressione della personalità, ma la fuga dalla personalità. Naturalmente
però solo coloro che posseggono personalità ed emozione sanno che cosa
s'intende dire accennando alla necessità della fuga da queste cose...
L'emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non può raggiungere questa
impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che dev'essere fatta»
(7hie Sacred Wood, 1920; trad. ital., pag. 124-25). Nello stesso senso Ungaretti
ha detto: « Tutta la mia attività poetica, dal 1919, si svolgeva in quel senso;
un senso più obbiettivo... cioè una proiezione e una contemplazione dei
sentimenti negli oggetti, un tentare di 677 elevare a idee e miti la propria
esperienza biografica » (La terra promessa, Nota di Leone Piccioni). 4° Il
carattere costruttivo della P. e costruito della bellezza. Su esso hanno
insistito Poe, Baudelaire e Valéry. Il primo ha descritto la costruzione di una
P. come una specie di lavoro artigiano (« The Philosophy of Composition » in
Works, ed. Harrison, XIV, pag. 196). Baudelaire dal suo canto ha insistito sul
concetto dell’arte come composizione: «Tutto l’universo visibile, egli ha
detto, non è che un magazzino di immagini e di segni ai quali l'immaginazione
darà un posto e un valore relativo; è una specie di foraggio che
l’immaginazione deve digerire e trasformare» («Salon de 1859 », (Euvres, ed. Le
Dantec, II, pag. 232). Ma è soprattutto Valéry che ha insistito, ai nostri
giorni, sul carattere dell’arte come costruzione: « Le creazioni dell’uomo,
egli ha detto, sono fatte o in vista del proprio corpo — e tale principio egli
chiama utilità — o in vista della propria anima; e questo egli cerca sotto il
nome di bellezza. Ma d’altra parte colui che costruisce o che crea, impegnato
com'è con il resto del mondo e col movimento della natura che tendono
perpetuamente a dissolvere, corrompere o rovesciare quel che egli fa, deve
ravvisare un terzo principio che tenta di comunicare alle proprie opere e che
esprima la resistenza che dev’essere da queste opposta al proprio destino di
periture. Crea insomma la solidità e la durata. Ecco le grandi caratteristiche
di un’opera completa. L'architettura soltanto le esige e le porta al punto più
alto. Ad essa io guardo come all’arte più completa » (Eupalinos, trad. ital.,
pag. 141-42). Il carattere architettonico dell’arte è così condizionato dalla
resistenza che essa incontra nelle forze naturali e dalla vittoria sopra questa
resistenza. Dall’altro lato un corollario, del carattere costruttivo o
architettonico dell’attività poetica è il controllo sull’ispirazione, controllo
sul quale aveva già insistito Baudelaire: « Un nutrimento sostanzioso e
regolare, egli aveva scritto, è la sola cosa necessaria agli scrittori fecondi.
L'ispirazione è decisamente la sorella del lavoro giornaliero. Questi due
contrari non si escludono più che non si escludano i contrari che costituiscono
la natura. L’ispirazione obbedisce, come la fame, come la digestione, come il
sonno» (« Conseils aux jeunes littérateurs +, 6, Euvres, ed. Le Dantec, II,
pag. 388). 5° L’insistenza sul carattere comunicativo della poesia. Diceva
Flaubert: « Il poeta deve simpatizzare con tutto e con tutti per comprenderli e
descriverli » (Lettre à M.Ile Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). E
Baudelaire: « Preferisco il poeta che si mette in comunicazione permanente con
gli uomini del suo tempo e scambia con essi pensieri e sentimenti tradotti in
un nobile linguaggio 678 sufficientemente corretto. Il poeta, situato su uno
dei punti della circonferenza dell’umanità, rinvia sulla stessa linea, in
vibrazioni più melodiose, il pensiero umano che gli fu trasmesso. Ogni vero
poeta dev’essere un’incarnazione» (« Pierre Dupont +, CEuvres, ed. Le Dantec,
II, pag. 404). 6° La ricerca della perfezione formale cioè dell’esattezza o
della precisione espressiva. Flaubert voleva che la P. fosse «precisa quanto la
geometria » (Lettre à Louise Colet, 14 agosto 1853) e affermava: « Più un’idea
è bella e più la frase è armoniosa. La precisione del pensiero fa (anzi è, essa
stessa) la precisione della parola» (Lettre à M.lle Leroyer de Chantepie, 12
dicembre 1857). Mallarmé ha insistito su quest’aspetto della P.: «L'arte
suprema, egli diceva, consiste nel lasciar vedere, col possesso impeccabile di
tutte le facoltà, che si è in estasi, senza aver mostrato come ci s’innalzava
verso le cime» (Lettre à Henri Cazalis, 27 novembre 1863). Valéry ha scritto
allo stesso proposito: «Ho cercato l’esattezza nei pensieri, sicchè,
palesemente generati dall’osservazione delle cose, si mutino, come per processo
spontaneo, negli atti della mia arte. Ho distribuito le mie attenzioni; ho
rifatto l'ordine dei problemi; comincio dove prima finivo per andare un poco
più in là... Avaro di fantasie, concepisco come se inseguissi » (Eupalinos;
trad. ital., pag. 91). E Ungaretti ha detto nello stesso senso: «Sognavo una P.
dove la segretezza dell’animo, non tradita nè falsata negli impulsi, si
conciliasse a una estrema sapienza di discorso » (Quaranta sonetti di
Shakespeare, Nota intr.). Mallarmé ha esteso la preoccupazione dell’esattezza
allo stesso segno scritto. « L’armatura intellettuale del poema, egli ha detto,
si dissimula e sostiene — ha luogo — nello spazio che isola le strofe e fra il
bianco della carta: significativo silenzio che non è meno bello a comporsi
degli stessi versi » (Lertre non datée à Charles Morice; cfr. Propos sur la
poésie, edizione Mondor, pag. 164). 7° Infine, e come ricapitolazione di tutti
gli aspetti precedentemente enumerati della P.: il compito ad essa attribuito
di tenere in efficienza il linguaggio. Questo compito è stato illustrato con
tutta l’energia e la chiarezza desiderabili da Fzra Pound. La funzione della
letteratura egli ha scritto « non è la coercizione o la persuasione per via
emotiva» nè il forzare la gente a una certa opinione. « Essa riguarda la
chiarezza e il vigore di qualsiasi pensiero e opinione. Riguarda la
preservazione e la pulizia stessa degli strumenti, la salute della sostanza
stessa del pensiero. Tranne che nei casi rari e limitati di invenzione nelle
arti plastiche o nella matematica, l’individuo non può pensare e comunicare il
suo pensiero, il reggitore e il legislatore non possono agire efficacemente e
redigere le POETICA loro leggi, senza le parole, e la solidità e validità di
queste parole sono affidate alla cura dei maledetti e disprezzati letterati »
(Literary Essays; trad. ital., pag. 47). Da questo punto di vista « mantenere
efficiente il linguaggio è altrettanto importante ai fini del pensiero come in
chirurgia tener lontano dalle bende i bacilli del tetano » e questo compito è
proprio della P. che « è semplicemente linguaggio carico di significato al
massimo grado possibile + (Ibid., pag. 49). C’è un triplice modo in cui la P.
esegue questo compito e perciò ci sono tre generi di P.: la melopea, per cui
«le parole sono caricate, al di là del loro significato comune, di qualche
qualità musicale che condiziona la portata e la direzione di quel significato
»; la fanopea, che è «un proiettare le immagini sulla fantasia visiva +; e la
/ogopea, per cui le parole vengono usate non solo nel loro significato diretto
ma anche in vista delle consuetudini d’uso, del contesto, delle concomitanze
abituali, delle accezioni note e del giuoco ironico (/bid., pag. 52). Non c’è
dubbio che queste notazioni di Pound costituiscono il punto culminante
dell’estetica contemporanea della poesia. POETICA. V. ESTETICA. POIETICO (gr.
romuxés; ingl. Poietic; francese Poietique; ted. Poietik). Produttivo o
creativo, in quanto distinto da pratico. Secondo Aristotele l’arte è produttiva
mentre l’azione non lo è (£r. Nic., VI, IV, 1140a 4). Plotino chiamava P. le
cause efficienti (Enn., VI, 3, 18, 28). V. ENCICLOPEDIA. POLARITÀ (ingl.
Polarity; franc. Polarité; ted. Poldritar). La connessione necessaria di due
princìpi tra loro opposti. In questo senso il concetto fu adoperato da
Schelling nello scritto Sull'amima del mondo (1798). L’anima del mondo, secondo
Schelling, agisce nella natura mediante le due forze opposte della attrazione e
della repulsione, il cui conflitto costituisce il dualismo e la cui
unificazione costituisce la P. della natura (Werke, I, II, pag. 381). Talvolta
il concetto di P. è stato generalizzato in un vero e proprio principio. Così ha
fatto, nella filosofia contemporanea, Morris R. Cohen che l’ha inteso come « il
principio non dell’identità ma della necessaria compresenza e reciproca
subordinazione delle determinazioni opposte +. Nella fisica, questo principio
sarebbe rappresentato dalla legge di azione e reazione e da quella che là dove
c’è forza c’è resistenza. In biologia, sarebbe espresso dall’aforisma di Huxley
che il protoplasma riesce a vivere solo morendo di continuo. Nell’etica, si
esprimerebbe nella dipendenza reciproca tra sacrificio di sè e realizzazione di
sè (/nrroduction to Logic, IV, 2; trad. ital., pag. 125). POLEMICO (ingl.
Polemic; franc. Polémique; ted. Polemisch). Kant ha inteso per « uso P. della
ragione » la difesa degli enunciati di essa contro POLITICA le negazioni
dogmatiche. Le negazioni dogmatiche degli enunciati razionali sono le negazioni
scettiche, considerate da Kant come le posizioni di un dogmatismo negativo,
semplicemente preparatorio rispetto ad una critica della ragione cioè ad un
esame dei limiti e dei confini precisi della ragione stessa (Crit. R. Pura,
Dottrina trascendentale del metodo, cap. 1, sez. 2). POLIADICO (ingl.
Polyadic). Nella logica contemporanea sono qualificati con questo termine gli
enunciati (o le relazioni) costituiti da tre o più termini: per es.,
l’enunciato «Tizio deve a Caio mille lire» dove compaiono tre termini, Tizio,
Caio e mille lire (cfr., ad es., DEWEY, Logic, XVI; trad. ital., pag. 413
sgg.). POLIGENESI. V. ORTOGENESI. POLIGONIA. Gioberti parlò di una «P. del
cattolicesimo » cioè del rifrangersi della parola rivelata nell’individualità
dei singoli pur mantenendosi una, come uno è il poligono sebbene abbia infiniti
lati (Riforma cattolica, ed. Balsamo-Crivelli, pag. 147-48). Lo stesso che
multilateralità. POLILEMMA (ingl. Polilemma; franc. Polilemme; ted. Polilemma).
Termine moderno per indicare un dilemma (v.) a tre o più alternative (TRroxLER,
Logik, II, 1829, pag. 102; B. ERDMANN, Logik, 1892, $ 75). POLIMATIA (gr.
roQvpadia). Il saper molte cose. Disse Eraclito: «Il saper molte cose non
insegna ad avere intelligenza; altrimenti l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a
Pitagora e tanto più a Senofane e ad Ecateo» (Fr. 40, Diels). Kant ha chiamato
P. il possesso delle conoscenze razionali, mentre polistoria sarebbe il sapere
storico o dei fatti e pansofia l'insieme dei due (Logik, Intr., $ VI).
POLISEMIA (ingl. Polysemy; franc. Polysémie; ted. Polysemie). La diversità dei
riferimenti semantici (dei « significati ») posseduti da una stessa parola
(cfr. BréAL, Essai de sémantique, cap. 14; S. ULLMANN, The Principles of
Semantics, 2* ediz., 1957, pag. 63, 114, 174). POLISILLOGISMO (ingl.
Polysyllogism; franc. Polysyllogisme; ted. Polysyllogismus). Termine
settecentesco per indicare un sillogismo molteplice o composto, cioè una catena
di sillogismi. Tale catena può essere ordinata in modo tale che ogni sillogismo
sia il fondamento di quello che segue e la conseguenza di quello che precede.
Il sillogismo della serie che contiene la ragione della premessa di un altro
sillogismo è chiamato prosillogismo; quello che contiene la conseguenza di un
altro sillogismo è chiamato episillogismo (v.). Ogni catena di ragionamenti è
perciò costituita di prosillogismi e di episillogismi (WOLFF, Log., $ 492-94;
KANT, Logik, $ 86; HAMILTON, Leciures on Logic, $ 68; B. ERDMANN, Logik, $ 85).
679 POLITEISMO (ingl. Polytheism; franc. PoIythéisme; ted. Polytheismus). Sulla
nozione di P., v. Dro, 3, «). Il P. è ben lungi dall’essere una credenza
primitiva e grossolana, inconciliabile con la riflessione filosofica. Poichè
esso è presente già nella distinzione tra la divinità e Dio, sono in realtà
politeistiche molte filosofie talora assunte come tipicamente monoteistiche,
per es., quella di Aristotele. Il P. è stato talora esplicitamente difeso dai
filosofi moderni. Già Hume osservava nella Storia naturale della relîgione
(1757), che il passaggio dal P. al monoteismo non deriva dalla riflessione
filosofica ma dal bisogno umano di adulare la divinità per tenersela buona; e
che al monoteismo si accompagna spesso l’intolleranza e la persecuzione giacchè
il riconoscimento di un unico oggetto di devozione conduce a considerare
assurdo ed empio il culto di altre divinità (Essays, II, pag. 335 sgg.).
Nell’età moderna sulla superiorità del P. hanno insistito Renouvier
(Psychologie rationelle, 1859, cap. 25) e James (A Pluralistic Universe, 1909);
ma politeistiche sono molte altre dottrine, compresa quella di Bergson. Max
Weber ha considerato il P. come la lotta fra i diversi valori o le diverse
sfere di valori tra cui l’uomo deve prendere posizione e che non si conclude
mai con la vittoria di un valore solo. In questo senso il mondo dell’esperienza
non arriva mai al monoteismo ma si ferma al P. (Zwischen zwei Gesetze, 1916, in
Gesammelte Politische Schriften, pag. 60 sgg.). POLITICA (gr. rormxh; lat.
Politica; inglese Politics; franc. Politique; ted. Politik). Sotto questo nome
sono state intese più cose e precisamente: 1° la dottrina del diritto e della
morale; 2° la teoria dello Stato; 3° l’arte o la scienza del governo; 4° lo
studio dei comportamenti intersoggettivi. 1° Il primo concetto è quello esposto
nell’Etica di Aristotele. La ricerca intorno a ciò che dev'essere il bene e il
bene supremo sembra appartenere, dice Aristotele, alla scienza più importante e
più architettonica. «E questa pare che sia la politica. Essa infatti determina
quali scienze sono necessarie nelle città e quali, e fino a che punto, ciascun
cittadino deve apprenderle» (E. Nic., I, 2, 1094a 26). Questo concetto della P.
è rimasto lungamente nella tradizione filosofica. Diceva, ad es., Hobbes: «La
P. e l’etica, cioè la scienza del giusto e dell’ingiusto, dell’equo e
dell’iniquo, si può dimostrare a priori in quanto i princìpi coi quali si può
giudicare che cosa siano il giusto e l’equo o i loro contrari, cioè le cause
della giustizia, cioè le leggi o le convenzioni, li abbiamo fatti noi stessi»
(De Hom., X, $ 5). In questo senso Althusius intitolava il suo trattato sul
diritto naturale Politica methodice digesta (1603): e trattati di P. furono
considerati tutti gli scritti sul diritto naturale (v. DIRITTO). 680 2° Il
secondo significato del termine è quello esposto nella Politica di Aristotele.
«È chiaro, diceva Aristotele, che c'è una scienza cui spetta di cercare quale
sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta a soddisfare i
nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti
alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica. Poichè è quasi
impossibile che molti possano attuare la migliore forma di governo, il buon
legislatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma
di governo in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro
certe condizioni date + (Pol., IV, 1, 1288 b 21). In questo senso la P. ha due
compiti, secondo Aristotele: 1° quello di descrivere la forma di uno Stato
ideale; 2° quello di determinare la forma del migliore Stato possibile in
rapporto a circostanze date. Ed effettivamente la P. come teoria dello Stato ha
seguito o la via utopistica della descrizione dello Stato perfetto, secondo
l’esempio della Repubblica di Platone, o quella più realistica dei modi e delle
vie per migliorare la forma dello Stato, che è quella che Aristotele stesso
seguì in una parte del suo trattato. Le due parti tuttavia non sono sempre
agevolmente distinguibili e non sempre sono state distinte. Quando a partire da
Hegel lo Stato cominciò a essere considerato come « il Dio reale + (v. STATO) e
il carattere della divinità dello Stato fu accettato dalla scuola storica, la
P., come teoria dello Stato, volle avere carattere descrittivo e normativo
insieme. Così Treitschke delineava il compito di essa in questo senso: «Il
compito della P. è triplice: deve in primo luogo investigare, dall’osservazione
del mondo reale degli Stati, qual'è il concetto fondamentale dello Stato; in secondo
luogo indagare storicamente ciò che nella vita politica i popoli hanno voluto,
prodotto e conseguito e il perchè lo hanno conseguito; e in terzo luogo, ciò
facendo, essa giunge a scoprire alcune leggi storiche e a stabilire gli
imperativi morali » (Politik, 1897, Intr.; trad. ital, I, pag. 2-3). Come già
nell’opera del Treitschke, la P. come teoria dello Stato è stata spesso una
teoria dello Stato come forza: tale infatti essendo il significato di ogni
divinizzazione dello Stato (v.). 3° La P. come arte o scienza di governo è il
concetto che Platone espose e difese nel Politico con il nome di «scienza regia
» (Pol., 259a-b) e che Aristotele assunse come rerzo compito della scienza
politica. « Un terzo ramo della ricerca è quello il quale considera in che modo
un governo è sorto e in che modo, una volta sorto, può essere conservato per il
maggior tempo possibile » (Zbid., IV, 1, 1288 b 27). Fu questo il concetto
della P. di cui Machiavelli accentuò il crudo realismo con POLITICA famose
parole: «E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono
mai visti nè conosciuti essere in vero. Perchè elli è tanto discosto da come si
vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per
quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la ruina che la preservazione
sua; perchè uno uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono,
conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno
principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e
non usare secondo la necessità » (Princ., XV). In questo senso Wolff definiva
la P. come «la scienza di dirigere le azioni libere nella società civile o
nello Stato » (Log., Disc., $ 65). E questa è la scienza o l’arte politica cui
si fa più frequente riferimento nel discorso comune. Riferendosi appunto a
questo concetto Kant diceva: « Per quanto la massima: L’onestà è la migliore
P., implichi una teoria che la pratica purtroppo smentisce assai spesso,
tuttavia la massima parimenti teoretica l’onestà è migliore di ogni P., è al di
sopra di ogni obiezione, è anzi la condizione indispensabile della P.» (Zum
ewigen Frieden, Appendice, I). E Hegel dall’altro lato diceva: « Si è discusso
molto, un tempo, dell’antitesi tra morale e P. e dell’esigenza che la seconda
sia conforme alla prima. A questo punto conviene solo notare in generale che il
bene di uno Stato ha un diritto del tutto diverso dal bene del singolo e che la
sostanza etica, lo Stato, ha la sua esistenza, cioè il suo diritto,
immediatamente in un'esistenza non astratta ma concreta e che soltanto
quest’esistenza concreta, non una delle molte proposizioni generali, ritenute
per precetti morali, può essere principio del suo agire e del suo
comportamento. Anzi, la veduta del torto presunto che la P. deve sempre avere,
in questa antitesi presunta, si fonda ancora sulla superficialità delle
concezioni della moralità, della natura dello Stato e dei suoi rapporti dal
punto di vista morale» (Fil. del Dir., $ 337). Queste parole di Hegel non sono
che la riconferma del principio del machiavellismo. Ciò che Hegel chiama
l’esistenza dello Stato non è altro che la realtà effettuale di Machiavelli che
la P. dovrebbe sempre avere presente. Per quanto Hegel dichiarasse superata
l’antitesi tra P. e morale, il contrasto tra le due esigenze è tuttora vivo
nella pratica politica e nella coscienza comune e le forme di equilibrio, da
esse raggiunte, sono tuttora provvisorie e instabili. 4° Infine il quarto
significato di P. è quello che essa ha cominciato ad avere a partire da Comte e
si identifica con quello di sociologia. Comte chiamò Sistema di P. positiva
(1851-54) la sua massima trattazione di sociologia in quanto ritenne che i
fenomeni politici sono soggetti, sia POSITIVISMO nella loro coesistenza sia
nella loro successione, a leggi invariabili, il cui uso può permettere di
influenzare i fenomeni stessi. G. Mosca intese per P. proprio la scienza della
società umana in questo senso. Così egli giustificava il termine: « Noi lo
studio delle tendenze suddette [cioè delle « leggi o tendenze psicologiche
costanti alle quali ubbidiscono i fenomeni sociali :] chiamiamo scienza
politica. Ed abbiamo scelta questa denominazione perchè fu la prima usata nella
storia dello scibile umano, perchè ancora non è caduta in disuso ed anche
perchè il nome nuovo di sociologia che, dopo Augusto Comte si è da molti
scrittori adottato, non ha ancora una significazione ben determinata e precisa
e, nell’uso comune, comprende tutte le scienze sociali» (Elementi di scienza
politica, 1922, I, I, $ II). Ma in questo senso il termine è oggi diventato
improprio. POLITICISMO (franc. Politisme; ted. Politismus). La prevalenza o
l’importanza eccessiva che le esigenze politiche assumono talora, nella vita
moderna, rispetto alle altre esigenze, cioè alle esigenze scientifiche,
artistiche, morali, religiose, ePOLITOMIA (franc. Polytomie; ted. Polytomie).
La divisione non dicotomica. Kant osserva che la P. esige l’intuizione: o
l’intuizione a priori come accade in matematica o l'intuizione empirica come
nelle scienze della natura. In altri termini la P. è sempre empirica mentre la
dicotomia, fondata com'è sul principio di contraddizione, è a priori (Logik, $
115). POLIVALENTE, LOGICA. V. Terzo ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. POLIZETESI. V.
INTERROGAZIONE MULTIPLA. PONTE DEGLI ASINI (lat. Pons asinorum; ingl. Asses’ bridge; franc. Pont aux dines; tedesco
Eselsbrilcke). Così fu chiamato, per la sua apparente difficoltà, un diagramma
costruito dal logico Pietro Tartareto (la cui attività letteraria cade fra il
1480 e il 1490), che aveva lo scopo di aiutare lo studente a trovare il termine
medio nelle varie figure del sillogismo. Il diagramma è riportato da PRANTL,
Geschichte der Logik, IV, pag. 206. Il termine è stato talora esteso a indicare
un punto difficile di qualsiasi insegnamento o dottrina. POPOLO (lat. Populus;
ingl. People; francese Peuple; ted. Volk). Una comunità umana caratterizzata
dalla volontà degli individui che la compongono di vivere sotto lo stesso
ordinamento giuridico. L’elemento geografico non è sufficiente a caratterizzare
il concetto di P.: come Cicerone diceva, « P. non è qualsiasi agglomerato di
uomini in qualsiasi modo riunito, ma un agglomerato di gente associata dal
consenso allo stesso diritto e da una comunanza d’interesse » (Rep., I, 25,
39). 681 Al P. si contrappone pertanto la plebe che è l’insieme di quelle
persone le quali, pur vivendo insieme con il P., non partecipano allo stesso
ordinamento giuridico. Dall’altro lato il concetto di P. si distingue da quello
di razione (v.) perchè questo contiene un insieme di elementi necessitanti che
si assommano nella nozione di un comune destino al quale gli individui non
possano legittimamente sottrarsi. Dal concetto di P., il concetto di nazione
cominciò a formarsi quando, a partire da Montesquieu si misero in luce le cause
naturali e tradizionali (clima, religione, tradizioni, usi e costumi, ecc.) che
contribuiscono a formare quello che Montesquieu chiamò «spirito generale» o «
spirito della nazione » (Esprit des lois, XIX, 4-5). La differenza tra P., nazione
e plebe era abbastanza chiaramente stabilita da Kant (Antr., II, Il carattere
del popolo): ma il concetto di P. veniva spesso confuso con quello di nazione
nel nazionalismo ottocentesco (v. NAZIONALISMO; SPIRITO NAZIONALE). PORISTICO
(ingl. Poristic; franc. Poristique; ted. Poristik). Da porisma = corollario. Il
termine designa ciò che è un corollario o concerne un corollario. PORRE (gr.
v.8va; lat. Ponere; ingl. Posit; franc. Poser; ted. Setzen). Questo verbo è
stato usato nel linguaggio filosofico con due differenti significati: 1°
asserire o assumere come ipotesi; 2° P. in essere, produrre. 1° Il primo
significato è quello che già Platone e Aristotele usavano: il primo nel senso
di stabilire un’ipotesi (Teer., 191 c): il secondo in quello di stabilire una
premessa (An. Pr., I, 1, 24b 19) 0 ammettere una tesi (7op., II, 7, 113 a 28).
Corrispondentemente, la parola posizione vale genericamente asserzione e Kant
afferma che l’esistenza può essere posta, cioè asserita o riconosciuta, non
dedotta (Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins
Gottes, I, $ 2). Il verbo è comunemente usato ancor oggi specialmente nel senso
di assumere in via d’ipotesi o come assioma (v.). 2° Nel senso di P. in essere
o produrre o creare, il verbo fu usato da Fichte: « L'essere, l’essenza del
quale consiste puramente in ciò che esso pone se stesso come esistente è l’Io,
come assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone;
l’Io perciò è assolutamente e necessariamente per l’Io» (Wissenschaftslehre,
1794, $ 1). Quest’uso si conserva in tutta la tradizione dell’idealismo
romantico e in generale per ogni filosofia la quale identifichi ragione e
realtà e così l’atto logico del P. con l’atto reale del produrre. POSITIVISMO
(ingl. Positivism; franc. Positivisme; ted. Positivismus). Il termine fu
adoperato la prima volta da Saint-Simon per designare il metodo esatto delle
scienze e l’estensione di esso 682 alla filosofia (De la religion
Saint-Simonienne, 1830, pag. 3). Esso fu adottato da Augusto Comte per la sua
filosofia e per opera di Comte passò a designare un grande indirizzo filosofico
che, nella seconda metà del sec. xrx, ebbe numerosissime e svariate
manifestazioni in tutti i paesi del mondo occidentale. La caratteristica del P.
è la romanticizzazione della scienza: l’esaltazione di essa ad unica guida
della vita singola ed associata dell’uomo, cioè ad unica conoscenza, ad unica
morale, ad unica religione possibile. Come romanticismo della scienza, il P.
accompagna e stimola la nascita e l’affermazione dell’organizzazione
tecnico-industriale della società moderna ed esprime l’esaltazione ottimistica
che ha accompagnato l’origine dell’industrialismo. Si possono distinguere due
forme storiche fondamentali del P.: il P. sociale di Saint-Simon, Comte e
Stuart Mill, nato dall’esigenza di costituire la scienza a fondamento di un
nuovo ordine sociale e religioso unitario; e il P. evoluzionistico di Spencer
che estende a tutto l’universo il concetto di progresso e cerca di farlo valere
in tutti i rami della scienza (per il positivismo evoluzionistico, v.
EvoLuzioNismo). Le tesi fondamentali del P. sono le seguenti: 1° La scienza è
l’unica conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico valido:
pertanto il ricorso a cause o princìpi che non sono accessibili al metodo della
scienza non dà origine a conoscenze; e la metafisica che fa appunto tale
ricorso è priva di qualsiasi valore. 2° Il metodo della scienza è puramente
descrittivo, nel senso che descrive i fatti e mostra quei rapporti costanti tra
i fatti che sono espressi dalle leggi e consentono la previsione dei fatti
stessi (Comte); o nel senso che mostra la genesi evolutiva dei fatti più
complessi a partire da quelli più semplici (Spencer). 3° Il metodo della
scienza, in quanto è l’unico valido, va esteso a tutti i campi dell’indagine e
dell’attività umana; e l’intera vita umana, singola e associata, dev’essere
guidata da esso. Il P. ha presieduto alla prima attiva partecipazione della
scienza moderna all’organizzazione sociale e costituisce tuttora un concetto
della filosofia che rimane una delle alternative fondamentali di tale
disciplina: ciò anche dopo che sono state abbandonate le illusioni totalitarie
del P. romantico, cioè la sua pretesa di assorbire nella scienza ogni
manifestazione dell’uomo. POSITIVISMO GIURIDICO (ingl. Juridical Positivism;
franc. Positivisme juridique). Così Hans Kelsen ha chiamato la sua dottrina
formalistica del diritto e dello stato (Genera/ Theory of Law and State, 1945;
cfr. specialmente l’appendice « La dottrina del diritto naturale e il P.
giuridico +) (v. DiRITTO; STATO). POSITIVISMO GIURIDICO POSITIVISMO LOGICO
(ingl. Logica! Positivism; franc. Positivisme logique; ted. Neupositivismus).
V. EMPIRISMO LOGICO. POSITIVO (ingl. Positive; franc. Positif; tedesco
Positiv). 1. Ciò che è posto, stabilito o riconosciuto come un fatto. Leibniz
chiamava « verità P.» le verità di fatto, in quanto si distinguono dalle verità
di ragione perchè costituiscono « leggi che Dio si è compiaciuto di dare alla
natura» (Théod., Discours, $ 2). Nello stesso senso si parla di religione P.,
come religione che di fatto è stabilita e vige come un complesso di istituzioni
storiche, a differenza della religione naturale che può non valere di fatto; e
di diritto P. come diritto vigente in uno stato determinato, in
contrapposizione con il diritto naturale che può non avere validità di fatto.
Le espressioni «fatto P.» e «realtà P.» hanno valore analogo perchè designano
il fatto o la realtà riconosciuta o riconoscibile come tale in virtù di un
metodo obbiettivo. Il significato fondamentale del termine è pertanto, in
questa accezione: ciò che vige di fatto o ha realtà effettiva. Comte non faceva
che esprimere questo significato affermando: «Considerato nella sua accezione
più antica e più comune, la parola P. designa il reale r opposizione al
chimerico » (Discours sur l’esprit positif, $ 31). Il positivismo chiamò P. il
metodo della scienza in quanto diretto al riconoscimento puro e semplice dei
fatti e dei loro rapporti (v. PostTIVISMO). In senso non diverso Schelling
chiamò P. la conoscenza che considera l’atto con cui la realtà è posta. Egli
distinse le condizioni negative della conoscenza, che sono quelle senza cui la
conoscenza non è possibile, dalle condizioni P. che sono quelle per cui la
conoscenza diventa effettiva. Le prime sono le forme razionali dell’essere e
dicono ciò che l’essere può o dev'essere, le seconde esprimono l’esistenza
stessa e consistono sostanzialmente nella volontà di Dio di manifestarsi
(Werke, II, III, pag. 57 sgg.). 2. Lo stesso che affermativo. In questo senso
il termine ricorre in locuzioni come « dichiarazioni P.» o « notizie P.» o
anche per designare dottrine che caratterizzano i loro oggetti con
affermazioni, anzichè con negazioni; per es., «teologia P.» in contrasto con
teologia negativa; «esistenzialismo P.»+; ecc. 3. Lo stesso che positivista,
nel senso in cui da Comte in poi si dice « filosofi positivi ». POSIZIONE (gr.
Otorc; lat. Positio; inglese Posit; franc. Position; ted. Setzung, Position).
1. Assunzione non dimostrata: 1° della premessa di un ragionamento; 2°
dell’esistenza di qualcosa. 1° Nel primo senso il termine viene costantemente
usato da Aristotele (cfr. An. Post., I, 2, POSSIBILE 72a 15)e in tutta la
tradizione logica anche recente, nella quale viene talora esplicitamente
ridefinito (cfr. H. REICHENBACH, The Rise of Scientific Philosophy, 1951, pag.
240). 2° Kant distinse per la prima volta la P. relativa che è il
riconoscimento dell’essere predicativo,
cioè dell’essere espresso dalla copula, che pone in relazione due
determinazioni di una cosa, dalla P. assoluta che è il riconoscimento
dell’esistenza della cosa stessa. «In un esistente, diceva Kant, non è posto
nulla più che nel puro possibile (si tratta infatti dei predicati di essa); ma
attraverso un esistente è posto qualcosa in più che un puro possibile perchè si
tratta della P. assoluta della cosa stessa » (Der einzig méògliche Beweisgrund
zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, $ 3). Per Kant la P. è il
riconoscimento (empirico) di una esistenza; nell’idealismo romantico, a partire
da Fichte, la P. fu intesa come creazione. Dice Fichte: « Ciò il cui essere (o
essenza) consiste solamente in questo, che esso pone se stesso come esistente,
è I’Io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si
pone » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Il concetto di P. in questo senso non
si distingue da quello di creazione. Torna a distinguersi da esso l’uso che
invece ne ha fatto Husserl, che ha visto nella P. l'affermazione dell’esistenza
dell'oggetto intenzionale. Egli ha distinto la P. attuale che si ha quando
l’oggetto intenzionale è presente, dalla P. porenziale che si ha quando non lo
è (Ideen, I, $ 113). Husserl usa anche il termine posizionalità (tedesco
Positionalitàt) per indicare in generale il carattere, comune a tutte le
esperienze vissute, di porre l'oggetto intenzionale (come esistente o come
desiderato o come voluto, ecc.). Talvolta sono chiamati P. gli stessi oggetti
fisici in quanto non definibili in termini di esperienza ma riconosciuti
esistenti solo come utili intermediari tra l’esperienza e il linguaggio (QuINE,
From a Logical Point of View, II, 6). 2. Nella logica terministica medievale
una obbligazione (v.) e precisamente quella che consiste nell’obbligo di
sostenere una proposizione come vera (OckHam, Summa Log., III, III, 40).
POSSESSO (ingl. Possession; franc. Possession; ted. Besirz). 1. Una qualche
garanzia della possibilità di disposizione e d’uso di una cosa. Questo è il
concetto di Kant: « Ciò che è giuridicamente mio (mem juris) è ciò con cui io
sono così legato che l’uso che un altro potrebbe farne senza il mio consenso mi
danneggerebbe. Il P. è la condizione soggettiva della possibilità dell’uso in
generale» (Met. der Sitten, I, $ 1). La nozione di P. riguarda pertanto il
rapporto tra l’uomo e le cose ed esprime una certa garanzia (che può avere
significati e limiti diversissimi) della possibilità d’uso che un individuo
determinato ha nei confronti di una cosa 683 determinata. Solo impropriamente la
nozione di P. viene riferita ai rapporti tra le persone. 2. Nel significato più
generale, il termine designa qualsiasi relazione predicativa e esistenziale; e
si dice, per es., «La cosa x possiede la qualità a » o «L'oggetto x possiede
l’esistenza ». In questo senso l’uso del termine corrisponde a quello che
Aristotele ne fece contrapponendolo a privazione (cfr. Met., X, 4, 1055a 33)
(v. PRIVAZIONE). POSSIBILE (gr. cò Suvaréy; lat. Possibilis; inglese Possible;
franc. Possible; ted. Moglich). Ciò che può essere o non essere. Questa
definizione nominale è abitualmente presupposta dalle definizioni concettuali
che sono state date del termine, ma solo queste ultime consentono la
trattazione dei problemi propri della nozione. Le definizioni concettuali di
possibile possono essere: A) definizioni negative, di natura logica; 8)
definizioni positive. A loro volta quest'ultime possono essere: 1° definizioni
della possibilità reale; 2° definizioni della possibilità oggettiva. Le tre
classi di definizioni che così risultano corrispondono quasi perfettamente alle
tre specie del P. distinte da Aristotele nella metafisica: « Il P. significa:
1° ciò che non è di necessità falso; 2° ciò che è vero; 3° ciò che può essere
vero » (Mer., V, 12, 1019b 30). 1° Le definizioni negative del P. sono di
natura
logica e definiscono il P. come ciò che
non è necessariamente falso o non include contraddizione. Nel primo senso,
definiva il P. Aristotele nel passo citato. Questo concetto è rimasto nella
tradizione filosofica, sotto la denominazione di «P. /ogico» distinto dal «P.
reale». S. Tommaso lo chiama «P. assoluto» e dice che risulta ex habitudine
terminorum cioè dalla non ripugnanza del predicato col soggetto (S. 7h., I, q.
25, a. 3); Duns Scoto lo chiama P. logico e lo ritiene proprio della «
composizione dell’intelletto » in quanto i termini di essa non includono
contraddizione (Op. Ox., I, d.2, q. 6, a. 2, n. 10). Ockham ritiene che il P.
in questo senso non è altro che il non-impossibile (Summa Log., II, 25). Fu
questo il concetto su cui insistette Leibniz: «Quando vi dico che c’è
un'infinità di mondi P., intendo che non implichino contraddizioni, così come
si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia
possibili. Per essere P., basta che una cosa sia intelligibile » (Lettera a Bourguet,
1712, in Op., ed. Gerhardt, III, pag. 558). Leibniz distingueva il P. in questo
senso dal compossibile (v.) che è la possibilità oggettiva. La nozione di P. in
questo senso rimane fissata nella scuola wolffiana (WoLFF, Ontolog., $ 85;
Crusius, Vernunftwahrheîten, $ 56; LAMBERT, Dianoiologie, $ 39); e contro di
essa, che tuttavia riconosceva valida nei suoi limiti, Kant affermava la
nozione di possibilità oggettiva (Der einzig mogliche 684 Beweisgrund zu einer
Demonstration des Daseins Gottes, 1763, II, 1). I due teoremi fondamentali
propri di questa nozione del P. sono i seguenti: I) la riduzione del P. al
non-impossibile; II l’inferenza del P. dal necessario, nel senso che ciò che è
necessario deve essere possibile. Sono due teoremi strettamente connessi tra
loro. Aristotele li espresse per la prima volta nella famosa trattazione del P.
che ricorre nel De interpretatione. Il necessario deve essere P., ragionò
Aristotele, perchè, se non fosse P., sarebbe impossibile: il che è
contraddittorio (De Interpr., 13, 22b 28 sgg.). L’identificazione di P. con
non-impossibile è già chiara in questo ragionamento; ma ad ogni modo è resa
esplicita da Aristotele. Il quale osserva che sia nel caso di possibilità
appartenenti a enti immutabili, sia nel caso di possibilità appartenenti a enti
mutevoli è sempre vera la proposizione « non è impossibile che sia » (De Int.,
13, 23 a 13). La stessa dottrina veniva ripetuta da S. Tommaso con l’esplicita
limitazione al P. logico (Contra Gent., III, 86). E gli stessi teoremi ricorrono
nelle dottrine contemporanee sul possibile. Peirce dice: « È essenzialmente o
logicamente P. ciò che una persona che non conosce fatti ma è a giorno del
ragionamento e ha familiari le parole che esso comprende, è incapace di
dichiarare falso » (Coll. Pap., 4, 67). Qui la nozione di falso ha sostituito
quella di contraddittorio ma il P. viene sempre ridotto a ciò che non è falso.
Carnap a sua volta definisce il P. come il « non impossibile » (Meaning and
Necessity, $ 39-3). E tale definizione è quella più frequentemente seguita
nella logica contemporanea. Ovviamente, pertanto, la nozione del P. in questo
senso implica un concetto ben definito della impossibilità, cioè della
contraddizione o falsità logica. Ma questo concetto non sembra a disposizione dei
logici, stante il loro disaccordo sulla nozione contraria e complementare a
quella di impossibilità, cioè sulla nozione di necessità (v.). Ovviamente da
questo punto di vista l’opposto del possibile è l’impossibile. 2° La
definizione del P. come possibilità reale è quella che identifica il P. stesso
col potenziale (v.), e che vede nel potenziale ciò che è destinato
infallibilmente a realizzarsi. Fu per questa interpretazione che Diodoro Crono,
il famoso filosofo di Megara, affermava, con l'argomento vittorioso (v.), che
tutto ciò che è P. si realizza e che ciò che non si realizza non è P. (ARIST.,
Mer., 9, 3, 1046 b 29 sgg.; EPITTETO, Diss., II, 19, 1; CicERONE, De Fato, 6
sgg.). Diodoro Crono derivava da questo principio la tesi della necessità di
tutto ciò che è: nulla di ciò che è stato, è o sarà, ha potuto, può o potrà
essere diverso da come è stato, è o sarà. Ma lo stesso Aristotele, che
combatteva la tesi di Diodoro Crono facendo leva POSSIBILE sugli altri
significati di P., ammetteva talora il teorema fondamentale proprio di questa
concezione della possibilità: « Non può esser vero che qualcosa è P. ma non
sarà; giacchè in tal caso non vi sarebbero impossibilità » (Mer., IX, 4, 1047 b
3). Questa concezione del P. fu fatta propria dalla Scolastica araba a partire
da Avicenna. La divisione di Avicenna tra l’essere necessario e l’essere P. è
infatti la divisione tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è
Dio) e ciò che deriva il suo essere da altro (e queste sono le cose create).
Ciò che è P., da questo punto di vista, è tale finchè non è nulla; appena
comincia ad essere, questo è segno che sono presenti futte le condizioni o le
cause del suo essere ed esso è diventato necessario: s'intende, necessario per
altro (Met., II, 1-2; ALGAZEL, Mer., I, 8; ecc.). Questo «necessario per altro
» era il contingente (v.). Questa dottrina è stata molte volte ripetuta nella
storia della filosofia. Una delle sue migliori espressioni fu data da Hobbes:
«È impossibile l’atto per la cui produzione non ci sarà mai una potenza piena.
Poichè la potenza piena è quella nella quale concorrono tutte le condizioni che
si richiedono per produrre l’atto, se non ci sarà mai la potenza piena,
mancherà sempre qualcuna delle condizioni senza le quali l’atto non può prodursi:
sicchè questo atto non potrà mai prodursi, cioè sarà un atto impossibile.
L'atto che non è impossibile, è possibile. Perciò ogni atto P. deve verificarsi
ogni tanto: se non si verificasse mai, mai concorrerebbero tutte le condizioni
che si richiedono alla produzione di esso e sarebbe quindi, per definizione, un
atto impossibile, il che è contro l'ipotesi» (De Corp., 10, $ 4). Questa
elaborazione del concetto di P. non è che la ripetizione dell'argomento
vittorioso di Diodoro Crono: argomento che ricorre ogni volta che si riduce il
P. a una pofenzialità cui debbano essere presenti tutte le condizioni di
realizzazione e che perciò è destinata infallibilmente a realizzarsi. Questo è
il concetto che del P. aveva Hegel: il quale distingueva dalla mera possibilità,
che è «la vuota astrazione della riflessione in sè » cioè una semplice
rappresentazione soggettiva, la possibilità reale che si ha quando si danno
tutte le condizioni di una cosa sicchè la cosa deve diventare reale:
possibilità reale che, come è ovvio, non si distingue dalla necessità (Enc., $
147). La nozione della possibilità reale in questo senso è spesso adoperata dai
seguaci di Hegel, sia idealisti che marxisti. Spesso questa nozione è stata
adoperata per designare la predeterminazione degli eventi storici nelle loro
condizioni e quindi per fondare la possibilità di una previsione infallibile
dei futuri sviluppi della storia. Così ha usato il concetto G. Lukàcs
(Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; traduPOSSIBILE zione francese, 1960,
pag. 104 sgg.). Nello stesso significato di potenzialità il concetto viene
assunto in un libro di S. Buchanan nel quale la possibilità è definita come
«l’idea regolativa per l’analisi del tutto nelle sue parti » e le parti sono
definite come «le potenzialità del tutto » (Possibility, 1927, pag. 81 sgg.).
Infine, l’ultima illustrazione di questo concetto è la cosiddetta «legge modale
fondamentale» di N. Hartmann, che comprende le sei tesi seguenti: « 1° ciò che
è realmente P. è anche realmente effettuale; 2° ciò che è realmente effettuale
è anche realmente necessario; 3° ciò che è realmente P. è anche realmente
necessario e reciprocamente; 4° ciò il cui non essere è realmente P. è anche
realmente ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è anche realmente
impossibile; 6° ciò il cui non essere è realmente possibile è anche realmente
impossibile + (Moglichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Queste tesi non
sono altro che la riduzione esplicita del concetto di possibilità reale al
concetto di necessità: riduzione contro la quale veramente non si saprebbe
trovare alcuna obiezione. Fa parte di questa nozione del P. la riduzione del
concetto di P. o all’ignoranza o ad un fantasticare post factum. La prima via
fu seguita da Spinoza: « Chiamo P., le cose singolari, egli disse, in quanto,
considerando le cause da cui debbono essere prodotte, ignoriamo se esse siano
determinate a produrle » (Et., IV, def. 4; Cogit. Met., I, 3). La seconda via è
quella tenuta da Bergson: «Il P. è il miraggio del presente nel passato; e giacchè
sappiamo che l’avvenire finirà per farsi presente e l’effetto del miraggio
continua a prodursi, noi diciamo che nel nostro presente attuale, che sarà il
passato di domani, l’immagine del domani è già contenuta, sebbene non arriviamo
ad attingerla. Qui sta precisamente
l’illusione + (« Le possible et le réel», 1930, in La pensée et le mouvant, 38
ediz., 1934, pag. 128). Secondo questo
concetto, l’opposto del P. è il reale o attuale. 3° Il terzo concetto del P. è
quello della possibilità oggettiva, che risale a Platone. La possibilità di
agire o di subire un’azione fu da Platone assunta come la stessa definizione
dell’essere in generale (v. EsseRE) contro i materialisti da un lato e gli
idealisti dall’altro. « Dico che esiste tutto ciò che ha per natura la
possibilità di fare una cosa qualunque o di subire un’azione (e sia pure tutto
ciò in misura piccolissima e per una volta sola e rispetto alla cosa più
insignificante). E pongo perciò questa definizione: gli enti non sono altro che
possibilità » (Sof., 247 e). Aristotele definiva la possibilità in questo senso
come «ciò che può essere vero + (Mer., V, 12, 1019b 32). E S. Tommaso difendeva
questa possibilità contro il neces685 sitarismo arabo: « Il P. o contingente
che si oppone al necessario ha questo nel suo concetto, che non deve
realizzarsi necessariamente quando non è: giacchè esso non segue
necessariamente dalla sua causa +» (Contra Gent., III, 86). Ockham includeva lo
stesso concetto tra i significati del termine P., come « ciò che non è in atto
e tuttavia può essere » o che « non è nè necessario nè impossibile » (Summa
Log., II, 25). Il concetto leibniziano del compossibile (v.) non è che un’altra
espressione di questa stessa nozione della possibilità, la quale veniva difesa
da Kant fin dal periodo precritico, quando mostrava, in contrasto con la scuola
wolffiana, l’insufficienza del concetto di possibilità logica. « Che vi sia una
possibilità e che tuttavia non vi sia nulla di reale, è contraddittorio,
osservava Kant; giacchè, se non esiste nulla, neppure è dato nulla che sia
pensabile e ci si contraddice se ancora si vuole che ci sia qualcosa di P. »
(Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, I,
2, 2). O, in altri termini, « col togliere il materiale e i dati a ogni P.,
viene anche negata ogni possibilità » (/bid., I, 2, 3). Kant sembra qui negare
perfino la legittimità della nozione di P. logico. Altrove, ammette anche
questa possibilità: « Il concetto è P. tutte le volte che non si contraddice.
Questo è il carattere logico della possibilità e con ciò il suo oggetto è
distinto dal niki! negativum. Ma esso non può essere un concetto vuoto...
Questo è un ammonimento a non conchiudere senz'altro dalla possibilità (/ogica)
dei concetti alla possibilità (reale) delle cose (Crit. R. Pura, Dialettica,
II, cap. 3, sez. 4, nota [A 597, B 625]). La possibilità oggettiva o reale è
dunque fondata sui dati della esperienza ed è una possibilità che l’esperienza
sola, e non già il semplice concetto, autorizza ad ammettere. Non si tratta
tuttavia di una possibilità reale nel senso di cui al 2° cioè di una
potenzialità destinata infallibilmente a realizzarsi: «Le proposizioni che le
cose possono essere P. senza essere reali e che perciò non si possa concludere
dalla possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana» (Crif.
del Giud., $ 76). Kant chiama reale o trascendentale la possibilità che si
fonda sui dati dell’esperienza ma non la identifica con la necessità: essa
significa solo che al concetto può corrispondere un oggetto (Critica R. Pura,
Analitica dei Princ., cap. III [A 244, B 303)). Se Kant insisteva sulla
connessione del P. oggettivo con l’esperienza, Kierkegaard insisteva, in
polemica con Hegel, sull’indeterminazione del P. stesso. Rispondendo
negativamente alla domanda se il passato sia più necessario dell’avvenire,
Kierkegaard afferma che il P. non diventa necessario per il fatto che si
realizza, ma rimane P.: «Il passato 686 non è necessario nel momento in cui
diviene; non è divenuto necessario divenendo (che sarebbe una contraddizione);
e lo diviene ancora meno attraverso l’intendimento della persona ». In questo
caso infatti il passato guadagnerebbe ciò che l’intelletto perderebbe: cioè non
sarebbe inteso per quello che è, ma per un’altra cosa (Philosophische Brocken,
IV, Intermezzo, $ 4; trad. franc. pag. 162 sgg.). L’intera speculazione di
Kierkegaard è fondata su questa nozione della possibilità oggettiva e
indeterminata, mediante la quale egli illustra le nozioni di angoscia (v.) e di
disperazione (v.). Talvolta tuttavia lo stesso Kierkegaard fa uso di
espressioni che non sono rigorosamente compatibili con l’indeterminazione
oggettiva delle possibilità, come, ad es., «Ogni cosa è P.» o «tutte le
possibilità ». Considerando le possibilità come infinite si viene ad escludere
la loro indeterminazione e limitazione: difatti ciò che manca a una di esse per
realizzarsi infallibilmente può essere sopperito dalle altre, se sono infinite;
e le possibilità si trasformano allora in potenzialità necessarie. Nella
filosofia contemporanea tuttavia il concetto di possibilità oggettiva viene
inteso nel suo senso empiricamente determinato e finito. Peirce parla di «
possibilità sostanziali » (in opposizione alle possibilità logiche) come quelle
che sono fondate su informazioni che concernono i fatti e le loro leggi; e
ritiene che tali possibilità coinciderebbero con la necessità solo nell'ipotesi
di un’informazione onnisciente (Coll. Pap., 4.67). Dewey intende la
possibilità, nell’ambito della matematica e in generale della ricerca
scientifica, come possibilità di operazioni o di trasformazioni (Logic, XV e
XX, 3). Wittgenstein afferma che la possibilità è ciò che viene espresso da una
proposizione sensata; in quanto questa è distinta dalla tautologia, la
proposizione della logica o della matematica, che «non dice nulla », e dalla
contraddizione (Tractatus, 5.525). In altri termini, la proposizione sensata
non è altro, per Wittgenstein, che l’espressione della possibilità di un fatto.
Lukasiewicz e Tarski hanno formulato i principi di una logica del P., diretta a
evitare il determinismo (vedi i testi citati in TERZO ESCLUSO, PrincIPIO DEL).
Reichenbach ha a sua volta distinto, dalla possibilità logica, la possibilità
fisica e la possibilità tecnica: la prima significa qualcosa che non
contraddice alle leggi empiriche e la seconda qualcosa che è dentro il regno
dei metodi pratici conosciuti (« Verifiability Theory of Meaning », in
Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951 [80°], pag. 53).
Egli ha inoltre posto la possibilità fisica a fondamento della probabilità
(Theory of Probability, $ 74). Ma è chiaro che questo punto di vista può essere
generalizzato e che una possibilità oggettiva può essere individuata POSSIBILE
soltanto in un particolare contesto, cioè sulla base delle condizioni o delle
regole che vigono in un campo determinato. Ad es., per ciò che riguarda l’uomo,
la possibilità fisica che egli ha di effettuare un’azione determinata non
coincide necessariamente con le possibilità giuridiche o morali che gli sono
offerte dal sistema sociale in cui vive. Molte possibilità che il suo organismo
fisico gli consente di mandare ad effetto gli sono precluse dalle regole
giuridico-morali. Per ogni possibilità oggettiva, quindi, è indispensabile il
riferimento a un contesto di condizioni e di regole tecniche determinate e non
si può parlare di possibilità senza specificare questo contesto se non dando
luogo ad equivoci. Lo stesso vale, del resto, anche nel dominio delle scienze:
una possibilità logico-matematica non sempre è una possibilità fisica cioè tale
che può essere mandata ad effetto in base alle leggi della fisica, e via dicendo
(cfr. J. R. Lucas, The Concept of Probability, 1970, pag. 6 e passim). Nel
campo della metodologia storiografica, la nozione di possibilità oggettiva fu
chiarita indispensabile da Max Weber (Kritische Studien auf den Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; cfr. specialmente la seconda parte; trad.
ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 164sgg.; trad. ital., in
Z/ metodo delle scienze storico-sociali, pag. 207 sgg.); e viene adoperata
anche nelle più recenti trattazioni (ad es., W. Dray, Laws and Explanation in
History, 1957, VI, 3; cfr. STORIA; STORIOGRAFIA). Nel campo delle scienze
biologiche la nozione è stata utilizzata da Goldstein (Der Aufbau des
Organismus, 1934; trad. franc., 1951); e tende ad essere utilizzata nel dominio
psichiatrico (cfr., ad es., M. TORRE, « La categoria del possibile in
psicopatologia », in Note e Riviste di psichiatria, 1957). Inoltre la genetica
e la teoria dell'evoluzione fa un uso continuo di questo concetto designandolo
talvolta con altro nome (per es., con il nome di opportunità; cfr. G. Simpson,
The Meaning of Evolution, cap. XII, « The Opportunism of Evolution »). Nella
psicologia del comportamento il concetto è stato usato per definire la stessa
nozione di cosa (v.). Nella sociologia, i concetti che implicitamente o
esplicitamente fanno ricorso alla nozione del P. sono i più numerosi.
Lévy-Bruhl ha parlato del «limite del P.» come costitutivo dell’esperienza
razionale, perciò come deficiente o assente nella mentalità primitiva (Les
cernets, 1949; trad. ital., pag. 98 sgg.). L’intera teoria della probabilità,
comunque venga interpretata, assume a suo fondamento questa stessa nozione del
P. (cfr., ad es., REICHENBACH, Theory of Probability, $ 74; e Popper, che parla
della probabilità come di un « vettore nello spazio delle possibilità »; v.
PROBABILITÀ). Infine è quasi superfluo ricordare l’importanza che POTENZA la
nozione di possibilità oggettiva ha per la filosofia esistenzialistica che
trova in essa il suo principale strumento di analisi (v. EsISTENZIALISMO). È
chiaro che secondo questa terza interpretazione l'opposto del P. non è
l’impossibile ma il non-possibile. POSSIBILITÀ. V. PossIsiLe. POST HOC ERGO
PROPTER HOC. Celebre fallacia (v.), costituente un caso particolare della
fallacia non causa pro causa (cfr. ARISTOTELE, Soph. El., 5, 167 b), la quale
consiste nello stabilire una connessione causale, quindi necessaria, sulla base
di una connessione meramente accidentale o secondaria. Nel caso del post hoc
ergo propter hoc, il sofisma consiste nello stabilire, per il semplice fatto
che B viene dopo A, una connessione di causa ed effetto tra A e B. G.P.
POSTPREDICAMENTII (gr. pera tds xamrvoplas; lat. Postpredicamenta; ingl.
Postpredicaments; franc. Post-prédicaments; ted. Postpràdikamente). Con questo
termine cominciarono ad essere chiamati dai commentatori di Aristotele (per
es., da Filopono, vi secolo, In Car., 39a, 33) quei concetti che Aristotele
annunziò dopo le categorie nel libro che a queste s'intitola e cioè quelli di
opposizione (oppositio) di priorità (prius), di simultaneità (simul), di
movimento (motus) e di avere (habere) (Cat., 10-15). Per tali concetti vedi le
relative voci. POSTULATO (gr. attua; lat. Postularum; ingl. Postulate; franc.
Postulat; ted. Postulat). In generale una proposizione la quale si ammette, o
si chiede che sia ammessa, allo scopo di rendere possibile una dimostrazione o
un procedimento qualsiasi. Il termine è nato nelle matematiche ed è stato
illustrato da Aristotele correlativamente a quello di assioma (v.). Mentre gli
assiomi sono di per sè evidenti e vanno ammessi necessariamente pur non essendo
dimostrabili, il P., pur essendo dimostrabile, viene assunto e utilizzato senza
dimostrazione. Il P. inoltre è una proposizione che non è già ammessa o creduta
da colui al quale si rivolge (altrimenti sarebbe inutile chiedergli di
ammetterla); ed in questo differisce dall’iporesi (v.) che è anch’essa una
proposizione dimostrabile, non dimostrata, ma ritenuta vera da colui al quale
il discorso si rivolge (An. Post., 10, 76b 24 sgg.). La distinzione tra assiomi
e P. fu fatta propria da Euclide nei suoi Elementi: mentre gli assiomi
esprimono verità evidenti e sono chiamati da Euclide nozioni comuni, i P.
esprimono ciò che si richiede di ammettere e concernono l’esistenza di determinati
elementi geometrici. La distinzione tra P. e assioma è venuta meno nella logica
e nella matematica moderna (v. ASSIOMATICA). Kant chiamò « P. del pensiero
empirico » i principi a priori corrispondenti alle categorie della mo687
dalità, secondo i quali ciò che si accorda con le condizioni formali
dell’esperienza (intuizioni pure e categorie) è possibile; ciò che si accorda
con le condizioni materiali dell’esperienza (con le sensazioni) è reale; e ciò
la cui connessione con la realtà è determinata secondo le condizioni universali
dell’esperienza è o esiste necessariamente (Cri?. R. Pura, Analitica dei
principi, cap. II, sez. III, 4). Chiamò poi «P. della ragione pratica» le
condizioni che rendono possibile la moralità, cioè la libertà, l’immortalità e
l’esistenza di Dio (Crit. R. Pratica, Dialettica, sez. II). POTENZA (gr.
Sévapis; lat. Porentia; inglese Power; franc. Puissance; ted. Vermògen). 1. In
generale il principio, o la possibilità, di un mutamento qualsiasi. Questa fu
la definizione data da Aristotele del termine. Aristotele stesso distinse
questo significato fondamentale in vari significati specifici e precisamente:
a) la capacità di effettuare un mutamento in altro o in se stesso, che è la P.
attiva; b) la capacità di subire un mutamento, da altro o da se stesso, che è
la P. passiva; c) la capacità di mutare o essere mutato in meglio piuttosto che
in peggio; d) la capacità di resistere a qualsiasi mutamento (Mer., V, 12, 1019
a 15; IX, 1, 1046 a 4). Queste distinzioni sono rimaste pressochè immutate
nella tradizione filosofica (v. ATTO). L’intera tradizione medievale le ha
ripetute senza variazioni e ancora nel sec. xv Wolff le ripeteva in formule
epigrafiche che nulla mutano ai vecchi concetti (Ontologia, 1729, $ 716). Locke
stesso, nella sua analisi famosa della nozione, non ne aveva alterato il
concetto (Saggio, II, 21, 1). Il concetto implica tuttavia un’ambiguità
fondamentale perchè può essere inteso: A) come possibilità; B) come
preformazione e quindi predeterminazione o preesistenza dell’attuale. In
Aristotele e in tutti coloro che si rifanno alla metafisica aristotelica i due
significati sono entrambi presenti e vengono spesso confusi. Così quando
Aristotele difende il concetto della potenza contro la negazione che ne aveva
fatto Diodoro Crono (v. PosSIBILITÀ), intende la P. nel senso A); mentre quando
afferma « che non può essere vero dire che qualcosa è possibile ma non sarà»
(Mer., IX, 4, 1047 b 3); o quando afferma la superiorità dell’atto sulla P. in
base al principio che, senza l’atto, la P. non sarebbe (non ci sarebbe l’uovo
senza la gallina), egli intende la P. come preformazione e predeterminazione e
la considera come un modo d'essere diminuito o preparatorio dell'atto (/bid.,
IX, 8, 1049 b 4). Una confusione analoga si trova nel saggio di Bergson «Il
possibile e il reale» (1930), giacchè in esso Bergson, respingendo il concetto
di possibile come « non impossibile » cioè come « non impedito ad essere » lo
identifica invece 688 con quello di potenziale e considera il potenziale come
«il miraggio del presente nel passato » (La pensée et le mouvant, 3* ediz.,
1934, pag. 128-30). Poichè il concetto di potenziale fa costantemente
riferimento all'attualità o realtà, mentre quello di possibile non ha
necessariamente questo riferimento, le nozioni di preformazione, preesistenza e
predeterminazione possono essere considerate strettamente connesse con quella
di potenza. 2. Facoltà o potere dell’anima (v. FACOLTÀ). 3. Dominio o
predominio, come nell’espressione «volontà di P.». POTENZIAMENTO, LOGICA DEL.
Un tentativo di logica simbolica consistente nell’eliminazione delle leggi di
tautologia e di assorbimento e nell’introduzione dei simboli di potenza e di
coefficiente. Questo tipo di logica dovrebbe fondarsi sul principio che ogni
relazione modifica gli enti relativi: principio che è il contrario di quello
solitamente ammesso dalla logica simbolica contemporanea (cfr. P. Mosso,
Principi di logica del P., Torino, 1924; A. PASTORE, La logica del P., Napoli,
1936). POTERI DELLO STATO. V. Srato. PRAGMATICA (ingl. Pragmatics; franc.
Pragmatique; ted. Pragmatik). Una delle parti della semiotica (v.) e
precisamente quella che comprende l'insieme delle ricerche che hanno per
oggetto la relazione dei segni con gli interpreti, cioè la situazione in cui il
segno viene usato. Su questo aspetto della semiotica avevano già insistito C.
S. Peirce e Ogden e Richards; ma è stato soprattutto Morris a considerare la P.
come parte integrante della semiotica; e il punto di vista di Morris è
largamente accettato nella logica contemporanea (cfr. C. MORRIS, Foundations of
the Theory of Signs, 1938, cap. V; CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, 1939, $ 2). Le altre parti della semiotica sono la semantica e la
sintassi (v.). PRAGMATICO (gr. rpaypatiw6c; ingl. Pragmatic; franc.
Pragmatique; ted. Pragmatisch). L'aggettivo fu usato per la prima volta da
Polibio che distinse nettamente la storia « P.», che si occupa di fatti, dalla
storia che si occupa di leggende, come fa quella che parla della genealogia
delle famiglie e della fondazione delle città (IX, 1, 4). Polibio aggiunge pure
che la storia P. è la più utile a insegnare come l’uomo debba regolarsi nella
vita associata. L'aggettivo ha poi avuto un uso frequente nella storia politica
specialmente tedesca, a proposito di decisioni costituzionali delle quali si
voleva sottolineare il carattere meritorio e che perciò erano dette «sanzioni
P.+. Kant diceva: «Si chiamano P. le sanzioni che non derivano propriamente dai
diritti degli stati considerati come leggi necessarie ma da sollecitudine per
il benessere generale. Una storia è composta pragmaticamente quando rende
POTENZIAMENTO, LOGICA DEL prudenti cioè quando insegna alla società di oggi
come possa procurarsi il proprio vantaggio meglio o almeno altrettanto bene della
società di ieri» (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II, Nota). A sua volta
Kant chiama P. gli imperativi ipotetici della prudenza, che hanno in vista il
benessere (Ibid., JI, Nota). Chiama P. la fede che è fondata su un giudizio
soggettivo della situazione, per es., quella di un medico che non conosce bene
la malattia che deve curare (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. 2, sez.
3). E chiama P. la sua antropologia in quanto considera non ciò che l’uomo è
per natura, ma ciò che l’uomo stesso fa di sè (Antr., Pref.). Nel linguaggio
contemporaneo la parola ha ripreso il suo senso originario. Quando non si
riferisce a pragmatismo, designa semplicemente ciò che è azione o appartiene
all’azione. PRAGMATISMO (ingl. Pragmatism, Pragmaticism; franc. Pragmatisme;
ted. Pragmatismus). 11 termine venne introdotto in filosofia nel 1898 da una
relazione di W. James alla California Union nella quale James si riferiva alla
dottrina esposta da Peirce in un saggio del 1878 intitolato « Come render
chiare le nostre idee ». Alcuni anni più tardi Peirce dichiarava di avere
inventato il nome P. per la teoria che «una concezione, cioè il significato
razionale di una parola o di altra espressione, consiste esclusivamente nella
sua portata concepibile sulla condotta della vita»; e di aver preferito questo
nome a praticismo o praticalismo perchè questi ultimi, per chi conosce il senso
che la filosofia kantiana attribuisce a « pratico +, fanno riferimento al mondo
morale dove non ha luogo l’esperimento, mentre la dottrina proposta è per
l’appunto una dottrina sperimentalistica. Tuttavia nello stesso articolo Peirce
dichiarava che, di fronte all'estensione di significato che il P. aveva
ricevuto ad opera di W. James e di F. C. S. Schiller, preferiva il termine
pragmaticismo per indicare la sua propria concezione, strettamente
metodologica, del P. (« What Pragmatism Is +, The Monist, 1905; Coll. Pap. 5.
411-37). Lo stesso Peirce veniva in tal modo a distinguere due versioni
fondamentali del P. che possono essere così caratterizzate: 1° un P.
metodologico che è sostanzialmente una teoria del significato; 2° un P.
metafisico che è una teoria della verità e della realtà. 1° Il P. metodologico
non intende definire la verità o la realtà ma soltanto una procedura per
determinare il significato dei termini o meglio delle proposizioni. Diceva
Peirce nell’articolo del 1878 che solitamente si assume come la data di nascita
del P.: « È impossibile avere nella mente un’idea che si riferisca ad altro che
agli effetti sensibili delle cose. La nostra idea di un oggetto è l’idea dei
suoi effetti sensibili... Sicchè la regola per PRAGMATISMO raggiungere l’ultimo
grado di chiarezza nell’apprensione delle idee è la seguente: Considerare quali
sono gli effetti, i quali possono concepibilmente aver portata pratica, che
l’oggetto della nostra concezione pensiamo che abbia. La concezione di questi
effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto » (Chance, Love and Logic, 1,
2,$3; Coll. Pap., 5.401-2). Il principio da cui discende questa regola
metodologica è che « l’intera funzione del pensiero è quella di produrre abiti
di azione » cioè credenze. La regola proposta da Peirce era pertanto suggerita
dall’esigenza di trovare un procedimento sperimentale o scientifico per fissare
le credenze; intendendo per procedimento scientifico o sperimentale quello che
non fa ricorso al metodo dell'autorità o al metodo a priori (Ibid., I, 1, $ 2,
pag. 9 sgg.). Allo stesso tipo di P. si può dire appartenga quello di Dewey
che, per evitare ogni equivoco, preferì il termine strumentalismo (v.).
«L'essenza dello strumentalismo pragmatico, egli scrisse, è quella di concepire
sia la conoscenza sia la pratica come mezzi per rendere sicuri, nell'esistenza
sperimentata, i beni, cioè le cose eccellenti di qualsiasi specie» (7he Quest
for Certainty, 1929, pag. 37). Da questo punto di vista Dewey condivideva lo
sperimentalismo di Peirce perchè riteneva che « la sperimentazione entra nella
determinazione di ogni proposizione garantita » (Logic, 1939, pag. 461); e
metteva in luce il carattere strumentale od operativo di tutti i procedimenti
del conoscere, considerati come mezzi per passare da una situazione
indeterminata a una situazione determinata cioè nello stesso tempo distinta e
unificata (Logic, cap. VI). Sono pertanto abbastanza ovvie le parentele
strettissime di questo tipo di P. da un lato con la metodologia scientifica
contemporanea e in particolare con l’operazionismo (v.) e dall’altro lato con
le impostazioni fondamentali della logica simbolica. Su quest’ultimo aspetto,
insistettero i pragmatisti italiani Giovanni Vailati e Mario Calderoni. Il
primo osservava a questo proposito che il fondamentale punto di contatto tra
logica e P. «sta nella loro comune tendenza a riguardare il valore, e il
significato stesso, di un’asserzione come qualche cosa di intimamente connesso
all'impiego che si può o si desidera farne per la deduzione e la costruzione di
determinate conseguenze o gruppi di conseguenze » (« Pragmatismo e logica
matematica » 1906, in // metodo della filosofia, pag. 198). Queste parole
definiscono bene il carattere funzionale del P. di ispirazione metodologica. 2°
La concezione del P. metafisico è quella di W. James e di F. C. S. Schiller e
le sue tesi fondamentali consistono nel ridurre la verità a utilità e la realtà
a spirito. La seconda di queste tesi, il P. metafisico la condivise con buona
parte della filo44 689 sofia contemporanea; e James stesso riconobbe e vantò
l’accordo sostanziale della sua filosofia con quella degli spiritualisti
francesi e specialmente di Bergson. La prima tesi è quella caratteristica di
questa forma di pragmatismo. Il suo presupposto è il principio che essa ha in
comune col P. metodologico: la strumentalità del conoscere. Ma questo
presupposto viene inteso e realizzato da essa in forma totalmente diversa. In
primo luogo, essa cerca di mettere in luce la dipendenza di tutti gli aspetti
della conoscenza (o del pensiero) dalle esigenze dell’azione e pertanto dalle
emozioni in cui tali esigenze si concretano. Anche la « razionalità » è,
secondo James, una specie di sentimento (« Il sentimento della razionalità » in
The Will to Believe, 1897). Da questo punto di vista, le azioni e i desideri
umani condizionano la verità: ogni tipo di verità, anche quella scientifica.
Pertanto non è legittimo, da questo punto di vista, rifiutarsi di credere a
dottrine che sono in grado di esercitare un’azione benefica sulla vita
dell'uomo, per il fatto che queste dottrine non sono appoggiate da prove
razionali sufficienti. In casi come questi bisogna correre, affermava James, il
rischio di credere. E F. C. S. Schiller portava alle estreme conseguenze questa
dottrina riesumando il detto di Protagora «l’uomo è misura di tutte le cose» e
affermando la relatività della conoscenza rispetto all’utilità personale o
sociale (Humanism, 1903). Mentre Schiller si fermava a questo relativismo,
James dava il varco, attraverso di esso, al teismo e alle dottrine
spiritualistiche tradizionali, sul fondamento che esse sono utili all’azione e
benefiche alla vita umana. E per quanto cercasse di limitare il dogmatismo di
queste dottrine, insistendo $ul carattere pluralistico dell’universo (v.
PLURALISMO) e sul carattere finito della divinità (v. Dio), il P. fu per lui
essenzialmente una via d’accesso alla metafisica tradizionale. Uno dei motivi
che James adduceva per giustificare l’esercizio della volontà di credere è che
la credenza può produrre la propria giustificazione: così accade talvolta nei
rapporti umani quando il credere che un tale ci sia amico, ci fa comportare
amichevolmente verso di lui e ce ne procura l'amicizia. Difficilmente si può
fare un uso teologico o metafisico di questa proposizione; essa è tuttavia
diventata un teorema abbastanza importante della sociologia contemporanea. Per
tutto il resto, mentre il P. metodologico ha trovato la sua continuazione negli
studi di logica e di metodologia e in alcune correnti del neo-empirismo, il P.
gnoseologico ha confluito nelle correnti spiritualistiche (confronta H. W.
ScHnemER, A History of American Philosophy, 2* ediz., 1957). A questo P.
metafisico si riconnettono le altre manifestazioni che il P. ha avuto fuori del
mondo 690 anglosassone. In primo luogo si riconnette ad esso la filosofia di
Hans Vaihinger esposta nell’opera Filosofia del come se (Philosophie des Als
Ob, 1911), nella quale afferma il carattere fittizio di ogni conoscenza e il
carattere biologico della preferenza accordata a una conoscenza piuttosto che
all’altra. Si riconnette ad esso anche il P. pluralistico di A. Aliotta (La
guerra eterna e il dramma dell’esistenza, 1917) che ha le stesse accentuazioni
spiritualistiche del P. di James (cfr. dell’ALIOTTA, // sacrificio come
significato del mondo, 1947). E infine ci si riconnette il fideismo
pragmatistico di Michele De Unamuno quale si trova esposto nel Commento al Don Chisciotte
(1905) e nel Sentimento tragico della vita (1913); e di Giuseppe Ortega y
Gasset (Il tema del nostro tempo, 1923; Intorno a Galileo, 1933; Storia come
sistema, 1935, ecc.); che però, soprattutto negli ultimi scritti, rivela
l’influenza dell’esistenzialismo di Heidegger. PRASSIOLOGIA (ingl. Praxiology;
francese Praxéologie). Termine creato da Kotarbifisky per designare «la teoria
generale dell’attività efficace » che dovrebbe comprendere la totalità dei
domini dell’attività utile dei soggetti agenti, dal punto di vista
dell’efficacia delle loro azioni (Praxiology, An Introduction to the Science of
Efficient Action, Oxford, 1965; l’opera polacca originale è del 1955). V. TECTOLOGIA. PRATICO (gr.
rpaxtxéc; lat. Practicus; inglese Practical; franc. Pratique; ted. Praktisch). In generale, ciò che è azione o concerne
l’azione. Ci sono tre significati diversi: 1° ciò che dirige l’azione; 2° ciò
che è traducibile in azione; 3° ciò che è razionale nell’azione. 1° Il primo
significato è*quello filosofico tradizionale. Platone già distingueva la
scienza pratica (per es., l'edilizia) che è quella «insita per sua natura nelle
azioni» da quella conoscitiva (come l’aritmetica) che è priva di riferimento
all’azione (Pol., 258 d-e). Aristotele a sua volta diceva che 4 nelle scienze
P. l’origine del movimento è in qualche decisione di chi agisce perchè ‘P.” e ‘
scelto * sono la stessa cosa » (Mer., VI, 1, 1025 b 22). Le scienze P. erano
per Aristotele la politica, l’economia, la retorica e la scienza militare; e
della politica è parte fondamentale l’etica (Ef. Nic., I, 2, 1094 b). Questo
significato è rimasto uniforme nella tradizione filosofica. Ad es., il
significato in cui S. Tommaso diceva che la teologia è parzialmente scienza
pratica (S. Th., I, q. 1, a. 4) e quello in cui Duns Scoto diceva che essa è
totalmente scienza P. (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31) è quello tradizionale: P. è
ciò che dirige l’azione. Similmente Wolff definiva la filosofia P. come la
scienza che « dirige le azioni libere mediante regole generalissime» (Philos.
practica, $ 3), e la PRASSIOLOGIA divideva, come Aristotele, in Etica, Economia
e Politica. Questo significato prevale nell’uso filosofico del termine. 2° Nel
secondo significato, che appartiene al linguaggio comune più che a quello
filosofico, P. è ciò che è facilmente o immediatamente traducibile in azione,
nel senso, ad es., che può aver successo 0 procurare vantaggio. In questo senso
un'idea si dice « P.» perchè può avere realizzazione e può condurre al
successo. Uomo P. è l’uomo che ha idee P., cioè idee facilmente realizzabili o
realizzabili con probabilità di vantaggio 0 successo. Questo significato non
trova abitualmente posto nel linguaggio filosofico. 3° Il terzo significato è
il più ristretto e fu adoperato da Kant. Questi infatti intende per P.: « Tutto
ciò che è possibile per mezzo della libertà ». Ma la libertà non ha nulla a che
fare con l’arbitrio animale; così «ciò che è indipendente da stimoli sensibili,
quindi può esser determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla
ragione, dicesi libero arbitrio e tutto ciò che vi si connette, o come
principio o come conseguenza, è detto P. » (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo,
cap. II, sez. 1). Quest'uso ristretto del termine, caratteristico di Kant, non
ha avuto seguito. PRAXIS. Con questo termine (che è la trascrizione della
parola greca che significa azione) si designa, nella terminologia marzxistica,
sia l’insieme dei rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la
struttura sociale, sia l’azione trasformatrice che l’azione rivoluzionaria deve
esercitare su tali rapporti. Marx diceva che bisogna spiegare la formazione
delle idee a partire dalla « prassi materiale » e che di conseguenza le forme e
i prodotti della coscienza possono essere eliminati non già mediante «la critica
intellettuale » ma solo mediante «il rovesciamento pratico dei rapporti sociali
esistenti » (/4eologia tedesca, 2; traduzione ital., pag. 34) (v. MATERIALISMO
STORICO). Per «rovesciamento della P.?, Engels intese la reazione dell’uomo
alle condizioni materiali dell’esistenza, la sua capacità di inserirsi nei
rapporti di produzione e di lavoro e di trasformarli attivamente: questa
possibilità è il capovolgimento del rapporto fondamentale tra struttura e
sovrastruttura per il quale è solo la prima (cioè la totalità dei rapporti di
produzione e di lavoro) che determina la seconda cioè l'insieme delle attività
spirituali umane (cfr. ENGELS, Antidihring, 1878). PREAMBULA FIDEI. Così S.
Tommaso chiamò l'insieme di quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla
fede stessa, tra le quali in primo luogo l’esistenza di Dio (In Boet. de
Trinit., a. 3) (v. Dro, Prove DI; TOMISMO). PREANIMISMO. V. Animismo.
PREFORMAZIONE PRECISIONE (ingl. Precision; franc. Précision; ted. Pràcisione).
Il procedimento per il quale si considera la singola parte di un tutto,
prescindendo dal tutto e dalle altre parti, in modo da riuscire a determinarla
nei suoi caratteri propri. Così la P. fu definita dalla Logica di Arnauld (I,
5) che perciò la considerava come una forma particolare dell’astrazione (v.).
Il risultato di questo procedimento è, ovviamente, l’esatta caratterizzazione
delle parti di un tutto; e pertanto nel linguaggio corrente, « P.» è diventato
sinonimo di esattezza e « preciso » di esatto. Peirce ha parlato, nel senso proprio,
di astrazione precisiva (v. ASTRAZIONE). PREDESTINAZIONE (lat. Praedestinatio;
ingl. Predestination; franc. Prédestination; tedesco Pradestination). Nella
teologia cristiana, è la scelta che Dio fa degli eletti cioè di coloro che si
salveranno: scelta che, secondo Sant'Agostino, è stata fatta prima della
creazione del mondo (De Praedestinatione, 10). Per i problemi relativi, v.
GRAZIA. La P. è sempre P. alla salvezza; ma è stata talora anche sostenuta (e
condannata dalla Chiesa) la P. doppia cioè quella alla salvezza e alla
dannazione. Tale dottrina fu sostenuta, per es., dal monaco Godescalco di
Corbie e fu combattuta da Hinkmar (rx sec.). In età moderna la sostennero i
Calvinisti (v. PRETERIZIONE). PREDETERMINISMO (ingl. Predeterminism; franc.
Prédéterminisme; ted. Pràdeterminismus). Termine adoperato da Kant per
designare il determinismo rigoroso cioè quello secondo il quale « le azioni
volontarie, in quanto avvenimenti di fatto, banno le loro ragioni sufficienti
nel tempo anteriore, il quale, insieme con ciò che contiene, non è più in
nostro potere» (Religion, I, cap. IV, Osservazione generale) (v.
IDETERMINISMO). PREDICABILI (gr. xemnyopovpeva; lat. Praedicabilia; ingl.
Predicables; franc. Prédicables; ted. Pradicabilien). Gli universali, in quanto
adatti per natura ad essere predicati di più cose. Porfirio per primo enumerò i
cinque universali semplici o primitivi cioè il genere, la specie, la
differenza, il proprio e l’accidente (Isag., 1). Aristotele aveva enumerati
come elementi di ogni proposizione o problema quattro elementi, cioè la
definizione, il proprio, il genere e l’accidente (Top., I, 4, 101 b 24); ma
questa enumerazione, includendo la definizione (che è composta del genere e
della specie) non prende in considerazione la semplicità degli elementi.
L’enumerazione di Porfirio rimase classica ed entrò a far parte integrante
della logica tradizionale. Non ha avuto seguito invece la proposta kantiana di
chiamare P. i concetti dell'intelletto derivati dalle categorie: come
sarebbero, secondo Kant, i concetti di forza, azione, passione, derivabili
dalla 691 categoria della causalità; di presenza e resistenza, derivabili dalla
categoria della reciprocità; del sorgere, del perire, del mutare, derivabili
dalle categorie della modalità, ecc. (Crit. R. Pura, $ 10). La nozione è
sparita dalla logica contemporanea (v. le singole voci). PREDICAMENTO. V.
CATEGORIA. PREDICATIVO (ingl. Predicative; franc. Prédicatif, ted. Pradicativ).
1. Si chiama P. l’uso del verbo essere come copula di una proposizione cioè nel
suo significato non esistenziale (v. ESSERE). 2. Si chiama P. una definizione
che non è impredicativa nel senso che Poincaré ha dato a questo termine (v.
IMPREDICATIVA, IDEFINIZIONE) € pertanto si chiama P. anche la teoria che
esclude per principio le definizioni impredicative o il calcolo proposizionale
fondato su tale esclusione (cfr., ad es., CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic,
$ 58) (v. ANTINOMIA). PREDICATO (ingl. Predicate; franc. Prédicat; ted.
Prédikat). Nella Logica aristotelica la proposizione consiste nell’affermare (o
negare) qualcosa di qualcosa: essa quindi si scinde in due termini essenziali,
il soggetto, ossia ciò di cui si afferma (o nega) qualcosa, e il P.
(xamyopovpevov), che è appunto quello che viene affermato (o negato) del soggetto:
così in « Socrate è bianco », ‘ Socrate ’ è il soggetto, ‘bianco’ il predicato.
Il quale P. può essere essenziale, proprio, oppure semplicemente accidentale.
Attraverso Boezio questa dottrina è passata nella Logica medievale (cfr. Pietro
Ispano, 1.07: « Subiectum est de quo aliquid dicitur; praedicatum est quod de
altero dicitur+) e attraverso questa in tutta la Logica occidentale. Nella
Logica contemporanea, essendo entrata in crisi la concezione predicativa della
proposizione (ossia quella concezione che fa consistere quest’ultima, appunto,
nell’attribuzione di un P. ad un soggetto), il termine « P.» ha un uso alquanto
oscillante. Russell (Princ. Math. 13, pag. S1 sgg.) dà il nome di «P.» alle
funzioni proposizionali di primo ordine, cioè quelle che contengono solo
variabili individuali (cioè, variabili sostituibili solo con nomi propri,
denotanti individui). Hilbert e Ackermann (Grundzilge der theoretischen Logik),
ritornando in qualche modo all’uso classico, intendono propriamente con «P.» il
funtore di una qualsiasi proposizione funzionale con una o più variabili.
Analogamente, ma con maggiore precisione, Carnap (cfr., per es., Einfiihrung in
die symbolische Logik, 1954, pag. 4 sgg.) usa «P.» per indicare il simbolo di
proprietà o relazioni attribuite ad individui. G.P. PREDIZIONE. V. PREVISIONE.
PREESISTENZA. V. METEMPSICOSI. PREFORMAZIONE (ingl. Preformation; francese
Préformation; ted. Praformation)i. Col nome 692 di teoria della P. (o
preformismo) fu designata nel sec. xvi la teoria sulla formazione degli
organismi secondo la quale gli organi di esso sono già preformati nell’uovo.
Già Malpighi nel 1637 aveva avanzato questa teoria, riconoscendo che gli organi
si trovano preformati nell’uovo, non sotto la forma che avranno nell’embrione o
nell'adulto, ma sotto la forma di filamenti o stamina ciascuno dei quali è la
potenza di un organo particolare (La formazione del pollo nell’uovo, 1637).
Questa teoria venne accettata nel *700 da molti biologi come Haller,
Spallanzani, Bonnet che si chiamavano « ovisti », per distinguersi dagli «
animaculisti » che verso la fine del'600 avevano ritenuto che lo spermatozoo
fosse un piccolo omiciattolo provvisto di tutte le parti del feto umano. La
dottrina della P. veniva accettata da Leibniz il quale riteneva che «Dio ha
preformato le cose in modo che i nuovi organismi non sono che la conseguenza
meccanica di un organismo precedente + (Théod., pref.). Kant riteneva che, una
volta ammesso il principio teleologico per la produzione degli esseri
organizzati, restano solo due ipotesi per spiegare la causa della loro forma
finale: o l’occasionalismo, secondo il quale Dio interviene direttamente in
ogni nuova formazione organica; o il prestabilismo, secondo il quale un essere
organico produce il suo simile. A sua volta il prestabilismo può essere o
teoria della P. se la generazione si considera come semplice sviluppo di una
forma preesistente; o teoria dell’epigenesi se la generazione si considera come
produzione. Kant non nascondeva la sua simpatia per la teoria dell’epigenesi in
quanto gli sembrava che riducesse di molto, rispetto all’altra, l'azione delle
cause soprannaturali e si prestasse ad una prova empirica (Crir. del Giud., $
81). La moderna teoria dell’evoluzione ha eliminato il fondamento stesso del
contrasto tra teoria della P. e teoria dell’epigenesi (v. EPIGENESI;
EvOLUZIONE). PREFORMAZIONISMO o PREFORMI. SMO. V. PREFORMAZIONE. PRELOGICO
(franc. Prélogique). Aggettivo introdotto da L. Lévy-Bruhl per caratterizzare
la mentalità dei popoli primitivi in quanto ritenuta indifferente al principio
di contraddizione e fondata sulla partecipazione (v.) (Les fonctions mentales dans les
sociétés inférieures, 1910, pag. 78 sgg.). In seguito Lévy-Bruhl ha abbandonato
questo concetto. «Non c'è una mentalità primitiva che si
distingua dall’altra per due caratteri che le sono propri (mistico e P.). C'è
una mentalità mistica più accentuata e più facilmente osservabile fra i
primitivi che non nelle nostre società, ma che è presente in tutto lo spirito
umano » (Les carnets, 1949, VI; trad. ital., pag. 161). PREFORMAZIONISMO O
PREFORMISMO PREMESSA (gr. npéraow; lat. Praemissa; ingl. Premise; franc.
Prémisse; ted. Pramisse). Ogni proposizione da cui si inferisce un’altra
proposizione. PREMOZIONE (lat. Praemotio; ingl. Premotion; franc. Prémotion).
Termine adoperato dai teologi del ’600 per indicare la determinazione fisica,
da parte di Dio, della volontà umana: determinazione fisica, che non
eliminerebbe la libertà dell’uomo. Malebranche discusse questa nozione nelle
sue Réflexions sur la P. physique (1705). PRENOZIONE (ingl. Prenotion; franc.
Prénotion; ted. Vorbegriff). Termine introdotto da Durkheim per indicare i
concetti prescientifici fondati su una generalizzazione imperfetta o
frettolosa, che F. Bacone chiamava anticipazioni o idoli (Régles de la méthode
sociologique, pag. 23) (v. ANTICIPAZIONE). PRENSIONE (ingl. Prehension).
Termine col quale Whitehead in Process and Reality (1929) ha designato la
percezione in quanto con essa il soggetto apprende o afferra una «entità reale»
cioè una cosa o un evento. In realtà il nome stesso di percezione ha già questa
connotazione (v. PERCEZIONE). PREOCCUPAZIONE. V. Cura. PREPERCEZIONE (ingl.
Preperceprion; francese Préperception; ted. Praperzeption). Così talora è stata
chiamata la funzione selettiva che l’attenzione intellettuale esercita sulla
percezione sensibile (cfr., ad es., JAMES, Princ. of Psychol., I, pag. 438-45).
PRESCIENZA. V. TEODICEA. PRESCISSIONE (ingl. Prescission). L’astrazione «
precisiva », che Peirce distingue dall’astrazione ipostatica, come l’operazione
di scelta che è implicita nel più semplice fatto di percezione: in quanto, ad
es., percepire un colore significa prescindere dalla forma e in ogni caso
isolare questa determinazione « colore » dalle altre con cui il colore si presenta
unito (Coll. Pap., 1.549 n; 2.428; 4.235) (v. ASTRAZIONE). PRESENTAZIONE (ingl.
Presentation; francese Présentation; ted. Prasentation). Conoscenza immediata o
diretta: percezione o intuizione. Il termine è stato introdotto da Spencer che
distingueva la conoscenza presentativa che si ha quando «il contenuto di una
proposizione è la relazione fra due termini entrambi i quali sono direttamente
presenti, come quando pungo il mio dito e sono simultaneamente conscio della
pena e del posto in cui essa è » dalla conoscenza rappresentativa che è il
ricordo o l’immaginazione dell’altra (Prince. of Psychology, $ 423). Il termine
fu accettato da molti psicologi dell’ 800, ma è oggi caduto in disuso.
PRESENTAZIONISMO (ingl. Presentationism; franc. Présentationisme). Così
Hamilton PREVISIONE chiamò il suo «realismo naturale» cioè la dottrina secondo
la quale la percezione è una relazione immediata con l’oggetto esistente
(Dissertations on Reid, pag. 825). PRESENTE. V. ATTIMO; Ora; TEMPO. PRESENZA
(ingl. Presence; franc. Présence; ted. Anwesenheit). Il termine è adoperato in
due significati principali: 1° l’esistenza di un oggetto in un certo luogo, per
cui ad es., si dice « x era presente alla riunione di ieri sera»; 2°
l’esistenza dell'oggetto in un rapporto conoscitivo immediato; e così si dice
che è presente un oggetto che è visto o che è dato a una qualsiasi forma di
intuizione o di conoscenza immediata. Nell'ambito del primo significato gli
Scolastici distinguevano, a scopo teologico (cioè per descrivere la presenza di
Dio o degli angeli nelle cose o quella del corpo di Cristo nel pane nel
sacramento dell’altare) due forme di P., quella detta circumscriptiva per la
quale una cosa è tutta in tutto lo spazio che occupa e parte in ciascuna parte
dello spazio; e quella definitiva per la quale una cosa è tutta nella totalità
del suo spazio e tutta anche in ciascuna parte di questa totalità. La prima P.
è un modo d'essere quantitativo; la seconda esclude ogni quantità (cfr., per
es., S. ToMMAsO, S. 7h., I, q. 52, a. 2; OCKHAM, Quodi., VII, q. 19). Heidegger
ha chiamato P. o semplice P. (Vorhandenheit) il modo d'essere delle cose, in
quanto diverso dal modo d’essere dell’uomo che è l’esistenza (Sein und Zeit, $
9). Sartre invece ha parlato della « P. all’essere del Per-sè » cioè della
coscienza, nel senso che tale presenza implicherebbe che «il Per-sè è il
testimone di sè in P. dell’essere come non essente l’essere »: il che
significherebbe che la P. all’essere è « P. del Per-sè in quanto non è» (L’étre
et le néant, pag. 166-67). PRESTABILISMO. V. PREFORMAZIONE. PRESUNZIONE (lat.
Praesumptio; ingl. Presumption; franc. Présomption; ted. Prasumtion). I. Un
giudizio anticipato e provvisorio, che si ritiene valido fino a prova in
contrario. Per es., « P. di colpa » è un giudizio di colpevolezza che viene
mantenuto finchè non sia stata addotta una prova in contrario; e significato
analogo hanno espressioni «P. di verità» o «P. pro» o «P. contro» una
proposizione qualsiasi. 2. Fiducia eccessiva nelle proprie possibilità; e in questo
senso si dice presuntuoso colui che nutre tale fiducia. PRESUPPOSTO (ingl.
Presupposition; francese Présupposition; ted. Voraussetzung). 1. La premessa
non dichiarata di un ragionamento: cioè la premessa di cui si fa uso nel corso
di un ragionamento ma che non è stata preventivamente enunciata e nei cui
confronti pertanto non esiste un 693 impegno definito. Il P., a differenza
della premessa, del postulato, dell’ipotesi, ecc., è introdotto
surrettiziamente nel corso di un ragionamento e limita o dirige il ragionamento
stesso in modo subdolo o nascosto. Esso si può anche definire come una regola
surrettizia di inferenza. Pertanto il principio dell’eliminazione dei P. è
fondamentale per tutti i campi della ricerca nel mondo moderno. L’espressione «
eliminazione dei P.» (ted. Voraussetzungslosigkeit) pare sia stata coniata
soltanto da Fr. Strauss (Leben Jesu, 1836, pag. IX): ma l'esigenza che tale
espressione racchiude è quella con la quale è nata sia la scienza moderna, che
con Galilei ha cercato di liberarsi dei P. metafisici, sia la filosofia moderna
che con Bacone e Cartesio ha affermato l’esigenza di una ricerca radicale cioè
fondata soltanto su premesse dichiarate. L'eliminazione dei P. è anche diretta
a evitare che nell’ambito di un certo campo di ricerche agiscano credenze che
appartengono a campi diversi e che queste limitino in modo incontrollabile la
ricerca stessa. Un uso più ristretto e tecnico ha fatto, del principio
dell’eliminazione dei P., Husserl il quale si è avvalso di esso per la delimitazione
della sfera fenomenologica (Logische Untersuchungen, II, Intr., $ 7). 2. Lo
stesso che premessa o postulato o ipotesi. Questo secondo significato può
condurre a confusioni. PRETERIZIONE (ingl. Preterition; franc. Prétérition).
Concetto di cui la teologia calvinista si è avvalsa per attenuare la dottrina
della doppia predestinazione: i reprobi sono tali perchè Dio li ha «trascurati»
nella sua scelta (cfr. CALVINO, Institutions de la religion chrétienne, III,
cap. 24). PREVISIONE (gr. rpéyvwer; ingl. Prediction; franc. Prévision; ted.
Voraussage). Uno degli scopi fondamentali della spiegazione scientifica o
questa stessa spiegazione. Nella scienza antica, l’importanza della P. fu
accentuata soltanto nell’ambito della medicina (IPPOCRATE, Prognostikon, I).
Galileo ne esponeva il concetto affermando che «la cognizione di un solo
effetto acquistata per le sue cause ci apre l’intelletto ad intendere ed
assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di ricorrere all’esperienza »
(Discorsi intorno a due nuove scienze, in Opere, ed. Utet, II, pag. 799). La P.
fu utilizzata da Hume nella sua critica della causalità: « Essendo costretti
dalla consuetudine a trasferire il passato al futuro, in tutte le nostre
inferenze, quando il passato si è manifestato del tutto regolare e uniforme,
noi aspettiamo l’avvenimento con la massima sicurezza e non lasciamo posto per
qualche supposizione contraria » (Ing. Conc. Underst., VI). Fu messo in primo
piano da Comte con la sua formula «Scienza, donde P.; P., donde azione» (Cours
de phil. pos., 1830, I, pag. 51). E fu espresso 694 da Hertz nella parole con
cui si apre l’Introduzione dei Prinzipien der Mechanik (1894): « Il più diretto
e in un certo senso il più importante problema che la nostra consapevole
conoscenza della natura ci rende capaci di risolvere è l’anticipazione degli
eventi futuri, sicchè poi possiamo ordinare le nostre faccende presenti in
accordo con tali anticipazioni ». Peirce fondava sulla P. la verità pratica
dell’ipotesi scientifica: « Nell’induzione non è il fatto previsto che in
qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi o la renda probabile. Ma è il
fatto che esso è stato previsto con successo e che è un campione scelto a caso
di tutte le P. che possono essere basate sull'ipotesi e che costituiscono la
verità pratica di essa » (Coll. Pap., 6.527). Nel neoempirismo contemporaneo,
alcuni filosofi tendono a ridurre la P. alla spiegazione altri a ridurre la
spiegazione alla previsione. Nel primo senso si esprime Carnap secondo il quale
«la natura di una P. è la stessa, rispetto alla conferma e all’attestazione, di
quella di un enunciato circa un evento presente non direttamente da noi
osservato, per es., circa un processo che ora è in corso nell’interno di una
macchina o un evento politico in Cina (« Testability and Meaning », in Readines
in the Phil. of Science, 1953, pag. 87). Nel secondo senso, si esprime Quine il
quale dichiara di pensare che lo schema concettuale della scienza è da ultimo
uno strumento per prevedere l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata
(From a Logical Point of View, II, 6). L'identità della logica della P. con
quella della spiegazione è stata asserita da Feigl (in Readings, cit., pag.
417-18); mentre Hempel ha sostenuto la tesi della identità strutturale (o della
simmetria) di spiegazione e P. nel senso «che ogni spiegazione adeguata è
potenzialmente una P. e inversamente ogni P. adeguata è potenzialmente una
spiegazione + (Aspects of Scientific Explanation, 1965, pag. 367). Popper, dopo
aver asserito che tutte le scienze teoretiche, anche quelle sociali, sono
scienze di P., ha insistito sulla distinzione tra la P. scientifica e la
profezia storica perchè quest’ultima manca del carattere condizionale della
prima. « Le P. ordinarie della scienza, egli ha detto, sono condizionali. Esse
asseriscono che certi mutamenti (per es., della temperatura dell’acqua in un
bollitoio) sarà accompagnato da altri cambiamenti (per es., il bollire
dell’acqua)» (Conjectures and Refutations, 1965, pag. 339). Reichenbach usò il
termine post-vedibilità (post dictability) per indicare la possibilità di
determinare «i dati passati in termini di osservazioni date » (Philosophic
Foundations of Quantum Mechanics, 1944, pag. 13). Il termine postvisione o
retrovisione (postdiction or retrodiction) è stato poi adoperato per indicare
l’inverso logico di una P. cioè l’inPRIMALITÀ ferenza che procede da un evento
presente all’indietro, verso una condizione iniziale già conosciuta (Hanson,
The Concept of the Positron, 1963, pag. 193). V. SPIEGAZIONE. PRIMALITÀ (lat.
Primalitas; ted. Primalitàt). Il principio costitutivo dell’essere, secondo
Campanella. Ci sono tre P.: il potere (potentia) il sapere (sapientia) e
l’amore (amor) che in Dio sono infinite e nelle cose sono invece limitate dai
loro contrari, l’impotenza, l’insipienza e l’odio, che costituiscono il non
essere (Metaphysica, 1638, VI, Proem.). Il termine vale lo stesso che principio
(v.). PRIMARIE E SECONDARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. PRIMARIO (lat. Primarius;
ingl. Primary; franc. Primaire; ted. Primàr). 1. Ciò che è primo o più
importante in un campo qualsiasi; o ciò che è primo nel senso che condiziona
ciò che vien dopo, senza essere condizionato da esso. Questo era uno dei sensi,
e il senso fondamentale, che Aristotele attribuiva alla parola «prima» (Mer.,
V, 11, 1019a 2), ed è quello che più frequentemente è connesso con l’uso del
termine. « Qualità P.+, ad es., sono le qualità di cui i corpi non possono
mancare e che condizionano le « qualità secondarie ». « Scuola P. + è quella
che tutti debbono frequentare e che prepara agli altri tipi di scuola. «
Attenzione P.» è stata detta da alcuni psicologi l’attenzione primitiva o
originaria, ecc. Si dice pura «importanza P.» per dire importanza fondamentale
o condizionante. 2. Lo stesso che primitivo (v.). PRIMATO (ingl. Primacy;
franc. Primauté; ted. Primat). L'importanza primaria o condizionante di una
cosa rispetto alle altre. Dice Kant: « Per P. tra due o più cose legate
mediante la ragione, intendo la superiorità di una di esse in quanto è il primo
motivo determinante del legame con tutte le altre ». Più precisamente « P.
della ragion pratica » significa la prevalenza dell’interesse pratico
sull’interesse teoretico nel senso che la ragione ammette, in quanto è pratica,
proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico e che non
costituiscono una sua estensione conoscitiva: i postulati della ragion pratica
(Crit. R. Pratica, II, cap. 2, sez. 3). La parola P. è stata usata nel campo
politico per indicare la funzione predominante che un certo elemento (popolo,
nazione, classe, gruppo sociale, ecc.) ha o deve avere nella totalità cui
appartiene. Gioberti ha parlato in questo senso del P. morale e civile degli
Italiani (1843). In questa sua estensione il termine acquista significati anche
più vaghi e arbitrari che nel primo. PRIMITIVISMO (ingl. Primirivism; franc.
Primitivisme). 1. L'atteggiamento o la mentalità dei popoli primitivi
specialmente nel suo aspetto per cui l’individuo si conforma, presso di essi,
alle PRINCIPIO valutazioni dell’ambiente. In questo senso il termine è usato,
per es., da Scheler (Sympathie, cap. III; trad. franc., pag. 362, n. 2). 2. La
credenza che la forma più perfetta della vita umana è quella che essa ebbe nel
primo periodo dell’umanità (mito dell’età dell’oro); o quella che essa riveste
nei popoli primitivi, ritenuti più giovani (mito del « buon selvaggio +). Per questo significato di P.,
vedi LovEJsoy e Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, 1935; Boas,
Essays on Primitivism and Related Ideas in the Middle Ages, 1948). PRIMITIVO (ingl. Primitive; franc. Primitif; ted.
Primitiv). 1. Lo stesso che originario (v. ORIGINE) nel duplice senso di questo
termine cioè: a) come ciò che appartiene alla fase iniziale di uno sviluppo o
di una storia e in questo senso si dice « la nebulosa P.», «l’umanità P.», o
anche «le P. popolazioni italiche »; 5) come ciò che funge da condizione,
principio o premessa e perciò determina altre cose mentre non è determinato da
esse; in questo senso si dice « proposizione P. », « funzione P.» e si chiamano
«simboli P. » quelli introdotti direttamente, cioè senza l’aiuto di altri
simboli. 2. Ciò che è semplice nel senso che costituisce la forma più
elementare che un certo oggetto può assumere e in questo senso si parla di «
uomini P. » o semplicemente de «i P.». Durkheim si è servito per definire i P.
di questo significato e insieme di quello di cui in a) (Les formes élémentaires
de la vie religieuse, 1937, pag. 1). Ma Lévy-Brubl ha scritto: «Con questo
termine improprio, ma di uso quasi indispensabile, intendiamo semplicemente
designare i membri delle società più semplici che conosciamo » (Les fonctions
mentales dans les sociétés inférieures, 1910, pag. 2). Nello stesso senso si
adopera oggi la parola primario (v.). Per ciò che concerne le interpretazioni
del mondo P., esse possono essere raggruppate in due classi: a) la classe di
quelle interpretazioni che considerano il mondo P. come prelogico, preempirico
e mistico, quindi completamente diverso, quanto alla sua costituzione, dal
mondo della società civile. È questa l’interpretazione che è stata specialmente
difesa da Lévy-Bruhl (del quale oltre lo scritto citato, vedi: La mentalité
primitive, 1922; L’éme primitive, 1927; L’expérience mystique et les symboles
chez les primitifs, 1938); ma che dallo stesso Lévy-Bruhl è stata corretta nel
senso di sfumare o attenuare la differenza tra la mentalità P. e quella non P.,
considerandola come differenza di grado più che di qualità (Les carnets, 1949);
b) la classe di quelle interpretazioni le quali ammettono che anche le comunità
P. sono in possesso di un considerevole patrimonio di conoscenze fondate
sull’esperienza e sulla ragione e che l’uomo P. tende a ricorrere alla magìa o
al misticismo solo 695 quando le conoscenze da lui possedute non aiutano più.
Questa è l’interpretazione specialmente sostenuta da Bronislaw Malinowski
(Magic, Science, and Religion, 1925) e seguita oggi da quasi tutti i sociologi.
PRIMO MOBILE. V. MosiLe, Primo. PRIMO MOTORE. V. Dro, Prove DI. PRIMORDIALE
(ingl. Primordial; franc. Primordial). Lo stesso che originario (v.). PRINCIPIO
(gr. &pyh; lat. Principium; inglese Principle; franc. Principe; ted.
Prinzip, Grundsat2). Il punto di partenza e il fondamento di un processo
qualsiasi. I due significati di « punto di partenza » e di «fondamento» o
«causa» sono strettamente connessi nella nozione di questo termine, che fu
introdotto in filosofia da Anassimandro (SIMPLICIO, Fis. 2A, 13), cui Platone
faceva ricorso frequentemente nel senso di causa del movimento (Fedr., 245 c) o
di fondamento della dimostrazione (Teet., 155 d) e di cui Aristotele fu il
primo a enumerare esaurientemente i significati. Tali significati sono i
seguenti: 1° punto di partenza di un movimento, per es., di una linea o di una
strada; 2° punto di partenza migliore, per es., quello che rende più facile
imparare una cosa; 3° punto di partenza effettivo di una produzione, per es.,
la chiglia di una nave o i fondamenti di una casa; 4° causa esterna di un
processo o di un movimento, per es., un insulto che provoca una zuffa; 5° ciò
che con la sua decisione determina movimenti o mutamenti, per es., il governo 0
le magistrature di una città; 6° ciò da cui parte un processo di conoscenza,
per es., le premesse di una dimostrazione. Aristotele aggiunge a questa
elencazione: « Anche ‘causa’ ha gli stessi significati: giacchè tutte le cause
sono princìpi. Ciò che tutti i significati hanno in comune è che, in tutti, P.
è ciò che è punto di partenza o dell’essere o del divenire o del conoscere +
(Mer., V, 1, 1012 b 32-1013 a 19). Queste notazioni di Aristotele contengono
pressochè tutto quel che la tradizione filosofica posteriore ha detto intorno
ai princìpi. Solo un altro significato occorre forse distinguere: come punto di
partenza e causa, il P. è talora assunto come l’elemento costitutivo delle cose
o delle conoscenze. Questo probabilmente era uno dei sensi în cui la parola era
usata dai presocratici: un senso che Aristotele stesso talvolta adopera (Mer.,
I, 3, 983 b 11; ITI, 3, 998 b 30, ecc.). In questo senso Lucrezio chiamava P.
gli atomi (De nat. rer., II, 292, 573, ecc.); e gli Stoici distinguevano
elementi e P. solo per il fatto che i P. sono ingenerabili e incorruttibili
(Dog. L., VII, 1, 134). Nel sec. xvi, Cristiano Wolff definendo il P. come «
ciò che contiene in sè la ragione di qualche altra cosa» (Onf., $ 866)
osservava che questo significato era conforme alla nozione aristotelica 696 e
che da questa nozione non si erano allontanati gli Scolastici (Onr., $ 879).
Baumgarten, al quale tanto deve la terminologia filosofica moderna, ripeteva la
definizione di Wolff (Mer., $ 307). Kant da un lato restringeva l’uso del
termine al campo della conoscenza, intendendo per P. «ogni proposizione
generale, anche desunta per induzione dall’esperienza, che possa servire da
premessa maggiore in un sillogismo », ma dall'altro introduceva la nozione di
«P. assoluto » o «P. in sè» cioè di conoscenze sintetiche originarie e
puramente razionali, conoscenze che egli riteneva insussistenti, ma alle quali
pensava che la ragione facesse appello nel suo uso dialettico (Crir. R. Pura,
Dialettica, II, A). Nella filosofia moderna e contemporanea la nozione di P.
tende a perdere la sua importanza. Essa infatti include la nozione di un punto
di partenza privilegiato: e privilegiato non relativamente, cioè rispetto a
certi scopi, ma assolutamente ed in sè. Un punto di partenza di questo genere
difficilmente potrebbe oggi essere ammesso nel dominio delle scienze. Poincaré
a giusto titolo osservava che un P. non è che una legge empirica che si trova
comodo sottrarre al controllo dell’esperienza mediante opportune convenzioni:
un P. perciò non è nè vero nè falso ma soltanto comodo (La valeur de la
science, 1905, pag. 239). Nel dominio matematico e logico, in cui opportunità
di questa natura non si presentano, il termine è caduto in disuso per indicare
le premesse di un discorso ed è stato sostituito da assioma o postulato.
Frequentemente si chiamano P., in questi campi, particolari teoremi di cui si
voglia sottolineare l’importanza per lo sviluppo ulteriore di un sistema
simbolico. Peirce ha chiamato P. guida (Leading Principle) il P. che «
dev’essere supposto vero per sostenere la validità logica di un argomento
qualsiasi » (Coil. Pap., 3.168; cfr. Dewey, Logic, I; trad. ital., pag. 46).
PRINCIPIO ATTIVO (gr. rò rorotv). Così gli Stoici chiamarono la Ragione o la
Causa o Dio, in quanto informa la materia (che è il P. passivo) producendo in
essa i singoli esseri (DioG. L., VII, 134); principio che essi identificarono
col Fuogo inteso come calore o spirito animatore (/bid., VII, 156; CiceR., De
nat. deor., II, 24). PRINCIPIO DI AZIONE MINIMA; DI CAUSALITÀ; DI
CONTRADDIZIONE; DI IDENTITÀ; DEGLI INDISCERNIBILI; DI INDIVIDUAZIONE; DI RAGION
SUFFICIENTE; DEL TERZO ESCLUSO; ecc. V. i relativi termini. PRIORITÀ (ingl.
Priority; franc. Priorité; tedesco Prioritàt) 1. Precedenza nel tempo. 2.
Carattere di ciò che è primario (v.). PRIVAZIONE (gr. otépnow; lat. Privatio;
inglese Privation; franc. Privation; ted. Privation). La PRINCIPIO ATTIVO
mancanza di ciò che, a qualsiasi titolo, potrebbe o dovrebbe essere. Questo è
il senso della definizione che Wolff dette del termine: «Il difetto di una
realtà che poteva essere o a cui l’essere di per sè non ripugna» (Onr., $ 273).
Aristotele aveva incluso tra i significati del termine (tutti riducibili a
quello ora enunciato) anche la mancanza di un attributo che non appartiene
naturalmente alla cosa come quando si dice che una pianta è priva di occhi
(Mer., V, 22, 1022 b 22). Ma questa generalizzazione eccessiva rende il
concetto pressocchè inutile. Wolff stesso distingueva le entità privative che
consistono in una mancanza (come cecità, morte, tenebre, ecc.) e i nomi
relativi, dalle entità positive e dai loro nomi (Ont., $ 273-274); una
distinzione che fu riprodotta da Stuart Mill, il quale osservava a questo
proposito: «I nomi cosiddetti privativi connotano due cose: l’assenza di certi
attributi e la presenza di altri a partire dai quali la presenza dei primi
poteva naturalmente attendersi » (Logic, I, 2, $ 6). Queste distinzioni si sono
conservate nella logica ottocentesca di stampo tradizionale (cfr., per es.,
SIGWART, Logik, 1889, I, 822). PROBABILE (ingl. Probable; franc. Probable; ted.
Wahrscheinlich). 1. Un evento o una proposizione con un sufficiente grado
comparativo di conferma o di credibilità (v. PROBABILITÀ, 1). 2. Una classe o
sequenza di eventi dotata di un certo grado di frequenza relativa (v.
PROBABILITÀ, 2). 3. Ciò che viene ritenuto vero dai più o dai competenti.
Questo è il concetto dell’endoxor che Aristotele pose a base della dialettica
(v.) e ha poco o nulla a che fare con le due precedenti nozioni. PROBABILISMO
(ingl. Probabilism; francese Probabilisme; ted. Probabilismus). 1. Lo
scetticismo della Nuova Accademia in quanto, pur negando l’esistenza di un
criterio di verità, riconosceva un criterio sufficiente a dirigere la condotta
della vita, in ciò che Arcesilao chiamava il plausibile (Sesto E., Adv. Math.,
VII, 158) e Carneade il probabile (Ibid, VII, 166; Ip. Pirr., I, 33, 226). 2.
La dottrina, cui faceva frequentemente appello la casistica dei Gesuiti del
sec. xv, che basti, per non peccare, nei casi in cui l’applicazione della
regola morale è dubbia, attenersi ad una opinione probabile, intendendosi per
opinione probabile quella sostenuta da qualche teologo. Leibniz osservava a
questo proposito: « Il difetto dei moralisti rilassati è stato in buona parte
quello d’aver avuto una nozione troppo limitata e troppo insufficiente del
probabile che essi hanno identificato con l'opinabile di Aristotele » mentre il
probabile è, secondo Leibniz, un concetto assai più esteso (Nouv. Ess., IV, 2,
14). Il P. ebbe, specialmente nel sec. xvu, innumerevoli varianti tra le quali
si possono ricorPROBABILITÀ dare: il probabiliorismo, secondo il quale, nei
casi in cui l’applicazione di una regola morale è incerta, bisogna seguire non
una qualsiasi opinione probabile ma la più probabile; e il tuziorismo secondo
il quale bisogna attenersi alla opinione che si conforma alla legge. Si tratta
di dottrine e dispute che non hanno significato fuori della casistica gesuitica
del xvi secolo (cfr. A. SCHMITT, Zur Geschichte des Probabilismus, 1904). 3.
L'indirizzo della scienza contemporanea per il quale il carattere di
probabilità viene riconosciuto ad un numero esteso di conoscenze od a tutte (v.
CAUSALITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO). PROBABILITÀ (gr. 16 etx6c; lat.
Probabdilitas; ingl. Probability; franc. Probabilité; ted. Warhscheinlichkeit).
Il grado o la misura della possibilità di un evento o di una classe di eventi.
La P. in questo senso suppone sempre un’alternativa ed è la scelta o preferenza
accordata ad una delle alternative possibili. Se si dice, ad es., «
probabilmente domani pioverà » si esclude come meno probabile l’alternativa «
domani non pioverà »; se si dice «la P. che una moneta cada di testa è di una
metà +», questa determinazione desume il suo significato dal confronto con
l’altra alternativa possibile, che essa cada di croce. Si può esprimere questo
carattere della P. dicendo che essa è sempre la funzione di due argomenti. Un
altro carattere generale della P. (comunque intesa) è che essa, dal punto di
vista quantitativo, viene espressa con un numero reale i cui valori vanno da 0
a 1. Il problema cui la nozione di P. dà luogo è quello del significato cioè
del concetto stesso di probabilità. Quanto al calcolo delle probabilità esso,
finchè non venga interpretato, non dà luogo a problemi: i matematici sono
d’accordo su tutto ciò che può venire espresso in simboli matematici, mentre il
disaccordo comincia, anche tra essi, dove si tratta di interpretare tali
simboli. Carnap (The Two Concepis of Probability, 1945, ora in Readings in the
Philosophy of Science, 1953, pag. 441 sgg.) e Russell (Human Knowledge, 1948,
V, 2) hanno entrambi insistito sull’esistenza di due concetti diversi e
irreducibili di P., che il primo ha chiamato rispettivamente P. induttiva (o
grado di conferma) e P. statistica (o frequenza relativa), e il secondo grado
di credibilità e P. matematica. Altri nomi sono stati proposti per questi due
tipi di probabilità. Kneale ha chiamato accettabilità il primo tipo e caso
(chance) il secondo (Probability and Induction, 1949, pag. 22); Braithwaite ha
chiamato il primo ragionevolezza e il secondo P. (Scientific Explanation, 1953,
pag. 120). I due concetti si sono fronteggiati negli ultimi quarant'anni,
cercando ognuno di eliminare l’altro; e si possono vedere tipicamente
rappresentati nelle 697 posizioni di Von Mises e di Jeffreys. Il primo rigetta
come soggettivistico il concetto di P. induttiva e ritiene che sia privo di
senso l’uso del termine P. al di fuori del suo concetto statistico
(Probability. Statisties and Truth, 1928, ed. 1939, lect. I, III), Il secondo
invece ritiene che la definizione cosiddetta oggettiva della P. è
inutilizzabile e che neppure gli statistici la usano perchè « tutti usano la
nozione di grado di credenza ragionevole, abitualmente senza neppure notare che
la usano » (Theory of Probability, 1939, pag. 300). Poichè le osservazioni di
Carnap e Russell tolgono significato a questa polemica ma nello stesso tempo confermano
l’esistenza di due concetti diversi di P., si possono assumere tali concetti
per costituire un prospetto delle dottrine relative. E per evitare
qualificazioni polemiche (e inesatte) come quelle di « soggettivo» e
«oggettivo», ecc., si può semplicemente assumere come tratto distintivo dei due
concetti di P. la funzione che ognuno di essi adempie e parlare
conseguentemente di 1° P. singolare; 2° P. collettiva. 1° Il primo concetto di
P. può essere infatti caratterizzato dicendo che esso ha in vista il grado di
possibilità di un evento singolo: pertanto i suoi argomenti sono per l’appunto
eventi o fatti o stati di cose o circostanze ed essa è espressa in proposizioni
del tipo « Domani probabilmente pioverà ». L’antecedente storico remoto di
questa nozione è il concetto neo-accademico di rappresentazione persuasiva
(v.): della quale Carneade enumerava i gradi, determinati o da prove o da
indizi negativi o positivi (v. PERSUASIVO). I fondatori del calcolo delle P.
ebbero in vista appunto questo concetto di probabilità. Giacomo Bernouilli
intitolò il suo trattato, che fu il primo scritto importante in proposito, Ars
conjectandi (1713). Allo stesso concetto si ispirava la grande opera di Laplace
intitolata Théorie analytique des probabilités (1812). Nell’introduzione di
quest'opera Laplace affermava che «la P. degli eventi serve a determinare il
timore o la speranza delle persone interessate alla loro esistenza » (Essai
philosophique sur les probabilités, I, 4); e tutta la sua opera non si occupa
di statistica ma di metodi per stabilire l’accettabilità delle ipotesi. Da
questo punto di vista, la P. era definita come « il rapporto dei numeri dei
casi favorevoli a quello di tutti i casi possibili ». E il principio
fondamentale per valutare le P. era il cosiddetto principio di indifferenza o
di equiprobabilità, secondo il quale, in mancanza di ogni altra informazione,
si assume che i vari casi sono ugualmente possibili: sicchè ad es., quando un
dado è gettato, si assume che ognuna delle sue facce ha uguali P. di apparire,
sicchè ciascuna faccia ha la stessa P. di 1/6 (op. cit., I, 3). 698 Per quanto
questa teoria sia stata sottoposta a critiche accanite, essa è stata ripresa
nel 1921 dall'economista inglese John Maynard Keynes nel suo Trattato sulla P.
e più tardi riesposta da F. P. Ramsey (The Foundations of Mathematics, 1931) e
da H. Jeffreys (Theory of Probability, 1939). Tutti questi scrittori
definiscono la P. come un « grado di credenza razionale» ed ammettono la
validità del principio di indifferenza ma, come ha notato lo stesso Carnap, il
carattere soggettivistico di quella definizione è solo apparente; giacchè ciò
che essi hanno cercato di determinare sono i gradi di conferma che possono
essere stabiliti in favore di un’ipotesi determinata. E difatti i gradi di
credenza potrebbero essere soltanto stabiliti con metodi psicologici mentre in
realtà i metodi proposti da quegli autori non hanno nulla di psicologico ma
sono logici e si riferiscono alla disponibilità e alla natura delle prove che
possono confermare un’ipotesi. Fondandosi su questo concetto oggettivo della P.
singolare, Carnap ha costruito un sistema di logica quantitativa induttiva, sul
fondamento del concetto di conferma assunto nelle sue tre forme: positiva,
comparativa e quantitativa (Logica! Foundations of Probability, 1950). Il
concetto positivo di conferma è la relazione tra due enunciati i (ipotesi) e p
(prova) che può essere espressa da enunciati di questa forma: « i è confermato
da p»; « i è appoggiato da p »; « p è una prova (positiva) per i+; « p è una
prova che sostanzia (o corrobora) l'assunzione di i». Il concetto comparativo
(topologico) di conferma è usualmente espresso in enunciati che hanno la forma
«i è più fortemente confermato (o appoggiato o sostanziato o corroborato, ecc.)
da p che i’ da p'». Infine il concetto quantitativo (o metrico) di conferma
cioè il concetto di grado di conferma può essere, nei vari campi, determinato
da procedure analoghe a quelle con cui si è introdotto il concetto di
temperatura per spiegare quelli di «più caldo» o «meno caldo» o il concetto di
quoziente intellettuale per determinare i gradi comparativi di intelligenza.
Carnap ha anche difeso, intendendolo tuttavia in forma limitata, il principio
di indifferenza, applicandolo alle distribuzioni statistiche anzichè alle
distribuzioni singole. La teoria di Carnap è stata in proposito largamente
discussa e accettata. Altre determinazioni del concetto di grado di conferma
sono state proposte (cfr., ad es., HELMER e OPPENHEIM, « A Syntactical
Definition of Probability and Degree of Confirmation» in Journal of Symbolic
Logic, 1945, pag. 25-60). Soltanto il concetto di P. singola, cioè di grado di
conferma, è quello a cui si fa comunemente riferimento nelle faccende della
vita e che viene assunto, esplicitamente o implicitamente, come guida dei
comportamenti individuali. C'è da osserPROBABILITÀ vare che tra gli indizi o
prove che possono essere assunti a conferma di un’ipotesi qualsiasi cioè a
fondamento di un giudizio di P. nulla vieta che rientri la considerazione delle
frequenze statistiche cui il secondo concetto di P. riduce la P. stessa. Ma
talvolta la P. statistica entra nella determinazione della P. singola con segno
invertito: ad es., per un giocatore del lotto la frequenza con cui un certo
numero è uscito negli ultimi tempi è un indice di P. negativa: i numeri « buoni
» sono per lui quelli che, in un periodo di tempo abbastanza lungo, sono stati
i meno frequenti. Per una difesa di questo concetto di P., proprio in rapporto
ai limiti e alle possibilità della conoscenza umana, cfr. J. R. Lucas, The
Concept of P., Oxford, 1970. 2° Il secondo concetto fondamentale della P. è
quello della P. collettiva o statistica, i cui argomenti non sono mai eventi o
fatti individuali ma classi, specie o qualità di eventi e che quindi possono
essere espressi soltanto con funzioni proposizionali (v.) e non con
proposizioni. L’antecedente storico più lontano di questa nozione è il concetto
aristotelico del verisimile (v.): « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo
più accada o non accada, sia o non sia» (An. Pr., II, 27, 70a 3; Ret., I, II,
1357 a 34). Ma la formulazione rigorosa del concetto è stata effettuata solo
recentemente da Fischer (in Philosophical Transactions of the Royal Society,
serie A, 1922), von Mises (Probability, Statistics and Truth, 1928), Popper
(Logik der Forschung, 1934) e Reichenbach (Wakrscheinlichkeitslehre, 1935;
Theory of Probability, 1948). Come illustrazione di questa nozione di P. si può
scegliere l’elaborazione che di essa ha dato von Mises con il concetto della
frequenza-limite. Se per n osservazioni l’evento esaminato ha luogo m volte il
quoziente m/n è la frequenza relativa della classe di eventi in questione:
relativa, s'intende, al numero n di osservazioni. Ma se si vuol parlare di
frequenza semplicemente, senza limitare l’estensione delle osservazioni, si può
supporre che la funzione m/n, quando numeratore e denominatore divengono via
via maggiori, tenda a un valore limite; e si può assumere questo valorelimite
come misura della frequenza, cioè come misura della P. nel senso proposto.
Così, per es., se gettando una moneta 1000 volte si ha per la testa una
frequenza di 550; gettandola 2000 volte si ha, sempre per la testa, una
frequenza di 490; gettandola 3000 volte, una frequenza di 505; gettandola 4000
volte una frequenza di 497; gettandola 10.000 volte una frequenza di 5003; e
così via; poichè il valore limite di queste serie è 05, si assumerà questo
valore limite come valore della P. dell’accadimento in questione. Ma tale
accadimento non è mai un accadimento singolo; e pertanto la P. così PROBLEMA
calcolata non servirà a prevedere il risultato della prossima gettata della
moneta e a consentire, per es., a un giocatore di scegliere la sua scommessa.
La P. del genere vale per classi di eventi e non per eventi singoli. Non si
può, ad es., parlare della P. che un individuo qualsiasi ha di morire entro
l’anno anche quando si conosce il limite di frequenza della mortalità nel
gruppo a cui egli appartiene (cfr. anche di von Mises, Kleines Lehrbuch des
Positivismus, $ 14). Reichenbach ha affermato a questo proposito: «L’asserzione
concernente la P. di un caso singolo ha un significato fittizio, costruito
attraverso il trasferimento di significato dal caso generale a quello
particolare. L’adozione dei significati fittizi è giustificabile non per motivi
conoscitivi ma perchè serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni
come provviste di significato » (Theory of Probability, pag. 377). L’altra
caratteristica fondamentale della teoria è l’eliminazione del principio di
indifferenza cioè della P. a priori. La teoria statistica della P. infatti non
può dire nulla circa la P. di una classe di eventi senza prima aver determinate
le frequenze dell’evento stesso e quindi un grado di P. qualsiasi può essere
determinato solo a posteriori, cioè dopo avere effettuato la determinazione
delle frequenze (REICHENBACH, 0p. cit., $ 70, pag. 359 sgg.). La teoria
collettiva o statistica della probabilità è stata largamente accettata nella
filosofia contemporanea (si vedano, oltre gli scritti citati, quello di J. O.
Wispom, Foundations of Inference in Natural Science, 1952, e quello di
BRAITAWAITE, Scientific Explanation, 1953). Un’ulteriore determinazione di
questa dottrina è stata data da Popper, specialmente in vista della sua
utilizzazione nella teoria dei quanti. Come si è detto, la P. statistica non
concerne eventi singoli ma classi o sequenze di eventi. Popper propone di
considerare come decisive le condizioni sotto le quali la sequenza è prodotta
cioè di considerare le frequenze stesse come dipendenti dalle condizioni
sperimentali e pertanto come costituenti una qualità disposizionale
dell’ordinamento sperimentale. Dice Popper: « Ogni ordinamento sperimentale è
adatto a produrre, se ripetiamo l’esperimento più volte, una sequenza con
frequenze che dipendono da questo particolare ordinamento. Queste frequenze
virtuali possono essere dette probabilità. Ma poichè le P. vengono a dipendere
dall’ordinamento sperimentale, esse possono essere considerate proprietà di questo
ordinamento. Esse caratterizzano la disposizione o propensione dell'ordinamento
sperimentale a dare origine a certe frequenze caratteristiche, quando
l’esperimento è ripetuto più volte » (« The Propensity Interpretation of the
Calculus of Probability, and the Quantum Theory », in Observation and
Interpretation, A_sym699 posium of Philosophers and Physicists, ed. by Kérner,
1957, pag. 67). Il vantaggio di questa interpretazione sarebbe quello di
considerare come fondamentale «la P. del risultato di un singolo esperimento
rispetto alle sue condizioni, piuttosto che la frequenza dei risultati in un
seguito di esperimenti » (/bid., pag. 68). Popper avvicina questo concetto a
quello di campo (v.) e osserva che in questo caso una P. può essere considerata
come « un vettore nello spazio delle possibilità » (Ibid.). Questa
interpretazione tende ovviamente a diminuire la distanza tra i due concetti
fondamentali di probabilità. PROBLEMA (gr. rpéfimua; lat. Problema; ingl.
Problem; franc. Problème; ted. Problem). In generale, ogni situazione che
includa la possibilità di un’alternativa. Il P. non ha necessariamente
carattere soggettivo; non è riducibile al dubbio per quanto anche il dubbio
sia, in un certo senso, un problema. Esso è piuttosto il carattere proprio di
una situazione che non ha significato unico o che include comunque alternative
di qualsiasi specie. Un P. è la dichiarazione di una situazione di questo
genere. La nozione di P. fu elaborata dalla matematica antica nella distinzione
da quella di teorema (v.). Per problema fu intesa una proposizione che da certe
condizioni note muove alla ricerca di qualcosa di ignoto. Alcuni geometri
(probabilmente quelli della scuola platonica) ritenevano che la loro scienza
fosse costituita essenzialmente da problemi; altri, da teoremi (PRocLo, Comm.
al I di Euclide, 77, 7-81, 22, Friedlein). Aristotele definiva il P. come un
procedimento dialettico che tende alla scelta o al rifiuto oppure alla verità e
alla conoscenza + (Top., I, 11, 104b): nella quale le parole «scelta + o «
rifiuto » stanno a indicare le alternative che si presentano ai problemi di
ordine pratico mentre «verità» e «conoscenza» designano le alternative
teoretiche. Aristotele esemplifica la sua definizione dicendo che un P. del
primo genere è se il piacere sia un bene o no; e un P. del secondo genere è se
il mondo sia eterno (/bid., 104b 8). Poichè, dove ci sono P., ci sono anche
sillogismi contrari, i P. possono nascere, secondo Aristotele, solo dove manca
un discorso concludente: il P. in altri termini appartiene al dominio della
dialettica cioè dei discorsi probabili, non a quello della scienza. Comunque,
il P. conserva per Aristotele il carattere di indeterminazione, che gli è dato
dall’alternativa. Nell’uso matematico del termine, questo carattere è andato
tuttavia attenuandosi. La logica medievale aveva trascurato l’analisi e la
definizione di questa nozione; e quando essa comincia ad attrarre di nuovo
l’attenzione dei logici, cioè nel sec. xvii, il significato che essi le
attribuiscono è desunto dalle matematiche. Così Jungius dice che «Il P. o la
proposizione proble700 matica è una proposizione principale che enuncia che
qualcosa può essere fatto o mostrato o trovato » {Logica Hamburgensis, 1638,
IV, 11, 7). Leibniz notava che « per P. i matematici intendono le questioni che
lasciano in bianco una parte della proposizione » (Nouv. Ess., IV, II, 7). E
proprio appellandosi all'uso matematico, Wolff definiva il P. come «una
proposizione pratica dimostrativa » intendendo per « proposizione pratica » quella
«per la quale si afferma che qualcosa può o deve essere fatta » ed escludendo
esplicitamente il significato aristotelico del termine (Log., $ 276, 266). Non
molto diversa da questa è la definizione di Kant: «P. sono proposizioni
dimostrabili bisognose di prove o tali che esprimano un’azione il cui modo
d’effettuazione non è immediatamente certo? (Logik, $ 38). Anche nel pensiero
moderno la nozione di P. è stata ed è tra le più trascurate. I filosofi, pur
parlando continuamente di P. e ritenendo come loro compito la soluzione di un
certo numero di essi e specialmente di quelli che essi stessi definiscono
«massimi», non si sono troppo curati di analizzare la corrispondente nozione.
Il più delle volte il P. è stato considerato come una condizione o situazione
soggettiva e confuso con il dubbio. Lo stesso Mach lo definiva in questo senso,
come «il disaccordo tra i pensieri e i fatti o il disaccordo dei pensieri tra
loro» (Erkenntniss und Irrtum, cap. XV; trad. franc., pag. 252-53). Solo
recentemente è stato riconosciuto il carattere di indeterminazione oggettiva,
che definisce il P.: questo è accaduto nella Logica (1939) di Dewey. Nel P.
Dewey ha visto la « proprietà logica primaria ». Il P. è la situazione che
costituisce il punto di partenza di qualsiasi indagine cioè la situazione
indeterminata. «La situazione indeterminata diventa problematica nello stesso
processo di assoggettamento all’indagine. Essa si produce per cause reali, come
avviene, per es., nello squilibrio organico della fame. Non c’è di nulla di
intellettuale o di conoscitivo nell’esistenza di situazioni del genere, salvo
che esse sono la condizione necessaria di operazioni o indagini conoscitive. Il
primo risultato del promuovere l’indagine è che la situazione è riconosciuta
come problematica (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 161). L’enunciazione del
P. consente l’anticipazione di una soluzione possibile che è l’idea; e l’idea
esige quello sviluppo dei rapporti inerenti al suo significato che è il
ragionamento. Infine, la soluzione effettiva è la determinazione della
situazione iniziale cioè il raggiungimento di una situazione unificata nelle
sue relazioni e distinzioni costitutive. Un’analisi analoga a questa nella sua
struttura fondamentale è quella data da G. Boas, che definisce il P. come «la
coscienza di una deviazione dalla norma» (The Inquiring Mind, 1959,
PROBLEMATICA pag. 56). All’analisi di Dewey va tuttavia aggiunta una
determinazione fondamentale: cioè il riconoscimento del fatto che un P. non
viene eliminato o distrutto dalla sua soluzione. Un «P. risolto » non è un P.
che non si presenterà mai più come tale, ma è un P. che continuerà a
presentarsi con probabilità di soluzione. La scoperta di un medicamento che
guarisce una malattia è la soluzione di un P.; con essa il P. non risulta
eliminato giacchè la malattia continuerà a presentarsi; ciò che la soluzione
consente è pertanto la possibilità, entro certi limiti garantita, di risolvere
il P. tutte le volte che si presenta. Proprio in base a questo carattere del
P., si parla della problematicità dei campi in cui il P. si presenta. E in
questo senso il P. è diverso non solo dal dubbio che, una volta risolto viene
eliminato e soppiantato dalla credenza, ma anche dalla questione che, una volta
trovata la sua risposta, perde il suo significato. PROBLEMATICA (ted.
Problematik). Una raccolta ordinata o sistematica di problemi. PROBLEMATICISMO.
Termine diffuso in Italia da Ugo Spirito per designare la dottrina della « vita
come ricerca »: una vita condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò
a oscillare fra dogmatismo e scetticismo (La vita come ricerca, 1937).
PROBLEMATICITÀ. Carattere di un campo di indagine nel quale la soluzione dei
problemi non elimina i problemi stessi. Ad es., «P. dell'esperienza + è il
carattere per il quale nell'esperienza i problemi cosiddetti risolti non sono
che possibilità di soluzioni prospettate in anticipo, con qualche garanzia di
successo, dei problemi che via via insorgono. Il termine viene adoperato
frequentemente nella filosofia contemporanea senza chiarimenti espliciti.
PROBLEMATICO (ingl. Problematic; francese Problématique; ted. Problematisch).
1. Ciò che è un problema o concerne un problema. 2. Ciò che non implica
contraddizioni ma neppure garanzia della sua verità, sicchè può essere
affermato o negato ad arbitrio. Questo è il significato che Kant attribuì al
termine: «La proposizione P. è quella che esprime solo una possibilità logica
(non oggettiva) ossia una libera scelta di assumere tale proposizione come
valida + (Crit. R. Pura, $ 9). « Chiamo P. un concetto che non contiene
contraddizioni e che, come limitazione di concetti dati, si connette con altre
conoscenze, ma la cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta
» (/bid., Anal. dei Princ., cap. III). PROCESSIONE (gr. rp6080g; lat.
Processio; ingl. Procession; ted. Procession)i. La derivazione delle cose da
Dio, secondo i Neoplatonici: in quanto tale derivazione dà luogo a realtà di
rango inferiore, che somigliano a quelle da cui provengono. « Ogni P. si compie
per via di simiglianza delle cose seconde PROGETTO rispetto alla prime » dice
Proclo (/st. Theol., 29; cfr. PLoTINO, Enn., IV, 2, 1, 44; V, 2, 2; SCOTO
ERIUGENA, De divis. nat., III, 17, 19, 25). La teologia cristiana ha adoperato
la stessa nozione per determinare il rapporto tra le persone divine. S. Tommaso
distingueva a questo proposito una processio ad extra, nella quale l’azione
tende verso qualcosa di esterno e la processio ad intra per la quale l’azione
tende a qualcosa di interno come accade nella P. che va dall’intelletto
all'oggetto dell’intendere, che rimane dentro l’intelletto stesso. In questo
secondo senso è da intendersi, secondo S. Tommaso, la P. delle persone divine
da Dio padre (S. Th., I, q. 27, a. 1). PROCESSO (lat. Processus; inglese
Process; franc. Processus; ted. Process). 1. Procedimento, modo d’operare o
d’agire. Per es., «il P. di composizione e di risoluzione » per indicare il
metodo che consiste nel discendere dalle cause all’effetto o nel risalire
dall’effetto alle cause (cfr., ad es., S. Tommaso, S. Th., III, q. 14, a. 5);
«P. all’infinito » per indicare il risalire da una causa all’altra senza
fermarsi (/bid., I, q. 46, a. 2). 2. Divenire o sviluppo, per es., « il P.
della storia ». In questo senso il termine è adoperato da Whitehead per indicare
il divenire del mondo (Process and Reality, 1929). 3. Una qualsiasi
concatenazione di eventi, per es., il « P. della digestione » o « il P. chimico
». PRODOTTO LOGICO. È la figura (a-5) risultante da una moltiplicazione logica
(v.). G.P. PRODUZIONE (gr.
roleoc; lat. Productio; ingl. Production; franc. Production; ted. Production). Porre in essere qualcosa che potrebbe
non essere. Platone definiva arte produttiva «ogni possibilità che diventi
causa di generazione di cose che prima non erano + (Sof., 265 b) e Aristotele
vedeva nella P. il compito proprio dell’arte e la distingueva dall’azione e dal
sapere: «Ogni arte concerne la generazione e cerca gli istrumenti tecnici e
teorici per produrre una cosa che potrebbe essere e non essere e il cui
principio risiede in colui che la produce e non nell’oggetto prodotto » (Eric.
Nic., VI, 4, 1140 a 10). Da questo punto di vista la P. si distingue
dall’azione che è l’operazione che ha in se stessa il suo fine: una differenza
sulla quale insistette S. Tommaso (v. Azione). Il platonismo aveva tuttavia
sminuito questa differenza. Plotino aveva affermato che per la natura « essere
ciò che è significa produrre; essa è contemplazione e oggetto di contemplazione
perchè è ragione; e poichè è contemplazione e oggetto di contemplazione e di
ragione, essa produce. La P. non è che contemplazione» (Enn., III, 8, 3).
Queste considerazioni sono state spesso ripetute da un punto di vista
idealistico: il che non toglie che la migliore definizione del termine in
questione sia rimasta quella aristotelica. 701 PROERESI. V. SCELTA. PROFONDO
(ingl. Profound, Deep; franc. Profond; ted. Tief). Ciò che ha un significato
nascosto e inesprimibile. Ii termine ha acquistato un significato tecnico nella
filosofia e nella psicologia contemporanea per indicare ciò che nell’ambito dei
problemi rimane fuori dall’esplicita formulazione dei problemi stessi pur
costituendo una sfera che può in qualche modo essere « sentita » o «intuita » e
perciò interpretata o espressa metaforicamente; o ciò che nell'ambito di un
campo d'indagine si sottrae alla portata dei procedimenti propri del campo
stesso ma fa sentire la sua presenza nel modo oscuro che si è detto. Già
Husserl polemizzava contro la nozione del P. in filosofia. «La scienza vera e
propria, egli diceva, non conosce, per tanto che si estende la sua dottrina
autentica, alcun senso profondo. Ogni momento di una scienza perfetta è un
tutto di elementi di pensiero, ciascuno dei quali è inteso immediatamente e non
possiede perciò alcun senso P.» (Phil. als strenge Wissenschaft, 1910, in fine;
traduzione ital., pag. 81). La nozione di P. prevale oggi soprattutto nel
dominio di certi indirizzi psicologici e antropologici come la psicanalisi,
l’intuizionismo, l’esistenzialismo; e nonostante la ricchezza delle analisi cui
ha dato luogo comincia oggi a suscitare una reazione critica salutare. « Le
psicologie abissali, ha scritto Y. Belaval, e le filosofie che si ispirano ad
esse non hanno fatto nascere nuovi fenomeni: hanno supposto processi e
intenzioni nascoste, hanno avanzato nuove idee sull’uomo, ma a queste ipotesi e
idee manca sempre d'esser formulate nella lingua delle conoscenze progressive
in cui ciascuna parola designa univocamente un fenomeno determinato e ciascuna
regola di sintassi un’operazione tecnica precisa» (Les conduites d’échec, 1953,
pag. 274). PROGETTO (ingl. Plan; franc. Projet; tedesco Projekt, Entwurf). In
generale, l’anticipazione delle possibilità: cioè qualsiasi previsione,
predizione, predisposizione, piano, ordinamento, predeterminazione, ecc.,
nonchè il modo d'essere o d’agire che è proprio di chi fa ricorso a
possibilità. In questo senso, nella filosofia esistenzialistica il P. è il modo
d’essere costitutivo dell’uomo 0, come dice Heidegger (che per primo ha
introdotta la nozione) la sua « costituzione ontologico-esistenziale » (Sein
und Zeit, $ 31). Heidegger ha insistito pure sulla tesi che ogni progettazione,
in quanto anticipa possibilità che di fatto son tali, ricade sul fatto stesso e
non procede al di là: sicchè la massima dell’uomo che progetta se stesso è: «
Divieni ciò che sei» (/bid.). Altrove Heidegger ba detto che il P. del mondo in
cui propriamente consiste l’esistenza umana è anticipatamente dominato dallo
stato di fatto che esso cerca di trascendere e perciò finisce per ridursi 702 e
appiattirsi a questo stato di fatto (Vom Wesen des Grundes, 1929, 3; trad.
ital., pag. 67 sgg.). Sartre ha sostanzialmente ripetuto questi concetti di
Heidegger insistendo tuttavia sulla gratuità perfetta dei «P. di mondo» in cui
l’esistenza consiste. Egli ha chiamato « P. fondamentale » o « iniziale »
quello costitutivo dell’esistenza umana nel mondo e ha considerato tale P.
continuamente modificabile ad arbitrio: « L’angoscia, che, quando è svelata,
manifesta alla nostra coscienza la nostra libertà, testimonia la modificabilità
perpetua del nostro P. iniziale» (L’érre et le néant, 1943, pag. 542). Per
quanto caratteristica della filosofia esistenzialistica, la nozione di P. è
entrata a far parte della terminologia filosofica e scientifica contemporanea.
Essa si è dimostrata utile a esprimere aspetti importanti delle situazioni
umane, sia di quelle più generali analizzate dalla filosofia sia di quelle
specifiche che costituiscono l’oggetto delle scienze antropologiche:
psicologia, sociologia, ecc. V. STRUTTURA e MODELLO, PROGRESSO (ingl. Progress;
franc. Progrès; ted. Fortschrift). Il termine designa due cose: 1° una
qualsiasi serie di eventi che si svolga in un senso desiderabile; 2° la
credenza che gli eventi nella storia si svolgano nel senso più desiderabile,
realizzando una perfezione crescente. Nel primo senso, si parla, ad es., del «
P. della chimica » o del «P. della tecnica»; nel secondo senso, si dice
semplicemente « il P.». In questo secondo senso la parola designa non soltanto
un bilancio della storia passata ma anche una profezia per l’avvenire. Il primo
senso ristretto del termine non fa nascere problemi e si incontra dappertutto.
Anche gli antichi lo possedettero; e specialmente gli Stoici lo adoperarono per
indicare l’avanzare dell’uomo sulla via della saggezza o della filosofia
(STOBEO, Ecl., II, 6, 146: il termine è rpoxor). Il secondo senso del termine
fu sconosciuto all’antichità classica e al Medioevo. La concezione generale che
gli antichi ebbero della storia fu quella della decadenza a partire da una
perfezione primitiva (età dell’oro) o quella di un ciclo di eventi che si
ripete identicamente senza limiti (v. StorIA). Solitamente la prima
enunciazione della nozione di P. si attribuisce a Francesco Bacone che così la
espose in un passo famoso del Novum Organum (1620): « Per antichità dovrebbe intendersi
la vecchiezza del mondo che va attribuita ai nostri tempi e non a quella
giovinezza nel mondo che fu presso gli antichi. E come da un uomo anziano
possiamo aspettarci una conoscenza molto maggiore delle cose umane e un più
maturo giudizio che da un giovane, per via dell’esperienza e del gran numero di
cose da lui vedute, udite e pensate, così dell’età nostra (se avesse coscienza
delle sue forze e volesse sperimentare e comprendere) PROGRESSO sarebbe giusto
aspettarsi assai più gran cose che dai tempi antichi essendo la nostra per il
mondo l’età maggiore, arricchita da innumerevoli esperimenti e osservazioni »
(Nov. Org., I, 84). Bacone conclude facendo suo il motto di Aulo Gellio (o
meglio che Aulo Gellio attribuiva a un vecchio poeta): veritas filia temporis
(Noct. Att., XI, 11). Alcuni decenni prima concetti simili a questi erano però
stati esposti da Giordano Bruno nella Cena delle Ceneri (1584). Nel sec. xvn la
nozione di progresso fa i suoi primi passi soprattutto attraverso la disputa
sugli antichi e i moderni (v. ANTICHI); mentre nel sec. xvi, con Voltaire,
Turgot e Condorcet prevaleva nella concezione della storia. Ma solo il sec. xx
vide l’affermazione totale del concetto che nei primi decenni diveniva il
vessillo del romanticismo e assumeva il carattere della necessità. Il concetto
della necessità del piano progressivo della storia veniva espresso da Fichte
nel modo più energico: «Qualsiasi cosa realmente esista, egli diceva, esiste
per assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui
esiste ». Questa necessità è razionalità pura: « Nulla è come è perchè Dio
vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti che
così... Comprendere con chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno
ed immutabile, in quanto guida la specie umana, è compito dei filosofi. Fissare
di fatto la sfera sempre cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali
procede la sicura marcia della specie umana è compito dello storico, le cui
scoperte sono solo casualmente ricordate dal filosofo (Grundziige des
gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, 9). L’identica concezione veniva difesa dal
positivismo che con Augusto Comte, esalta il P. come l’idea direttiva della
scienza e della sociologia, considerandolo come «lo sviluppo dell'ordine» ed
estendendolo anche alla vita inorganica e animale (Politique positive, 1851, I,
pag. 64 sgg.). On the Origin of Species (1859) di Darwin, dava una base
positiva o scientifica al mito del P. adducendo prove in favore di un
trasformismo biologico interpretato in senso ottimistico o progressivo. E
l'opera di SPENCER, First Principles (1862), utilizzava la nozione di P. per
una interpretazione metafisica, che intendeva essere positiva o scientifica,
dell’intera realtà. Queste sono soltanto le tappe salienti dell’affermazione di
un concetto che ha dominato tutte le manifestazioni della cultura occidentale
ottocentesca e che ancora rimane sullo sfondo di molte concezioni filosofiche e
scientifiche. Le implicazioni principali della nozione sono le seguenti: 1° il
corso degli eventi (naturali e storici) costituisce una serie unilineare; 2°
ogni termine di questa serie è necessario nel senso che non può essere diverso
da quello PROPOSIZIONE che è; 3° ogni termine della serie realizza un
incremento di valore sul precedente; 4° ogni regresso è apparente o costituisce
la condizione di un P. ulteriore. Talvolta, come nella filosofia di Hegel, si
limitano le condizioni di validità della proposizione 3° perchè si ammette che
la storia costituisca un circolo nel quale le fasi più alte, già realizzate,
costituiscano le condizioni di quelle più basse, sì che queste posseggono la
stessa razionalità o perfezione del tutto (cfr. HEGEL, Wissenschaft der Logik,
I, I, I, cap. II, nota I, «Il progresso infinito»; Croce, La storia come
pensiero e come azione, 1938, pag. 25). Ma nessuna di quelle quattro tesi può
trovare un appoggio nelle regole della metodologia storiografica che consentono
di delimitare, oggi, il campo detto «storia +; e nessuna di esse è compatibile
con tali regole. L'idea del P. cade perciò fuori del dominio della storiografia
scientifica; e dall’altro lato la credenza nel P. è stata fortemente
indebolita, nella cultura contemporanea, dall’esperienza delle due Guerre e dal
mutamento che esse hanno prodotto nel dominio della filosofia, smantellando
quell’indirizzo romantico del quale costituiva un caposaldo. Quest’idea può
pertanto, allo stato attuale degli studi, essere considerata valida soltanto
come una speranza o un impegno morale per l’avvenire, non come un principio
direttivo dell’interpretazione storiografica. Sul periodo aureo della credenza
nel P. cfr. J. B. Bury, The Idea of Progress, 1932 (v. STORIA). PROIEZIONE
(ingl. Projection; franc. Projection; ted. Projektion). Con questo termine
veniva frequentemente indicato, nella psicologia dell’800, il riferimento della
sensazione all’oggetto, riferimento per il quale l’oggetto viene localizzato
nello spazio circostante, per quanto la sensazione si verifichi solo
nell’organodi senso. Alla fortuna del termine contribuì soprattutto Helmbholtz
(Physiologische Optik, 1867, pag. 602). Il termine è ora caduto in disuso
giacchè il problema stesso non sussiste più negli stessi termini, dato il nuovo
concetto di percezione (v.). Tecniche proiettive si chiamano oggi quelle
tecniche di accertamento psicologico che consistono nel presentare al soggetto
un materiale (specialmente figure) di significato ambiguo che il soggetto può
interpretare secondo le sue tendenze o bisogni o repressioni e la cui
interpretazione può rivelare perciò lo stato del soggetto. Il più conosciuto di
questi artifici proiettivi è quello introdotto nel 1921 dallo svizzero
Rorschach (cfr. H. H. ANDERSON, e G. L. ANDERSON, An Introduction to Projective
Techniques, 1951). Nella psicanalisi il concetto di P. è usato per descrivere
il processo mediante il quale un soggetto attribuisce a un altro soggetto gli
atteggiamenti o 703 sentimenti di cui si vergogna o che comunque trova
difficile o penoso riconoscere a se stesso (confronta J. R. SMITHIES, « Analysis
of Projection » in British Journal of Philosophy of Science, 1954, pag. 120).
PROLEGOMENI (ingl. Prolegomena; francese Prolégomènes; ted. Prolegomena).
Trattazione preliminare, introduttiva e semplificata. Il termine ricorre nel
titolo di alcune opere di filosofia come quella di Kant, P. a ogni futura
metafisica che si presenterà come scienza (1783). PROLEPSI. V. ANTICIPAZIONE.
PROPEDEUTICA (gr. rporadela; ingl. Propaedeutics; franc. Propédeutique; ted.
Propàdeutik). Insegnamento preparatorio. Così Platone chiamò l’insegoamento
delle scienze speciali (aritmetica, geometria, astronomia e musica) rispetto
alla dialettica (Rep., VII, 536 d). E così si chiama anche oggi la parte
introduttiva di una scienza o un corso di studi che faccia da preparazione ad un
altro corso. PROPENSIONE (lat. Propensio; ingl. Propensity; franc. Propension;
ted. Neigung). Tendenza, nel significato più generale. Hume usava il termine
per definire l'abitudine: « Ovunque la ripetizione di un atto o di
un’operazione particolare produce una P. a rinnovare l’atto o l’operazione
senza la costrizione di un ragionamento o di un processo intellettuale, diciamo
che questa P. è effetto dell’abitudine » (Ing. Conc. Underst., V, 1).
PROPORZIONE. V. ANALOGIA. PROPOSIZIONALE CALCOLO, FUNZIONE. V. CALCOLO;
FUNZIONE PROPOSIZIONALE. PROPOSIZIONE (gr. rpéraow; lat. Propositio; ingl.
Proposition; franc. Proposition; ted. Satz). Un enunciato dichiarativo o ciò
che è dichiarato, espresso o designato da un tale enunciato. I due usi del
termine sono stati nettamente distinti da Carnap conformemente ad una lunga
tradizione (Intr. to Semantics, 1941, $ 37) ma vengono ancora spesso confusi,
per quanto la distinzione sia stata largamente accettata nella logica
contemporanea (cfr. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 04; W. KnEALE e M.
KNEALE, The Development of Logic, p. 49 sg.). I due usi sono comandati da due
concetti diversi della P. e precisamente dai seguenti: 1) La P. come
espressione verbale di un'operazione mentale, detta spesso giudizio. 2) La P. come
entità oggettiva o valore di verità di un enunciato. 1. La dottrina che la P. è
l’espressione verbale di un’operazione mentale fu formulata per la prima volta
da Aristotele: il quale ritenne che il complesso (ovurdoxt) dei termini (nome e
verbo) del discorso dichiarativo (16106 &ropavrixèc) corrisponda a un
pensiero (vinua) cui inerisce necessariamente l’essere vero o falso e che
pertanto « il vero e il falso » vertono sulla composizione e sulla divisione
(oivdears 704 xal Bratprorc) (De Interpr., 1, 16 a 9 sg.). Il discorso
dichiarativo è così l’espressione di un pensiero che procede componendo e
dividendo: la composizione dà origine all’affermazione, la divisione alla
negazione (/b., 6, 17 a 23). Negli Analitici (cioè nella teoria del sillogismo)
Aristotele chiamò il discorso dichiarativo « prorasis» (il cui equivalente
latino è « propositio ») cioè « premessa del ragionamento », e definì la
protasis come « il discorso che afferma o nega qualcosa di qualcosa» (An. Pr.,
I, 1, 24 b 16); o come «l'’asserzione di uno dei membri della contraddizione»
(Zb. II, 12, 77 a 37). Da questo punto di vista, la P. differisce dal problema
(v.) soltanto per la forma: giacché mentre il problema consiste nel chiedersi
ad es.: « È l’uomo animale terrestre bipede o non lo è??, la P. consiste
nell’asserzione «L'uomo è animale terrestre bipede» o nell’asserzione
contraddittoria (Top., I, 4 101 b 28). Ma in ogni caso, la verità o falsità di
una P. dipende dal fatto che la composizione o divisione dei termini, nella
quale essa consiste, corrisponda o meno a quella che l’intelletto trova nelle
stesse cose esistenti. « Tu non sei bianco, dice Aristotele, perché noi
crediamo con verità che tu sei bianco ma, perché tu sei bianco, noi diciamo la
verità asserendo questo. Se alcune cose stanno sempre insieme e non possono
essere divise ed altre son sempre divise e non possono stare insieme e altre
cose ancora possono essere o composte o divise, l’« essere » consisterà
nell’essere combinato o nell’essere diviso e il « non essere » nell’esser
diviso o nell’esser più cose» (Mer., IX, 10, 1051 a 34). La P., nel combinare i
suoi termini, esprime l’azione combinante o dissociante dell’intelletto che
segue la combinazione e dissociazione delle cose esistenti. Questa dottrina è
rimasta sostanzialmente immutata nella tradizione antica, fatta eccezione per
gli Stoici (e per il filone da essi iniziato) che introdussero la nozione di
enunciato (v.). La tradizione medievale e buona parte della logica moderna l’ha
conservata. San Tommaso diceva che la verità e la falsità sono nell’intelletto
in quanto precede componendo e dividendo: « infatti, aggiungeva, in ogni P. una
forma significata dal predicato o si applica a qualche cosa significata dal
soggetto o si allontana da questa cosa » (S. Th., I, q. 16, a. 2). Nello stesso
indirizzo della logica terministica, Ockham ammetteva una « P. mentale », che
identificava con l’atto dell’intelletto (Liber periermenias, proemium), per
quanto facesse dipendere la verità della P. dalla suppositio (v. oltre, 2). A
partire dall’età carteziana, il termine «P.» è sostituito dal termine
«giudizio» perché l’attenzione della logica filosofica si concentra sempre di
più sull’operazione intellettuale che trova espressione nella P. (v. Giupizio,
4). PROPOSIZIONE Ma ad un atteggiamento mentale riduce la P. anche Russell, che
tuttavia la distingue da enunciato. Egli infatti la considera come « credenza +
o « atteggiamento proposizionale » ed afferma pertanto che le P. devono essere
definite come eventi psicologici (o fisiologici) di una certa specie: immagini
complesse, aspettazioni, ecc. Ciò è reso evidente, secondo Russell, dal fatto
che le P. possono essere false (An Inquiry into Meaning and Truth, cap. XIII, A; ed. Pelican Books,
p. 172; cfr. Human Knowledge, p. 449-50) v. Giupizio, 3. 2. La dottrina che la P. costituisce il designato
dell’enunciato assume forme diverse a seconda della natura che si attribuisce
al designato stesso. Talvolta il designato è inteso come « P. in sé» o «entità»
di qualche tipo, tal’altra come oggetto o situazione oggettiva o stato di cose
o carattere. In ogni caso, questa interpretazione della P. prescinde da ogni
riferimento ad atti o ad operazioni mentali. Gli stoici, che introdussero la
nozione di enunciato (v.), ritennero che esso esprime una condizione o uno
stato di cose. Essi affermavano che «chi dice ‘È giorno’ mostra di ritenere che
è giorno. Ora se è giorno realmente, l’enunciato che sta dinnanzi a noi è vero,
se non è giorno è falso » (Dro. L., VII, 65). Da questo punto di vista, il
fatto che è giorno è il significato o il valore di verità dell’enunciato « È
giorno ». La logica terministica medievale indicò il significato denotativo dei
termini della P. con il concetto della supposizione (v.), secondo la quale una
P. è vera se i termini da cui essa risulta stanno per il medesimo oggetto
esistente (cfr. OckHaM, Summa Logicae, Il, 2). Nelle Laws of Thought (1854)
Boole distingueva le P. primarie che esprimono una relazione tra cose e le P.
secondarie che esprimono una relazione tra P. (Cap. IV, $ 1). Ma già Bolzano
aveva opposto alla P. verbale la P. in sé (Satz un sich), che è quella valida
indipendentemente dal fatto di essere o non essere espressa O pensata e
costituisce l’elemento delle matematiche pure (Wissenschaftslehre, 1837, $ 19).
Riprendendo la polemica di Husserl contro lo psicologismo, Meinong distingueva
in ogni « giudizio » (termine per lui equivalente a P.) l’obiettivo (Objektiv)
che è il contenuto interno del giudizio e l’obietto (Objekt) che è l’entità
esterna al quale il giudizio si riferisce (Uber Annahmen, 1902, p. 52). Questa
distinzione equivale, a tutti gli effetti, a quella che Frege aveva stabilito
tra senso e significato (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892) (v. SIGNIFICATO). A
proposito della P., Frege aveva detto che mentre il senso (Sinn) della P. è un
« pensiero +, non inteso però soggettivamente ma come « contenuto oggettivo che
può costituire il possesso comune di molti», il significato (Bedeutung) della
PROPOSIZIONE FUNZIONALE P. stessa è il suo « valore di verità » cioè «la
circostanza che essa è vera o falsa ». In tal modo la P. può essere considerata
come un nome proprio e il vero o falso è l’oggerto della P. stessa. Ma poiché
tutte le P. vere avranno lo stesso significato (il vero) e così tutte le
proiezioni false (il falso), ne segue che una P. non può ridursi né al suo solo
significato né al suo solo senso (che sarebbe un puro pensiero) ma deve
risultare dall'insieme dei due (Ueber Sinn und Bedeutung, $ 5, in Phil. Writings of G. F., ed. Geach
and Black, p. 63 sg.). Nelle
proposizioni indirette od oblique in cui entrano verbi come «dire», «udire»,
«pensare», « credere », «concludere » e simili, come ad es. in questa: «
Copernico credeva che le traiettorie dei pianeti fossero circolari», la P.
secondaria introdotta dal clte vale solo come il nome di un pensiero e perciò
può essere variata senza compromettere il valore di verità della P. intera
(/b., $ 6; in Geach, p. 66 sg.). Su questi concetti di Frege s’imperniano le
discussioni della logica contemporanea intorno alla natura della proposizione.
Delle due dimensioni della P. ammesse da Frege, Wittgenstein ha cercato di
eliminare il senso (Sinn, come « pensiero » o « contenuto oggettivo ») ed ha
usato la parola senso (Sinn) per intendere ciò che Frege intendeva per significato
(Bedeutung), usando quest’ultima parola solo per la denotazione dei nomi e dei
segni. La P., egli dice è una raffigurazione (Bild, picture) della realtà. lo
infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata appena comprendo
la proposizione. E comprendo la P. senza che il suo senso mi venga spiegato »
(Tractatus, 4.021). Da questo punto di vista, « la forma universale della P. è:
le cose stanno così e così » (/b., 4.5). Perciò comprendere una P. significa
semplicemente sapere «come stanno le cose nel caso che essa sia vera » (/b.,
4.024), e non c'è bisogno pertanto di ricorrere a un pensiero o a un qualsiasi
contenuto oggettivo. Il « senso » di cui parlava Frege è quindi inutile secondo
Wittgenstein perché il senso della P. è lo stesso suo significato; e «la P.
mostra il proprio senso » (/b., 4.022). Dall’altro lato, Wittgenstein afferma
che «la P. ha un senso indipendentemente dai fatti » (4.061) e che «le P. ‘p’ e
“non p’ hanno un senso opposto per quanto in esse si esprime una unica e sola
realtà » (4.0621): il che implicherebbe, nella terminologia di Frege, un senso
indipendente dal significato. Contrariamente a Wittgenstein, alcuni logici
contemporanei tendono a ridurre il significato al senso e perciò adoperano il
termine « significato » (Meaning) a indicare quello che Frege chiamava senso.
Così Ayer ha definito la P. come la «classe di enunciati che hanno lo stesso
significato (signifi45 — ABDBAGNANO, Dizionario di filosofia. 705 cance)
intenzionale per ognuno che li capisce» (Language Truth and Logic, [1936],
1948, p. 88). Nello stesso senso Quine ha considerato le P. come «ia
significati degli enunciati» (From a Logical Point of View, VI, 2; p. 109; Word
and Object, 1960, $ 42). Più vicini alla posizione di Frege sono quelle di
Carnap e Church. Carnap ha distinto l’estensione di un enunciato che è il suo
valore di verità, dall’intensione di esso che è la P. che esso esprime. Nel
senso di Carnap tuttavia la P. è un’entità oggettiva come la « proprietà », per
quanto soltanto di natura logica. Si può parlare, secondo Carnap, di P. anche a
proposito di enunciati falsi perché le P. sono entità complesse, composte da
altre entità; e se anche si ammette che i componenti ultimi di una P. devono
essere «esemplificati» (cioè devono essere veri), non è detto che la P. nel suo
complesso debba esserlo (Meaning and Necessity, $ 6; p. 26-30). Church, che ha
accettato la terminologia di Frege, usa il termine « P.» come equivalente del «
senso » di Frege e afferma che è per una decisione in qualche modo arbitraria
che neghiamo il nome di P. ai sensi degli enunciati (dei linguaggi naturali) in
quanto esprimono un senso ma non hanno valore di verità (Zntr. to Mathematical
Logic, $ 04, op. 27). Dall’altro lato Bergmann si è servito del termine di
Brentano e Husserl «intenzione» per reinterpretare il «significato» di Frege.
L'intenzione è l’oggetto degli atti intenzionali e la P. è il « carattere»
corrispondente all’intenzione stessa. « Nel paradigma, egli dice, l’intenzione
è un fatto espresso da ‘questo è verde *. Chiamo carattere corrispondente “la
P. questo è verde’; e uso P. come un nome generale per questa specie di
carattere» (Logic and Reality, 1964, p. 32). Le discussioni in corso tra i
logici sulle P., nonché sulle loro equivalenze o sinonimie e su altri problemi
relativi, rimangono imperniate sulla distinzione tra senso e significato o su
distinzioni corrispondenti. PROPOSIZIONE ATTRIBUTIVA; ATO. MICA; COMPARATIVA;
DICHIARATIVA; DISCRETIVA; SECONDARIA. V. i relativi aggettivi. PROPOSIZIONE
FUNZIONALE (inglese Functional Proposition; franc. Proposition fonctionelle;
ted. Funktionellsatz). Con questo termine si designano le P. molecolari (ossia
P. complesse, composte di P. semplici mediante i semplici connettivi logici
‘non ’,‘0’,‘e’, ‘implica ’) la cui verità (o falsità) sia funzione unicamente
della verità o falsità delle componenti. La questione se esistano P. molecolari
non funzionali è stata largamente discussa nella Logica contemporanea: contro
la tesi estensionale, principalmente sostenuta dal Wittgenstein, secondo 706
cui tutte le P. molecolari sono funzioni-verità delle componenti, Russell e
altri hanno sostenuto la possibilità di P. composte che non fossero funzioni,
come, per es., « A crede p» (dove ‘A * è un nome di persona e ‘p’ una P.). G.
P. PROPRIETÀ (ingl. Property; franc. Propriété; ted. Eigenschaft). 1. La
determinazione o caratteristica propria di un oggetto in uno dei sensi del
termine proprio (v.). 2. Qualsiasi qualità, attributo, determinazione che serva
a contrassegnare un oggetto o a distinguerlo dagli altri. PROPRIETÀ
COMMUTATIVA, DISTRIBUTIVA. V. COMMUTATIVO, DISTRIBUTIVO. PROPRINCIPIA. Termine
adoperato da Campanella per indicare i due princìpi che entrano a costituire le
cose finite, cioè l’Essere e il Non-essere (Mer., II, 2, 2) (v. PRIMALITÀ).
PROPRIO (gr. t3uov; lat. Proprium; ingl. Proper; franc. Propre; ted. Eigene).
1. Una determinazione che appartiene a tuffa una classe di oggetti ed
appartiene sempre e solo a questa classe, pur non facendo parte della
definizione di essa. Questo è il senso fondamentale del termine, quale fu
chiarito da Aristotele (Top., I, 5, 102 a 18) e che entrò a far parte della
tradizione logica (cfr. ARNAULD, Log., I, 7; Jungius, Logica Hamburgensis, I,
1, 33). In questo senso il P., pur non facendo parte dell’essenza sostanziale
di una cosa, è strettamente connesso con tale essenza o deriva in qualche modo
da essa. L'esempio addotto da Aristotele è il poter apprendere la grammatica:
questa determinazione è un P. dell’uomo nel senso che chi è capace di apprendere
la grammatica è uomo ed è uomo chi è capace di apprendere la grammatica: le due
determinazioni « uomo +» e «capace di apprendere la grammatica » sono
reciprocabili. In questo senso il P. è una determinazione privilegiata che sta
tra l’essenza e le determinazioni accidentali. 2. Lo stesso Aristotele tuttavia
chiama proprie anche le determinazioni accidentali quando distingue dal P. per
sè «che viene stabilito rispetto a tutti gli oggetti e separa l’oggetto in
questione da ogni altro, come nel caso in cui il P. dell’uomo sia l’essere un
animale mortale che può accogliere il sapere » dal P. rispetto ad altro « che è
quello che distingue l'oggetto non da ogni altro oggetto ma solo da qualche
oggetto dato » (Top., V, 1, 128b 34). Il «P. per sè» è il P. nel senso stretto
cioè la determinazione che appartiene sempre a tutto un oggetto dato e solo ad
esso, mentre il P. « rispetto ad altro » fu distinto da Porfirio (sulla base
delle stesse considerazioni aristoteliche) in tre altre determinazioni e cioè:
1° ciò che appartiene ad una sola specie ma non a tutti gli individui della
specie: in questo senso l’esser filosofi è P. dell’uomo; 2° ciò che
apparPROPRIETÀ tiene a tutti gli individui di una specie ma non ad una sola
specie; e in questo l’essere bipede è P. dell’uomo; 3° ciò che appartiene a
tutti gli individui di una sola specie ma non sempre; e in questo senso
l’incanutire è P. dell’uomo. Porfirio enumerava come quarto significato quello
più ristretto (/sgg., 12, 12 sgg.). I quattro significati di Porfirio vennero
abitualmente riprodotti dalla logica medievale (cfr., ad es., Pietro IspaNO,
Summ. Logicales, 2.13); ma a partire dalla Logica di Arnauld (I, 7), pur
facendosi menzione delle quattro distinzioni di Porfirio, si preferì limitare
il concetto di P. a quello più ristretto. Ed in realtà, nel suo significato
esteso, il concetto di P. può includere qualsiasi determinazione, a qualsiasi
titolo attribuita ad un oggetto: perciò perde ogni caratteristica o utilità
specifica. Comunque, la nozione è strettamente legata all'impianto della logica
aristotelica e alla stretta connessione di questa con la teoria della sostanza,
sicchè essa è caduta nella logica contemporanea. PROSILLOGISMO. V.
PoLISILLOGISMO. PROSPETTIVA (ingl. Prospect; franc. Perspective; ted. Perspektive).
Una qualsiasi anticipazione dell’avvenire: progetto, speranza, ideale,
illusione, utopia, ecc. Il termine esprime lo stesso concetto di possibilità
(v.) ma da un punto di vista più generico e meno impegnativo, giacchè possono
apparire come prospettive cose che non hanno abbastanza consistenza per essere
possibilità autentiche. Nella filosofia contemporanea il termine è stato
adoperato specialmente da Ortega y Gasset, Blondel, Mannheim, senza tuttavia
una chiara formulazione concettuale. Per prospertivismo (ted. Perspektvismus)
Nietzsche intese la condizione per la quale « ogni centro di forza — e non
l’uomo soltanto — costruisce tutto il resto dell’universo partendo da se stesso
cioè prestando all’universo dimensioni, forma e modello commisurati alla propria
forza » (Werke, ed. Kriner, XVI, $ 636). Il termine è stato talora usato per
designare la filosofia di Ortega y Gasset. PROSSIMO. (gr. tè v rainolov; lat.
Proximus; ingl. Neighbour; franc. Prochain; ted. Néchste). Nell’interpretazione
che il Vangelo di Luca (X, 29-37) dà della massima biblica « Ama il P. tuo come
te stesso » (Levitico, XIX, 18), P. è l’altro uomo in generale,
indipendentemente da ogni legame di razza, di amicizia o di parentela, in
quanto usa a noi misericordia o noi la usiamo a lui. Il che vuol dire che la
misericordia va usata a qualsiasi uomo in quanto tale, che comunque si incontri
con noi e non ristretta a una cerchia predeterminata di persone. PROTASI. V.
PROPOSIZIONE. PROTENSIONE (ingl. Prorensity; ted. Protention). Durata di
coscienza. Termine introdotto PROVA da Kant il quale osservava: « La felicità è
l’appagamento di tutte le nostre propensioni tanto extensive nella loro
molteplicità, quanto intensive cioè rispetto al grado e anche protensive
rispetto alla durata + (Crift. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. II).
Husserl ha chiamato P. «il prericordo riproduttivo in senso proprio» cioè lo
stato di aspettazione che prepara la riproduzione del ricordo (/deen, I, $ 77).
PROTOCOLLO (ingl. Protocol; franc. Protocol; ted. Protokoll). Termine
introdotto dal Circolo di Vienna per indicare la registrazione del dato
immediato o esperienza diretta (sensazione, percezione, emozione, pensiero,
ecc.). Le « proposizioni protocollari» sono quelle che contengono unicamente P.
e perciò fanno diretto riferimento ai dati immediati. Le proposizioni
protocollari, mentre sono lo strumento di ogni verificazione empirica, non
hanno a loro volta bisogno di verifica perchè la loro verità è garantita dal P.
che contengono e che le fa corrispondere immediatamente al dato empirico
(confronta R. CARNAP, in Erkenntnis, II, 1931, pag. 437 seguenti). La nozione
di P. rimane legata alla fase del neopositivismo che esigeva, per dichiarare
significante una proposizione, la verifica diretta della proposizione mediante
protocolli. Ma Carnap stesso a partire dallo scritto Testability and Meaning
(1936) limitava questa esigenza, affermando che gli enunciati, per essere
significativi, debbono essere confermabili cioè contenere soltanto «
predicati-cosa osservabili ». Questi predicati-cosa non sono più P., cioè dati
dell’esperienza immediata, ma piuttosto nomi di qualità elementari (per es., «
rosso +). Per una critica del concetto di P., nello stesso ambito del
positivismo logico, cfr. K. PoPPER, Logik der Forschung, 1934; trad. ingl.,
1958, $ 26 (v. ESPERIENZA). PROTOFILOSOFIA (ingl. Protophilosophy; franc.
Protophilosophie; ted. Protophilosophie). Termine adoperato soprattutto da
sociologi per indicare la filosofia dei popoli primitivi cioè quella che si
esprime nella forma del mito (v.). PROTOLOGIA (ingl. Protology; franc.
Protologie; ted. Protologie). Termine adoperato da alcuni scrittori italiani
del primo ’800 specialmente da Ermenegildo Pini (P., 3 voll., 1803) per
indicare quella che Fichte chiamava dottrina della scienza o scienza delle
scienze. Il termine fu adottato da Vincenzo Gioberti per l’ultima sua opera,
pubblicata postuma (P., 1857). Gioberti definisce la P. come «la scienza
dell’ente intelligibile intuita per via del pensiero immanente» scienza che è
la base di ogni altra scienza ed è anteriore anche all’ontologia. L’uso di
questo termine si è fermato a Gioberti. PROTON PSEUDOS (gr. mpétov yessoc). La
falsità della premessa maggiore in quanto 707 determina la falsità del
sillogismo (ARISTOTELE, An. Pr., II, 18, 66 a 16). PROTOTESI (ingl.
Protothesis; franc. Protothèse; ted. Protothese). Termine adoperato da W.
Ostwald per indicare le ipotesi che sono suscettibili di verifica sperimentale
allo stato attuale della scienza e che perciò si distinguono da quelle che non
lo sono (Die Energie und ihre Wandlungen, 1888, $ 68). In realtà, nessuna
ipotesi è come tale direttamente verificabile (v. IPOTESI; TEORIA). PROTOTIPO
(gr. rpwrérurog; lat. Prototypus; ingl. Prototype; franc. Prototype; ted.
Prototyp). Modello originario. Lo stesso che archetipo (v.). PROTRETTICO (gr.
rporpertxéc). Esortazione alla filosofia (cfr. PLAT., Eutid., 278 c; Crrsippo,
Stoicorum Fragmenta, III, 189). La parola fu adoperata come titolo di libro da
Aristotele, Epicuro, Cleante ed altri. PROVA (gr. texuipuov; lat. Probatio;
ingl. Proof; franc. Preuve; ted. Beweis). Un procedimento adatto a stabilire un
sapere cioè una conoscenza valida. Costituisce P. ogni procedimento del genere,
qualunque sia la sua natura: il mostrare ad oculos una cosa o un fatto,
l’esibire un documento, il riportare una testimonianza, l’effettuare
un’induzione sono P. come sono P. le dimostrazioni della matematica e della
logica. Il termine è pertanto più esteso di dimostrazione (v.): le
dimostrazioni sono P. ma non tutte le P. sono dimostrazioni. Il concetto fu
stabilito nel senso ristretto da Aristotele. «Dicono che la P. è ciò che
produce il sapere» egli scrisse; e perciò distinse la prova dall’indizio o
segno, che dà soltanto una conoscenza probabile (An. Pr., II, 27, 70 b 2). E
nella Retorica aggiunse: «Quando si pensa che ciò che si è detto non può essere
confutato, si pensa che si è portata una P., in quanto una P. è sempre
dimostrata e perfetta 1; e il sillogismo stesso è una P. necessaria in questo
senso (Rer., I, 2, 1357 b 5). Lo stesso concetto di un procedimento che
stabilisce o scopre una conoscenza fu espresso dagli Stoici nella definizione
del segno indicativo come di « un enunciato che procedendo in sana connessione
scopre ciò che consegue + (Sesto E., Jp. Pirr., II, 104); o del ragionamento
dimostrativo come di quello che, «per mezzo di premesse convenute scopre, per
via di deduzione, una conclusione non manifesta» (/bid., II, 135). I
procedimenti cui si fa allusione in queste definizioni sono P. in quanto sono «
discopritivi +, cioè in quanto producono (e giustificano) conoscenze. Nel sec.
xvi Locke riproduceva a suo modo, cioè sul presupposto cartesiano della
superiorità dell’intuizione, questo concetto di P.: « Quelle idee intermedie
che servono a dimostrare la concordanza fra due altre idee sono chiamate P.; e
quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente 708 percepita la
concordanza o discordanza, questa è detta una dimostrazione; poichè allora la
cosa è mostrata all’intelletto e lo spirito è portato a vedere che essa sta
così » (Saggio, IV, 2, 3). Ma la dottrina di Locke segna una svolta importante
nella storia del concetto di P. perchè ammette, per la prima volta, la
possibilità di P. probabili. «La probabilità, diceva Locke, non è che l’apparenza
della concordanza o discordanza tra due idee mediante l’intervento di P. il cui
legame non è costante e immutabile o almeno non è percepito come tale, ma è o
appare tale per lo più ed è sufficiente a indurre lo spirito a giudicare che la
proposizione è vera o falsa, piuttosto che non il contrario » (/bid., IV, 15,
1). Wolff dal suo canto pur identificando la P. con il sillogismo distingue da
essa la dimostrazione in quanto sarebbe un sillogismo « che si avvale soltanto
di premesse che sono definizioni, esperienze indubitabili e assiomi» (Logica, $
498). Ma furono soprattutto Hume e Kant che stabilirono le distinzioni
fondamentali in questo campo. Hume propose di distinguere tutti gli argomenti
in dimostrazioni, P. e probabilità, intendendo per P. « quegli argomenti tolti
dall'esperienza che non soffrono dubbio ed obiezioni » (Ing. Conc. Underst.,
VI, nota): nella quale distinzione le dimostrazioni sarebbero limitate al
dominio delle pure connessioni di idee. Kant a sua volta distinse quattro specie
di P.: 1° la P. logica rigorosa, che va dal generale al particolare ed è la
dimostrazione vera e propria; 2° il ragionamento per analogia; 3° l’opinione
verosimile; 4° l’ipotesi cioè il ricorso a un principio esplicativo
semplicemente possibile (Crir. del Giud., $ 90). Egli affermò che le P.
dimostrative o apodittiche si trovano soltanto nel dominio delle matematiche
giacchè queste procedono mediante la costruzione dei concetti: e che i principi
di P. empirici non possono dare nessuna P. apodittica (Crit. R. Pura, Dottrina
del Metodo, cap. I, sez. II). Questa era sostanzialmente un’accettazione del
punto di vista di Hume. Dewey ha anch’egli accettato questo punto di vista,
osservando che c’è « da un lato la dimostrazione razionale, che è questione di
rigorosa consequenzialità nel discorso, dall’altro la dimostrazione puramente
ostensiva» (Logic, cap. XII; trad. ital., pag. 327). La distinzione tra
dimostrazione o « P. logica» o « deduttiva » o « necessaria + e la P. in
generale ricorre frequentemente (cfr., ad es., W. HAMILTON, Lectures on Logic,
1866, II, pag. 38; G. BERGMANN, Philosophy of Science, 1957, pag. 4). Ma mentre
l’analisi dei procedimenti di P. usati dalle singole scienze (e quindi della
nozione di P. in generale) ha ricevuto poca attenzione dai filosofi
metodologici e non ha fatto progressi, la nozione di P. logica è stata
ripetutamente claborata da matematici e logici. I prinPROVA cìipi della «teoria
della P.» furono stabiliti da D. Hilbert nel modo seguente: « Una P. è una
figura che ci deve stare come tale davanti; essa consiste di conseguenze
derivate secondo lo schema seguente N 3 T T nel quale ognuna delle premesse
cioè le formule Se S-+T o è un assioma, cioè posta direttamente come tale, o
coincide con la formula finale 7 di un ragionamento precedentemente giunto alla
P. cioè consiste nell’assunzione di tale formula finale. Una formula si dice
suscettibile di P. se essa o è un’assioma cioè assunta come un’assioma con un
atto di posizione, o è la formula finale di un’altra P. + (« Die logischen
Grundlagen der Mathematik », in Mathematische Annalen, 1923, pag. 152). In
altri termini una P. logica è un procedimento che consiste in una manipolazione
di formule: manipolazione che è a sua volta un insieme di formule. Dice Church,
« Una sequenza finita di una o più formule ben formate è una P. se ciascuna
delle formule ben formate della sequenza o è un assioma o è immediatamente
inferita dalle precedenti formule della sequenza per mezzo di una delle regole
di inferenza » (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 07). Wittgenstein aveva
già detto a questo proposito: « La P. in logica è solo un espediente meccanico
per riconoscere più facilmente la tautologia quando è complicata» (Tractatus
logico-philosophicus, 6.1262). La teoria matematica della P. è sostanzialmente
la riduzione della P. alla P. della non contradditorietà. Ora un teorema
stabilito da K. Gédel nel 1931 afferma che si può soltanto provare, con l’aiuto
di una parte delle matematiche, la non contraddizione di una parte più
ristretta delle matematiche stesse; ma non si può provare la non contraddizione
dell’insieme delle matematiche o di una parte più estesa di esse. Si può, ad
es., dimostrare la non contraddizione della teoria dei numeri interi partendo
dalla teoria dei numeri reali, non reciprocamente (cfr. CARNAP, Logical Syntax
of Language, 1937, $ 35-36; QUINE, Mathematical Logic, 1940, cap. 7). Il
teorema di Gédel porta, come osserva Quine, alla maturità una nuova branca
della teoria matematica cioè la branca conosciuta come metamatematica o «
teoria della P.», il cui oggetto è la stessa teoria matematica (Me:rhods of
Logic, $ 41). Questo teorema stabilisce tuttavia che una P. della coerenza è
sempre relativa perchè il risultato di essa vale soltanto finchè si ammette la
coerenza del sistema in base al quale essa viene effettuata (cfr. Quine, From a
Logical Point of View, pag. 99 sgg.). Cfr. pure E. NAGEL e J. R. NEWMANN,
Gòdel’s Proof., 1958 (v. MATEMATICA), PSICANALISI PROVVIDENZA (gr. mpévota;
lat. Providentia; ingl. Providence; franc. Providence; ted. Vorsehung). Il
governo divino del mondo: che viene abitualmente distinto dal destino, in
quanto è considerato come esistente in Dio stesso mentre il destino è questo
governo visto attraverso le cose del mondo (v. Destino). La nozione di provvidenza
fa parte integrante del concetto di Dio come creatore dell’ordine del mondo o
come quest'ordine stesso (v. Dio). Per i problemi connessi col concetto di P.,
vedi MALE; TEODICEA. PROVVIDENZIALISMO (ingl. Providentialism). 1. La fiducia
nell’azione della provvidenza. 2. La dottrina che vede nella storia un ordine o
un piano provvidenziale. In quest’ultimo senso il termine è adoperato in
italiano (v. STORIA). PRUDENZA (lat. Prudentia; ingl. Prudence; franc.
Prudence; ted. Klugheit). V. SAGGEZZA. PSEUDOCONCETTO. P. o « finzioni
concettuali » 0 « concetti finiti » chiamò Croce le nozioni che comunemente si
dicono concetti, in contrapposto al «concetto puro» o « autentico concetto »
con il quale egli intese la stessa Ragione universale nella sua forma conoscitiva.
I P. servirebbero a conservare e a classificare le conoscenze acquistate
(Logica, 1920, cap. II. PSEUDOPROPOSIZIONI (ingl. Pseudostatement; ted.
Pseudosdizen). Termine adoperato da Carnap per indicare « espressioni che sono
erroneamente considerate come proposizioni ma non hanno contenuto conoscitivo,
per quanto possano avere componenti di significato non cognitivo, per esempio
emotivo » (Meaning and Necessity, $ 4). Secondo Carnap, molte proposizioni
della metafisica classica sono P. in questo senso (cfr. Erkenntnis, II, 1931).
PSICANALISI (ingl. Psychoanalysis; francese Psychanalyse; ted. Psychoanalyse).
Sotto il nome di P. vanno: 1° un metodo di cura per certe malattie mentali; 2°
una dottrina psicologica; 3° una dottrina metafisica; infine, e più spesso, una
certa disordinata mescolanza di queste tre cose. I fondamenti della psicanalisi
sono stati dallo stesso fondatore Sigmund Freud così riassunti
nell’introduzione di una delle sue opere maggiori: 1° i processi psichici sono
in se stessi incoscienti e i processi coscienti sono soltanto atti isolati,
frazioni della vita psichica totale; 2° i processi psichici incoscienti sono in
buona parte dominati da tendenze che possono essere qualificate «sessuali» nel
senso stretto o largo del termine. Quest’ultimo presupposto è in realtà la
caratteristica fondamentale della P.; la quale è essenzialmente il tentativo di
spiegare l’intera vita dell’uomo, e non solo quella privata o individuale ma
anche quella pubblica o sociale, con il ricorso a una sola forza che è
l’istinto sessuale o libido (v.) nel senso tecnico di questo termine (Ein709
fiihrung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.). Dal contrasto tra gli impulsi
sessuali dell'inconscio e le soprastrutture morali e sociali costituite da
proibizioni e censure accumulate e consolidate dall’infanzia, nascono i
seguenti fenomeni: a) i sogni, che sarebbero espressioni deformate e simboliche
dei desideri repressi (cfr. Die Traumdeutung, 1900); b) gli arti mancati cioè i
lapsus, le sviste, che sono falsamente attribuite al caso; e perfino gli
scherzi e l’umorismo (cfr. Zur Psychopathologie des Alltagslebens, 1901; Der
Witz und seine Bedeutung zum Unbewussten, 1905); c) le malattie mentali che
pertanto possono essere curate portando il paziente, attraverso la confessione
e la conversazione, a riconoscere i conflitti da cui emergono. A questo
proposito, il sintomo di una malattia dev’essere considerato come «il segno e
la sostituzione di una soddisfazione istintuale rimasta latente, il risultato
di un processo di rimozione» (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. 2; trad.
ital., pagina 29). Uno dei fenomeni caratteristici della cura psicanalitica è
il cosiddetto transfert cioè il trasferimento dei sentimenti del malato
(positivi o negativi, cioè di amore o di odio) alla persona del medico
(Einflihrung cit., cap. 27; trad. franc., pagina 461 sgg.); d) la sublimazione
cioè il trasferimento dell’impulso sessuale ad altri oggetti, trasferimento che
darebbe luogo ai fenomeni cosiddetti spirituali: arte, religione, ecc.; e) i cosiddetti
complessi cioè sistemi o meccanismi associativi, relativamente costanti in
tutti gli uomini e cui vanno attribuiti i maggiori turbamenti mentali. La
nozione e il termine di complesso fu introdotta da un seguace di Freud, C. G.
Jung (Wandlungen und Symbole der Libido, 1912). Ma Freud aveva già,
nell’Interpretazione dei sogni, adombrato tutti i fatti fondamentali del
cosidetto « complesso di Edipo +, che è quello per cui il bambino include
nell’amore per la madre una certa gelosia o avversione verso il padre. Nel 1923
nello scritto L’Ego e Es (Das Ich und das Es) Freud dava una teoria psicologica
che è stata largamente accettata dalla psicologia contemporanea. Egli divideva
lo spirito in tre parti: l’Ego che è organizzazione e consapevolezza, perciò è
in contatto con la realtà e cerca di asservirla ai suoi fini; il Super Ego che
è ciò che comunemente si chiama coscienza morale, cioè l’insieme delle
proibizioni che sono state instillate all'uomo nei primi anni di vita e che poi
lo accompagnano sempre, anche in forma inconsapevole; e 1°Es che è costituito
dagli impulsi molteplici della libido, diretta costantemente verso il piacere.
Questa dottrina su cui lo stesso Freud è ritornato più tardi (cfr. Hemmung,
Symptom und Angst, 1926) si è rivelata abbastanza utile sia per la descrizione
e 710 l'interpretazione delle malattie mentali sia nella teoria della
personalità. Freud e i suoi seguaci hanno presentato e presentano i loro
concetti non come ipotesi o strumenti di spiegazione ma come realtà assolute,
di natura metafisica. Ma una vera e propria metafisica, anzi una mitologia
Freud ha formulato in uno dei suoi ultimi scritti Das Unbehagen in der Kultur
(1930, traduzione inglese, col titolo Civilisation and its Discontents, 1943),
nel quale ha considerato tutta la storia dell’umanità come la lotta tra due
istinti, l’istinto della vita o Eros e l’istinto della Morte. « Questa lotta,
egli ha scritto, è ciò in cui ogni vita essenzialmente consiste e perciò lo
sviluppo della civiltà può essere descritto come la lotta della specie umana
per l’esistenza. Ed è questa battaglia di titani che le nostre nutrici e
governanti tentano di comporre con le loro filastrocche sui cieli »
(Civilisation and its Discontents, 1943, pag. 102). Questa dottrina non è che
un’espressione, non molto aggiornata, del dualismo manicheo. L’importanza della
P. consiste in primo luogo nell’avere sottolineato la funzione del fattore
sessuale in tutte le manifestazioni della vita umana. Per la prima volta, con
la P., questo fattore ha cessato di essere una zona d’ignoranza obbligata per
la scienza e per la filosofia e ha potuto essere studiato nei suoi effettivi
modi d’azione. In secondo luogo, la P. ha fornito un insieme di concetti che,
per quanto non molto compatibili tra loro, si prestano ad essere utilizzati da
varie branche della psicologia contemporanea, soprattutto sc sottratti al
dogmatismo con cui alcuni seguaci di Freud li hanno trattati. Questo secondo
aspetto positivo ha però una controparte negativa: la P. fornisce a molti
orecchianti il modo di apprestare spiegazioni apparentemente plausibili e molto
a buon mercato dei fenomeni umani più disparati, scambiando anche, talora,
questa spiegazione per una giustificazione morale 0 metafisica. In terzo luogo,
la P. ha avuto il merito di apprestare uno strumento curativo che continua a
dimostrarsi efficace, anche se molte delle illusioni ottimistiche che esso
aveva suscitato ai suoi inizi sono andate perdute. Tra i molti indirizzi
interpretativi, che hanno più o meno modificato le dottrine fondamentali della
P., se ne possono ricordare due, quella di Jung e quella di Adier. Jung ha
concepito l’istinto fondamentale dell’uomo non già come di natura sessuale ma
come una Energia originaria e creativa che si identifica con il concetto
generico della divinità e costituisce l'inconscio collettivo che è il fondo
comune della natura umana (Psicologia dell’inconscio, 19425): Alfred Adler
invece ha identificato l’istinto fondamentale dell’uomo con la volontà di
potenza di cui parlava Nietzsche cioè come uno PSICANALISI ESISTENZIALE spirito
di aggressione e di lotta che è in conflitto con l’altro istinto, il sentimento
della comunità umana che lega l’individuo a tutti gli altri. Il gioco di queste
due forze determinerebbe il carattere di ogni singolo uomo e le sue
manifestazioni patologiche (La conoscenza dell’uomo, 1927). PSICANALISI
ESISTENZIALE (franc. Psychanalyse existentielle). Sartre ha chiamato con questo
nome l’analisi filosofico-esistenziale in quanto cerca di determinare la
«scelta originaria » che è alla base di ogni umano « progetto di vita ». Il
principio di questa psicanalisi è che « l’uomo è una totalità e non una
collezione +; e il suo scopo è quello di « decifrare i comportamenti empirici
dell’uomo », Inoltre il suo punto di partenza è l’esperienza e il suo metodo è
quello comparativo (L’étre er le néant, 1943, pag. 656). La P. esistenziale si
differenzia da quella di Freud che Sartre chiama « empirica » perchè cerca di
determinare non già i « complessi » ma la scelta originaria (/bid., pag. 657). PSICHE
(ingl. Psyche; franc. Psyché; ted. Psyche). Anima o coscienza (v. questi due
termini). PSICHEDELICO (ingl. Psychedelic). Aggettivo che dovrebbe significare
« manifestante la psiche », coniato recentemente per qualificare le esperienze
prodotte dall’uso dell’acido lisergico (LSD) o di altre droghe, in quanto
assunte o credute come rivelazioni di una realtà più profonda di quella che si
manifesta nell’esperienza comune e che è di natura divina o è la divinità
stessa immanente nel mondo (cfr. W. BRADEN, The Private Sea, London, 1967).
PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). PSICOGENESI (ingl. Psychogenesis; francese
Psychogénèse; ted. Psychogenese). Lo sviluppo dei processi mentali, o la
considerazione di tale sviluppo. PSICOGNOSI (ingl. Psychogrosy). Termine adoperato
da Peirce per indicare il complesso delle scienze psichiche (Coll. Pap.,
1.242). PSICOGRARFIA (ingl. Psychography; francese Psychographie; ted.
Psychographie). Descrizione dei processi o dei caratteri psichici di un
individuo. PSICOIDE (ingl. Psychoid; franc. Psychotd; ted. Psycholde). Nome
dato dal biologo vitalista H. Driesch alla forza psichica che presiede alla
formazione e allo sviluppo degli organismi (v. VITALISMO). PSICOLOGIA (ingl.
Psychology; franc. Psychologie; ted. Psychologie). La disciplina che ha per
oggetto l’anima o la coscienza o gli eventi caratteristici della vita animale
ed umana, comunque tale eventi siano poi caratterizzati al fine di determinarne
la natura specifica. Talvolta infatti tali eventi si considerano come puramente
«mentali» cioè come «fatti di coscienza»; talaltra come eventi oggettivi od
oggettivamente osservabili, cioè come movimenti, comportamenti, ecc.; ma in
ogni caso PSICOLOGIA l’esigenza cui queste definizioni rispondono è quella di
delimitare il dominio dell’indagine psicologica alla cerchia ristretta dei
fenomeni caratteristici degli organismi animali e specialmente dell’uomo. Dal
punto di vista dell’impostazione concettuale (che è quello che interessa la
filosofia) si possono distinguere i sei indirizzi fondamentali seguenti: a) P.
razionale; 5) P. psicofisica; c) P. gestaltistica; d) P. comportamentistica; e)
P. del profondo; f)P. funzionale. a) La P. razionale o filosofica è quella
fondata da Aristotele che per primo raccolse nel suo libro De Anima le opinioni
che i suoi predecessori avevano espresso intorno a questo soggetto. Questa P.
ha per oggetto « la natura, la sostanza, e le determinazioni accidentali
dell'anima », intendendosi per anima «il principio degli esseri viventi» (De
An., I, 1, 402 a 6). Il presupposto fondamentale di questa P. è esplicito in
queste notazioni: essa presuppone negli eventi che prende a studiare un
principio unico e semplice, una sostanza necessaria, dalla quale si lascino
dedurre le determinazioni che quegli eventi posseggono costantemente o per lo
più. La P. è in questo senso una scienza deduttiva dell'anima nella quale i
fenomeni particolari entrano soltanto come conferme occasionali dei singoli
teoremi che la costituiscono. Ben a ragione nel sec. Xvili Wolff dava a questa
P. il titolo di « razionale » in quanto per essa si tratta di « derivare a
priori dall’unico concetto dell'anima umana tutte le cose che si osservano a
posteriori competere ad essa» (Log., Disc. prel., $ 112). Ma fu merito di Wolff
aggiungere a tale P. una P. s empirica + definita come «la scienza che
stabilisce attraverso l’esperienza i princìpi con i quali si possa rendere
ragione di ciò che accade nell’anima umana» (/bid., $ 111; Psychologia
empirica, 1732, $ 1). La P. razionale in questo senso rimane un indirizzo
proprio delle filosofie che si ispirano alla metafisica tradizionale, ma ha
cessato di avere qualsiasi efficacia sullo sviluppo scientifico della
psicologia. b) La P. psicofisica o più semplicemente la psicofisica ha
costituito il primo indirizzo empirico o sperimentale o scientifico della
psicologia. Wolff aveva già prescritto per essa il procedimento induttivo o
sperimentale proprio di tutte le scienze empiriche; Maine di Biran, ai princìpi
dell’800, le prescriveva il suo campo d’azione: la coscienza (Essai sur les
fondements de la psychologie, 1812). Con ciò tuttavia non c’erano ancora tutte
le condizioni per la fase scientifica della psicologia. Ne mancavano due,
strettamente connesse tra loro; in primo luogo, il riconoscimento dello stretto
rapporto tra gli eventi psichici e gli eventi fisici mediato dall’azione del
sistema nervoso; in secondo luogo, l’introduzione di un qualche procedimento di
misura. La realizzazione di queste due condizioni 711 condusse la P. a
costituirsi come psicofisica. Ciò avvenne per opera di Helmholtz, Weber, e
Fechner: il primo dei quali riusciva a misurare nel 1850 la velocità
dell’impulso nervoso; mentre il secondo enunciava la cosiddetta « legge »
concernente il rapporto tra lo stimolo e la sensazione (e secondo la quale
l’aumento dello stimolo necessario per essere percepito come tale è
proporzionale all’intensità dello stimolo originario); e l'ultimo stabiliva la
«legge psicofisica fondamentale » che consisteva nella formula matematica
esprimente la legge di Weber. Nel 1860 Fechner pubblicava gli Elementi di
psicofisica che definivano la psicofisica come «la scienza esatta delle
relazioni funzionali o relazioni di dipendenza fra lo spirito e il corpo».
Questo fu e rimase il programma della P. scientifica in questa prima fase della
sua organizzazione: un programma nel quale trovarono posto agevolmente i
risultati delle analisi dell’empirismo inglese da Locke a Spencer. Quest'ultimo
nei Principi di P. (1855) aveva anch’egli definito come psicofisica il compito
della P. asserendo che «la P. si distingue dalle scienze sulle quali poggia
[dall’anatomia e dalla fisiologia] perchè ciascuna delle sue proposizioni
prende in considerazione sia il fenomeno interno connesso sia il fenomeno
esterno connesso, al quale si riferisce » (Principles of Psychology, 3* ed.,
1881, pag. 132). Dall’empirismo inglese, la P. desunse due tratti fondamentali
che l’accompagnarono in questa prima fase della sua costituzione cioè
l’atomismo (v.) e l’associazionismo (v.): sicchè le sue strutture teoretiche
fondamentali possono ricapitolarsi nel modo seguente: 1° La P. ha per oggetto i
« fenomeni interni » o « fatti di coscienza » e il suo principale strumento di
indagine è l’introspezione o riflessione. Per questo aspetto l’indirizzo in
esame della P., fu spesso chiamato P. soggettiva o riflessiva o, più raramente,
‘ critica ’. 2° I fatti di coscienza o fenomeni interni sono studiati dalla P.
nella loro connessione funzionale con i fenomeni esterni cioè fisiologici o
fisici. Per quest’aspetto che è il più proprio della fase in questione tale P.
fu chiamata psicofisica o anche (da Wundt) P. fisiologica. A questo aspetto si
collega l’ipotesi che ha sorretto in questa fase il lavoro sperimentale della
P.: il parallelismo psicofisico (v.). 3° La tendenza a risolvere il fatto di
coscienza in elementi ultimi (sensazioni, emozioni elementari, riflessi o
istinti elementari) e a spiegare i fenomeni più complessi con la combinazione
di tali elementi: (atomismo, associazionismo). 4° Il carattere scientifico della
P. è costituito dal ricorso ai procedimenti dell’induzione, dell’esperimento e
del calcolo matematico; il ricorso a tali 712 procedimenti stabilisce il
carattere descrittivo che la P. rivendica per sè, analogamente a quanto fanno
le altre discipline empiriche. c) La P. della forma o gestaltismo o
configurazionismo batte in breccia il caposaldo 3° della P. psicofisica cioè
l’atomismo e l’associazionismo. Essa consiste nell’assumere come punto di
partenza il principio simmetrico e opposto a quello della P. associativa: non
già l’elemento, ma la forma totale è il fatto fondamentale della coscienza,
giacchè questa forma non è mai riducibile ad una somma o combinazione di
elementi. La P. della forma ebbe come suoi fondatori Wertheimer, Kéhler e
Koffka; e pur mantenendo sostanzialmente immutato il caposaldo 2° della
psicofisica cessò di parlare di fatti o fenomeni di coscienza per considerare
forme o configurazioni o campi, colti nella loro struttura totale. La P. della
forma si è occupata soprattutto della percezione, rispetto alla quale ha
accumulato una mole ingente di lavoro sperimentale (v. PERCEZIONE, 3, @). d) La
P. obiettiva o comportamentismo batte in breccia il caposaldo 1° della P.
psicofisica, negando che lo strumento fondamentale della P. sia l’introspezione
o riflessione e che i fatti di coscienza o fenomeni interni siano l’oggetto di
questa scienza; e asserendo che costituiscono invece oggetto della P. le
reazioni degli organismi agli stimoli: intendendosi per reazioni, movimenti o
fenomeni oggettivamente osservabili, che si producono in rapporto agli eventi
dell'ambiente che funzionano da stimoli. Nel 1907 il fisiologo russo Bechterev
pubblicava una P. obiettiva (che fu poi tradotta in inglese e francese) che
sosteneva appunto questa tesi; che più tardi gli studi di Pavlov sui riflessi
condizionati difesero e diffusero (v. AZIONE RIFLESSA). Da quella data si può
pertanto far cominciare il comportamentismo; che tuttavia ebbe il suo nome
alcuni anni più tardi, dall’americano J. B. Watson, in un articolo del 1913 e
poi in un libro intitolato Comportamento, introduzione alla P. comparativa
(Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, 1914). In questa prima
fase il comportamentismo assumeva il carattere di un necessitarismo rigoroso;
la reazione dell’animale era considerata come l’effetto causale necessario
dello stimolo, perciò come infallibilmente prevedibile a partire da esso.
L'abbandono di questo necessitarismo e il riconoscimento del carattere
semplicemente statistico o probabilistico delle costanti riscontrabili nelle
reazioni di risposta degli organismi agli stimoli costituisce la fase più
moderna del comportamentismo stesso (v. COMPORTAMENTISMO). e) Le cosiddette P.
abissali o P. del profondo battono in breccia il caposaldo 4° della P. scientifica
classica, considerando la P. come scienza non di descrizione ma di
interpretazione. Per la psicanalisi PSICOLOGIA infatti, che è la maggiore e più
coerente espressione delle P. abissali, l’interpretazione desume il suo punto
di partenza non già da fatti come fa la descrizione, ma da sintomi e la nozione
di sintomo è difatti uno dei concetti fondamentali della psicanalisi (v.
Inconscio). Nell’interpretazione dei sintomi la psicanalisi segue una sola
regola fondamentale: quella di ridurre il sintomo stesso a simbolo o
espressione deformata di un bisogno o di un conflitto di natura vagamente
sessuale, attinente cioè alla libido (v. Lramo; PSICANALISI; SESSUALITÀ).
Varianti della psicanalisi sono la cosiddetta P. individuale di Alfred Adler,
la quale insiste soprattutto sul carattere finalistico dei procedimenti
psichici (Praxis und Theorie der Individualpsychologie, 1924); e la P.
analitica di C. G. Jung che in realtà è molto poco analitica (nel senso proprio
del termine) perchè non fa che riconoscere il carattere simbolico a molti
sintomi che lo stesso Freud considerava come aventi un significato diretto
(Collected Papers on Analytical Psychology, 1916) (v. Inconscio; PROFONDO). f)
La P. funzionale o funzionalismo è quell’indirizzo il quale ritiene che l’oggetto
della P. sia costituito dalle funzioni od operazioni dell’organismo vivente,
considerate come unità minime indivisibili. Il funzionalismo si fa iniziare da
uno scritto di Dewey del 1896 sul Concerto dell’arco riflesso in P. nel quale
si sosteneva che l’arco riflesso non si può dividere in stimolo e risposta ma
dev'essere considerato come un’unità dalla quale soltanto stimolo e risposta
traggono significato. Per indicare l’unità della funzione lo stesso Dewey
adoperò in seguito la parola transazione (v.): che serviva a sottolineare
l’impossibilità di considerare come entità per sè stanti, e indipendenti dalla
relazione in cui entrano, gli elementi di una funzione qualsiasi (cfr. Knowing
and the Known, 1949, in collaborazione con A. F. Bentley). L’indirizzo
funzionalistico abbandona i presupposti 1°, 2° e 3° della P. tradizionale.
Abbandona il presupposto 1° perchè l’oggetto che prende a studiare non è un
fatto di coscienza ma una funzione cioè un’operazione con la quale l’organismo
entra in rapporto con l’ambiente. Abbandona il caposaldo 2° perchè il metodo di
cui esso si avvale non è quello introspettivo ma piuttosto quello oggettivo o
comportamentistico: le funzioni devono essere studiate mediante procedimenti di
osservazione oggettiva. Infine il funzionalismo ha in comune con la P. della
forma l’abbandono del caposaldo 3°. Ma il carattere del funzionalismo che
costituisce la sua maggiore novità nei confronti degli altri indirizzi della P.
è il suo probabilismo: che consiste nel negare non solo ai procedimenti della
scienza ma anche a tutte le funzioni conoscitive umane (compresa la percezione
immediata), il carattere della certezza infallibile e nel riconoscere a tutte
PSICOLOGISMO queste funzioni la possibilità di raggiungere solo validità
probabile. Per questo probabilismo, il funzionalismo costituisce l’inserzione
della P. nel circolo delle idee fondamentali della scienza contemporanea (cfr.
BRUNSWIK, Psychology in Terms of Objects, 1936; CANTRIL, AMES, HASTORF,
ITTELSON, « Psychology and Scientific Research», in Science, vol. 110, 1949;
CANTRIL, The ‘ Why° of Man's Experience, 1950; trad. ital, Le motivazioni
dell’esperienza, 1958; v. pure le opere citate nella bibliografia di
quest’ultimo libro). PSICOLOGICO (ingl. Psychological; franc. Psychologique;
ted. Psychologisch). 1. Ciò che concerne la psicologia; e in questa accezione
il termine ha tanti significati diversi quanti sono i diversi indirizzi
concettuali della psicologia stessa. 2. Ciò che concerne la coscienza
dell’individuo cioè gli atteggiamenti o le valutazioni individuali. In tal
senso si dice, per es., che «si tratta di una questione puramente P.» quando si
tratta di una questione cui non si può trovare una base nei fatti o nell’ambito
di un determinato universo di discorso (per es., scientifico, logico, ecc.).
PSICOLOGISMO (ingl. Psychologism; francese Psychologisme; ted. Psychologismus).
1. Termine di origine ottocentesca che designa in primo luogo qualsiasi
filosofia che assuma a suo fondamento i dati della coscienza cioè della
riflessione dell’uomo su se stesso. In questo senso lo P. fu inteso, in
polemica con l’idealismo hegeliano, da G. F. Fries (1773-1844) e da F. E.
Beneke (1798-1854) che entrambi assunsero esplicitamente come metodo e compito
della filosofia l’auto-osservazione o coscienza. Da questo punto di vista la
psicologia, come descrizione dell’esperienza interna, diventa l’unica filosofia
possibile (cfr. FrIEs, Neue oder anthropologische Kritik der Vernunft, 1828;
BENEKE, Die Philosophie în ihrem Verhdltnis zur Erfahrung, zur Speculation und
zum Leben, 1833). Più genericamente, e polemicamente, V. Gioberti intendeva per
P. il procedimento filosofico che va dall’uomo a Dio, in quanto contrapposto a
quello che va da Dio all'uomo. Quest'ultimo è l’onrologismo (v.). Lo P. è da
Gioberti considerato come la caratteristica di tutta la filosofia moderna da
Cartesio in poi (/ntr. allo studio della filosofia, 1840, II, pagina 175). 2.
Nel suo uso polemico, il termine è costantemente usato per designare la
confusione tra la genesi psicologica della conoscenza e la sua validità; o la
tendenza a ritenere giustificata la validità di una conoscenza quando si è
invece spiegata soltanto il suo accadimento nella coscienza. In questo senso,
colui che ha chiarito per primo il concetto di P. (per quanto non ne abbia
adoperato il nome) e ha iniziato la polemica contro di esso, è stato Kant il
quale distingueva, a proposito dei concetti a priori, 713 la quaestio facti
della loro « derivazione fisiologica + cioè del loro accadere nella mente o
nella coscienza dell’uomo, dalla quaestio juris che consiste nel chiedersi il
fondamento della loro validità e che esige come risposta la deduzione (v.
DEDUZIONE TRASCENDENTALE) (Crift. R. Pura, $ 12). Questa distinzione che è
sempre presente nell’opera di Kant, significa la scoperta della dimensione
/ogicooggettiva della conoscenza: una dimensione, la cui irreducibilità alla
coscienza o alle condizioni soggettive del conoscere è stata sostenuta da molte
scuole kantiane: dalla scuola del Baden (Windelband, Rickert) dalla scuola di
Marburgo (Cohen, Natorp) dalla fenomenologia (Husserl) che hanno, nella
filosofia degli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro,
costantemente combattuto lo psicologismo. Herman Lotze nella Logica del 1874
aveva sistematicamente fatto valere il punto di vista antipsicologistico
distinguendo costantemente l’atto psichico del pensare, che esiste solo come un
determinato evento temporale, dal contenuto del pensiero che ha altro modo
d'essere, quello della validità. G. Frege aveva fatto valere nel dominio della
logica matematica lo stesso punto di vista. « Non si prenda come definizione
matematica, egli diceva, la semplice descrizione del modo in cui si forma in
noi una certa immagine nè come dimostrazione di un teorema il resoconto delle
condizioni fisiche o psichiche che devono trovarsi in noi soddisfatte perchè ne
possiamo comprendere l’enunciato. Non si confonda la verità di una proposizione
con il suo venir pensata! Occorre ricordarsi bene di questo: che una
proposizione non cessa di essere vera allorchè io non la penso più, come il
sole non cessa di esistere allorchè io chiudo gli occhi» (Die Grundlagen der
Arithmetik, 1884, Intr.; trad. ital, in Arifmetica e logica, pag. 23). Queste
considerazioni venivano quasi alla lettera ripetute da Husserl (Logische
Untersuchungen, 1900, I, $ 17 sgg.), il quale ribadiva più tardi che « se
designiamo un numero come una formazione psichica cadiamo in un assurdo,
urtiamo contro il senso intrinseco del discorso aritmetico, che sta prima di tutte
le teorie ed è in ogni momento chiaramente contemplabile nella sua piena
validità + (Ideen, I, 1913, $ 22) e metteva in guardia contro la tendenza a «
psicologizzare l’eidetico » cioè a identificare le essenze con la coscienza che
si ha di volta in volta di esse (/bid., $ 61). L’indirizzo antipsicologistico
in questo senso è oggi alla base di filosofie apparentemente disparate:
dell’esistenzialismo, per es., nella forma che ha assunto nell’opera di
Heidegger in quanto è analisi delle situazioni umane nella loro essenza e non
nel loro accadere psichico (cfr. Sein und Zeit, $ T); come dell’empirismo
logico il cui principale rappresentante, R. Carnap, ha costante714 mente
polemizzato contro lo P. (cfr. Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 151 sgg.;
« Empiricism, Semantics and Ontology +, 1950, in Readines in Phil. of Science,
1953, pag. 514). La polemica contro lo P. è d’altronde frequente nell’empirismo
logico (cfr., per es., A. Pap, Elements of Analytic Philosophy, 1949, pag.
406). PSICOMETRIA (ingl. Psychometry; francese Psychométrie; ted.
Psychometrie). La misura della frequenza, dell'intensità o della durata degli
eventi psichici. Il termine (psycheometria) nonchè l’esigenza della
applicazione della misura a fatti psichici furono proposti da Wolff (Psychol.
empirica, $ 522, 616). Il termine fu molto adoperato dalla psicofisica che
talvolta si identificò con la psicometria. Ora è caduto in disuso. PSICOPATIA
(ingl. Psychopathy; franc. Psychopathie; ted. Psychopathie). Qualsiasi
disordine o malattia mentale; o le forme meno gravi di tali malattie. In
quest'ultimo senso la P. sarebbe diversa dalla psicosi (v.). PSICOSI (ingl.
Psychosis; franc. Psychose; ted. Psychose). Nel significato ora in uso:
malattia mentale grave che implica perdita o disordine di processi mentali.
Psiconevrosi o semplicemente nevrosi: malattia o disturbo mentale meno grave.
In generale s’intende per P. l’indebolimento o la perdita del rapporto
verificabile con le cose o con gli altri, rapporto che è costitutivo della
personalità (v.) e la cui alterazione quindi comporta lo squilibrio della
personalità stessa. Per rapporto verificabile si può intendere un rapporto che
può essere controllato o non smentito dai criteri comunemente riconosciuti
validi o che comunque non equivalga alla negazione di ogni rapporto possibile.
PSICOSOMATICO (inglese Psychosomatic; franc. Psychosomatique; ted.
Psychosomatik). Che concerne l'influenza degli atteggiamenti mentali (cioè del
modo di pensare e di sentire di una persona) sui processi organici. Si chiama
psicosomatica la branca della medicina che studia tali influenze (confronta F.
ALEXANDER, Psychosomatic Medicine, 1949). PSICOTECNICA (ingl. Psychotechnic;
francese Psychotechnique; ted. Psychotechnik). L'applicazione della psicologia
ai problemi del lavoro e della produzione: l’ingegneria psicologica.
PSICOTERAPIA (ingl. Psychotherapy; francese Psychothérapie; ted.
Psychotherapie). La soluzione dei conflitti sia individuali sia di gruppo, o la
cura di stati mentali patologici mediante consigli, chiarimenti o suggerimenti
verbali, senza ricorso a mezzi materiali. La psicanalisi è la più nota e
diffusa forma di psicoterapia. Una forma più aggiornata è la cosiddetta «P. non
direttiva» secondo la quale il procedimento di cura consiste nel cercare di
trovare, mediante una conversazione amichevole con il paziente, l’immagine che
egli si fa di se stesso e dei suoi fini nella vita, PSICOMETRIA aiutandolo a
liberarsi dai conflitti (cfr. C. R. RoGERS, Counseling and Psychotherapy, 1937)
(v. PSICANALISI). PSITTACISMO (ingl. Psittacism; franc. Psittacisme; ted.
Psittazismus). L’uso delle parole senza il loro riferimento agli oggetti, come
fanno i pappagalli. Diceva Leibniz: « Si ragiona spesso con le parole senza
quasi aver l’oggetto nello spirito... +; e in questo caso «i nostri pensieri e
i nostri ragionamenti, contrari al sentimento, sono una specie di P.» (Nouv.
Ess., II, 21, 35). Sul linguaggio oratorio considerato come una specie di P.
cfr. C. K. OGpEN-I. A. RICHARDS, The
Meaning of Meaning, 10* ed., 1952, pag. 218. PUBBLICITÀ (ingl. Publicity; franc. Publicité; ted. Offentlichkeit).
Secondo Kant è il criterio per riconoscere immediatamente la legittimità di una
pretesa giuridica. Kant chiama formula trascendentale del diritto pubblico il
seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la
cui massima non è suscettibile di P., sono ingiuste + (Zum ewigen Frieden,
appendice II. PUBBLICO (ingl. Public; franc. Publique; ted. Offentlich).
L’aggettivo è usato in senso filosofico (specialmente da scrittori
anglosassoni) per designare quelle conoscenze o quei dati o elementi di
conoscenza che sono disponibili a chiunque in condizioni adatte e non
appartengono alla sfera privata e incontrollabile della coscienza. P. in questo
senso è ciò che Kant chiamava oggettivo (v.): ciò che può essere partecipato
ugualmente da tutti e perciò anche espresso o comunicato con il linguaggio
(cfr. B. RusseLL, Human Knowledge, II, 1; traduzione ital., pag. 81).
PUNIZIONE. V. Pena. PUNTO (lat. Punctum; ingl. Point; franc. Point; ted.
Punkt). Leibniz ammise accanto al P. matematico e al P. fisico il P. metafisico
che è la sostanza spirituale come elemento costitutivo del mondo. Egli così
distingueva le tre specie di P.: « I P. fisici sono indivisibili solo in
apparenza; i P. matematici sono esatti ma sono solo modi; soltanto i P.
metafisici o di sostanza, costituiti dalle forme o anime, sono nello stesso
tempo esatti e reali; e senza di essi non ci sarebbe nulla di reale perchè
nelle vere unità non ci sarebbe molteplicità 1 (Système nouveau de la nature,
1695, $ 11). I P. metafisici non sono che le monadi (v.). PURIFICAZIONE. V.
CATARSI. PURISMO (ingl. Purism; franc. ‘Purisme; tedesco Purismus). 1. In senso
morale: «specie di pedanteria relativa all’osservazione del dovere considerato
nel senso più largo + (KANT, Met. der Sitten, Dottrina della virtù, I, $ 7). a.
In senso linguistico: specie di pedanteria relativa alla pretesa di conservare
a una lingua la sua forma classica © originaria. PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS,
EDENTULI 3. In senso metafisico: specie di pedanteria relativa alla troppo
rigorosa separazione di una facoltà umana dall'altra. In questo senso la parola
fu usata da G. C. Hamann nel titolo del suo scritto Metacritica del P. della
ragione (1788, postumo) nel quale rimproverava a Kant questa specie di
pedanteria nei rispetti della ragione. PURO (ingl. Pure; franc. Pur; ted.
Rein). x. Ciò che non è mescolato con cose d'altra natura; o, più esattamente,
ciò che è costituito in modo rigorosamente conforme alla propria definizione.
Questa seconda definizione spiega l’amplissimo uso che i filosofi fanno di
questo aggettivo; in quanto, definito un oggetto, si trovano spesso a dover
distinguere tra le condizioni in cui l'oggetto appare rigorosamente conforme
alla propria definizione e le condizioni in cui invece si allontana in qualche
misura da essa: nelle prime condizioni, l’oggetto è detto puro. Anassagora
chiamava P. l'intelletto perchè esso « solo fra tutti gli enti è semplice e non
mescolato » (ARIsT., De an., 405a 16). Platone parlava di un piacere « P.» cioè
non mescolato di dolore (Fi/., 51 a, 52 c). Cartesio della matematica «P.»
(Med., VI). Leibniz della « P.+ ragione (Op., ed. Erdmann, pag. 229-230, ecc.).
E così Wolff (Psychol. empirica, $ 495). « Atto P. » è stato detto il primo
motore di Aristotele in quanto è attività perfetta, priva di potenza; ma
l’espressione non è aristotelica (cfr. Met., XIT, 6, 1071 b 22; 8, 1074 a 36).
2. Kant chiamò P. o « assolutamente P.» una conoscenza « nella quale in
generale non si trova mescolata alcuna esperienza o sensazione e che perciò è
possibile completamente a priori» (Crit. R. Pura, Intr., $ vu). In questo senso
la ragion P. «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa
assolutamente a priori ». Una scienza della ragion P. è, non una dottrina, ma
una critica, in quanto non può dare un sistema compiuto della ragion P. e può
avere funzione solo negativa « servendo a epurare, non ad allargare, la nostra
ragione e a liberarla dagli errori » (/bid.). In questo senso il 715
contrapposto di P. è empirico. L'aggettivo fu usato nello stesso senso da
Fichte che chiamò P. l’Io assoluto (o la sua attività) in quanto è diverso
dall’io empiricamente condizionato ed in quanto la sua attività prescinde
completamente dall’esperienza (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, ID.
Quest’uso è rimasto costante nell’idealismo di ispirazione romantica. Gentile
chiamò arto P. il pensiero pensante in quanto indipendente da ogni condizione o
contenuto empirico (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1920). 3. Nel
linguaggio comune si dice P. una scienza o una disciplina trattata
teoreticamente cioè senza riguardo alle sue applicazioni possibili; e P. è
divenuta così il contrario di applicato. Già Hamilton notava l’improprietà di
questo uso (Lectures on Logic, I, 1866, pag. 62). PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS,
EDENTULI. Termini mnemonici della logica tradizionale per esprimere
l’equivalenza delle quattro proposizioni modali rappresentate ognuna da una
sillaba nell’ordine seguente: possibile, contingente, impossibile, necessario.
La vocale che si trova in ciascuna sillaba cioè 4 o E 0 7 o U indica se il modo
dev'essere affermato o negato e se la proposizione dev'essere affermata o
negata. A significa l’affermazione del modo e l’affermazione della proposizione;
E l’affermazione del modo e la negazione della proposizione; / la negazione del
modo e l’affermazione della proposizione; U la negazione del modo e la
negazione della proposizione. In tal modo tutte le quattro proposizioni
indicate dalla medesima parola sono equipollenti, sicchè se l’una è vera, le
altre sono anche vere (ARNAULD, Log., II, 8). Per es., se p è una proposizione
qualsiasi, per la parola Purpurea si ha: Possibile —="U= Non è possibile
che non p. Contingente = U = Non è contingente che non p. Impossibile = E = È
impossibile che non p. Necessario = A = È necessario che p. Analogamente per le
altre parole. Q QUACCHERISMO (ingl. Quakerism; francese Quakerisme). Il più
radicale e liberale fra gli indirizzi religiosi della Riforma. Il movimento fu
iniziato nel 1649 in Inghilterra da George Fox e il vero nome dei quaccheri fu
«Società degli Amici» (Friends Society). Il nome quaccheri fu coniato dal
giudice Bennet perchè durante un lungo interrogatorio di George Fox questi gli
ingiunse di « tremare alle parole del Signore». Tra le maggiori personalità
religiose che aderirono a questo movimento fu W. Penn, che nel periodo delle
persecuzioni emigrò in America e fondò la colonia di Pennsylvania; e Robert
Barkley che fu il teorico del movimento. Il Q. è caratterizzato: 1° dalla
risoluta avversione a ogni forma di culto esterno, di rito, di predicazione,
ecc.; 2° dal riconoscimento che l’unica guida dell’uomo è la luce interiore che
viene direttamente da Dio; 3° dal carattere attivo e ottimistico che tale fede
interiore acquista nei quaccheri i quali ritengono lo stesso peccato originale
come una corruzione naturale superabile; 4° dalla condanna di ogni violenza e
quindi dall’avversione alla guerra. Nelle Lertere sugli inglesi (1734) Voltaire
esaltava la ragionevolezza e la validità della religiosità propria dei
quaccheri (Left., I-IV) (cfr. ELFRIDA Vipont, The Story of Quakerism,
1652-1952, London, 1954). QUADRATO DEGLI OPPOSTI. Indicando, secondo l’uso
scolastico, con A, E, /, O rispettivamente la proposizione universale
affermativa (« ogni uomo corre +), l’universale negativa (« nessun uomo corre
+), la particolare affermativa (« qualche uomo corre +) e infine la particolare
negativa (s qualche uomo non corre +) e disponendole in Q. in questo modo: A
contrarie E 2uI9)|eqns subalterne I subcontrarie (0) se ne ottengono le
relazioni logiche fondamentali. A ed E sono contrarie: possono essere entrambe
false, ma non entrambe vere; A ed O, E ed / sono invece contradittorie: non
possono essere nè entrambe vere nè entrambe false: / ed O sono subcontrarie:
possono essere entrambe vere, ma non entrambe false; A ed /, E ed O
subalternate, nel senso che A si subalterna (implica) /, E si subalterna
(implica) O (ma non viceversa). L’origine di questo celebre artificio
didattico, certamente medievale, è oscura. Fu erroneamente attribuita dal
Prantl al platonico bizantino M. Psello, e perciò il Q. vien detto anche «Q. di
Psello »; ma se ne ha la documentazione più antica sinora conosciuta nelle
Introductiones în Logicam di Guglielmo di Shyreswood (seconda metà del sec.
xim), sebbene in testi anteriori non mancassero esempi di paradigmi e schemi
del genere. G. P. QUALITÀ QUADRIFARMACO (gr. tetpapdppaxov). Con questo termine
(che propriamente significa una medicina composta di quattro elementi) Filodemo
(Herc. Vol., 1005, 4) indicò l’insieme delle quattro massime fondamentali
dell’etica epicurea e cioè: 1° non temere la divinità che non si occupa
dell’uomo; 2° non temere la morte; 3° tener presente la facilità del piacere;
4° tener presente la brevità del dolore (cfr. EPICURO, Ep. a Menec., 123, 124,
133). QUADRIVIO. V. CULTURA, ARTE. QUAESTIO. Il metodo di trattazione proprio
della scolastica medievale a partire dal sec. xu. Il primo esempio del metodo è
il Sic et Non di Abelardo: una raccolta di opinioni (sententiae) di Padri della
Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come
risposte positive o negative del problema proposto (donde il titolo, che suona
sì e no). Nella sua forma matura, la Q. è costituita dalle parti seguenti: 1°
l’enunciato (es.: « Utrum deum esse sit per se notum +); 2° l'elencazioni delle
ragioni che stanno in favore della tesi che sarà rigettata dall’autore (Ad
primum sic proceditur. Videtur quod deum esse sit per se notum); 3°
l’elencazione delle ragioni che militano in favore della tesi opposta (Sed
contra; ...); 4° l'enunciazione della soluzione scelta dall’autore (Conclusio);
5° l’illustrazione di tale soluzione; 6° la confutazione delle tesi addotte per
la soluzione respinta, nell’ordine in cui sono state addotte (Ad primum ergo
dicendum... Ad secundum... +). L'ordine con cui le questioni venivano trattate
era fornito da qualche testo a cui l’intera raccolta serviva da commentario: da
qualche libro della Bibbia, da qualche opera di Boezio o di Aristotele o, più
frequentemente, dalle Sentenze di Pietro Lombardo. Quaestiones quodlibetales o
più semplicemente Quodlibeta erano le raccolte delle questioni che gli
aspiranti alla laurea in teologia dovevano discutere due volte all’anno (prima
di Natale e prima di Pasqua) su temi qualsiasi, de quolibet. Le quaestiones
disputatae erano invece il risultato delle disputationes ordinariae che i
professori di teologia tenevano durante i loro corsi sui più importanti
problemi filosofici e teologici (cfr., su questi argomenti, MARTIN GRABMANN,
Die Geschichte der scholastischen Methode, 1911, nuova ed., 1956). QUALCHE
(ingl. Some; franc. Quelque; tedesco Einige). Nella Logica contemporanea, « Q.
» 0 «alcuni » è un operatore di campo, di cui il simbolo più usato è «(4x)».,
per es., in formule come «(Ax).f(x)», che si legge «esiste almeno un x tale che
f(x) è vero». Esso corrisponde ad una somma o disgiunzione logica operata nel
campo di validità della (x), cioè alla disgiunzione «f(a) o f(5) o f(c) 0 ...».
Ove f(x) sia un predicato, questa equivale 717 alla formula consueta «qualche x
è f» o anche «alcuni x sono f» della Logica tradizionale. Già negli Analitici
di Aristotele, rìc (di solito al dativo rwì nella formula rò A tì té B breépyei,
«A inerisce a qualche B +) viene usato con questo preciso valore, come segno
della proposizione particolare affermativa. Nel latino medievale, subentrando
come forma normale di proposizione la formula «homo currit », il tlc greco, che
già in Aristotele veniva riferito sempre al soggetto logico della proposizione,
viene tradotto con l’aggettivo aliguis e grammaticalmente concordato col
soggetto (così aliguis homo currit, ma aliqui homines currunt, sebbene le due
forme, in Logica, siano perfettamente sinonimiche): donde il nostro 4Q.» e
«alcuni». Tuttavia è nella Logica medievale che ne viene chiaramente
riconosciuta la funzione di operatore, cioè di segno non significante che ha
solo il compito di modificare la denotazione del termine che funge da soggetto.
G. P. QUALCOSA (gr. x; lat. Aliquid; ingl. Something; franc. Quelque chose;
ted. Etwas). Un oggetto indeterminato. Dice Wolff «Q. è ciò a cui risponde una
determinata nozione » (On?., $ 59): il che vuol dire che è ciò cui corrisponde
una nozione che non includa contraddizione. Di quest’ultimo tratto si avvale
Baumgarten per definire il Q. (Met., $ 8). E Kant diceva: «La realtà è Q., la
negazione è niente » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei
concetti della riflessione). Ed Hegel: 4 L'essere determinato, riflesso in sè
in questo suo carattere, è quel che c’è, il Q. » (Enc., $ 90). Il concetto è
ora di pertinenza della logica (cfr. QuanTIFICATORE). QUALIFICAZIONE. V.
QuALITÀ. QUALITÀ (gr. nom; lat. Qualitas; inglese Quality; franc. Qualité; ted.
Qualitàt). La determinazione qualsiasi di un oggetto. In quanto determinazione
qualsiasi la Q. si distingue dalla proprietà (v.) che (nel suo significato
specifico) indica la Q. che caratterizza o individualizza l’oggetto stesso ed è
perciò propria di esso. La nozione di Q. è estesissima e può difficilmente
essere ridotta ad un concetto unitario. Si può dire piuttosto che essa
comprende una famiglia di concetti che hanno in comune la funzione puramente
formale di poter essere adoperati come risposte alla domanda quale? Di questa
famiglia Aristotele distinse quattro membri; e questa è ancora la migliore
esposizione che si possa dare del concetto di qualità. x. In primo luogo
s’intendono per Q. gli abiti e le disposizioni: che si distinguono tra loro
perchè l’abito è più stabile e duraturo della disposizione. Sono abiti la
temperanza, la scienza e in generale le virtù; sono disposizioni la salute, la
malattia, il caldo, il freddo, ecc. (Car., 8, 8 b 25; cfr. Met., V, 14, 1020a
8-12). Il ricorso ad abiti disposi718 zionali si fa talora anche nella
filosofia contemporanea (cfr., ad es., C. L. STEVENSON, Ethics and Language,
III, $ 4, 1950, 5* ed., pag. 46 sgg.): ma il precedente aristotelico viene
abitualmente ignorato. 2. Una seconda specie di Q. è quella che consiste in una
capacità o incapacità naturale; e in questo senso si parla di pugili, di
corridori, di sani, di malati, ecc. (Car., 8, 9 a 14). Questa è la Q. che gli
Scolastici chiamarono Q. attiva (cfr., ad es., S. Tommaso, .S. 7h., III, q. 49,
a. 2). 3. Il terzo genere di Q. è costituito dalle affezioni e dalle loro
conseguenze: queste sono le Q. sensibili vere e proprie (colori, suoni, sapori,
ecc.) (Cat., 8, 9a 27; cfr. Met., V, 14, 1020a 8). Gli Scolastici chiamarono
queste specie di Q. qualità passive (cfr. S. ToMmMaso, loc. cit.). 4. La quarta
specie di Q. è costituita dalle forme o determinazioni geometriche, per es.,
dalla figura (quadrato, circolare, ecc.) o dalla forma (rettilinea, curvilinea)
(Car., 8, 10a 10). Poco o nulla è stato aggiunto, nel corso ulteriore della
storia della filosofia a queste notazioni e distinzioni aristoteliche a
proposito della qualità. Se si vuole eliminare da esse ciò che è dovuto alla
loro più stretta connessione con la metafisica aristotelica, si può ottenere un’ulteriore
semplificazione e ridurre a tre i quattro gruppi precedenti caratterizzandoli
nel modo seguente: a) determinazioni disposizionali che comprendono
disposizioni, abiti, abitudini, capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come
altro si vogliano chiamare le determinazioni costituite da possibilità
dell'oggetto; b) determinazioni sensibili cioè le determinazioni semplici o
complesse che sono fornite da strumenti organici: colori, suoni, sapori, ecc.;
c) determinazioni misurabili cioè le determinazioni che si prestano ad essere
sottoposte a metodi oggettivi di misura: numero, estensione, figura, movimento,
ecc. Con questa modifica la partizione aristotelica corrisponde esattamente a
quella di Locke: difatti le Q. A sono quelle che Locke incluse sotto la terza
specie di Q., cioè tra quelle « che tutti sono concordi a considerare soltanto
come mere capacità che i corpi hanno di produrre certi effetti, sebbene si
tratti di Q. altrettanto reali nell’oggetto quanto quelle che, per adattarmi al
modo comune di parlare ho chiamate Q., pur distinguendole dalle altre con il
nome di Q. secondarie » (Saggio, II, 8, 10). Dall’altro lato le Q. B e C
corrispondono a quelle che Locke chiamava rispettivamente qualità primarie e
secondarie (v. oltre). Così rettificata, la distinzione tra le varie specie di
Q. copre l’intero campo delle discussioni e dei problemi cui essa ha dato luogo
nella tradizione filosofica. QUALITÀ a) La nozione di determinazione
disposizionale è quella cui fa riferimento non soltanto la nozione di Q. occulta,
ma anche quelle di forza che la soppiantò agli inizi della scienza moderna.
Diceva Newton: «Gli aristotelici dettero il nome di Q. occulta, non a qualità
manifeste ma a Q. che essi supposero al di là dei corpi, come cause sconosciute
di effetti manifesti: come sarebbero le cause della gravità o dell'attrazione
magnetica ed elettrica o delle fermentazioni, se supponessimo che si trattasse
di forze o azioni derivanti da Q. a noi sconosciute e incapaci di essere
scoperte e rese manifeste. Tali Q. occulte impediscono il progresso della
filosofia naturale, perciò sono state abbandonate in questi ultimi anni»
(Opricks, 1704, III, 1, 31). Nello stesso spirito, Wolff definiva come Q.
occulta quella « che è priva di ragion sufficiente» ed aggiungeva: « Una Q.
occulta è, per es., la gravità se viene concepita come una forza primitiva o
come una forza impressa alla materia da Dio, della quale non si possa dare a
priori nessuna ragione naturale. Tale è anche la forza motrice se si assume
come una forza primitiva impressa da Dio alla materia al momento della
creazione. Certamente Aristotele e i suoi seguaci, che ammisero le Q. occulte,
usarono questo termine in questo stesso significato » (Cosm., $ 189). La
notazione di Wolff è più chiara di quella di Newton: una forza è una Q. occulta
se di essa non si dà una ragione sufficiente naturale, non lo è se si dà una
tale ragione. Ma da questo appare anche che sia la nozione di Q. occulta sia
quella di forza sono riconducibili alla stessa nozione di Q., cioè alla Q. come
disposizione. Lo stesso significato di Q. è presente nel concetto di
qualificazione. « Qualificarsi per + o « essere qualificato per» significa
possedere la capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per
effettuare un dato compito o raggiungere un dato scopo. Talvolta tuttavia il
termine + qualificato » significa soltanto « limitato » o « caratterizzato da
date condizioni +, come avviene nel linguaggio giuridico. b, c) Le Q. nel senso
2 e quelle nel senso C sono le Q. tradizionalmente distinte come primarie e
secondarie. I termini « primario » e « secondario » rimontano a Boyle; ma la
distinzione è assai antica e rimonta a Democrito (Fr. 5, Diels). Dopo molti
secoli essa fu ripresa da Galilei (cfr. Opere, ed. naz., VI, pag. 347 sgg.), da
Hobbes (De Corp., 25, 3), da Cartesio (Princ. Phil., I, S7; Med., VI) e da
Locke (Saggio, II, 8, 9), che la diffuse nella filosofia europea. La base della
distinzione è la possibilità di quantificazione che le Q. nel senso C hanno
rispetto a quelle nel senso 8: per questa possibilità esse si sottraggono alle
valutazioni individuali e appaiono come indipendenti dal soggetto € pienamente
« oggettive + o « reali». In seguito la QUANTITÀ distinzione fu combattuta (per
es., da Berkeley) soprattutto allo scopo di mostrare che neppure le Q. primarie
sono oggettive ma che tutte sono ugualmente soggettive cioè consistono in
«idee» (Principles of Human Knowledge, I, $ 87). Secondo Husserl il significato
della distinzione sarebbe il seguente: «La cosa sperimentata fornisce il
semplice hoc, un vuoto x, che diventa portatore delle determinazioni
matematiche e delle formule inerenti e che esiste non già nello spazio
percettivo ma in uno spazio oggettivo di cui il primo è solo un indizio, cioè
in una varietà euclidea tridimensionale di cui è possibile una rappresentazione
solo simbolica» (/deen, I, $ 40). In questo senso le Q. oggettive
delineerebbero la natura di un oggetto trascendente rispetto alla percezione
sensibile e al quale la percezione sensibile accennerebbe come a un di là.
QUALITÀ DELLE PROPOSIZIONI (latino Qualitas propositionum; ingl. Quality of
Propositions; franc. Qualité des propositions; ted. Qualitàt des Urteils). Fu
probabilmente il neoplatonico Appuleo, contemporaneo di Galeno, ad adoperare
per primo le parole Q. e quantità per indicare rispettivamente la distinzione
delle proposizioni in affermative e negative e quella in universale e
particolare (De Int., pag. 266; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag.
581). Kant aggiunse ai due tradizionali giudizi di Q. il giudizio infinito (v.
INFINITO, GIUDIZIO). QUANTA, FISICA DEI. V. COMPLEMENTARITÀ; CONDIZIONE;
DETERMINISMO; FIsicA; INDETERMINAZIONE. QUANTIFICATORE. V. OPERATORE.
QUANTIFICAZIONE (ingl. Quantification; franc. Quantification; ted.
Quantifikation). In Logica si designa con « Q. » l’operazione mediante la
quale, usando appositi simboli detti quantificatori, si determina l’ambito o
estensione di un termine della proposizione. Nella Logica di Aristotele, e in
tutta la Logica classica derivatane, si conosceva solo la Q. del soggetto della
proposizione: in Aristotele mediante gli operatori «tutto » e «in parte» (s[il
predicato] B appartiene a furto [il soggetto] A»; « B appartiene in parte ad A
+); nella Logica medievale o moderna mediante gli operatori «omnis? e «aliquis»
(«omnis A est B»; «aliquis A est B3). La proposizione quantificata con «tutto »
era detta universale; quella quantificata con «in partes (s qualche ») era
detta particolare; quella non quantificata era detta indefinita. Nel sec. xx l’esigenza
di assoggettare la tradizionale sillogistica ad una specie di calcolo
matematico indusse alcuni logici inglesi (Bentham, 1827; Hamilton, 1833) a
quantificare anche il predicato, interpretando, per es., la proposizione
universale affermativa «tutti gli 719 A sono B» come «tutti gli A sono alcuni
B». In tal modo però la proposizione veniva unilateralmente interpretata come
una relazione di inclusione o esclusione, parziale o totale, tra classi. La
Logica contemporanea ha ripreso ma integrato quella concezione. In essa però i
quantificatori, che ora sono il quantificatore universale [nella notazione
russelliana, «(x).» = «tutti»] e il quantificatore esistenziale [c. s., «(Hx).»
= «esiste almeno un x tale che... »]), di nuovo si riferiscono soltanto agli argomenti
o variabili di una funzione proposizionale, trasformando queste in variabili
apparenti e le funzioni in vere e proprie proposizioni (universali o
particolari): per es., «x è mortale» è una funzione; « (x). ‘x è mortale ’ » (=
« tutti gli x sono La 1) è una proposizione universale. QUANTIFICAZIONE DEL
PREDICATO (ingl. Quantification of Predicate). W. Hamilton fece prevalere, in
polemica con la logica tradizionale, il principio della Q. del predicato,
asserendo: 1° che il predicato è così estensivo come il soggetto; 2° che il
linguaggio ordinario quantifica ogni volta che occorra il predicato o
direttamente mediante l’uso dei quantificatori (ad es., « Pietro Giovanni
Giacomo, ecc., sono tuffi gli apostoli ») o indirettamente attraverso la
limitazione e l’eccezione, come quando si dice « La virtù è la sola nobiltà »
oppure « Sulla terra 3% vi è niente di grande se non l’uomo » (Lectures on
Logic, Il, pag. 257 sgg.). QUANTITÀ (gr. moody; lat. Quantitas; inglese
Quantity; franc. Quantité; ted. Quantitàt). In generale, la possibilità della
misura. È questo il concetto che di essa ebbero Platone e Aristotele. Platone
affermò che la Q. sta tra l’illimitato e l’unità e che solo essa è l’oggetto
del sapere; per es., è esperto di suoni non chi ammette che i suoni sono
infiniti nè chi cerca di ridurli ad un unico suono, ma chi conosce la Q., cioè
il numero di essi (Fil., 17a, 18 b). Aristotele a sua volta definì la Q. come
ciò che è divisibile in parti determinate o determinabili. Una Q. numerabile è
una pluralità, che è divisibile in parti discrete. Una Q. misurabile è una
grandezza che è divisibile in parti continue in una o due o tre dimensioni. Una
pluralità finita è un numero, una lunghezza finita una linea, un’estensione
finita un piano e una profondità finita un corpo (Met., V, 13, 1027a 7). Queste
notazioni aristoteliche furono ripetute nella scolastica ed entrarono anche a
far parte delle nozioni comunemente accettate ai princìpi dell’Età Moderna. Che
la matematica potesse definirsi, come l’aveva definita Aristotele, « la scienza
della Q. + non parve cosa dubbia finchè gli sviluppi della matematica stessa
non fecero apparire troppo ristretta ed impropria questa definizione (v.
MATEMATicA). Tenendo appunto l’occhio alle matematiche 720 Wolff, nel sec. xvi,
definiva la Q. come «ciò per cui le cose simili, rimanendo salva la loro
somiglianza, possono differire intrinsecamente » (Cosm., $ 348): una
definizione che si potrebbe agevolmente capovolgere dicendo che la Q. è ciò per
cui le cose dissimili, rimanendo salva la loro dissimiglianza, possono essere
simili. Ma in questa forma che sarebbe più rispondente ai concetti matematici
moderni, si definirebbe non la Q. ma la grandezza (v.). Nella matematica
infatti il termine Q. è divenuto sinonimo di quello di grandezza, che è
specifico di un certo campo di indagine e che dipende dalla scelta opportuna
dell’unità di misura. Pertanto la Q. come categoria o concetto generalissimo
cade oggi fuori dell'ambito delle scienze e tutt'al più si può dire che essa
costituisca il tratto generalissimo in cui coincidono gli oggetti disparati
delle scienze positive: cioè la loro possibilità di esser sottoposti a misura.
La tendenza generale del pensiero scientifico a ridurre la qualità a Q. fu
interpretata in modo singolare da Hegel, che parlò di una « linea nodale dei
rapporti di misura». Il mutamento graduale della Q. porterebbe a un certo punto
(« punto » o «linea nodale +) a un mutamento della qualità; e il mutamento
graduale di questa nuova qualità porterebbe ad un altro punto nodale, e così
via. Hegel osservava che dal lato qualitativo, il passaggio a una nuova qualità
«è un salto: le due qualità sono poste completamente estrinseche l’una
all’altra ». E che perciò la gradualità del mutamento quantitativo non lascia
comprendere il divenire (Wissenschaft der Logik, I, sez. 3*, cap. 2, B;
traduzione ital., I, pag. 446-47). Con questo egli negava che il passaggio
dalla Q. alla qualità o viceversa servisse a qualcosa. Questo tuttavia non
impedì a F. Engels di considerare come legge fondamentale della dialettica «la
conversione della Q. in qualità » e di vedere in Hegel lo scopritore di questa
legge (Dialektik der Natur, trad. ital., pag. 57 sgg.) (v. DiaLETTICA; NODALE,
LINFA; SALTO). QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI. Fu il neoplatonico Appuleo (v.
QUALITÀ DELLE PROPOSIZIONI) a chiamare per primo Q. la divisione delle
proposizioni in universali e particolari, individuali e indefinite (ARIST., De
Int., 7; An. Pr., I, 1). Kant ridusse a tre le classi dei giudizi secondo la Q.
e precisamente alle proposizioni universali particolari e individuali (Crit. R.
Pura, 89). Hamilton parlò pure della Q. dei concetti, distinguendo la Q.
intensiva, che è l’intensione o comprensione dalla Q. estensiva che è
l’estensione o denotazione (Lectures on Logic, I, pag. 140 sgg.). QUANTOFRENIA
(ingl. Quantophrenia; francese Quantophrènie). Così P. Sorokin ha chiamato la
«mania della quantificazione a tutti i costi » nel campo delle scienze
psicologiche e sociali (Fads and QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI Foibles in Modern
Sociology and Related Sciences, 1956, cap. VII-VIII). QUATERNIO TERMINORUM.
Espressione usata a indicare il tipo più comune di fallacia logica cioè la
duplicità di significato di uno dei termini impiegati nel ragionamento: come
nell’esempio tratto da Seneca « Mus (il topo) è una sillaba; il topo rosicchia
il formaggio; dunque la sillaba rosicchia il formaggio » (Ep., 48) (v.
EQUIVOCAZIONE). QUIDDITÀ (lat. Quidditas; ingl. Quiddity; franc. Quiddité; ted.
Quidditàt). Termine introdotto dalle traduzioni latine (dall’arabo) delle opere
di Aristotele del sec. x1 come corrispondente della espressione aristotelica +6
71 fiv elvar (quod quid erat esse). Il termine significa essenza necessaria (0
sostanziale) o sostanza (v. ESSENZA; SOSTANZA). QUIETISMO (ingl. Quietism;
franc. Quiétisme; ted. Quietismus). La credenza che lo stato di grazia o di
unione con Dio si può ottenere con l’abbandono totale della propria volontà
alla volontà di Dio, al di fuori di ogni rito o pratica religiosa. I Q. è
proprio di molti indirizzi religiosi, ma il termine fu coniato a proposito
della forma che esso assunse nel seno del cattolicesimo per opera di Michele
Molinos (1627-1696) le cui tesi furono condannate dal Papa Innocenzo XI nel
1687. QUIETIVO (ingl. Quietive; franc. Quiétif; ted. Quietiv.. Così
Schopenhauer chiamò, per analogia ed antitesi con motivo, la conoscenza
filosofica in quanto porta alla negazione della Volontà di vivere cioè
all’ascetismo: quella negazione infatti « subentra dopo che la compiuta
conoscenza del proprio essere è diventata Q. d'ogni volere» (Die Welt, I, $
68). Un Q. in questo senso è anche l’arte come contemplazione disinteressata
delle idee platoniche (/bid., I, $ 70). QUINQUE VOCES. Sono i cinque concetti
generalissimi, o cinque tipi di predicato universale (perciò dette anche «
predicabili +) della Logica classica: genere, specie, differenza, proprio e
accidente. La loro distinzione e relativa problematica ha il suo nocciolo nei
Topici di Aristotele: ma la trattazione formale ed esplicita di esse come
categorie fondamentali di tutta la scienza della Logica si trova nella Zsagoge
di Porfirio. È soprattutto dalla versione e commenti boeziani di quest'opera
che esse passarono nella Logica medievale. G.P. QUINTA ESSENZA (lat. Quinta
essentia; ingl. Quintessence; franc. Quintessence; ted. Quintessenz). 1.
L’etere cioè la sostanza che secondo Aristotele, compone i cieli, in quanto
diversa dai quattro elementi che compongono i corpi sublunari (v. ETERE). 2.
L’estratto corporeo di una cosa ottenuto mediante l’analisi alchimistica della
cosa stessa con la separazione dell'elemento dominante dagli QUOTIDIANITÀ altri
elementi che sono mescolati in essa. Secondo Paracelso, nella Q. essenza sono
riposti gli arcani cioè le forze operanti di un minerale, di una pietra preziosa,
di una pianta; e di esse si serve perciò la medicina per operare le guarigioni
(De Mysteriis naturalibus, I, 4). In questo senso si adopera anche oggi il
termine per indicare il principio attivo di una cosa o la sua parte più pura.
QUODLIBETA. V. QuAESTIO. 46 721 QUOTIDIANITÀ (ted. Alltaglichkeit). Termine
introdotto da Heidegger per indicare «il modo d'essere in cui l’esserci (cioè
l’uomo) si mantiene innanzi tutto e per lo più». Tale modo d’esserci è il punto
di partenza dell’interpretazione ontologica: il che vuol dire che tale
interpretazione fa riferimento alle situazioni in cui l’uomo viene più
frequentemente a trovarsi nelle comuni faccende della vita (Sein und Zeit, $ 9)
(cfr. MEDIETÀ). R RADICALISMO (ingl. Radicalism; franc. Radicalisme; ted. Radikalismus).
1. Il positivismo sociale che si sviluppò in Inghilterra tra la fine del sec.
xvi e la prima metà del sec. xIx e che ebbe tra i suoi rappresentanti
filosofici Geremia Bentham (1748-1832), Giacomo Mill (1773-1836) e Giovanni
Stuart Mill (1806-1873). Questo indirizzo si avvalse del positivismo
filosofico, dell’utilitarismo morale e delle dottrine economiche di Malthus e
Ricardo per sostenere riforme « radicali » nell’ordinamento dello stato e nel
sistema di distribuzione delle ricchezze (v. LIBERALISMO). 2. Più
genericamente, il termine viene oggi usato a designare qualsiasi tendenza
filosofica o politica che proponga un rinnovamento radicale dei sistemi vigenti
cioè un mutamento nei princìpi su cui poggiano i sistemi delle credenze o delle
istituzioni tradizionali. RADICE (gr. pi&wpa; ingl. Roof; franc. Racine;
ted. Wurzel). Termine col quale frequentemente si è indicato, nel linguaggio
filosofico, un principio primo o un elemento ultimo. Empedocle chiamò R. i
quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) di cui le cose sono composte
(Fr., 6, Diels); e spesso d'allora in poi i filosofi si sono serviti dello
stesso termine per indicare elementi o princìpi. Schopenhauer, per es.,
intitolò una delle sue dissertazioni La quadruplice R. del principio di ragion
sufficiente (1813). Di qui l’aggettivo radicale passato a indicare ciò che
concerne un principio o costituisce un principio. « Male radicale» chiamò Kant
la tendenza dell’uomo al male che è inerente alla sua stessa struttura morale
(cfr. Religion, cap. I). E radicale si chiama oggi un’analisi che rimonta ai
princìpi, o alle prime origini. Husserl, per es., insisteva sulla radicalità
della filosofia in quanto scienza dei veri princìpi e delle prime origini, «La
scienza di ciò che è radicale, dev'essere radicale anche nel suo metodo e sotto
ogni riguardo » (Phil. als strenge Wissenschaft, 1911; trad. ital., pag. 83).
RAGIONAMENTO (gr. 2oyioués; lat. Ratiocinatio; ingl. Reasoning; franc.
Raisonnement; tedesco Vernunftschluss). Qualsiasi procedimento di inferenza o
di prova; perciò qualsiasi argomento, conclusione, inferenza, induzione,
deduzione, analogia, ecc. Diceva Stuart Mill: « Inferire una proposizione da
una o più proposizioni precedenti; credere o pretendere che si creda ad essa
come conclusione da qualcosa d’altro, significa ragionare nel più esteso senso
del termine» (Logic, II, I, 1). Stuart Mill escludeva dall’ambito del R.
soltanto «i casi nei quali la progressione di una verità all’altra è solo
apparente perchè il conseguente è una mera ripetizione dell’antecedente »
(/bid., II, 1, 3): e identificava ragionamento e inferenza. Ma questa
restrizione è venuta meno nell'uso corrente del termine, che oggi comprende
anche le inferenze tautologiche che si ritengono proprie della matematica e
della logica (cfr. P. F. StraWSON, /ntr. to Logical Theory, 1952, pag. 12
sgg.). Pertanto la illustrazione dei significati del termine si può trovare
sotto le singole voci che costituiscono l’estensione del termine in questione e
specialmente sotto le seguenti: deduzione, induzione, prova, dimostrazione,
inferenza, sillogismo, argomento, analogia. Tuttavia la classificazione
fondamentale dei R. è quella che la divide in R. deduttivi e R. induttivi.
Questa distinzione, già stabilita da Aristotele (An. Pr., II, 23, 68 b 13)
viene solitamente conservata anche oggi, talvolta con nomi appena mutati.
Peirce, ad es., parlava di R. esplicativi analitici o RAGIONEdeduttivi da un
lato; e dall’altro di R. amplificativi, sintetici o induttivi (Chance Love and
Logic, I, 4, 3; trad. ital., pag. 67): che sono appunto i nomi che più
frequentemente ricorrono per indicare le due specie fondamentali del
ragionamento. RAGIONAMENTO APAGOGICO. V. ApaGOGICO. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA.
V. ANALOGIA. RAGION DI STATO. Giovanni Botero che introdusse l’espressione come
titolo di un suo libro (Della R. di Stato, 1589) intese per essa « la notizia
dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare uno Stato » cioè « un dominio
fermo sopra i popoli ». Ma in realtà l’espressione è passata a indicare il
principio del machiavellismo volgare; e ciò ad opera dello stesso Botero che,
pur polemizzando contro Machiavelli, faceva suo il principio del fine che
giustifica i mezzi in materia politica (v. MAcHIAVELLISMO). RAGIONE (gr. 26y06; lat.
Ratio; ingl. Reason; franc. Raison; ted. Vernunft). Il termine ha i seguenti significati fondamentali: 1°
Guida autonoma dell’uomo in tutti i campi nei quali un’indagine o una ricerca è
possibile. In questo senso si dice che la R. è una « facoltà » propria
dell’uomo e che distingue l’uomo dagli altri animali. 2° Fondamento o R.
d’essere. Poichè la R. d’essere di una cosa è la sua essenza necessaria o
sostanza, espressa nella definizione, si assume talvolta per «R.» la sostanza
stessa o la sua definizione. Questo è un significato frequente nella filosofia
aristotelica o che si ispira a quella aristotelica. Per esso v. i termini
ESSENZA ; FONDAMENTO; FORMA; SOSTANZA. 3° Argomento o prova. In questo senso si
dice « Ha avanzato le sue R. + o « Bisogna sentire le R. dell’avversario ». A
questo significato si riferisce pure l’espressione « Aver R.+: che significa
avere argomenti o prove sufficienti, quindi esser nel vero. Per questo
significato v. ARGOMENTO; PROVA. 4° Rapporto in senso matematico. In questo
senso si parla anche oggi di «R. diretta» o «R. inversa » (in italiano e in
francese) mentre il termine latino ratio è adoperato in questo senso in
inglese. Per questo significato v. RELAZIONE. Nel significato di guida della
condotta umana nel mondo, la R. può essere intesa in due significati
subordinati e cioè: 4) come facoltà generale di guida; 8) come procedimento
specifico di conoscenza. A) Questo è il senso fondamentale, dal quale la parola
desume quella potenza di significato che ha fatto di essa, da secoli, l'emblema
della ricerca libera. La R. è la forza che libera dai pregiudizi, 723 dal mito,
dalle opinioni radicate ma false, dalle apparenze e consente di stabilire un
criterio universale o comune per la condotta dell’uomo in tutti i campi.
Dall’altro lato, come guida propriamente umana, la R. è la forza che consente
all’uomo di liberarsi dagli appetiti che ha in comune con gli animali,
sottoponendoli a controllo e mantenendoli nella giusta misura. Questa è la
duplice funzione che è stata attribuita alla R. sin dai primordi della
filosofia occidentale. La polemica di Eraclito e Parmenide contro le opinioni
dei più, cioè contro le credenze stabilite, discordi tra loro e fallaci, è
condotta in nome di una R. che sia l’unico criterio di guida per tutti gli
uomini. Dice Eraclito: « Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè comune
a tutti; e solo la R. è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua
mente privata» (F7., 2, Diels). E Parmenide: « Allontana il tuo pensiero da
questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l’abitudine di lasciarti guidare
da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola: giudica
invece con la R.» (Fr., 1, 33-37, Diels). Platone e Aristotele dall’altro lato
oppongono la R. sia alla sensibilità in quanto fonte delle comuni credenze
(PLATONE, Fed., 83 a; ARISTOTELE, Mef., I, 1, 980b 26), sia agli appetiti che
l’uomo ha in comune con gli animali (PLATONE, Tim., 70 a; ARISTOTELE, Er. Nic.,
I, 13, 1102 b 15). Nell’un caso e nell’altro, la ragione ha nello stesso tempo
una funzione negativa e positiva: negativa nei confronti delle credenze
infondate e degli appetiti animali; positiva nel senso di dirigere le attività
umane in modo uniforme e costante. Ma furono soprattutto gli Stoici che fecero
prevalere la dottrina che la R. è l’unica guida degli uomini. Essi infatti
stabilivano una specie di divisione simmetrica tra gli animali e gli uomini:
agli animali è stato dato come guida l’istinto che li porta a conservarsi e a
cercare ciò che è vantaggioso; agli uomini è stata data come più perfetta guida
la R., sicchè per essi vivere secondo natura significa vivere secondo R. (Dio.
L., VII, 1, 85-86). Questi concetti costituirono uno dei cardini della cultura
classica. Cicerone diceva: « La R., per la quale sola ci differenziamo dai
bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare, argomentare, ribattere,
discutere, condurre a termine e concludere, è certamente comune a tutti,
differente per preparazione, ma eguale quanto a facoltà di apprendere + (De
Legibus, I, 10, 30). E Seneca esaltava la R. per la sua immutabilità e
universalità. «La R., diceva, è immutabile e ferma nel suo giudizio perchè non
è schiava ma signora dei sensi. La R. è uguale alla R. come il giusto al
giusto: dunque anche la virtù è uguale alla virtù perchè la virtù non è altro
che la retta R. » (Ep., 66). Da questo punto di vista anche la metafisica
stoica della R. per cui essa è, come 724 dice lo stesso Seneca (/bid.), «una
parte dello spirito divino infusa nel corpo dell’uomo? non toglie l’autonomia
di essa ma la esalta e conferma. A questi concetti s’ispirava senza dubbio S.
Agostino in quell’elogio della ragione che forma gli ultimi capitoli del De
Ordine: «La R., egli dice, è quel moto della mente che può distinguere e
collegare tutto ciò che si apprende » (De Ord., II, 11, 30). Essa è la forza
creatrice del mondo umano: ha inventato il linguaggio, la scrittura, il
calcolo, le arti, le scienze, ed è quanto di immortale c’è nell'uomo (/bid.,
II, 19, 50). L’entusiasmo di S. Agostino per la ragione si spiega facilmente:
per S. Agostino la vita è ricerca e la R. è il principio che istituisce e
dirige la ricerca e la rende feconda. Il neoplatonismo aveva tuttavia già
subordinato la R. all’intelletto, ritenuto superiore alla R. perchè dotato di
quel carattere intuitivo o immediato che fa di esso la diretta visione del
vero. Secondo Plotino la R. emana dall’intelletto « in quanto questo è presente
in tutte le cose che sono » (Enn., III, 2, 2). Essa è in altri termini la
funzione formatrice e plasmatrice dell’intelletto; e per disporre tutte le cose
del mondo (buone e cattive) nel loro ordine proprio, deve adattarsi alla
materia (/bid., III, 2, 11-12). In questo senso la R. è la tecnica della
creazione e del governo del mondo: giacchè fa sì che gli esseri creati non si
distruggano a vicenda ma si accordino e si combinino tra loro nel modo
migliore. «La R., dice Plotino, fa sì che ciascun essere patisca o agisca, non
a caso o disordinatamente, ma secondo necessità » (/bid., II, 3, 16). Questo
concetto della superiorità dell’intelletto viene ereditato dalla scolastica
medievale. R. e intelletto vengono identificate nel significato generale di
guida (cfr., ad es., S. ToMMAsO, S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 49; q. 79, a. 8).
Ma la R. viene poi subordinata all’intelletto per il suo carattere discorsivo
che appare inferiore al carattere intuitivo di esso (v. oltre). Più tardi, lo
stesso Bacone considerava la R. come una particolare attività dell’intelletto
(assieme alla memoria e alla fantasia) e precisamente quella il cui compito
consiste nel dividere e comporre le nozioni astratte «secondo la legge della
natura e l'evidenza delle cose stesse » (De Aupm. Scient., II, 1). Sicchè solo
con Cartesio la R. ritorna ad essere la guida fondamentale dell’uomo.
Identificando la R. con il buon senso, Cartesio ripristina il concetto classico
della R. e su tale concetto imposta il problema nuovo del metodo. «La capacità
di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è propriamente ciò che
si chiama il buon senso o la R., è naturalmente uguale in tutti gli uomini; perciò
la disparità delle nostre opinioni non viene da ciò che le une sono più
ragionevoli delle altre ma solamente da ciò, che RAGIONE conduciamo i nostri
pensieri per diverse vie e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente
aver lo spirito sano ma la cosa principale è applicarlo bene » (Discours, I).
Queste parole famose hanno reintrodotto nel mondo moderno il concetto antico (e
specialmente stoico) della R. come guida comune del genere umano. Sicchè
Spinoza poteva meravigliarsi che si volesse talvolta «sottomettere la R.,
massimo dono di Dio e luce veramente divina, alle parole + e che non si
stimasse un delitto « parlare indegnamente della R. che è la vera testimonianza
del Verbo di Dio e dichiararla corrotta, cieca ed impura» (Traci.
theologico-politicus, cap. 15). Leibniz a sua volta insisteva sulla vecchia
tesi che la R. appartiene all'uomo e all’uomo soltanto (Nouv. Ess., IV, 17, 2).
E Locke riconosceva alla R. una determinazione fondamentale che costituisce la
sola autentica innovazione che il concetto moderno di essa presenta nei
confronti del concetto classico: l’essere cioè essa strumento della conoscenza
probabile oltre che della certa. « Come la R., diceva Locke, percepisce la
connessione necessaria e indubitabile che tutte le idee o prove hanno l’una con
l’altra, in ciascun grado di una qualunque dimostrazione che produca
conoscenza, così analogamente essa percepisce la connessione probabile che
unisce tra loro le idee o prove in ciascun grado di una dimostrazione cui
giudichi sia dovuto l’assenso + (Saggio, IV, 17, 2). Con questa determinazione,
la R. era qualificata per la funzione che l’illuminismo settecentesco le
affidava di valere come principio di critica radicale della tradizione e di un
rinnovamento altrettanto radicale del mondo umano. Kant cercava di realizzare
pienamente l’ideale illuministico della ragione. Da un lato identificava la R.
con la stessa libertà di critica (« Sulla libertà di critica riposa l’esistenza
della R. che non ha autorità dittatoriale ma la cui sentenza è sempre
nient’altro che l’accordo di liberi cittadini ciascuno dei quali deve poter
formulare i suoi dubbi e persino il suo veto senza impedimenti +); dall’altro
intendeva portare la R. stessa davanti al suo proprio tribunale e istituire
quella « critica della R. pura + che « non s’immischia nelle controversie che
si riferiscono immediatamente agli oggetti ma è istituita per determinare e
giudicare i diritti della R. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. I, sez. II). È in accordo con il concetto illuministico della R.
la definizione di Whitehead: «la funzione della R. è il promuovere l’arte della
vita »: nel senso che la R. avrebbe il compito di agire sull'ambiente per
promuovere forme di vita più soddisfacenti e perfette (The Function of Reason,
1929, cap. I; trad. ital., Cafaro, pag. 6 sgg.). Mentre quella che a prima
vista sembra la massima garanzia offerta all’efficacia della R. RAGIONE cioè il
credere che essa abiti la realtà e la domini, sicchè non ci sia realtà che non
sia razionale nè razionalità che non sia reale, costituisce piuttosto
l'abbandono della funzione direttiva della ragione. Hegel, che ha affermato nel
modo più rigoroso questo punto di vista, ha anche negato la funzione direttiva
della R.: « Ciò che sta tra la R. come spirito autocosciente e la R. come
realtà presente, ciò che differenzia quella R. da questa e non lascia trovare
l’appagamento in questa, è l’impaccio di qualche astrazione che non si è
liberata e non si è fatta concetto. Riconoscere la R. nel presente, quindi
godere di esso, questo riconoscimento razionale è la riconciliazione con la
realtà, che la filosofia consente a quelli i quali hanno avvertito l’interna
esigenza di comprendere » (Fi/. del dir., Pref.; traduzione ital., Messineo,
pag. 17). Ciò significa che la R. non dirige ma giunge post factum a
comprendere la realtà, cioè a giustificarla. B) Il riconoscimento della R. come
guida costante, uniforme e (talvolta) infallibile di tutti gli uomini in tutti
i campi della loro attività è accompagnato il più delle volte dalla
determinazione di un procedimento specifico nel quale si riconosce l'operazione
propria della ragione. Si possono ridurre ai seguenti concetti fondamentali le
determinazioni che sono state date o si dànno della tecnica specifica della
ragione: a) il discorso; 5) l’autocoscienza; c) l’autorivelazione; d) la
tautologia. a) Il procedimento discorsivo è la tecnica che più frequentemente è
stata ritenuta propria della ragione. Al procedimento discorsivo fa appello
Platone per segnare la differenza tra l’opinione vera e la scienza: le opinioni
vere possono dirigere l'azione egualmente bene che la scienza, ma tendono a
sfuggire da ogni parte, come le statue di Dedalo, finchè «non siano legate con
un ragionamento causale » (Men., 98 a). Questa legatura o connessione è la
tecnica discorsiva. Tecnica discorsiva è l’intero procedimento sillogistico di
Aristotele, al di fuori della determinazione dei primi princìpi che sono
intuiti dall’intelletto; discorsiva è sia la sillogistica necessitante sia quella
dialettica (An. Posr., I, 33, 89 b 7; Er. Nic., VI, 11, 1143b 1). Nello stesso
senso gli Stoici definivano la R. come « un sistema di premesse e di
conclusioni» (Diog. L., VII, 1, 45). L’ufficio frequentemente attribuito alla
ragione di distinguere, collegare, paragonare, ecc. [cfr. i passi di Cicerone e
S. Agostino riportati in A)] non è che l’espressione dello stesso procedimento.
S. Tommaso diceva: « Gli womini giungono a conoscere la verità intelligibile
procedendo da una cosa all'altra, perciò si chiamano ragionevoli. È evidente
che il ragionare sta all’intendere nello stesso rapporto in cui il muovere sta
allo star fermi o l’acquisire all’avere: delle quali cose, la prima è propria
di 725 ciò che è imperfetto, la seconda di ciò che è perfetto » (S. 7A., I,
q.79, a. 8). Ai princìpi dell’Età Moderna Cartesio prendeva a modello lo stesso
procedimento per determinare le sue regole del metodo: «Quelle lunghe catene di
ragioni, tutte semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine di
servirsi per giungere alle loro più difficili dimostrazioni m’avevano dato
occasione di immaginare che tutte le cose che possono venire a conoscenza degli
uomini si connettono nello stesso modo » (Discours, II. La Logica di Portoreale
esprimeva diversamente gli stessi concetti (ARNAULD, Lop., III, 1), che anche
Locke poneva a base della sua dottrina della ragione: « Nella R. possiamo
considerare questi quattro gradi: il primo e più alto consiste nel trovare e
scoprire la verità; il secondo nel disporle in modo regolare e metodico e
sistemarle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con
evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il rerzo
consiste nel percepire tali connessioni; il quarto nel trarre una giusta
conclusione » (Saggio, IV, 17, 3). La distinzione che Spinoza stabiliva tra il
secondo genere di conoscenza, che egli appunto chiamava R., e il terzo genere
che chiamava scienza intuitiva è la distinzione tradizionale tra il
procedimento discorsivo e l’intelletto intuitivo (Er., II, 40, schol. 2). E
Leibniz non faceva che trovare l’espressione più semplice per lo stesso
concetto della R. asserendo che la R. è «il concatenamento delle verità + (Op.,
ed. Erdmann, pag. 479, 393). Wolff chiamava «giudizio discorsivo» l’operazione
della R. in quanto consiste nel collegamento delle proposizioni (Log., $
50-51). Il concetto della R. come discorso entra in crisi con Kant. Kant,
mentre riconosce il carattere discorsivo a tutta l’attività conoscitiva umana,
ritenendo che solo Dio possiede la conoscenza intuitiva (v. Discorsivo)
distingue nettamente la R. dall’intelletto, nonostante il loro comune carattere
discorsivo. La R.è la facoltà «che produce da sè i concetti » e perciò si può
chiamare facoltà dei principi. Ma i concetti che la R. produce non hanno alcuna
base nell’esperienza perciò sono semplicemente fittizi. « Se l’intelletto può
essere una facoltà dell’unità dei fenomeni mediante le regole, la R. è la
facoltà dell'unità delle regole dell’intelletto mediante i princìpi. Essa
perciò non si indirizza mai immediatamente all’esperienza o a un oggetto
qualsiasi ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso
un’unità a priori per mezzo di concetti: unità che può dirsi razionale ed è di
tutt’altra specie di quella che può essere prodotta dall’intelletto » (Crit. R.
Pura, Dialettica trascendentale, Intr. II, a). La R. procede, come
l'intelletto, discorsivamente; ma considera i procedimenti discorsivi
dell’intelletto come compiuti 726 in idee di totalità e di unità (l’anima, il
mondo, Dio) che sono perfette ma inconfrontabili con l’esperienza, quindi
puramente fittizie e fonti solo di ragionamenti dialettici, cioè sofistici (v.
IDEA, ANTINOMIE). Il risultato di questa distinzione kantiana è che il
procedimento discorsivo valido è solamente quello dell'intelletto, i cui
concetti sono immediatamente derivati dall’esperienza; e che il procedimento
discorsivo razionale, con le sue pretese totalitarie, non dà luogo che a
nozioni fittizie. Dopo Kant pertanto diventa difficile mantenere la definizione
della ragione come tecnica discorsiva. Il concetto della R. come discorso
consente la considerazione formale del procedimento razionale: cioè rende
possibile una /ogica, che è difatti la logica tradizionale così come è stata
elaborata dai filosofi a partire da Aristotele sino alla fine del sec. xx. La
logica intesa in questo senso è nello stesso tempo descrittiva e normativa:
descrittiva dei procedimenti propri della R., normativa nel senso che questa
stessa descrizione vale come regola per il retto uso della stessa ragione. In
questo senso la logica tradizionale era esattamente definita come «arte di
ragionare ». b) Il concetto della R. come autocoscienza rimonta a Fichte. Esso
è caratterizzato dall’identificazione di R. e realtà e presuppone il concetto
della R. come discorso. Come discorso, la R. è deduzione; e come deduzione ha
un unico principio che è l'Io. Dall’Io deriva, con necessità infallibile,
l’intero sistema del sapere che è nello stesso tempo il sistema della realtà. «
Fonte di ogni realtà è l'Io. Solo per e con l’Io è dato il concetto della
realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere
sono una sola e medesima cosa » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, C; trad. ital.,
pag. 92). Le equazioni su cui questa dottrina si fonda sono le seguenti: R. =
sapere deduttivo; sapere deduttivo = realtà; realtà + sapere = autocoscienza.
Schelling non faceva che esprimere queste equazioni asserendo: « La natura
attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente oggetto a se
stessa, con l’ultima e più alta riflessione che non è altro se non l’uomo o più
generalmente ciò che noi chiamiamo ragione. In tal modo per la prima volta si
ha il completo ritorno della natura a se stessa e appare evidente che la natura
è originariamente identica a ciò che in noi si rivela come principio
intelligente e cosciente (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr.,
$ 1; trad. ital., pag. 9). Ed Hegel esprimeva lo stesso concetto nel modo
seguente: «L’autocoscienza, ossia la certezza che le sue determinazioni sono
tanto oggettive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi propri
pensieri, è la R.; la quale, in quanto è siffatta identità. è non solo la
sostanza RAGIONE assoluta, ma la verità come sapere» (Enc., $ 439). In altri
termini per Hegel la R. è l’identità dell’autocoscienza come pensiero con
quelle sue manifestazioni o determinazioni che sono le cose o gli eventi; è
l’identità di pensiero e realtà. In forma epigrafica questo concetto veniva
espresso da Hegel nel modo seguente; «la R. è la certezza della coscienza di
essere ogni realtà: così l’idealismo esprime il concetto della R.» (Phdnomen.
des Geistes, I, V, l; trad. ital., pag. 209). Ovviamente, da questo punto di
vista, la R. non è discorsiva nel senso di concatenare tra loro espressioni
linguistiche ed effettuare la derivazione di una di esse dall’altra mediante
regole determinate o determinabili; ma è piuttosto la derivazione (pretesa) di
tutte le determinazioni del pensiero e della realtà l’una dall’altra in un
unico processo di cui si asserisce la perfetta « necessità ». Questo punto di
vista rende impossibile la considerazione formale delle procedure razionali che
è invece collegata con la concezione a della ragione. Come autocoscienza, la R.
non è mai formale: è sempre identica con la realtà: « L’intelletto, dice Hegel,
determina e tien ferme le determinazioni. La R. è negativa e dialettica perchè
risolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è positiva perchè
genera l’universale e in esso comprende il particolare» (Wissenschaft der
Logik, Pref. alla 1* ediz.; trad. ital, pag. 5). « Comprende il particolare »
significa che comprende le cose o determinazioni reali che non sono altro, in
ultima analisi, che le sue manifestazioni particolari. La negazione della
logica formale fa parte integrante di questo punto di vista, perciò ritorna
ogni volta che questo si presenta. Basti qui ricordare soltanto il rifiuto di
Croce della logica formale, fondata sullo stesso presupposto hegeliano dell’identità
di R. e realtà, espresso nella forma dell’identità di filosofia e storia: « La
ricchezza della realtà, dei fatti, dell’esperienza che parrebbe sottratta al
concetto puro e quindi alla filosofia a cagione del dichiarato distacco delle
scienze empiriche, le viene invece ridata e riconosciuta; e non più nella forma
diminuita e impropria che è dell’empirismo sibbene in modo totale o integrale.
Il che si effettua mercè il congiungimento, che è unità, di filosofia e storia
» (Logica, 1920, pag. 392). c) Il concetto della R. come autorivelazione o
evidenza è stato stabilito da Husserl. Per Husserl la R. è lo stesso
manifestarsi fenomenologico degli oggetti (che possono essere cose Oo essenze),
sia che tale manifestarsi sia dotato del carattere necessario o apodittico sia
esso solo assertorio. Dice Husserl: « La visione per così dire assertoria di
una individualità, ad es., il percepire una cosa o uno stato di fatto
individuale si distingue nel suo carattere razionale dalla visione apodittica
della comprensione di un'essenza o di un rapporto di essenze» (Ideen, 1, $
137). Il termine più comprensivo cioè il concetto che comprende sia la visione
assertoria, che è data di fatto ma può essere diversa, sia la visione
apodittica che è necessaria, è la coscienza razionale che Husserl chiama pure,
in generale, evidenza (Ibid., $ 137). Da questo punto di vista il carattere
fondamentale della razionalità è la validità dell’atto di posizione: se
l'oggetto è veramente posto, l’atto è valido e la posizione ha carattere razionale
(/bid., $ 139). Ma ciò che dal punto di vista dell’atto noetico è la posizione
dell’oggetto, dal punto di vista oggettivo è il manifestarsi evidente
dell’oggetto stesso, il suo darsi o il suo rivelarsi (Ibid., $ 139). E poichè
in ogni sfera dell’essere il modo di autorivelarsi degli oggetti è diverso,
ogni tipo di realtà porta con sè «una nuova concreta dottrina della R.» (/bid.,
$ 152). Questo concetto della R. come autorivelazione o autoevidenza è
senz’altro accettato da Heidegger: « Proprio perchè la funzione del /ogos è un
puro lasciar vedere qualcosa, un lasciar intuire l’ente, /ogos può significare
R.» (Sein und Zeit, $ 7, B). In forma più mitica lo stesso concetto è
presentato da Jaspers: «La R. non è affatto una vera e propria sorgente
originaria ma, poichè è la connessione di tutto, è simile a una sorgente
originaria nella quale vengono alla luce tutte le sorgenti» (Vernunft und
Existenz, 1935, II, 5; trad. ital, pag. 50). La direzione verso cui la R. muove
è un'infinita chiarezza; e ciò che in essa cerca di chiarirsi è l’esistenza: «
l’esistenza raggiunge la chiarezza solo attraverso la R.: la R. ha un contenuto
solo in virtù dell’esistenza » (/bid., II, 6; pag. 53). È ovvio che anche da
questo punto di vista una considerazione formale del procedimento razionale è
impossibile. La R. non è mai formale perchè è sempre riempita dal contenuto che
in essa si manifesta evidente o si chiarisce. d) Il concetto della R. come
tautologia trova la sua origine in Hume che per primo distinse nettamente le « relazioni
di idee » dalle « cose di fatto ». «Alla prima classe appartengono le scienze
quali la geometria, l’algebra e l’aritmetica e in breve ogni proposizione certa
intuitivamente [nel senso lockiano] o dimostrativamente... Le proposizioni di
questa classe si possono scoprire con una pura operazione del pensiero e non
dipendono da cose che esistono in qualche luogo dell’universo » (/ng. Conc.
Underst., IV, 1). Hume veramente non affermò esplicitamente il carattere
tautologico o (come si dice con termine kantiano) analitico delle proposizioni
che esprimono semplici rapporti delle idee fra loro; ma in qualche modo lo
presuppose insistendo sul fatto che le proposizioni che esprimono cose di fatto
non sono logicamente derivabili l’una dall’altra. Tuttavia a formare la
concezione in 721 esame della R. è intervenuta anche un’altra componente
concettuale che era stata per la prima volta esposta da Hobbes; la riduzione
della R. a calcolo delle proposizioni verbali. «La R., aveva detto Hobbes, non
è altro che il calcolo — cioè l’addizione e la sottrazione — delle conseguenze
dei nomi generali usati per contrassegnare e significare i nostri pensieri: per
contrassegnarli quando calcoliamo per noi stessi, per significarli quando
dimostriamo o approviamo i nostri calcoli per gli altri uomini » (Leviathan, I,
5). Quest’idea di Hobbes trovò la sua realizzazione soltanto a partire dalla
metà del sec. xx con la fondazione della logica matematica da parte di G. Boole
(Laws of Thought, 1854) che per la prima volta mostrò l’impossibilità di
ridurre il ragionamento matematico alle forme di ragionamento descritte da
Aristotele e cominciò a costruire una logica in stretta connessione con i
procedimenti del calcolo. I successi che questa logica registrò in seguito, ad
opera soprattutto di Frege e Russell (v. Logica), costituiscono un antecedente
storico indispensabile del concetto in esame della ragione. Che tale
procedimento avesse carattere tautologico apparve chiaro soltanto più tardi,
cioè nell’ambito del Circolo di Vienna, con l’opera di Wittgenstein (1922). Il
fondamento di quest’opera è la riduzione della R. al linguaggio. Wittgenstein
asseriva che « le proposizioni della logica sono tautologie» (Tractatus
logico-philosophicus, 6.1); che « le proposizioni della logica non dicono nulla
(sono le proposizioni analitiche) » (/bi4., 6.11) e che «le teorie che fanno
apparire fornita di contenuto una proposizione della logica sono sempre false »
(/bid., 6.111). E aggiungeva: «La caratteristica speciale delle proposizioni
logiche è che dal solo simbolo si può riconoscere che sono vere e questo fatto
racchiude in sè tutta la filosofia della logica. Parimenti uno dei fatti più
importanti è che la verità o falsità delle proposizioni non logiche non si può
riconoscere soltanto dalla proposizione » (Tract., 6.113). In tal modo il
procedimento razionale ritenuto proprio di quelle discipline che Hume diceva
avere per oggetto soltanto relazioni di idee (cioè della logica e della
matematica) è stato ridotto alla tautologia. Wittgenstein dice che le proposizioni
della logica, come quelle della matematica (/bid., 6.21) non dicono nulla. Ciò
non vuol dire tuttavia che esse sono inutili perchè rivelano l’identità di
significato che c’è sotto forme proposizionali diverse e possono pertanto
essere usate per la trasformazione di una proposizione in un’altra che abbia lo
stesso significato ma una forma diversa. Tuttavia, nessuna delle proposizioni
della logica e della matematica fornisce alcuna informazione intorno al mondo.
La riduzione della R. a procedimento tautologico ha quindi i seguenti
risultati: 1° sono razionali, nel senso proprio del termine, solo i
procedimenti formali della logica e della matematica (come parte o tutto della
logica); perciò razionalità e logicità coincidono; 2° razionalità e logicità
non hanno nulla a che fare con la realtà. Pertanto questo concetto della R.
costituisce l'inversione simmetrica del concetto 5) che ha invece identificato
razionalità e realtà ed ha opposto entrambe le concezioni alla pura formalità
logica, dichiarata priva di valore (cfr., sulla concezione in esame, R. von
MISES, Kleines Lehrbuch des Positivismus, 1939, $ 10; trad. ital., pag. 164
sgg.; J. R. WeINBERG, An Examination of Logical Positivism, 1950, cap. II;
traduzione ital, pag. 86 sgg.). Le quattro alternative tipiche che la teoria
della R. ha finora seguite sono chiaramente insufficienti di fronte al compito
che alla R. si assegna come guida autonoma dell’uomo in tutti i campi. La prima
di esse si è storicamente esaurita e l’abbandono della logica in cui essa si
esprimeva non è che un segno di quest’esaurimento. La 5) e c) rendono
impossibile la determinazione di procedimenti rigorosi; e la 5) mette in
pericolo la stessa funzione direttiva della ragione. La d) rende possibile lo
sviluppo di una disciplina autonoma che è la moderna logica matematica ma è
troppo ristretta per esprimere i compiti della R. in tutti i campi. È possibile
bensì, in tutti i campi, servirsi delle tecniche logico-matematiche costruite
sul fondamento della nozione di R. come tautologia; ma non tutti i procedimenti
che possono definirsi razionali possono ridursi a tali tecniche. Un
procedimento razionale è in generale quello che consente all’uomo di dominare
una situazione, di affrontare i mutamenti di essa e di correggere gli errori eventuali
del procedimento stesso. Pertanto la razionalità di un procedimento si può
determinare soltanto nei confronti della situazione specifica che esso consente
di affrontare. E la considerazione della R. rinvia subito (come voleva Husserl)
alla considerazione delle sfere o dei campi specifici, rispetto ai quali
soltanto si può decidere la razionalità di un procedimento. Da questo punto di
vista, la teoria della R. può essere oggi fornita, non da una metafisica della
R., ma dalle ricerche metodologiche e critiche che, dall'esame dei procedimenti
autonomi, di cui l’uomo dispone nei singoli campi di ricerca, risalgano alle
condizioni generali della loro progettabilità. RAGIONE SUFFICIENTE.V.
FONDAMENTO. RAGIONEVOLE (lat. Rationabilis o Rationalis; ingl. Reasonable;
franc. Raisonnable; ted. Verniinftig). 1. Chi ha la possibilità d’uso della
ragione; e in questo senso si dice che l’uomo è un animale ragionevole. S.
Agostino afferma che i dotti «chiamarono R. (rationabilis) chi usa o può far
uso della ragione, razionale (rationalis) ciò che è fatto o detto dalla ragione
+; e pertanto ritiene che bisogna chiamare razionale, per es., i discorsi o i
bagni e R. colui che li fa (De Ordine, XI, 31). Ma questa distinzione non regge
molto perchè gli antichi chiamarono razionale anche l’uomo (cfr., ad es.,
QuinTILIANO, /nsf., V, 10, 56). E d’altronde chiamiamo oggi R. anche ciò che è
conforme a ragione. 2. Ciò che è conforme alla ragione o alle regole che essa
prescrive in un determinato campo d'indagine o in generale. In questo senso
Locke parlava della «ragionevolezza del cristianesimo ». E si parla di una « R.
certezza » per designare quella certezza che si può desumere dalle regole del
campo cui si fa riferimento, ma non è assoluta. Dewey dice: «La ragionevolezza
è questione di relazione tra mezzi e risultati... È R. ricercare e scegliere i
mezzi che con ogni probabilità produrranno gli effetti ai quali si tende »
(Logic, I; trad. ital., pag. 41-42). In entrambi i significati il termine R.
(come quello correlativo di ragionevolezza) implica una connotazione
limitativa, la quale in primo luogo esclude l’infallibilità della ragione; ed
in secondo luogo include la considerazione dei limiti e delle circostanze in
cui la ragione stessa si trova ad agire. Pertanto « esser R. » significa, nella
lingua corrente, rendersi conto delle circostanze e delle limitazioni che esse
comportano con la rinuncia ad un atteggiamento, teoretico o pratico, di
assolutismo. RAGIONI SEMINALI (gr. 26yor oreppatixol; lat. Rariones seminales).
Quelle parti della R. divina da cui le cose si originano. Secondo gli Stoici,
come ogni vivente è prodotto da un seme, così ogni cosa è prodotta da una
particella della R. divina, che perciò è un seme razionale. La nozione
sottolinea la predeterminazione di ciò che si genera (Azzio, Plac., I, 7, 33;
cfr. STOBEO, Ecl., I, 17, 3). La nozione fu fatta propria dai neoplatonici
(confronta PLOTINO, Enn., II, 3, 16) e da S. Agostino (De diversis
quaestionibus 83, q. 46). RAGION PIGRA (gr. &pydc Asyoc; lat. Jenava ratio;
ted. Faule Vernunft). Il ragionamento o l’argomento che persuade all’inerzia.
Platone già chiamava pigro l’argomento sofistico che è inutile cercare perchè
non si può cercare nè quello che si sa (dal momento che si sa) nè quello che
non si sa, dal momento che non si sa che cosa cercare (Men., 86 b). Ma sotto il
nome di R. pigra ci è stato specialmente tramandato un argomento di probabile
origine megarica, esposto dallo stoico Crisippo (PLUTARCO, Moralia, II, pag.
574 e; cfr. Stoicorum Fragmenta, II, pag. 277) che Cicerone ha così riportato:
« Se per te è destino di guarire da questa malattia, guarirai sia se ricorrerai
a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino non guarire
da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non
ricorrerai. Ora il tuo destino è l’una o l’altra di queste cose, dunque non
serve a niente ricorrere al medico » (De Fato, 12, 28). Leibniz fece talora
riferimento a questo vecchio argomento megarico o stoico (Théod., I, 55). Più
genericamente, Kant chiama R. pigra «ogni principio il quale porti a
considerare come assolutamente compiuta la propria ricerca sicchè la R. si
metta tranquilla come se abbia pienamente terminato il suo compito » (Crit. R.
Pura, Dialettica; Appendice alla Dialettica trascendentale: Dello scopo finale,
ecc.). In questo senso più generale, l’espressione è adoperata frequentemente
anche oggi. RAGION PURA. V. Puro. RAMIFICATA TEORIA DEI TIPI. Vedi ANTINOMIA.
RANGO (ingl. Range; franc. Rang; ted. Rane). Termine talvolta adoperato dai
logici per indicare l'insieme delle entità i cui nomi possono essere sostituiti
alla variabile di una formula. Il R. di una proposizione è l'insieme degli
stati di cose nei cui rispetti la proposizione è vera. // R. del significato di
un predicato P è l’insieme dei valori di x per i quali «Px» è vero o falso
(cfr., specialmente per quest’uso, A. Pap, Semantics and Necessary Truth, 1958,
passim). RAPPORTO. V. RELAZIONE. RAPPORTO DI COSE. V. STATO DI cose.
RAPPRESENTATIVO (ingl. Representative; franc. Représentatif; ted. Vorstellend).
1. Il senso di questo aggettivo è più ristretto di quello del corrispondente
sostantivo giacchè contiene costantemente il riferimento al carattere di «
similitudine » o di «quadro», che rimane escluso da alcuni significati del
sostantivo. Così «idea R.» è l’idea che si concepisce come immagine o
riproduzione del suo oggetto. E si dice che la conoscenza ha natura R., se si
ritiene che essa costituisca l’immagine o la copia dell'oggetto. 2. Emerson
chiamò uomini R. quelli che Hegel chiamava « individui della storia universale
» o altri romantici chiamavano « eroi »: cioè quelli che sono i simboli e nel
contempo gli strumenti di realizzazione delle aspirazioni di tutti gli uomini
(Representative Men, 1850). 3. Nel senso politico: sistema R., è il sistema che
si fonda sul principio della delega, da parte dei cittadini a un gruppo
ristretto di essi, di certi specifici poteri politici. RAPPRESENTAZIONE (lat.
Repraesentatio; ingl. Representation; franc. Représentation; ted. Vorstellung).
Termine di origine medievale per indicare l’immagine (v.) o l’idea ([v.] nel
senso 2), o entrambe le cose. L’uso del termine fu suggerito agli Scolastici
dal concetto di conoscenza come di una «similitudine» dell’oggetto. «
Rappresentare qualcosa, diceva S. Tommaso, significa contenere la similitudine
della cosa» (De Verit., q. 7, a. 5). Ma fu soprattutto l’ultima scolastica che
mise in voga il termine, talvolta per indicare il significato delle parole
(cfr., ad es., GRAZIADIO DI ASCOLI, Perihermenias, 2). Ochkam distingueva tre
significati fondamentali. « Rappresentare, diceva, ha parecchi sensi. In primo
luogo, si intende con questo termine ciò con cui si conosce qualcosa e in
questo senso la conoscenza è rappresentativa e rappresentare significa esser
ciò con cui si conosce qualcosa. In secondo luogo si intende per rappresentare
il conoscer qualcosa, conosciuta la quale si conosce un’altra cosa; e in questo
senso l’immagine rappresenta ciò di cui è l’immagine, nell’atto del ricordo. In
terzo modo s’intende per rappresentare il causare la conoscenza al modo in cui
l’oggetto causa la conoscenza » (Quodl., IV, q. 3). Nel primo senso la R. è
l’idea nel senso più generale; nel secondo senso, è l’immagine; nel terzo, è
l’oggetto stesso. Questi sono in realtà tutti i possibili significati del
termine: il quale fu reso di nuovo significativo dalla nozione cartesiana
dell’idea come «quadro » o «immagine» della cosa (Méd., III); e fu diffuso
soprattutto da Leibniz che considerava ogni monade come una R. dell’universo
(Mon., $ 60). Proprio per suggestione di questa dottrina Wolff introduceva il
termine Vorstellung, per indicare la cartesiana idea, nell’uso filosofico della
lingua tedesca (Verninftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des
Menschen, 1719, I, $ 220, 232, ecc... A Wolff si deve la diffusione dell’uso
del termine nelle altre lingue europee. Kant fissava il significato
generalissimo di esso, da lui considerato come il genere di tutti gli atti o
manifestazioni conoscitive indipendentemente dalla sua natura di quadro o di
similitudine (Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I). In tale significato
generalissimo il termine è stato poi costantemente adoperato nel linguaggio
filosofico. Hamilton difendeva l’uso della parola anche in inglese (Lectures on
Logic, 2* ed., 1866, I, pag. 126). Ma in questo senso i problemi inerenti alla
R. sono quelli inerenti o alla conoscenza in generale (v. ConosceENZA) o alla
realtà che costituisce il termine oggettivo della conoscenza (v. REALTÀ) 0, in
un’altra direzione, quelli relativi al rapporto tra le parole e gli oggetti
significati (per i quali V. SEGNO; SIGNIFICATO). RASOIO DI OCCAM. V. Economia.
RAZIOCINIO. V. RAGIONAMENTO. RAZIONALE (gr. 2oyixéc; lat. Rationalis,
Rationabilis; ingl. Rational; franc. Rationnel; tedesco Verniinftig). 1. Ciò
che costituisce la ragione o concerne la ragione, in uno qualsiasi dei
significati di questo rermine (v.). 2. Lo stesso che ragionevole: ad es., «
animale R. », «comportamento R. ». 3. Che ha per oggetto la ragione cioè la sua
forma o i suoi procedimenti. In questo senso Seneca (Ep., 89, 17) e Quintiliano
(/rsr., XII, 2, 10) chiamarono « filosofia R.+ la logica, come fecero poi anche
Wolff (Philosophia rationalis sive logica, 1728) e altri. RAZIONALISMO (ingl.
Rationalism; francese Rationalisme; ted. Rationalismus). In generale,
l’atteggiamento di chi si affida ai procedimenti della ragione per la
determinazione di credenze o di tecniche in un dato campo. Il termine fu usato
fin dal sec. xvII per designare tale atteggiamento nel campo religioso: « C'è
una nuova sètta diffusa fra di essi [Presbiteriani e Indipendenti] ed è quella
dei razionalisti: ciò che la loro ragione gli detta, essi lo tengono per buono
nello Stato e nella Chiesa, finchè non trovano di meglio » (CLARENDON, State
Papers, II, pag. xL, alla data del 14-x-1646). In questo senso Baumgarten
diceva: «Il R. è l’errore di chi elimina nella religione tutte le cose che sono
al di sopra della propria ragione» (Ethica philosophica, 1765, $ 52). Kant fu
il primo ad assumere il termine come insegna della propria dottrina ed a
estenderlo dal campo religioso agli altri campi d’indagine. Egli chiamò R. la
propria filosofia trascendentale (nello scritto del 1804 sui « Progressi della
metafisica », Werke, V, 3, pag. 101): mentre chiamava noologisti o dogmatici i
filosofi che la storiografia tedesca dell’800 ha chiamato poi razionalisti cioè
da un lato Platone e dall’altro i wolfiani (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo,
cap. IV). Nel campo morale difendeva « il R. del giudizio, il quale dalla
natura sensibile non prende nient’altro che ciò che anche la Ragion pura per sè
può pensare, cioè la conformità alla legge » e che perciò si oppone sia al
misticismo sia all’empirismo della Ragion pratica (Crit. R. Pratica, I, cap.
II, Della tipica del giudizio puro pratico). Nel campo estetico analogamente
parlava di un « R. del principio del gusto » (Critica del Giud., $ 58). E
infine caratterizzava come R. il suo punto di vista in materia religiosa. « Il
razionalista, egli diceva, in virtù del suo stesso titolo, si deve mantenere
dentro i limiti della capacità umana. Quindi non prenderà mai il tono deciso
del naturalista e non contesterà nè la possibilità nè la necessità di una
rivelazione... giacchè su questi punti nessun uomo può, mediante la sua
ragione, decidere cosa alcuna» (Religione, IV, sez. I; traduzione italiana
Durante, pag. 169). Dall’altro lato, Hegel fu il primo a caratterizzare come R.
l’indirizzo che va da Cartesio a Spinoza e Leibniz, contrapponendolo
all’empirismo dell’indirizzo che fa capo a Locke. Per R. egli intese la «
metafisica dell’intelletto » cioè «la tendenza alla sostanza, per cui si
afferma, contro il dualismo, un'unica unità, un solo pensiero, al modo stesso
in cui gli antichi affermavano l’essere » (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, III, pagina 329 sgg.; trad. ital., III, 2, pag. 68 sgg.). La
contrapposizione tra razionalismo ed empirismo è rimasta poi fissata negli
schemi tradizionali della storia della filosofia, per quanto lo stesso Hegel ne
avvertisse il carattere approssimativo. In quanto al R. religioso, Hegel
affermava che esso è « l’opposto della filosofia» perchè pone «il vuoto al
posto del cielo» e perchè «la sua forma è un ragionare senza libertà non già un
intendere concettualmente » (/bid., I, pag. 113; trad. ital., I, pag. 95). In
base a queste notazioni storiche si può dire che il termine in questione può
essere inteso nei seguenti significati: 1° come R. religioso, designa alcuni
indirizzi protestanti o un punto di vista sulla religione simile a quello di
Kant; 2° come R. filosofico, il termine designa propriamente la dottrina di
Kant (che lo fece suo); oppure l’indirizzo metafisico della filosofia moderna
da Cartesio a Kant; 3° nel suo significato generico, può essere adoperato a
designare qualsiasi indirizzo filosofico che faccia appello alla ragione. Ma in
questa accezione così vasta il termine può indicare le filosofie più disparate
e manca di ogni capacità individuante. RAZIONALIZZAZIONE (ingl.
Rationalization; franc. Rationalisation; ted. Rationalisierung). 1. Così è
stato talora chiamato il processo per il quale le scienze della natura
tendevano a costituirsi come discipline teoretiche adottando i procedimenti
della matematica: processo che si supponeva realizzato perfettamente nella
meccanica razionale (cfr. HussERL, /deen, I, $ 9). L’ideale della R. è stato
ora sostituito da quello della assiomatizzazione (v. ASSIOMATICA). 2. Termine
di cui si avvalgono spesso psicologi e sociologi per indicare la tendenza a
cercare argomenti e giustificazioni per credenze che ricavano la loro forza non
già da essi, ma da emozioni, interessi, istinti, pregiudizi, abitudini, ecc.
RAZZISMO (ingl. Racialism; franc. Racisme; ted. Rassismus). La dottrina che
tutte le manifestazioni storico-sociali dell’uomo e i suoi valori (o disvalori)
dipendano dalla razza e che esista una razza superiore («ariana » o « nordica
+) destinata ad essere la guida del genere umano. Il fondatore di questa
dottrina è stato il francese Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité des races
humaines (1853-55) che era diretto a difendere l’aristocrazia di fronte alla
democrazia. Verso il principio del ’900 un inglese tedeschizzato, Houston
Stewart Chamberlain diffuse il mito dell’arianesimo in Germania (Die Grundlagen
des XIX Jahrhunderts, 1899) identificando la razza superiore con quella
germanica. L’antisemitismo era antico in Germania e perciò la dottrina del
determinismo razziale e della razza superiore trovò qui facile diffusione
risolvendosi nell’appoggio del pregiudizio antiebraico e della credenza che
esiste una congiura giudaica per la conquista del dominio del mondo e che
pertanto il capitalismo e il marxismo e in generale quelle manifestazioni
culturali e politiche che indeboliscono l’ordine nazionale sono fenomeni
giudaici. Dopo la prima guerra mondiale il R. apparve ai Tedeschi come un mito
consolatorio, un’evasione dalla depressione della sconfitta; e Hitler ne fece
il caposaldo della sua politica. La dottrina fu elaborata da Alfredo Rosenberg
nel Mito del XX secolo (1930). Rosenberg affermava un rigoroso determinismo
razziale. Ogni manifestazione culturale di un popolo dipende dalla sua razza.
La scienza, la morale, la religione, e i valori che esse scoprono e difendono
dipendono dalla razza e sono le espressioni della forza vitale della razza.
Perciò pure la verità è sempre tale soltanto per una razza determinata. La
razza superiore è quella ariana che dal nord si è diffusa nell’antichità in
Egitto, in India, in Persia, in Grecia e in Roma e ha prodotto le antiche
civiltà: civiltà che decaddero perchè gli ariani si mescolarono con razze
inferiori. Tutte le scienze, le arti, le istituzioni fondamentali della vita
umana sono state create da questa razza. Di fronte ad essa sta l’anti-razza
parassitica ebraica, che ha creato i veleni della razza: la democrazia, il
marxismo, il capitalismo, l’intellettualismo artistico e anche gli ideali di
amore, di umiltà, di uguaglianza diffusi dal cristianesimo, il quale
rappresenta una corruzione romano-giudaica dell’insegnamento dell’ariano Gesù.
L'insieme di questa dottrina venne esplicitamente dal nazismo presentato come
un mito, creato, diffuso e mantenuto dalla stessa forza vitale della razza. Il
che non vuol dire che non si cercò di razionalizzarla, dando una base
scientifica al concetto di razza che ne era il fondamento. Ma in realtà proprio
l’uso che il R. fa della nozione di razza rivela, dal punto di vista
scientifico e filosofico, l’inconsistenza della dottrina. Il concetto di razza
è oggi unanimemente considerato dagli antropologi come un espediente
classificatorio adatto a fornire lo schema zoologico entro il quale possono
essere situati i vari gruppi del genere umano. La parola perciò deve essere
riservata solo per quei gruppi umani contrassegnati da differenti
caratteristiche fisiche che possono essere trasmesse per eredità. Tali
caratteristiche sono principalmente: il colore della pelle, la statura, la
forma della testa e della faccia, il colore e la qualità dei capelli, il colore
e la forma degli occhi, la forma del naso e la struttura del corpo. Si
distinguono, tradizionalmente (e convenzionalmente) tre grandi razze che sono
la bianca, la gialla e la nera, cioè la caucasica, la mongolica e la negroide.
Pertanto i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non
possono essere chiamati, a nessun titolo, « razze »j} non sono una razza nè gli
Italiani, nè i Tedeschi, nè gli Inglesi, non lo furono i Latini o i Greci, ecc.
Non esiste alcuna razza «ariana» o «nordica». Nè esiste alcuna prova che la
razza o le differenze razziali influiscano in un modo qualsiasi sulle
manifestazioni culturali o sulle possibilità di sviluppo della cultura in
generale. Non vi è prova neppure che i gruppi, in cui si può distinguere il
genere umano, differiscano nella loro capacità innata di sviluppo intellettuale
ed emozionale. Al contrario, gli studi storici e sociologici tendono a
rafforzare la veduta che le differenze genetiche sono fattori insignificanti
nella determinazione delle differenze sociali e culturali fra gruppi diversi di
uomini. Vasti mutamenti sociali si sono verificati senza essere in nessun modo
connessi con mutamenti del tipo razziale. Nè vi è prova che le mescolanze di
razza producano risultati svantaggiosi da un punto di vista biologico. È molto
probabile che non ci siano e non ci siano mai state, per quanto si può
rimontare nel tempo, razze «pure». I risultati sociali delle mescolanze di
razze, sia buoni che cattivi, possono essere attribuiti a fattori sociali. Una
dichiarazione sulla razza fu emessa nel 1951 a Parigi, presso l’UNESCO da una
commissione composta da cinque cultori di genetica e sei antropologi
appartenenti a sei nazioni diverse. Essa consiste nell’esposizione dei
capisaldi che si sono or ora ricordati (e sui quali cfr. RUTH BENEDICT, Race,
Science and Politics, 1940; e RALPH Linton, The Science of Man in the World
Crisis, 7» ed., 1952). Ma in realtà il R. dovunque si riscontri e comunque lo
si giustifichi appartiene al rango di quella che Veblen chiamava psichiatria
applicata; cioè all'arte di sfruttare per scopi particolari un certo
pregiudizio esistente. Si tratta in questo caso di un pregiudizio estremamente
pernicioso perchè contraddice ed ostacola la tendenza morale dell’umanità verso
l’integrazione universalistica e perchè fa dei valori umani, a cominciare dalla
verità, fatti arbitrari che esprimono la forza vitale della razza e così non
hanno sostanza propria e possono essere manipolati arbitrariamente per i fini
più violenti od abbietti. REALE (lat. Realis; ingl. Real; franc. Réel; ted.
Real). 1. Che si riferisce alla cosa. Ad es., «definizione R. + è la
definizione della cosa e non del nome di essa. 2. Ciò che esiste di fatto o
attualmente: v. corrispondentemente ai vari sensi del termine REALTÀ. 3.
Herbart chiamò Reali gli enti effettivamente esistenti «la cui natura semplice
e propria ci è sconosciuta ma sulle cui condizioni interne ed esterne possiamo
acquistare una somma di conoscenze che può aumentare all'infinito ». Tali enti
sono tra loro irrelativi sicchè ogni loro rapporto dev'essere considerato come
una veduta accidentale (2uféllige Ansicht) che non qualifica e non modifica la
loro natura (Einleitung in die Philosophie, 1813, $ 152 sgg.). REALI, SCIENZE.
V. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE. REALISMO (lat. Reglismus; ingl. Realism;
franc. Réalisme; ted. Realismus). Il termine cominciò ad essere adoperato verso
la fine del secolo xv per indicare l’indirizzo più antico della Scolastica in
contrapposto all’indirizzo detto « moderno » dei nominalisti o terministi. Il
primo ad adoperarlo fu probabilmente Silvestro Mazolino di Prieria nel
Compendium dialecticae del 1496 (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag.
292). Il R. affermava la realtà degli universali (generi e specie) intendendo
tuttavia in modi diversi questa realtà stessa (v. UNIVERSALE). Nel senso più
generale e moderno, il termine fu ripreso da Kant nella prima edizione della
Critica della Ragion Pura, per indicare, da un lato, la dottrina, opposta a
quella da lui difesa, che considera lo spazio e il tempo indipendenti dalla
nostra sensibilità, che è il R. trascendentale; e dall'altro, la dottrina, sua
propria, che ammette la realtà esterna delle cose ed è il R. empirico. «
L’idealista trascendentale, diceva Kant, è un realista empirico e riconosce
alla materia, come fenomeno, una realtà che non ha bisogno di essere dedotta ma
è immediatamente percepita » (Critica R. Pura, 13 ed., Dialettica
trascendentale. Critica del quarto paralogismo della psicologia
trascendentale). Con Kant il termine entrava nell’uso filosofico per designare
dottrine di interesse attuale e non semplicemente storico. Fichte affermava che
«la dottrina della scienza è realistica» perchè « mostra che è assolutamente
impossibile spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette
l’esistenza di una forza indipendente da esse, ad essa opposta, e dalla quale
esse dipendano nella loro esistenza empirica » (Wissenschaftslehre, 1794, $ V,
II; trad. ital., pag. 231). Schelling parlava a sua volta di un idealismo
realistico (Real-/dealismus) o di un R. idealistico (/deal-Realismus) (Werke,
I, X, pag. 107) nello stesso senso di Fichte. Da allora in poi il R. è stato
qualificato e definito nei modi più diversi; e quasi sempre le dottrine che
l’hanno assunto come insegna hanno anche qualificato come realiste le dottrine
del passato che erano in accordo con il loro punto di vista. Così, ad es.,
Platone è stato classificato realista perchè ammette la realtà delle idee
(qualsiasi cosa ciò possa significare); ma è stato anche definito idealista in
quanto si tratta, per l’appunto, di idee. Simili notazioni (e le dispute che
fanno sorgere) non sono altro che perdite di tempo. Meno inutile forse è
chiarire il significato delle più note forme che il R. ha assunto nella
filosofia moderna. In tal caso, oltre a quelle già ricordate, si possono richiamare
le seguenti: a) Il R. empirico di Kant ha assunto vari nomi rimanendo
sostanzialmente lo stesso cioè il riconoscimento dell’esistenza delle cose
indipendente dall’atto del conoscere. W. Hamilton chiamò questo punto di vista
R. naturale o presentazionismo e lo ritenne proprio della Scuola scozzese da
cui derivava la sua filosofia (v. PRESENTAZIONISMO). L’articolo famoso di G. E.
Moore pubblicato nel Mind del 1903, « La confutazione dell’idealismo », si
ispira a un identico punto di vista: difende l'indipendenza dell'oggetto
conosciuto dall’atto psichico con cui viene conosciuto. Questa indipendenza
veniva riconosciuta come la tesi del R. ingenuo (ted. Naiven Realismus) da G.
Schuppe (Grundriss der Erkenntnistheorie und Logik, 1910, pag. 1-2). O. Kiilpe chiamava
lo stesso punto di vista R. scientifico (Die Realisierung, II, 1920, pag. 148).
Mentre J. Maritain che ha difeso la stessa forma di R. come meglio rispondente
alla tradizione tomistica, l’ba chiamata R. critico (Distinguer pour unir,
1932, pag. 149). Infine lo stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai
filosofi sostenitori del materialismo dialettico: così fa, per es., Lenin
(Materialismo e empiriocriticismo, 1909; trad. ital., pag. 75). Questa stessa
forma di R., senza aggettivi o con aggettivi vari, ricorre frequentemente nella
filosofia contemporanea e si può riconoscere agevolmente nell’esistenzialismo,
nello strumentalismo, nell’empirismo logico e in tutte le correnti filosofiche
che assumono come loro punto di partenza il pensiero scientifico. b) Il R.
trasfigurato (Transfigured Realism) di H. Spencer: « Il R. a cui siamo
impegnati è quello che asserisce semplicemente che l’esistenza oggettiva è
separata e indipendente dall'esistenza soggettiva. Ma esso non afferma che
ognuno dei modi dell’esistenza oggettiva è in realtà quello che sembra nè che
le connessioni fra i modi sono oggettivamente quello che sembrano. Perciò
questo R. è nettamente distinto dal R. crudo; e per segnare la distinzione si
può propriamente chiamarlo R. trasfigurato » (Principles of Psychology, $ 472).
c) Il nuovo R., difeso in volume collettivo da un gruppo di pensatori americani
(E. B. HOLT, W. T. MARWIN, W. P. MONTAGUE, R. B. PERRY, W. B. PITKIN, E. G.
SPAULDING, The New Realism, 1912). Questa forma di R. è fondata sul principio
che la relazione conoscitiva non modifica gli enti tra i quali intercorre e che
pertanto il fatto che gli enti conosciuti ci appaiono solo in relazione con noi
non implica che il loro essere si esaurisca in questa relazione. Enti oggettivi
sono, secondo il nuovo R., anche i concetti astratti di cui si avvale la
scienza e l’errore stesso è un fatto oggettivo dovuto a una distorsione
fisiologica. Un punto di vista analogo a questo e come questo ispirato dalle
correnti della fenomenologia e del logicismo è stato difeso da Nicolai Hartmann
in una serie di opere a partire dai Grundziige einer Metaphysik der Erkenntnis
(1921). Sono costitutive del R. di Hartmann le due tesi seguenti: 1° il
rapporto conoscitivo è estrinseco all'essere, che non risulta modificato o
qualificato da esso; 2° l’essere è costituito non solo da cose ma anche da
oggetti ideali o astratti o da valori. d) Il R. critico difeso in un volume
collettivo da un gruppo di pensatori americani (D. DRAKE, A. O. Lovejoy, J. B.
PRATT, A. K. RogERs, G. SANTAYANA, R. W. SeLLARS, C. A. STRONG, Essays in
Critical Realism, 1920) che difendeva fondamentalmente il punto di vista
sostenuto da Santayana secondo il quale l’oggetto immediato della conoscenza è
un'essenza (v.), mentre l’esistenza non è mai afferrata immediatamente o
intuita ma semplicemente affermata o posta o riconosciuta per esigenze
emozionali e pratiche che Santayana chiamava con il nome di fede animale
(Scepticism and Animal Faith, 1923). REALTÀ (ingl. Reality; franc. Réalité;
tedesco Realitàt, Wirklichkeit). 1. Nel suo significato proprio e specifico il
termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistano fuori dalla
mente umana © indipendentemente da essa. La parola realitas fu coniata nella
tarda Scolastica e precisamente da Duns Scoto. Questi l’adoperò per definire
l’individualità: che consisterebbe nell’ ultima R. dell’ente» la quale
determina e contrae la natura comune ad esse hanc rem, alla cosa singola (Op.
Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). Questa realitas fu chiamata da Duns stesso o dagli
scolari di Duns di preferenza haecceitas. Il termine doveva poi passare a
significare l’esse in re della scolastica nel senso, per es., in cui S. Anselmo
intendeva passare, con la prova ontologica, dall’esse in intellectu dell’ Ente
di cui non si può pensare niente di maggiore» al suo esse in re (Prosl. 2);
oppure nel senso in cui gli Scolastici parlavano dell’universale in re cioè
incorporato nelle cose. L’opposto di R. è perciò idealità che indica il modo
d’essere di ciò che è nella mente e non è o non può essere o non è ancora
incorporato o attuato nelle cose. Il riferimento alle cose è evidente anche in
espressioni come « definizione reale » per indicare la definizione della cosa e
non del nome; e «diritti reali» per indicare diritti che concernono le cose e
non le persone. Il problema cui direttamente ha dato luogo la nozione di R. è
quello dell’esistenza delle cose o del « mondo esterno ». Questo problema è
nato con Cartesio cioè col principio cartesiano che oggetto della conoscenza
umana è soltanto l’idea. Da questo punto di vista, diventa immediatamente
dubbia l’esistenza di quella R. cui l’idea sembra accennare ma di cui non è
prova come non è prova un dipinto della R. della cosa rappresentata. Per
giustificare la R. delle cose Cartesio aveva fatto ricorso alla veridicità di
Dio: nella sua perfezione Dio non può ingannarci e non può permettere che ci
siano in noi idee che non rappresentino nulla (Med., IV). Ma all’esistenza di
Dio, Cartesio era pervenuto, oltrecchè attraverso la rielaborazione della prova
ontologica, anche ammettendo il principio che «ci dev'essere nella causa
efficiente © totale almeno tanta R. quanta ce n’è nell’effetto »: un principio
in base al quale l’idea di Dio, che è l’idea della perfezione massima, deve
avere come causa un essere che ha tanta « R.» quanta è quella che l’idea
rappresenta: cioè Dio stesso (/bid., IM). Lo sviluppo ulteriore del problema
portò alla negazione della realtà. L'empirismo inglese con Berkeley e Hume
riconduceva la R. delle cose al loro essere percepito e perciò la negava come
un modo d’essere autonomo. Dall'altro lato, il razionalismo risolveva, con
Leibniz, le cose in elementi o atomi (monadi) di natura spirituale e con ciò
negava ugualmente il carattere specifico della loro R. (vedi IMMATERIALISMO).
La R. delle cose veniva in qualche modo riaffermata da Kant. Kant conserva al
termine R. (Realitàt) il suo significato specifico di R. delle cose o, come
egli anche dice, cosalità (Sachheit) (Crit. R. Pura, Analitica, II, cap. I): al
quale contrappone la «idealità» dello spazio e del tempo che sono forme
dell’intuizione e non delle cose (Ibid., $ 3). Ma il problema concerne per lui
l’esistenza (Dasein) delle cose stesse. Questo è il problema che egli esamina
nella « Confutazione dell’idealismo ». La soluzione qui prospettata è che «la
coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza immediata
dell'esistenza di altre cose fuori di me». La prova di questa asserzione è che
la coscienza del tempo, cioè del mutamento, non sarebbe possibile senza la
coscienza di qualcosa di permanente; e questo qualcosa di permanente, non
potendo esser dato dalla stessa coscienza del tempo, può esser dato soltanto
dalla cosa esterna alla coscienza. Valida o no che fosse questa dimostrazione,
è chiaro che Kant da un lato riteneva valido il primato della coscienza
stabilito da Cartesio, per il quale appunto la R. delle cose diventa un
problema ed esige una dimostrazione; dall’altro, tendeva a distruggere questa
impostazione, connettendo la coscienza della propria esistenza con la coscienza
delle cose (v. Coscienza). Egli tuttavia non si proponeva neppure il problema
del modo d’essere specifico delle cose cioè del tipo d’esistenza che ad esse è
proprio. Eppure questo problema è strettamente connesso con quello dell’« esistenza
» delle cose e solo una qualche risposta ad esso può dare significato alla
soluzione positiva di questo ultimo; giacchè, se le cose esistono nasce subito
la domanda: qual’è il senso della loro esistenza? Il problema della R. si deve
pertanto ritenere composto di questi due problemi, non separabili l'uno
dall’altro: quello dell’esistenza e quello del modo d’essere specifico delle
cose. L’idealismo post-kantiano si soffermò più sul secondo che sul primo di
questi due problemi. Secondo Fichte, la R. consiste in generale nell'attività
dell’Io che « pone l’oggetto limitandosi» e trasporta nell’oggetto una parte
della sua attività. « Fonte di ogni R. (Realitàt) è l’Io, dice Fichte. Solo per
e con l’Io è dato il concetto della realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone
perchè è. Perciò porsi ed essere sono una sola e medesima cosa. Ma il concetto
del porsi e quello dell’attività in generale sono, a loro volta, una sola e
medesima cosa. Dunque, ogni R. è attiva ed ogni cosa attiva è R. »
(Wissenschaftslehre, $ 4, C). Questa idea della R. come attività entrò a
costituire il bagaglio del Romanticismo e influenzò il corso ulteriore del
problema, « L’attività è la vera e propria R. +, diceva Novalis (Fragmente,
190). Schopenhauer affermava decisamente «che l’essenza degli oggetti intuibili
è la loro azione; che proprio nell’azione consiste la R. dell’oggetto e la
pretesa di un’esistenza dell’oggetto fuori della rappresentazione del soggetto
e anche di un’essenza della cosa reale diversa dalla sua azione, non ha senso
alcuno, anzi è una contraddizione » (Die Welt, I, $ 5). Come si vede, la
riduzione della R. ad attività ha, in origine, un senso idealistico. Essa è
tuttavia servita ad avviare una nuova alternativa nella soluzione del problema:
quella che vede nella R. stessa non un semplice oggetto di conoscenza, ma un
modo d'essere che si rivela meglio ad altre forme di esperienza. La nozione di
attività che era rimasta cara al Romanticismo fornisce il primo modello di
questa soluzione. Dall’altro lato il sensismo di Condillac aveva mostrato la
derivazione dell'idea di R. dal senso del tatto; ma il senso era stato in
generale inteso da Condillac in modo attivo e dinamico come guidato e sorretto
dal bisogno e dai desideri (Trairé des sensations, 1754, I, 3, 1; I, 7, 3; II,
5, 5). Più tardi Destut de Tracy aveva messo in relazione l’idea di R. con
l’esperienza della resistenza che le cose oppongono al movimento (/déologie,
1801, cap. 8). Nella filosofia contemporanea un’idea analoga è stata ripresa da
Dilthey (Contributo alla soluzione del problema dell'origine della nostra
credenza nella realtà del mondo esterno, in Gesammelte Schriften, 1890, V, 1,
pag. 90 sgg.). La resistenza definirebbe il modo d'essere della R., cioè delle
cose; e l’esperienza di questa R. sarebbe, corri. spondentemente, volitiva e
pratica, più che conoscitiva. Scheler ha accettato questa interpretazione della
R. (Die Wissensformen und die Gesellschaft, pag. 455 sgg.). Una tesi
sostanzialmente analoga fu presentata da Santayana nel libro Scerricismo e fede
animale (1923) nel quale egli mostrava come la credenza nella R. è dovuta a
esperienze puramente animali (la fame, la lotta, ecc.) ed è giustificabile solo
sulla base di tali esperienze. Lo stesso Santayana aveva presentato questa
stessa nozione della R. nei Essays in Critical Realism (1920), pubblicati da
sette filosofi americani (v. REALISMO). Nella filosofia più recente il problema
della R. ha cessato quasi del tutto di essere il problema dell’« esistenza »
delle cose per diventare, sempre più esclusivamente, il problema del modo
d’essere specifico delle cose stesse. Le elaborazioni di questo problema
seguono l’alternativa aperta dalle dottrine che riconoscono il carattere non
semplicemente conoscitivo dell’esperienza della realtà. Heidegger ha esplicitamente
negato il primato della coscienza dal quale nasceva il problema dell’esistenza
delle cose. «Il credere nella R. del ‘mondo esterno” con diritto o meno, il
dimostrare questa R., sufficientemente o no, il presupporla, esplicitamente o
no, sono tutti tentativi che presuppongono innanzi tutto il soggetto senza
mondo, cioè non consapevole del proprio mondo, il quale deve perciò
incominciare col fondare la sicurezza del suo mondo » (Sein und Zeit, $ 43, a).
Il problema dell’esistenza del mondo esterno o delle cose si elimina quindi da
sè quando si sia eliminato il presupposto fallace del « soggetto senza mondo »
cioè il presupposto che l’uomo non sia già sempre, e prima di tutto, un essere
nel mondo. Ripristinato questo che è il carattere fondamentale del modo
d’essere dell’uomo, che perciò appunto è un « Esserci » (indicando il ci la sua
relazione con il mondo), il problema della R. diventa il problema del modo in
cui le cose del mondo si presentano all'uomo o sono in rapporto con lui.
Secondo Heidegger, questo modo d’essere è la « semplice presenza +; giacchè
l’esistenza è il modo d’essere riservato all’esserci cioè all'uomo. «Se
l’espressione R. significa l’essere dell’ente (res) semplicemente presente
dentro il mondo (e nient’altro viene infatti con essa pensato) ne consegue
allora per l’analisi di questo modo di essere: l’ente intramondano è
concepibile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno della
intramondanità. Ma questo si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte
sua, in quanto essenziale momento della struttura dell’essere-nel-mondo,
appartiene alla costituzione fondamentale dell’Esserci. L’essere-nel-mondo, di
nuovo, è ontologicamente articolato nella totalità dell’essere dell’Esserci,
che venne caratterizzata come Cura» (/bid., $ 43, b). Proprio perchè l’essere
dell’Esserci cioè l’esistenza umana è Cura, gli enti diversi da sè di cui
questa esistenza si prende cura cioè le cose (il cui modo d’essere è la R.)
sono caratterizzati dall’utilizzabilità. «Il modo d’essere di questo ente è
l’utilizzabilità; questa non deve però essere vista come una visuale
considerativa... L’utilizzabilità è determinazione ontologico-categoriale
dell’ente così come esso è in sè » (/bid., $ 15). In tal modo Heidegger ha
messo in luce il carattere strumentale delle cose: quel carattere per cui esse
possono valere come mezzi per l’uomo. Ma Heidegger ritiene che questo carattere
non appartenga alle cose relativamente al loro rapporto con l’uomo ma
costituisca il loro essere «in sè», la loro essenza. A prescindere da questa
pretesa, l’analisi di Heidegger può essere assunta come una caratterizzazione
del modo d’essere delle cose o della « R.+, intesa nel suo significato proprio
e specifico. Dall’altro lato, questa stessa analisi ha mostrato il carattere arbitrario
del «problema della R.» qual’era inteso da Cartesio in poi come problema di una
R. «esterna » alla coscienza. Essa ha infatti mostrato come tale problema sorga
dal presupposto di una tesi filosofica infondata cioè dalla tesi di un «
soggetto senza mondo » o in altre parole di una esistenza dell'uomo che non
consista nel rapporto con il mondo. È significativo notare che quasi
contemporaneamente a queste analisi di Heidegger lo stesso problema della R.
esterna veniva dichiarato uno «pseudo problema» da un punto di vista totalmente
diverso, cioè da quello del Circolo di Vienna. Carnap (Scheinsprobleme in der
Philosophie; das Fremdpsychische und der Realismus-streit, 1928) e Schlick
(Positivismus und Realismus, rist. in Gesammelte Aufsdtze, 1938) rigettavano
sia la tesi della irrealtà del mondo esterno sia quella della sua R. come
pseudo-asserzioni, in quanto nè l’una nè l’altra si prestano ad una verifica
sperimentale. Ma il Circolo di Vienna non presentava alcuna nuova soluzione del
secondo aspetto, assai più legittimo, del problema della R.: cioè del problema
del modo d'essere delle cose. Su questo punto esso si limitava, e i suoi
continuatori tuttora si limitano, a riproporre la vecchia tesi di Mach (Analyse
der Empfindungen, 1900) che le cose sono composte di quegli stessi elementi
ultimi, le sensazioni, che compongono l’io e che questi elementi ultimi sono in
sè neutrali, cioè nè oggettivi nè soggettivi. Questa tesi ovviamente non dà
conto del carattere specifico della R. delle cose: non dà conto cioè del perchè
un insieme di tali elementi neutri assuma a volta a volta le caratteristiche di
una «cosa» o di un «io». Oltre al significato fin qui seguito nelle sue varie
interpretazioni, la parola R. è usata comunemente anche negli altri significati
seguenti, che devono tuttavia essere ritenuti secondari perchè designati più
opportunamente con altri termini del dizionario filosofico. 2. In contrasto con
apparenza, illusione e simili, R. significa talora l’essere in uno qualsiasi
dei suoi significati esistenziali. Così nell’opera di BRADLEY, Appearance and
Reality (1893) il contrasto annunciato nel titolo è il contrasto tra l’apparire
e l’essere giacchè esso non viene limitato alla R. nel suo senso specifico cioè
al modo d’essere delle cose. Nello stesso senso ma con accentuazione critica ha
inteso il termine Dewey: « Nella sua più breve formula la R. diventa
l’esistenza quale noi desideriamo che sia, dopo che abbiamo analizzato i suoi
difetti e deciso quelli da eliminare; la ‘R.’ è ciò che l’esistenza sarebbe se
le nostre preferenze razionalmente giustificate fossero così completamente
stabilite nella natura da esaurire e definire il suo essere intero, e perciò da
rendere la ricerca e la lotta non necessarie. Ciò che vien tagliato fuori (dal
momento che il turbamento, la lotta il conflitto e l’errore ancora esistono
empiricamente, qualcosa è tagliata fuori) essendo escluso per definizione dalla
piena R., è assegnato a un grado o ordine dell’essere che si afferma
metafisicamente inferiore: un ordine variamente chiamato: apparenza, illusione,
spirito mortale o puramente empirico, in contrapposto a ciò che realmente e
veramente è » (Experience and Nature, cap. II, pag. 54). 3. In contrasto con
possibilità, potenzialità e talora anche con necessità, la parola significa
attualità o effettualità o ciò che si è attuato od effettuato e possiede
l’esistenza di fatto. Il termine tedesco Wirklichkeit, in distinzione da
Realitàt, ha questo senso specifico, per quanto non sempre i filosofi si
attengono strettamente a questa distinzione. In questo senso la parola designa
una delle categorie della logica di Hegel: « La R. è l’unità immediata, che si
è prodotta, dell’essenza e dell’esistenza o dell'interno e dell’esterno» (Enc.,
$ 142): con che Hegel intende dire che la R. è l’essenza che si è attuata come
esistenza o l’interno che si è manifestato effettivamente nell’esterno. Sulla
distinzione di Wirklichkeit da Realitat insistette Lotze (Mikrokosmos, III,
pag. 535). N. Hartman ha a sua volta utilizzato la distinzione, scorgendo nella
effettualità (Wirklichkeit) il senso primario dell’essere (Mòoglichkeit und
Wirklichkeit, 1938) (v. ESSERE). REALTÀ PRESUNTIVA (ted. Prasumptive
Wirklichkeit). Così ha chiamato Husserl la R. delle cose nei confronti della «
R. assoluta » cioè necessaria, della coscienza (/deen, I, $ 46). REAZIONE
(ingl. Reaction; franc. Réaction; ted. Reaktion). 1. Un’azione uguale e di
senso contrario ad un’azione determinata. In questo senso il termine è usato
nella fisica newtoniana. 2. In psicologia: qualsiasi risposta ad uno stimolo.
Tempo di reazione: l'intervallo di tempo tra lo stimolo e la risposta. 3. In
politica: il movimento che tende ad annullare o neutralizzare gli effetti di
una rivoluzione o di un mutamento qualsiasi; o anche a rendere preventivamente
impossibile ogni mutamento. RECETTIVITÀ (ingl. Receptivity; francese
Reéceptivité; ted. Receprivitàt). La capacità di subire un'azione o di
registrare l’effetto dell’azione subita. Kant chiamò R. la capacità di ricevere
le impressioni e la contrappose al carattere attivo della conoscenza che è
fondato sulla « spontaneità dei concetti» (Crit. R. Pura, Logica
trascendentale, Intr., I). RECETTORE (ingl. Receptor). Termine della psicologia
contemporanea per indicare qualsiasi organo o struttura con cui l’organismo
riceva gli stimoli. Sono R. tanto gli organi di senso (per es., l’occhio,
l’orecchio, ecc.) quanto le strutture nervose che ricevono stimoli dalla pelle,
dai muscoli, dalle articolazioni, ecc. I primi sono chiamati esterocettori, i
secondi propriocettori. Talvolta si parla anche di enterocertori per indicare i
R. situati nei visceri. RECIPROCAZIONE (lat. Reciprocatio; inglese
Reciprocation). Nella logica del ’600, un modo di confutazione che consiste
nell’usare contro l’avversario lo stesso argomento di cui l’avversario si è
avvalso: col che l’argomento stesso si dimostra vizioso (cfr. JunGIUs, Logica
Hamburgensis, 1638, VI, 16, 20). RECIPROCITÀ D'AZIONE (ingl. Reciprocity;
franc. Reciprocité; ted. Wechselwirkung). È il principio della connessione universale
delle cose nel REALTÀ PRESUNTIVA mondo, principio per il quale esse
costituiscono una comunità, un tutto organizzato. L'azione reciproca non ha
perciò nulla a che fare col principio di azione e reazione enunciato da Newton.
Kant fa dell’azione reciproca un principio puro dell’intelletto e vede in esso
la terza analogia dell'esperienza (v.), la quale si esprime dicendo « Tutte le
sostanze, in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono
tra loro in un’azione reciproca universale ». Come la successione temporale
trova il suo fondamento nella connessione causale, così la simultaneità
temporale trova il suo fondamento nella R. d’azione tra le sostanze. Kant dice:
«Senza comunità ogni percezione (dei fenomeni nello spazio), sarebbe staccata
dalle altre, e la catena delle rappresentazioni empiriche, cioè l’esperienza,
dovrebbe ricominciare daccapo ad ogni nuovo oggetto, senza che la precedente
potesse minimamente collegarsi o trovarsi con esso in rapporto temporale»
(Crif. R. Pura, Analitica dei princìpi, III, 3). Il senso della connessione
reciproca è poi così chiarito da Kant (loc. cit.): «La parola Gemeinschaft [=
comunità] ha un doppio significato, cioè può significare tanto communio, quanto
commercium. Qui ce ne serviamo nel secondo senso, come comunità dinamica, senza
la quale, anche quella spaziale (communio spatii) non potrebbe mai essere
conosciuta empiricamente ». Non c’è da meravigliarsi che la filosofia della
natura del Romanticismo abbia fatto tesoro di questa nozione, di carattere così
nettamente metafisico e spirituastico. Schelling afferma (System des
transzendentalen Idealismus, pag. 228) che « La relazione di causalità non è
costruibile senza l’azione reciproca +; e Hegel (Enc., $ 154 sgg.) vede nel
passaggio dalla causalità all’azione reciproca il passaggio dalla necessità
allo svelamento della necessità, cioè alla libertà. Ciò che questo significa è
espresso con tutta chiarezza da Lotze nel suo Microcosmo (III°, pag. 482): «
L’azione reciproca delle sostanze finite nel mondo si può intendere soltanto se
esse sono parti di una Sostanza infinita che le abbraccia tutte in se stessa ».
Questa nozione ricorre frequentemente nelle concezioni spiritualistiche del
mondo, e non è che la trascrizione, in termini più moderni, di quella simpatia
universale (v. Simpatia) che le concezioni magiche (v. MAGIA) ammettevano tra
le cose del mondo. Non fa meraviglia pertanto che Schopenhauer affermasse che
«l’azione reciproca non esiste »; giacchè « essa presupporrebbe che l’effetto
sia a sua volta la causa della sua causa e che ciò che segue sia nello stesso
tempo ciò che precede » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden
Grunde, 1813, $ 20). RECIPROCO (ingl. Reciprocal; Converse; franc. Réciproque;
ted. Reziprok). In logica si chiama reciproca la proposizione ottenuta mediante
la conversione della proposizione data, cioè mediante lo scambio del soggetto
con il predicato. Il termine latino tradizionale per tale proposizione è
conversa, che fu adoperato da Boezio (De syllogismo categorico, P. L., 64, col.
804; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, II, pag. 259). Per «inversa» si intende
invece comunemente la negativa di una proposizione (v. CONVERSIONE).
REDUPLICAZIONE (gr. iravadiràwa; latino Reduplicatio; ingl. Reduplication;
franc. Réduplication). Con questo termine che significa predicazione ripetuta,
venivano indicate in logica alcune parole usate per connettere il predicato al
soggetto quali come, in quanto, nella qualità di, ecc. Ad es.: «l’uomo come
animale è mortale». Le proposizioni in cui ricorre la R. si chiamano
reduplicative (ARISTOTELE, An. Pr., I, 38, 49 a 26; Duns Scoro, In An. Pr., I,
35, in Opere, I, pag. 327 a; Jungius, Logica Hamburgensis, II, 11, 22).
REFERENTE. V. RIFERIMENTO. REGIME (lat. Regimen). In generale, guida o
direzione; o in particolare la guida e la direzione dello Stato, il governo.
REGIONE (ted. Region). 1. Termine adoperato da Husserl per indicare «la
superiore e completa unità di genere alla quale appartiene un concreto » cioè
«la totalità ideale di tutti gli individui possibili di un'essenza concreta »
(/deen, I, $ 16). Ad es., «ogni oggetto empirico concreto si inserisce, con la
sua essenza materiale, in un genere materiale superiore, cioè in una R. di
oggetti empirici » (/bid., $ 9). Una regione in questo senso è la natura
(/bid., $ 10). Corrispondentemente, Husserl] parla di «ontologia regionale »
cioè ontologia che concerne le strutture di una determinata regione. 2. In
senso diverso, e connesso con la corrispondente nozione topologica (v. ToPoLoGia),
il concetto è stato adoperato dalla psicologia della forma. K. Lewin intende
per R.: 1° ogni cosa in cui un oggetto dello spazio di vita, per es., una
persona, ha il suo posto o in cui si muove; 2° ogni cosa in cui si possono
distinguere diverse posizioni o parti allo stesso tempo o che è parte di un
tutto più vasto. In base a questa definizione la persona stessa è una R. nello
spazio di vita e anche lo spazio di vita, come un tutto, è una R. (Principles
of Topological Psychology, 1936, pag. 93). REGNO (lat. Regnum; ingl. Realm;
francese Royaume; ted. Reich). Termine introdotto in filosofia da Bacone per
indicare il dominio dell’uomo sulla natura (cfr. il titolo della prima parte
del Novum Organum: « Aforismi sull’interpretazione della natura e sul R. dell’uomo
»). Leibniz adoperò il termine in un senso diverso, come dominio o campo di
validità di un principio; e parlò di un «R. 47 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofiafisico della natura » e di un « R. morale della grazia » (Mon., $ 87).
Nello stesso senso Kant, parlò di un R. dei fini (v. Fin), di un R. della
libertà (cfr. Religion, II, sez. ID; di un R. della grazia e di un R. della
natura (Crif. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. II, sez. II). Più
recentemente G. Santayana ha adoperato il termine in significato analogo
(Rea/ms of Being, 4 voll.: The Realm of Essence, The Realm of Matter, The Realm
of Truth, The Realm of Spirit, 1927-40). REGOLA
(lat. Regula; ingl. Rule; franc. Régle; ted. Regel). Si chiama R. qualsiasi
proposizione prescrittiva. Il termine è generalissimo e comprende le nozioni
più ristrette di norma, massima e legge. In questo senso definì la regola Wolff
come «una proposizione che enunci una determinazione conforme a ragione»
(Onrol., $ 475). E Kant analogamente affermava: « La rappresentazione di una
condizione generale cui un certo molteplice può essere sottoposto si dice R.;
e, quando deve esservi sottoposto, legge » (Crit. R. Pura, 1% ed., Deduzione
dei concetti puri dell’intelletto, 4). Questo significato generalissimo è rimasto
a caratterizzare la R. (v. Legge; Massima; NORMA). REGOLARITÀ (ingl.
Regularity; franc. Réguralité; ted. Regelmàssigkeit). In generale, conformità
alla regola. Kant vide nella R. la condizione nello stesso tempo del pensiero e
della realtà: « La R. che conduce al concetto di un oggetto è la condizione
indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica
rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma» (Crit. del Giud.,
$ 22, nota). Kant considera la stessa natura in generale come «R. dei fenomeni
nello spazio e nel tempo » (Crif. R. Pura, $ 26) (v. NaREGOLATIVO (ingl.
Regulative; franc. Régulatif; ted. Regulativ). Kant chiamò R. l’uso delle idee
della ragion pura che le fa valere come semplici regole del lavoro intellettuale,
in contrapposto all’uso costitutivo di esse per il quale sono considerate come
costitutive dell’oggetto stesso dell’attività intellettuale. «Io affermo che le
idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo sicchè per mezzo di esse
possono essere dati i concetti di certi oggetti e che se sono intese a questo
modo sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Esse hanno invece un
uso R. eccellente e indispensabile: quello di indirizzare l’intelletto a un
certo scopo in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole
convergono come in un punto: il quale sebbene non sia altro che un'idea (focus
imaginarius) cioè un punto da cui in realtà i concetti dell’intelletto non
muovono perchè esso è fuori dei limiti dell'esperienza possibile, serve
nondimeno a conferire a tali concetti la maggiore unità con la maggiore
estensione possibile » (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica, Dell’uso
regolativo, ecc.) (v. IDEE). REGRESSIONE (ingl. Regression; franc. Régresslon;
ted. Regression). In generale movimento inverso o ritorno. Spesso con
significato peggiorativo di regresso cioè di un movimento opposto al progresso.
Talvolta è stato chiamato regressivo il metodo analitico e progressivo quello
sintetico (cfr. HamiLtoN, Lectures on Logic, II, pag. 7) (v. ANALISI). REGULA
FIDEI. 1. Con questa espressione si designa in teologia la regola che determina
l’oggetto della fede cioè il contenuto autentico della rivelazione. Nella
filosofia patristica e scolastica, fu assunto come tale regola il « Simbolo degli
apostoli » (Symbolum Apostolorum) che comprendeva, oltre che il contenuto della
Bibbia, anche l’insieme della tradizione ecclesiastica (decisioni conciliari e
papali, le opinioni degli scrittori approvati dalla Chiesa, ecc.) (cfr. M. GRABMANN, Die Geschichte
der scholastischen Methode, I, pag. 76 sgg.). Questa regola è rimasta valida per il cristianesimo
cattolico mentre dal cristianesimo protestante è stata ristretta al contenuto
della Bibbia. La differenza tra cattolicesimo e protestantesimo s’impernia
appunto sulla differenza della regula fidei (v. RIFORMA). 2. Con la stessa
espressione si designa talora il principio che fa della fede la regola della
verità. Così questo principio viene espresso da S. Tommaso: « Poichè la fede si
fonda sulla verità infallibile e poichè è impossibile dimostrare il contrario
del vero, è evidente che gli argomenti che si adducono contro la fede non sono
dimostrazioni ma argomenti confutabili » (S. Th., I, q. 1, a. 8). REIFICAZIONE
(franc. Réification; ted. Verdinglichung). Termine adoperato da scrittori
marxisti per designare il fenomeno, sul quale Marx stesso aveva insistito per
il quale, nell’economia capitalistica, il lavoro umano diventa semplicemente
l’attributo di una cosa: «L’arcano della forma della merce consiste semplicemente
nel fatto che tale forma rimanda agli uomini, come uno specchio, i caratteri
sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti
di quel lavoro, in proprietà sociali naturali delle cose prodotte e quindi
rispecchia anche il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come
un rapporto sociale di cose, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi.
Mediante questo qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose
sensibilmente sopra sensibili, cioè cose sociali » (Kapiral, I, I, $ 4). Il
termine R. per indicare questo processo è stato usato e diffuso da G. Lukacs
(cfr. Geschichte und Klassenbewusstsein, 1922; traduzione francese, 1960, pag.
110 sgg.). RELATIVISMO (ingl. Relativism; franc. Relativisme; ted.
Relativismus). La dottrina che afferma la relatività della conoscenza, nel
senso che fu dato a questa espressione nel sec. xIx e cioè: 1° come azione
condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza; 2° come azione
condizionante reciproca degli oggetti di conoscenza. Questo duplice
condizionamento d’ogni oggetto di conoscenza fu per la prima volta assunto come
fondamento del R. da W. Hamilton: che insisteva da un lato sul fatto che tutti
gli oggetti esistenti possono essere conosciuti solo in rapporto con le facoltà
umane e sotto condizioni determinate da queste facoltà stesse (Lectures on
Metaphysics, I, 1870, 5* ed., pag. 148); dall'altro sulla condizionalità che
gli oggetti di conoscenza esercitano l’uno sull’altro (Discussion on Philosophy,
1852, pag. 13). Sul fondamento di questi due punti (che non avevano niente di
originale, perchè possono essere agevolmente riconosciuti come le tesi più
generiche dell’empirismo e del criticismo) Hamilton affermava, nello stesso
tempo, l’inconoscibilità dell’Assoluto e l’esistenza di esso, giacchè si può
credere anche in ciò che non si conosce (Lectures, cit., II, pag. 530531).
Queste tesi venivano utilizzate per un’apologetica religiosa da E. L. Mansel
(Philosophy of the Conditioned, 1866). Ma a diffonderle fu soprattutto il
positivismo che, con Spencer, accettava il punto di vista di Hamilton
ammettendo la relatività della conoscenza umana, l’inconoscibilità
dell’Assoluto, e l’esistenza di esso (First Principles, 1862, $ 23 sgg.). AI di
fuori del positivismo, il R. è stato accettato da alcune correnti del
neo-criticismo e del pragmatismo. Nell’ambito del primo C. Renouvier nei Essais
de Critique Générale (1854-64) insisteva sulla relatività del fenomeno, che non
sussiste se non in rapporto ad altri fenomeni e in rapporto al soggetto
conoscente (Essais, I, pag. 50 sgg.); e G. Simmel affermava che « il R. si può
formulare così, in riferimento ai princìpi della conoscenza: i principi
costitutivi fondamentali, esprimenti una volta per tutte l’essenza delle cose,
diventano princìpi regolativi, i quali sono soltanto punti di vista per il
progredire del conoscere » (Philosophie des Geldes, 1900, pag. 68). Nell’ambito
del pragmatismo, il R. veniva difeso da F. C. S. Schiller; e diventava, da
questo punto di vista, la negazione di ogni verità « assoluta » o «razionale» e
il riconoscimento che la verità è sempre relativa all'uomo cioè valida perchè
utile a lui: onde Schiller vedeva nel detto di Protagora «l’uomo è misura di
tutte le cose» la più grande scoperta della filosofia (Studies in Humanism,
1902, pag. x sgg.). L’antica sofistica, lo scetticismo e (parzialmente)
l’empirismo e il criticismo diventavano da questo punto di vista manifestazioni
di un R. che andava in cerca dei suoi precedenti e tentava di crearsi una
tradizione. Ma in realtà il R. è stato fenomeno moderno, legato alla cultura
del sec. xrx, ed ha costituito una specie di capovolgimento della filosofia
dogmatica di questo secolo, capovolgimento che ha gli stessi presupposti di
essa. Ciò si vede assai bene nella manifestazione estrema (la sola autentica)
del R., cioè nella dottrina esposta da O. Spengler nel suo libro Il tramonto
dell'Occidente (1918-22): nel quale si afferma la relatività non solo della
conoscenza ma di tutti i valori fondamentali della vita umana alle epoche della
storia, considerate come entità organiche ognuna delle quali cresce, si
sviluppa e muore senza rapporto con l’altra. Da questo punto di vista, la
relatività investe non solo la verità religiosa e filosofica ma anche quella morale
e scientifica «Ogni cultura, diceva Spengler, ha il suo proprio criterio, la
cui validità comincia e finisce con esso. Non vi è alcuna morale umana
universale » (Der Untergeane des Abendlandes, I, cap. I, pag. 55). In questa
forma, che è la sola rigorosamente coerente, il R. afferma la relatività dei
valori solo perchè considera necessario il rapporto tra i valori stessi e
l’epoca storica cui appartengono negando la possibilità che essi possano
relativizzarsi ad altri uomini, epoche e circostanze, riuscendo così ad
ottenere una autonomia parziale che smentirebbe il relativismo. Lo stesso punto
di vista si trova spesso difeso in quello che oggi si chiama il R. culturale,
il cui punto di partenza è il riconoscimento della diversità dei costumi e
delle norme che vigono nell’ambito di culture diverse. Questo R. ha radici
remote (Erodoto, Protagora, e i Discorsi doppi, un testo di ispirazione
sofistica, forse della prima metà del sec. Iv a. C.); ma è ora appoggiato dal
riconoscimento, pressochè universale, della pluralità e della eterogeneità
delle culture. Ha difeso questo R. nella sua forma estrema Herskovits (Cultural
Anthropology, 1955); su di esso vedi il volume collettivo Relativism and the
Study of Man, a cura di ScHOECK e WicciNS, 1961). RELATIVITÀ, TEORIA DELLA
(inglese Theory of Relativity; franc. Théorie de la relativité; ted.
Relativitàtstheorie). Con questo termine s’intendono due corpi di dottrina
formulati da Einstein di cui il primo nel 1905 col nome di R. speciale e il
secondo nel 1913 con il nome di R. generale. La relatività speciale s’impernia
sul riconoscimento che la scelta di un sistema di riferimento, indispensabile
per effettuare misure, può influenzare i risultati di queste misure; e che non
essendoci un sistema di riferimento privilegiato (o «assoluto 1), come aveva
creduto la fisica classica, è indispensabile da un lato specificare il sistema
rispetto al quale la misura viene eseguita, dall’altro trovare formule di
trasformazione che rendano valide tali misure anche per altri sistemi. La R.
generale è sostanzialmente l’estensione del principio di R. a tutti i sistemi,
oltre che a quelli inerziali per i quali vale la R. speciale; ed è perciò,
sostanzialmente una teoria della gravitazione che riduce la gravitazione stessa
a una deformazione del continuo quadrimensionale dello spazio-tempo (cfr. A.
EINSTEIN, L. INFELD, The Evolution of Physics, 1938; traduzione italiana, 1950;
e, per la bibliografia, il volume dedicato a Einstein nella collezione « Living
Philosophers » di Schilpp, 1949). La teoria della R. ha avuto numerose
interpretazioni filosofiche. Una di esse è quella relativistica, che l’ha
intesa come una conferma del relativismo filosofico (cfr., ad es., A. ALIOTTA,
// relativismo, l’idealismo e la teoria di Einstein, 1948). Un'altra è quella
idealistica o spiritualistica che è stata difesa specialmente da A. Eddington
(The Nature of the Physical World, 1928; The Philosophy of Physical Science,
1939). Ma in realtà la teoria della R. si presta a interpretazioni filosofiche
meno ancora delle teorie classiche. La R. di cui essa parla non ha niente a che
fare con la R. del relativismo: una misura è bensì relativa ma non all’uomo o
al soggetto conoscente, bensì al sistema di riferimento e può essere espressa
anche in base ad altri sistemi. Nè la teoria della R. è più soggettivistica o
idealistica della fisica classica. La più importante lezione che la filosofia
può trarre da essa è una lezione di metodo, e può essere desunta dalle seguenti
parole di Einstein: « Per il fisico, un concetto ha valore soltanto quando è
possibile discernere se esso nel caso concreto conviene o no. Ci occorre perciò
una definizione della contemporaneità la quale fornisca il metodo per
riconoscere mediante esperimenti se i due colpi di folgore sono stati contemporanei
o no. Finchè questa condizione non sia adempiuta, io come fisico (e anche come
non fisico) mi affido a un'illusione se credo di poter annettere un significato
alla espressione di contemporaneità + (Uber die spezielle und die allgemeine
Relativitàtstheorie, 1917, $ 8; trad. ital., pag. 18). Queste parole esprimono
l’esigenza generale che una proposizione qualsiasi, per essere valida, deve
poter essere attestata o provata con metodo adatto (v. SIGNIFICATO). RELATIVO
(lat. Relativus; ingl. Relative; francese Relatif; ted. Relativ). 1. Ciò che
entra in una relazione o funge da termine di una relazione. In questo senso si
dice «il fenomeno x è R. a y come a sua causa ». 2. Un termine che non ha
significato, o non ha significato esatto, se non in riferimento ad un altro
termine. In questo senso « maggiore +, « minore », « doppio », ecc., sono R.
perchè si dicono sempre in riferimento a qualche altra cosa. 3. Ciò che vale
soltanto in determinate circostanze o condizioni e non vale fuori di esse. In
questo senso si dice che la conoscenza è R. o che sono R. i valori; e che
l’opposto di R. è l’« assoluto » o 1° incondizionato ». 4. Ciò che è una
relazione o concerne una relazione. In questo senso si dice, ad es., che «la
conoscenza è R.» intendendo che essa consiste nello stabilire relazioni tra
dati. Ma l’aggettivo relazionale (v.) è in questo caso più adatto. 5. Come
sostantivo il termine è usato da Schroder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce
(Coll. Pap., 3.456-526: «The Logic of Relatives», 1897). In questo senso il
termine è sinonimo di relazione. RELAZIONALE (ingl. Relational; tedesco
Relational). Ciò che è una relazione o concerne una relazione. L'aggettivo
esclude il significato relativistico che il termine relativo (v.) può avere.
Esso è pertanto usato di preferenza dai filosofi che, pur insistendo
sull’importanza della relazione, non intendono giungere a conclusioni
relativistiche. N. Hartmann ha distinto a questo proposito relazionalità da
relatività: i valori, ad es., sono in relazione con l’uomo e con il suo mondo
senza perdere la loro irrelativa assolutezza (Erhik, 1949, pag. 140). Il
termine relazionismo è stato usato in Italia per indicare una filosofia che
consideri la relazione come il fatto essenziale dell’universo e dell'uomo, ma
senza implicazioni relativistiche (cfr. E. Paci, Dall’esistenzialismo al
relazionismo, 1957, pag. 45 e passim). RELAZIONE (gr. tò npéc ni; lat. Ad
aliquid, Relatio; ingl. Relation; franc. Relation; ted. Relation). Il modo
d’essere o di comportarsi degli oggetti tra loro. Questa definizione non è che
un semplice chiarimento verbale del termine, che non può essere altrimenti
definito in generale, cioè fuori delle interpretazioni specifiche che i
filosofi ne hanno dato. Questa è d'altronde la definizione rettificata che
Aristotele dette della R.: come ciò «il cui essere consiste nel comportarsi in
un certo modo verso qualcosa » (Car., 7, 8 a 33); che sostanzialmente coincide
con quella di Peirce: «La R. è un fatto circa un numero di cose » (Coll. Pap.,
3.416). I due problemi fondamentali ai quali il concetto di R. ha dato origine
e dalle cui soluzioni dipendono le determinazioni del concetto stesso, sono i
seguenti: 1° Devono essere considerate incluse, nel concetto di relazione, le
determinazioni sostanziali (essenziali e qualitative) o tali determinazioni
devono essere escluse dal concetto stesso? 2° Costituiscono le R. entità reali
o sono soltanto entità mentali? I problemi sono, ovviamente, interdipendenti e
sul fondamento delle risposte collegate che essi hanno ricevuto nel corso della
storia si possono distinguere tre dottrine fondamentali: A) quella che ammette
l’oggettività e la realtà delle R.; 8) quella che nega la realtà e
l’oggettività delle R.; C) quella che ammette l’oggettività delle R. ma non la
loro realtà. A) Platone ammise certamente l’oggettività delle R. ma è dubbio se
ne ammettesse la realtà. «Io credo che tu ammetta, egli disse, che di alcuni
degli enti si debba dire che sono unicamente per sè e di altri invece che sono
sempre in R. con altri » (Sof., 255 c-d). Però gli enti in R., come il diverso
e l’identico, non sono l'essere (/bid., 255 c-d): il che potrebbe anche voler
dire che non hanno esistenza o realtà, come tali. La dottrina di Aristotele è
ugualmente confusa su questo punto. Aristotele distinse tre specie di R.: 1° le
R. quantitative, come quelle espresse da doppio, metà, ecc.; 2* le R.
potenziali che consistono in una potenza attiva o passiva, come l’esser causa o
causato, il tagliare o l’essere tagliato, ecc.; 3* le R. che hanno il loro
termine in un oggetto reale, come la misura rispetto al misurabile, il
conoscere rispetto al conoscibile, la sensazione rispetto al sensibile (Met.,
V, 15, 1020 b 25). Questa distinzione sembra già implicare l’esistenza di R.
reali, quelle della specie 2* e 38; e infatti Aristotele stesso dice che:
«alcune R. si trovano di necessità dentro o intorno alle cose cui sono riferite
» e che «tale è il caso della disposizione, del possesso e della simmetria »
(Top., IV, 4, 125 a 33). Tuttavia buona parte del capitolo delle Caregorie
dedicato alle R. dibatte il problema se fra le R. ci siano sostanze; e la
conclusione, sebbene non categorica, è negativa: certamente non ci sono fra le
R. sostanze prime e anche le sostanze seconde difficilmente si può dire che
siano R. (Car., 7, 8 b 15). Inoltre uno degli argomenti addotti da Aristotele
contro la dottrina delle idee è che essa condurrebbe ad ammettere la realtà
delle R.: laddove «la R. è meno di tutte le cose o natura o sostanza, vien dopo
la qualità e la quantità ed è piuttosto una determinazione della quantità, come
è stato detto, ma non materia +» (Mer., XIV, 1, 1088 a 21). In questo caso
Aristotele considera ovviamente soltanto le R. di specie 1*; ma la sua
affermazione non è condizionata da alcuna limitazione. Non fa meraviglia perciò
che ad Aristotele si siano in seguito appellati sia coloro che negavano sia
coloro che affermavano la realtà delle relazioni. Plotino riproduceva la
dottrina di Aristotele con le stesse confusioni (Enn., VI, 1, 6). La scolastica
cristiana la stilizzava nella distinzione tra R. di ragione, R. potenziale e R.
reale, distinzioni che corrispondono esattamente allespeciedistinte da
Aristotele. Ma la scolastica cristiana aveva interesse per motivi teologici,
dovendo utilizzare il concetto di R. per il chiarimento del dogma della
trinità, ad ammettere la realtà delle R.; e questa era la tesi difesa da S.
Tommaso contro «coloro che affermarono la R. non esser cosa di natura ma solo
di ragione »; tesi che S. Tommaso dichiarò falsa perchè « le stesse cose hanno
l’una rispetto all’altra un ordine o una disposizione naturale » (S. 7%., I, q.
13, a. 7). Su questa base S. Tommaso riesponeva le distinzioni aristoteliche,
difendendo il carattere reale delle R. in cui la scienza e la sensibilità
consistono, in quanto tali R. «sono ordinate a conoscere o a percepire le cose»
(/bid.). Le R. di ragione sono soltanto quelle nelle quali entrambi i termini
sono enti di ragione, cioè quelle che si hanno « quando l'ordine o la
disposizione non ci può essere se non secondo l’apprensione della ragione come
nel caso in cui si dice che una cosa è identica all’altra » (Ibid.). Ma
affermare la realtà delle R. significa privilegiare un certo tipo di R. cioè
modellare tutte le R. sulle relazioni delle specie 22 e 3* aristoteliche o più
precisamente significa considerare ogni tipo di R. come una potenzialità o
disposizione o una condizione o uno stato dei termini relativi. Su questa
natura della R. insistette, alla fine del secolo x, Duns Scoto, che avanzò la
dottrina della R. come respectus: un termine che intende tradurre la parola
greca oytow (usata, per es., da SimpLICIO, Ad Car., 61 B) e significa
disposizione. L'argomento principale addotto da Duns Scoto in favore della sua
teoria era che, se non si ammette un tale respecius non si riesce a comprendere
la composizione degli enti: giacchè se l’unione di a e b non è che gli stessi a
e 5 assoluti, il composto di a e b non differisce in nulla da a e 5 separati,
perciò non è un composto (Op. Ox., II, d. 1, q. 4, n. 5). La dottrina veniva seguita
da tutti gli scrittori scotisti, ma combattuta da Ockham e dai nominalisti e
terministi del sec. x1v (v. oltre). Nel sec. XVII Jungius ancora faceva appello
a tale dottrina, considerando la R. come habitudo o respectus (Logica
Hamburgensis, I, 8, 4). In epoca moderna, al problema delle R. è stata data
un’impostazione analoga a quella di Duns da F. H. Bradley, il quale ha mostrato
che le R. non possono essere intese se non come attributi del relativo e quindi
come consistenti in una qualità o modificazione dei termini relativi. Ma in un
modo o nell’altro la relazione è incomprensibile perchè non fa che predicare
l’identico del diverso o il diverso dell’identico (Appearance and Reality,
1902, 2* ediz., pag. 21 seguenti). Questa dottrina cosiddetta delle « R.
interne » è stata specialmente combattuta dai logici matematici. B) La seconda
dottrina fondamentale della R. è quella che nega l’oggettività e la realtà di
esse e le considera accidentali o soggettive. Tale dottrina fu presentata per
la prima volta da Avicenna, che riproduceva un punto di vista difeso dalla
setta maomettana dei Motakallimun e si avvaleva di corrispondenti tesi
aristoteliche. Diceva Avicenna: « Se si pone che una R. esista, subito bisogna
dire che essa è un accidente, giacchè non vi è dubbio che non si può intendere
di per sì ma sempre di qualcosa rispetto a qualcosa » (Mer., III, 10).
Affermare il carattere accidentale delle R. equivaleva per Avicenna a negarne
la realtà: giacchè, come accidenti, le R. non sono sostanze. Quando nel sec.
xIV questa dottrina fu ripresa da filosofi nominalisti e terministi, assunse la
forma di una riduzione della R. a pura sentità di ragione», priva di realtà o
fondamento fuori dell'anima umana. Tale è la dottrina sostenuta da Enrico di
Gand (Quodl., IX, q. 3; V, q. 6), Herveus Natalis (Quodi., I, q. 9) e Pietro
Aureolo. Quest'ultimo affermava: «La R. non ha esistenza nelle cose,
prescindendo da ogni apprensione intellettivo-sensibile, ma esiste
oggettivamente solo nell’anima poichè nelle cose non ci sono se non fondamenti
e termini: l’abitudine e la connessione delle cose deriva dall'anima
conoscitiva » (Z1 Sent., I, d. 30, q. 1). Questo fu pure il punto di vista
difeso da Ockham il quale istituì una critica minuziosa della dottrina del
respectus. Secondo Ockham questa dottrina moltiplicherebbe le entità
all’infinito: «Col movimento del mio dito riempirei tutto l’universo, il cielo
e la terra, di nuovi accidenti: giacchè mutando la posizione del dito rispetto
alle altre parti del cielo vi sarebbero altrettanti nuovi respectus in queste
parti che sono infinite e quindi infiniti nuovi accidenti» (Quod!. VII, q. 8;
In Sent., II, q. 2, Y). Ogni corpo conterrebbe per motivi analoghi infinite
realtà: giacchè ogni corpo può essere considerato doppio rispetto alla sua metà
e questa metà doppia della sua metà e così via (Quodl., VI, q. 10; Summa Log.,
I, 50). Ockham tuttavia non afferma il carattere puramente mentale delle R.,
come aveva fatto Avicenna (v. oltre). Questa dottrina si riaffacciò nell’ambito
del cartesianesimo. Fu difesa da Locke che considerò le R. come idee complesse,
consistenti « nel considerare e confrontare un’idea con un’altra» (Saggio, II,
12, 7); e riconobbe esplicitamente il carattere soggettivo di esse, pur non
escludendo il loro riferimento alle cose. « Poichè i modi misti e le R. non
hanno altra realtà da quella che posseggono nello spirito umano, a rendere
reali questa specie di idee altro non si richiede se non che siano così
foggiate che vi sia la possibilità di un'esistenza conforme ad esse » (/bid.,
II, 30, 4). Leibniz a sua volta affermava che la realtà delle R. è mentale o
fenomenica (Nouv. Ess., II, 12, 7) e che pertanto esse «hanno una realtà
dipendente dallo spirito, come le verità, ma non dallo spirito degli uomini,
perchè c’è un'intelligenza suprema che le determina tutte in tutti i tempi »
(/bid., II, 30, 4). In conformità di questo stesso concetto, Wolff definiva la
R. come «ciò che non conviene alla cosa assolutamente ma che s'intende solo
quando essa viene riferita ad altro» (Logica, $ 856); e aggiungeva che la R. «
non aggiunge alcuna realtà all’ente » (/bid., $ 857). La soggettività delle R.
è poi il principio fondamentale del kantismo (« Se sopprimessimo il nostro
soggetto o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la
natura, tutte le R. fra gli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio
stesso e il tempo sparirebbero» Crit. R. Pura, $ 8); e sullo stesso principio
(il più delle volte assunto implicitamente) è fondata buona parte della
filosofia contemporanea. C) La terza concezione fondamentale delle R. è quella
che le considera come non reali ma oggettive. Ockham che è stato il più deciso
critico della realtà delle R. ne aveva anche affermato, a suo modo, il
carattere oggettivo. « Non è l’intelletto, egli diceva, che rende Socrate
simile a un altro, più che non sia l’intelletto a renderlo bianco » (In Sent.,
I, d. 30, q. 1 P): il che vuol dire che la relazione, come intenzione o
concetto dell’anima, si riferisce a più cose isolate o è più cose isolate «come
il popolo è più uomini e nessun uomo è popolo » (/bid.). Tuttavia in queste
affermazioni, come in quelle di Locke e di altri che insistevano sul
riferimento oggettivo della R. (come concetto o idea) tale riferimento è inteso
come riferimento alla realtà. La caratteristica della dottrina moderna in
proposito è che la oggettività della R. non implica la sua realtà: cioè che il
riconoscimento che la R. sia oggettiva non significa che essa interceda in ogni
caso tra cose o entità reali. Questo senso della R. è strettamente connesso col
significato che l’essere predicativo ha assunto nella logica contemporanea (v.
EsseRE). Da questo punto di vista l’intera matematica e l’intera logica sono
state definite « scienze delle R.+ (v. Logica; MATEMATICA). In particolare, per
ciò che riguarda la logica, sia il ca/colo proposizionale sia quello delle
classi possono essere considerati come vertenti esclusivamente su R.: dal
momento che R. sono i connettivi: e, o, non, se... allora di cui si occupa il
calcolo proposizionale; e R. sono le entità di cui si occupa l’algebra delle
classi. Tuttavia il calcolo delle R. costituisce anche una branca specifica
della logica contemporanea, branca che è stata fatta avanzare specialmente da
E. Schròder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce {The Logic of Relatives,
1897, Coll. Pap., 3.456-526) In questo senso ristretto, si intendono per R. le
funzioni proposizionali diadiche o poliadiche cioè a due o più variabili, che
sono scritte nella forma f (x, }) 0, più frequentemente, nella forma xRy. Le
caratteristiche più generali della R. in questo senso sono le seguenti: 1° Se R
è tale che intercede non solo tra x e y ma anche tra y e x, la R. si dice
simmetrica. È, ad es., simmetrica la R. fra due fratelli. Nel caso contrario la
R. si dice asimmetrica. Le R. « prima», « dopo », «a sinistra di» sono
asimmetriche. 2° Se R è tale che quando x ha la R. R ayeyhalaR. Ra z, anche x
halaR. Raz, si dice transitiva. Sono transitive le R. « minore », 4 precede »,
«a sinistra»; è intransitiva la R. di paternità. 3° Se R è tale che nessun
termine sta nella R. R con se stesso, la R. si dice aliorelativa. Sono
aliorelative le R. « fratello +, « marito », « padre », ecc. 4° Se R è tale
che, dati due diversi termini del campo, x e y, può intercedere tra x e y o tra
yexotraxe yetra yex, la R. si dice coerente. È coerente la R. «maggiore o
minore», non è coerente la R. «antenato ». 5° Il termine x che ha la R. R ad
uno 0 più termini (y, z...) si chiama dominante; mentre si chiamano dominanti
inversi i termini con cui il termine x ha la R. R cioè i termini y, z, ecc.
Nella R. di « paternità », padre è il dominante, figli sono i dominanti
inversi. 6° Il campo di una R. consiste nell’insieme del dominante e dei
dominanti inversi. Nel caso della R. di paternità, il campo è l’insieme
padre-figli. 7° Si dice che una R. ne implica un’altra, se questa è valida ogni
qualvolta che la prima è valida. Queste nozioni elementari definiscono la
natura oggettiva, tuttavia non reale, delle R. così come sono costantemente
adoperate dalla logica e dalla matematica contemporanee. Si tratta di
caratteristiche che generalizzano al massimo la nozione di R., permettendo di
includere in essa, e di chiarire con essa, i concetti più disparati (cfr.
WHITEHEAD and RUSSELL, Principia mathematica, vol. I, 1925). Per un’esposizione
sommaria della nozione delle R. in ordine ai concetti fondamentali della
matematica cfr., dello stesso RUSSELL, Introduction to Mathematical Philosophy,
1918; trad. ital., 1947. Per gli aspetti matematici cfr. W. v. O. QuInE,
Methods of Logic, 1952, specialmente $ 40. RELIGIONE (lat. Religio; ingl.
Religion; francese Religion; ted. Religion). La credenza in una garanzia
soprannaturale offerta all'uomo per la propria salvezza; e le tecniche dirette
a ottenere o conservare questa garanzia. La garanzia, cui la R. fa appello, è
soprannaturale nel senso che va al di là dei limiti cui possono giungere i
poteri riconosciuti propri dell’uomo; che agisce 0 può agire anche là dove tali
poteri sono riconosciuti impotenti; e che il suo modo d’azione è misterioso o
imperscrutabile. L'origine soprannaturale della garanzia non implica
necessariamente che essa sia offerta da una divinità e che pertanto il rapporto
con la divinità sia necessario alla R.: in realtà esistono R. atee; e tale fu
il buddismo primitivo, ripreso o difeso in questo suo carattere anche da scuole
posteriori (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pag. 71 sgg.; 312
sgg.). Inoltre la determinazione del rapporto dell’uomo con la divinità, quindi
il compito di dimostrare l’esistenza di essa e di chiarire i suoi caratteri e
le sue funzioni nei confronti dell’uomo e del mondo, è stato spesso ritenuto
proprio della filosofia più che della R.; e l’assolvimento di quel compito può
anche avere carattere anti-religioso, come è accaduto nell’epicureismo che ha
inteso stabilire nello stesso tempo l’esistenza della divinità e la sua
indifferenza al mondo e agli uomini, regolando su questa base i rapporti di
essa con l’uomo (EPICURO, Lettera a Meneceo, 123-24; FILODEMO, De pietate, pag.
122; fr. 38, Usener). Dall'altro lato questo stesso rapporto tra l’uomo e Dio è
oggi, da alcuni teologi, ritenuto proprio della fede anzichè della R. perchè
indipendente dalle forme mitiche che la R. ha assunto ed è costitutivo
dell’esistenza umana nel mondo (v. FepE; Dro; Dio, MORTE DI). In ogni caso, la
salvezza di cui la R. intende essere la garanzia, non è necessariamente la
salvezza da questo o quel male o dai mali del mondo: può anche essere una
salvezza dal mondo considerato come un male nella sua totalità, come infatti
accade nello stesso buddismo. Nella definizione proposta, inoltre, occorre
sottolineare la differenza tra la credenza nella garanzia soprannaturale e le
tecniche dirette a ottenere o conservare tale garanzia. Per tecniche s’intendono
tutti gli atti o le pratiche del culto: preghiera, sacrificio, rito, cerimonia,
servizio divino o servizio sociale. La credenza nella garanzia soprannaturale è
l’atteggiamento religioso fondamentale che può anche essere semplicemente
interiore o privato e costituisce la religiosità individuale; le tecniche
dirette a ottenere e conservare quella garanzia costituiscono invece il lato
oggettivo e pubblico della R., il suo aspetto istituzionale. Una R. naturale è
costituita semplicemente da quell’atteggiamento; una R. positiva è costituita
essenzialmente da queste tecniche. Il concetto di R. comprende tuttavia
entrambi gli aspetti. Etimologicamente, la parola significa probabilmente «
obbligazione +; ma Cicerone la fece derivare da relegere: « Quelli che
compivano con accortezza tutti gli atti del culto divino e per così dire li
rileggevano attentamente, furono detti religiosi da relegere, come eleganti da
elegere, diligente da diligere e intelligenti da intelligere; infatti in tutte
queste parole si nota il medesimo valore di /egere che c’è in R.» (De nat.
deor., JI, 28, 72). Lattanzio invece (/nsr. Div., IV, 28) e S. Agostino
(Retract., I, 13) fanno derivare la parola da religare; e Lattanzio cita a
questo proposito l’espressione di Lucrezio « sciogliere l'animo dai nodi della
R.» (De nat. rer., I, 930). È pure da notare che il greco non possiede l’esatto
equivalente della parola latina e moderna. Aarpela significa servizio divino e
si riferisce pertanto solo al secondo degli elementi della religione. S.
Agostino (De Civ. Dei, X, 1) stabiliva la corrispondenza tra religio e
Opnorele; ma anche questa parola si riferisce esclusivamente alle tecniche
della religione. Le diverse definizioni che sono state date della R. possono
essere classificate sul fondamento dei due fondamentali problemi cui esse
rispondono cioè: I. Sul fondamento del problema dell’origine della R. che è poi
in realtà il problema del tipo di validità propria della R.; II. Sul fondamento
del problema della funzione riconosciuta propria della R. cioè del carattere
specifico della garanzia che essa offre alla salvezza dell’uomo. I. Come accade
anche in altri casi, il problema dell’origine è in realtà il problema del tipo
di validità che s’intende riconoscere alla R. stessa. Si possono distinguere
tre soluzioni di questo problema cioè: 1° la dottrina dell’origine divina della
R.; 2° la dottrina dell’origine politica della R.; 3° la dottrina dell’origine
umana della religione. 1° La dottrina dell’origine divina della R. esprime il
riconoscimento del valore assoluto (0 infinito) della R. stessa. Ovviamente, la
pretesa di un’origine soprannaturale o divina è intrinseca ad ogni R. giacchè
ogni R. pone a suo fondamento una rivelazione originaria che ne garantisca la
verità oppure considera come continuamente confermate da testimonianze
soprannaturali le credenze e le istituzioni con cui si identifica: il che vale
lo stesso. Perciò, dal punto di vista della filosofia il riconoscimento
dell’origine divina o del valore assoluto della R., si effettua mediante la
tesi che la R. è rivelazione. Questa tesi è, si può dire, nient’altro che
l’espressione filosofica del valore assoluto che la R. riconosce a se stessa.
Questo punto di vista è stato espresso con tutta chiarezza da Hegel: « Nel
concetto della vera R., egli ha detto, cioè di quella il cui contenuto è lo
Spirito assoluto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè rivelata
da Dio» (Enc., $ 564). Ed Hegel aggiunge che «se a Dio si nega la rivelazione
non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’invidia. Ma se la parola
spirito deve avere un sensoesso significa la rivelazione di sè» (/bid., $ 564).
Non diverso da questo è il concetto che della R. dette Schleiermacher:
«L'universo è un'attività ininterrotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni
forma che esso produce, ogni essere al quale dà, per la pienezza della sua
vita, un'esistenza particolare, ogni avvenimento che esso partorisce dal suo
seno sempre ricco e fecondo, è un’azione che esso esercita su di noi; e così
accettare ogni cosa particolare come una parte del Tutto, ogni cosa finita come
un’espressione dell’Infinito, in ciò consiste la R. + (Reden iiber die
Religion, 1799, II; traduzione ital., pag. 39). La stessa dottrina si può
esprimere dicendo che la R. è l’esperienza del divino e che essa, come ogni
esperienza, rivela la realtà del suo oggetto. Questo è il concetto che Bergson
dette della R. autentica cioè del misticismo: «Se le somiglianze esteriori tra
i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di insegnamenti,
il loro accordo profondo è segno di una identità di intuizione che si può
spiegare più semplicemente con l’esistenza reale dell’essere con cui si credono
in comunicazione» (Deux sources, III; trad. ital., pag. 270-71). 2° La dottrina
dell’origine politica della R. riduce la R. stessa ad uno stratagemma politico:
perciò riduce a zero il valore intrinseco di essa. Questa dottrina fu per la
prima volta sostenuta da Critia, uno dei trenta tiranni di Atene. Secondo
Critia «gli antichi legislatori finsero la divinità come una specie di
ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, affinchè nessuno recasse
ingiuria o tradimento al suo prossimo, per paura di una vendetta degli dèi ».
Questo stratagemma fu reso necessario dal fatto che « le leggi distoglievano
bensì gli uomini dal compiere aperte violenze ma che essi le commettevano di
nascosto » sicchè « un qualche uomo ingegnoso ed esperto inventò per gli uomini
il timore degli dèi onde ci fosse uno spauracchio per i malvagi anche per
quello che di nascosto facessero, dicessero o pensassero » (Sesto EMmP., Adv.
Math., IX, 54). Concezioni analoghe ricorrono di tanto in tanto nella storia
della filosofia: si possono riconoscere nel libertinismo e in talune correnti
dell’illuminismo e del marxismo. 3° La dottrina dell’origine umana della R. è
quella che la considera come una formazione umana, che ha le sue radici nella
situazione dell’uomo nel mondo. Questa dottrina non è impegnata ad attribuire
alla R. una validità determinata: è piuttosto impegnata a comprenderla come un
fenomeno umano ed a esprimerla in un concetto abbastanza esteso da comprendere
le sue manifestazioni disparate. La considerazione della R. da questo punto di
vista si è orientata verso due tipi di spiegazione. Il primo ha considerato la
religione come una forma di appagamento del bisogno feoretico cioè del bisogno
di conoscenza. Il secondo ha considerato la religione come suggerita all’uomo
dalla situazione in cui egli viene a trovarsi nel mondo e cioè,
sostanzialmente, dai suoi bisogni pratici. Una soluzione del primo tipo fu
quella data da Epicuro che vedeva l’origine della R. nelle immagini dei sogni e
nel bisogno dell’uomo di spiegare la regolarità dei movimenti celesti
(LUCREZIO, De nat. rer., V, 1167 sgg.). La R. sarebbe contemplativa più che
pratica. Fu Hobbes il primo a riconoscere la sua origine pratica. Facendo
proprio il detto di Stazio -« Primus in orbe deos fecit timor + (Theb., III,
661), Hobbes riconosceva la causa principale del sorgere della R. nel timore
che deriva all'uomo dalla sua incertezza per il futuro. «Dal momento che è
sicuro che vi sono cause di tutte le cose che sono state o saranno, è
impossibile per l’uomo che cerca continuamente di garantirsi contro i mali che
teme e di procurarsi i beni che desidera, di non vivere nella perpetua
preoccupazione del tempo a venire cosicchè ogni uomo, e specialmente quello più
previdente, vive in uno stato simile a quello di Prometeo ». Da questo stato di
timore nonchè dalla speranza di vedersi assicurati i beni di cui ha bisogno e
dal desiderio di raggiungere una conoscenza completa del mondo, nasce, secondo
Hobbes, la R. (Zeviath., I, 12). Una dottrina analoga, ma esposta in modo più
articolato fu ripresentata da Hume nella Storia naturale della religione
(1757). La R. non sorge dalla contemplazione ma dall’interesse dell’uomo per
gli eventi della vita e quindi dalle speranze e dai timori incessanti che lo
agitano. Sospeso fra la vita e la morte, tra la salute e la malattia, tra
l'abbondanza e la privazione, l’uomo attribuisce a cause segrete e sconosciute
i beni di cui gode e i mali da cui è continuamente minacciato (Natural History
of Religion, II, in Essays, II, pag. 316). Voltaire così esponeva lo stesso
concetto: «È naturale che un paese, spaventato dal tuono, afflitto dalla
perdita delle sue messi, maltrattato dal paese vicino, sentendo tutti i giorni
la sua debolezza, sentendo dappertutto un potere invisibile, abbia infine
detto: ‘ C’è qualche essere al di sopra di noi che ci fa del bene e del male »
(Dicrionnaire philosophique, 1764, art. Religion, Il). Questa dottrina ha
subìto un’eclissi sino ai primi decenni del sec. xx. Da un lato infatti il
concetto romantico della R. come rivelazione o sentimento dell’infinito fu
partecipato anche da filosofi che negavano la validità della religione.
Feuerbach, ad es., trasformando la teologia in antropologia, affermava: «La R.
è la coscienza dell’infinito: perciò essa non è e non può essere altro che la
coscienza che l’uomo ha, non della limitazione, ma dell’infinità del suo essere
» (Wesen der Christenthum, 1841, $ 1). Max Miiller analogamente vedeva
l’essenza della R. nella potenziale capacità umana di « afferrare l’infinito »
(Vorlesungen iber den Ursprung und die Entwicklung der Religion, 1880, pag.
28). Per quanto con queste espressioni si intendesse sottolineare l’origine
umana della R., si faceva tuttavia uso di concetti che erano meglio serviti ad
esprimere l’origine divina e il valore assoluto della R. stessa. Dall’altro
lato, anche nel campo dell’indagine sociologica, la quale cominciava a prendere
in esame le forme che la R. assume presso i popoli primitivi, si manifestava la
tendenza a considerare la R. sotto l'angolo visuale della contemplazione,
interpretandola come una concezione del mondo (o filosofia) grossolana bensì ma
non priva di una certa coerenza. E. B. Tylor vedeva l’essenza della R.
primitiva nell’animismo (v.) cioè nella credenza in esseri spirituali assunti
come presenti in tutte le cose e come cause di tutti gli eventi (Primitive
Culture, 1871). La R. sarebbe così una metafisica della natura. Una metafisica
della società essa sarebbe invece secondo Durkheim, per il quale essa « è il
mito che la società fa di se stessa » nel senso che « quella realtà che le
mitologie si sono rappresentate sotto tante forme differenti, ma che è la causa
obbiettiva universale ed eterna di quelle sensazioni sul generis di cui è fatta
l’esperienza religiosa, è la società » (Formes élémentaires de la vie
religieuse, 1937, pag. 597). Ciò vuol dire che la R. primitiva consiste nell’attribuire
a una supposta realtà i caratteri stessi della società primitiva: cioè quei
caratteri che la società primitiva ritiene essenziali a se stessa. Queste tesi
di Durkheim si fondaVano soprattutto su una interpretazione del rforemismo. Il
totem è secondo Durkheim il simbolo della forza che sostiene l’individuo: forza
che è la società stessa; e da questa veramente la mente primitiva attinge tutte
Je sue categorie per l’interpretazione del mondo. In tal modo, la R. conserva
per Durkheim un carattere contemplativo: carattere che viene ad essa anche
riconosciuto dall’altro grande sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che
esprime questa tesi identificando con il misticismo non soltanto la R. ma
l’intera vita dei popoli primitivi (L’expérience mystique et les symboles chez
les primitifs, 1938). Per tutti questi indirizzi filosofici e sociologici la R.
è, alla sua origine, un fatto conoscitivo: è un tentativo di spiegarsi il mondo
o di formarsene un’idea in base a un certo numero di esperienze più
frequentemente ricorrenti nella vita degli uomini. Il ritorno alla concezione
settecentesca della R. cioè alla concezione che vede la radice di essa nella
situazione dell’uomo nel mondo, si effettua soltanto negli indirizzi più
moderni e critici della sociologia. Cominciò W. Robertson Smith a in745 sistere
sull’importanza che, nella R. primitiva, ha il secondo dei due elementi della
R. cioè le tecniche. «La R. nei tempi primitivi non fu un sistema di credenze
con applicazioni pratiche; fu un corpo di pratiche tradizionalmente fissate
alle quali ogni membro della società si conformava naturalmente. Gli uomini
formano regole generali di condotta prima di cominciare ad esprimere in parole
i princìpi generali; le istituzioni politiche sono più vecchie delle teorie
politiche e in maniera simile le istituzioni religiose sono più vecchie delle
teorie religiose » (Lectures on the Religion of the Semites, 1907, pag. 16).
Più tardi l’opera di G. Frazer (The Golden Bough, 1911-14) mostrava la stretta
connessione tra R. e magia, partendo dalla considerazione che l’uomo è dominato
in primo luogo dalla preoccupazione di controllare gli eventi naturali allo
scopo di piegarli alle esigenze della vita. La differenza tra la magia e la R.
consiste, secondo Frazer, in questo: che la prima tende al diretto controllo
degli eventi naturali mentre la seconda cerca le vie di propiziarsi le potenze
superiori che presiedono alla natura. Questa dottrina è quella che ha avuto la
migliore accoglienza da sociologi e filosofi. A. Loisy sosteneva un punto di
vista assai vicino a quello di Frazer (Essai historique sur le sacrifice, 1920)
e B. Malinowski portava nuove prove alla stessa tesi. Secondo Malinowski la R.
e la magia sorgono e funzionano entrambe in situazioni di tensione emozionale:
crisi della vita, riuscite infelici, morte e iniziazione ai misteri della
tribù, amori infelici e odii insoddisfatti. R. e magia concordano anche
nell’offrire una via d’uscita da tali situazioni mediante credenze e pratiche
che si riferiscono al dominio del soprannaturale. Si distinguono tuttavia tra
di loro, in quanto la magia ba una tecnica limitata e semplice, la R. comprende
un insieme di tecniche; la magia è limitata a una classe di persone che fa di
essa la sua professione; la R. invece è una faccenda di tutti e ogni individuo
vi ha parte attiva. E infine le funzioni dell’una e dell’altra sono diverse: la
funzione della magia è quella di sopperire, con strumenti soprannaturali, alla
mancanza o all’imperfezione degli strumenti naturali, mentre la funzione della
R. è quella di rafforzare certi speciali atteggiamenti: il coraggio e la
fiducia nella lotta contro le difficoltà (Magic, Science and Religion, 1925).
Non molto diversa da questa, sebbene espressa in termini teologici e mistici,
fu la tesi difesa da Rudolf Otto nel suo libro intitolato // sacro (1917).
Dalla paura, secondo Otto, deriva il sentimento di essere davanti a un potere
superiore, che si cristallizza in ciò che egli chiama il tremendum o la
maiestas; dal senso di disperazione, di impotenza e di insignificanza deriva il
sentimento creaturale descritto nell’Antico testamento, e dalle fantasie
compensatrici nasce infine il concetto di ciò che è completamente altro, che si
mescola con gli eventi più familiari senza cessare di apparire nuovo ed
estraneo. Gli ingredienti costitutivi del soprannaturale erano così ricondotti,
anche da Otto, alla situazione dell’uomo nel mondo. La quale rimane il punto di
partenza delle più moderne teorie della religione. Secondo Freud la R. «dà agli
uomini informazioni circa la sorgente e l’origine dell’universo, garantisce ad
essi la protezione e la felicità finale fra le mutevoli vicende della vita e
guida i loro pensieri e le loro azioni per mezzo di precetti che sono
appoggiati dall’intera forza della sua autorità » (A New Series of Introductory
Lectures on Psycho-Analysis, 1933, pag. 220). Su questi fondamenti Freud pensa
che la R. consista nella credenza in un padre soprannaturale che salvaguarda
gli uomini dai pericoli e li compensa e punisce a seconda dei casi. Il rapporto
fra l’uomo e la divinità si modellerebbe così sul rapporto tra figlio e padre
(/bid., pag. 222 sgg.). Prescindendo dallo sfondo psicanalitico di questa
concezione, i suoi caratteri non sono diversi da quelli delle altre cui si è
fatto riferimento: la R. è intesa come un correttivo, una difesa o una protesta
nei confronti della situazione di incertezza e di pericolo in cui l’uomo è nel
mondo. Tale è anche il concetto che Bergson ha dato della R. statica, al quale
egli ha contrapposto la R. dinamica cioè il misticismo. La R. statica sarebbe
infatti «la reazione difensiva della natura contro il potere disgregatore
dell’intelligenza »; nel senso che l’intelligenza fa vedere chiaramente
all’uomo l’incertezza e pericoli della vita e l’inevitabilità della morte, mentre
la R. sarebbe l’insieme delle reazioni difensive contro le rappresentazioni
intellettuali della condizione umana nel mondo (Deux sources, 1932, cap., II;
trad. ital, pag. 131 sgg.). Limitatamente alla R. primitiva, una tesi analoga è
stata difesa sulla base di un vasto materiale documentario da P. Radin nel suo
libro sulla R. dei primitivi(Primitive Religion, its Nature and Origin, 1937).
II. Il secondo problema del quale le definizioni proposte della R. intendono
costituire risposte è quello della funzione specifica della religione. Questo
problema può essere inteso in due sensi. In primo luogo, come problema della
garanzia che la R. pretende offrire alla salvezza dell’uomo e di questo
problema si possono addurre tre soluzioni principali: 1° la R. come liberazione
dal mondo; 2° la R. come verità; 3° la R. come moralità. In secondo luogo, il
problema stesso può essere inteso dal punto di vista della funzione che la R.
esercita nella società o nell'economia generale della vita umana (4°). 1° La
garanzia che la R. pretende di offrire all'uomo può essere innanzitutto quella
della liberazione dal mondo, considerato nella sua totalità come un male.
Questa è la dottrina propria del buddismo: « Non c’è da godere di ciò che è
nato e diventato, di ciò che si è formato e costituito, che è instabile,
dipendente dalla vecchiezza e dalla morte, nido di malattie, fragile, sorto per
il transito di cibo. Fuggire da questo stato vuol dire trovare un altro stato
tranquillo, al di là del dominio del pensiero, stabile, non nato, non
formatosi, senza dolore, senza passione, gioia che pon fine ad ogni condizione
di miseria e distrugge per sempre ogni elemento di esistenza » (Ztivuttaka, 43;
trad. Pavolini). Questo stato in cui l’esistenza stessa è distrutta è il
nirvana. Ma secondo lo stesso buddismo il nirvana è anche lo stato di
beatitudine di chi già in questa vita ha eliminato da sè il desiderio e quindi
il germe della futura esistenza. Sotto questo aspetto, dallo stesso buddismo,
la salvezza è concepita non solo come liberazione dal mondo ma anche come
liberazione dai mali del mondo. Questi due aspetti sono in realtà presenti in
molte R. tranne che nella R. d'Israele che ignora il primo: la promessa di una
beatitudine che è al di là del mondo o che si raggiungerà solo dopo la morte va
abitualmente congiunta con la promessa di una felicità, di una pace o di un
benessere nella stessa esistenza mondana. Quando la felicità o la pace si può
raggiungere in questa esistenza solo oltrepassando la condizione umana e
deificandosi cioè unendosi con Dio o col principio cosmico, si ha il misticismo
(v.). Nel misticismo, Bergson ha visto la R. dinamica, la continuazione super
organica dello slancio vitale, l’impulso verso la creazione di una società
nuova fondata sull’amore universale (Les deux sources, 1932, cap. III). In
realtà il misticismo non è che una determinata soluzione del problema della
salvezza ed è la soluzione propria di una religiosità privata, contemplativa e
solitaria cui ogni attività e i rapporti stessi fra gli uomini risultano
estranei e insignificanti. 2° Che la R. contenga la garanzia infallibile della
propria verità e di ogni verità che possa essere collegata con essa, è pretesa
implicità in ogni R. come tale. Dal punto di vista filosofico questa stessa
tesi si presenta nella forma dell’identità tra R. e filosofia e della
differenza puramente formale tra esse. Questa fu, per es., la dottrina
sostenuta da Hegel: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la R. perchè
oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto
cioè Dio, e Dio solo, è la verità » (Enc., $ 1). La R. tuttavia si distingue
dalla filosofia in quanto esprime la verità non nella forma del concetto ma in
quella della rappresentazione e del sentimento. «La R., dice Hegel, è il rapporto
con l’Assoluto nella forma del sentimento, della rappresentazione, della fede;
e nel suo centro onnicomprensivo, tutto è soltanto come qualcosa di accidentale
e di evanescente » (Fi/. del Dir., $ 270). Il che vuol dire che ciò che la R.
intuisce in modo accidentale, approssimativo e confuso, la filosofia dimostra
con necessità (Enc., $ 573). È chiaro tuttavia che la dottrina dell’identità
tra R. e filosofia può anche essere affermata dal punto di vista della
superiorità della R. come forma o rivelazione della verità: così fa quella
filosofia della fede di Haman, Herder e Jacobi contro la quale lo stesso Hegel
polemizza (v. FEDE, FILOSOFIA DELLA). È tuttavia evidente che in tal caso non è
alla R. che si affida la garanzia della verità, ma ad un organo, la fede, dalla
quale dipendono, quanto alla loro validità, sia la filosofia sia la R. sia ogni
altro sapere. Perciò l’attribuire alla R., come oggetto specifico, la verità
significa il più delle volte, dal punto di vista filosofico, attribuirle la
funzione di manifestare la verità in una forma, che è bensì infallibile e
certa, ma inferiore a quella che la verità stessa può assumere nella filosofia.
Così secondo Gentile, la R. è «l’esaltazione dell’oggetto sottratto ai vincoli
dello spirito, in cui consiste l’idealità, la conoscibilità e razionalità
dell'oggetto stesso » (Teoria gen. dello spirito, 1913, XIV, 7). L'essenza
della R. è perciò il misti cismo che è l’annullamento del soggetto nell’oggetto
e per cui l'essere di Dio è il non essere del soggetto (Discorsi di religione,
1920, pag. 78). La R. trova la sua verità solo nella filosofia che risolve Dio
nell’atto del pensiero. « Questo Dio come può essere volontà da riconoscere e
pregare e deprecare e a cui subordinarsi, se Dio è dentro all'uomo, al suo io,
ed è propriamente il suo io nel suo attuarsi? » (Sistema di logica, II, 1922,
IV, 8, 4). In modo più chiaro e sbrigativo Croce ha detto che la R. è una forma
provvisoria e imperfetta della filosofia, per cui il filosofo dovrebbe vedere
nell’uomo religioso « il suo fratello minore, il suo se stesso di un momento
prima » (Fil. della pratica, 1909, pag. 314). 3° Che la R. offra una garanzia
ai valori morali dell’uomo, intendendosi per morali i valori che presiedono
all’ordine della vita associata, è credenza assai antica. Era questo il compito
fondamentale che Platone attribuiva alla R.: «La divinità che, secondo la
tradizione, regge il principio e la fine e il corso di tutti gli esseri,
procede secondo la sua natura nel suo andamento circolare; e ad essa tien
dietro sempre la giustizia punitiva per coloro che hanno abbandonato la legge
divina» (Leggi, 715 e, 716 a). Nel mondo moderno questo punto di vista è stato
assunto e difeso da Kant. «La R., egli ha detto, considerata dal punto di vista
soggettivo, è la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandi divini.
Quella in cui io devo prima sapere che qualcosa è un comando divino per
riconoscerla poi come mio dovere, è la R. rivelata (o che esige una
rivelazione); quella invece in cui io devo sapere che qualcosa è un dovere
prima che la possa riconoscere come un comando divino è la R. naturale +
(Religion, IV, sez. I). Kant osserva che questa definizione della R. previene
parecchie interpretazioni false del concetto di essa. In primo luogo, infatti,
esclude che la R. richieda una scienza di Dio e include che per essa basta
possedere la semplice idea di Dio. In secondo luogo quella definizione previene
«la falsa idea che la R. sia un insieme di doveri speciali che si riferiscono
immediatamente a Dio» e perciò impedisce di ammettere, oltre i doveri umani
etico-sociali, «i servizi da cortigiani con i quali potremmo tentare di
compensare le nostre mancanze ai doveri della prima specie » (/bid., IV, sez.
I, Nota). In questa interpretazione tuttavia ciò che la R. garantirebbe è
l’assolutezza del comando morale: non garantirebbe invece (perchè rientra nella
sfera della libertà umana) l'effettuazione del comando morale cioè la vera e
propria realizzazione dei valori morali nel mondo. Alla R., tuttavia, si chiede
o si attribuisce il più delle volte proprio questa seconda specie di garanzia:
la garanzia cioè che i valori morali, e in generale quelli che interessano
l’uomo e la sua vita spirituale, non siano unicamente affidati alla buona
volontà degli uomini ma trovino nella provvidenza divina una loro salvaguardia
infallibile che ne garantisca il trionfo finale. In questo senso H. Héffding ha
affermato che la R. è «la credenza nella conservazione dei valori »
(Religionsphilosophie, 1902, pag. 13): la fede religiosa sarebbe la convinzione
« della saldezza, certezza e della ininterrotta connessione della relazione
fondamentale dei valori con la realtà» (/bid., 1902, pag. 105). Questo è
proprio quell’ottimismo provvidenzialistico che molti indirizzi filosofici,
idealistici e spiritualistici desumono o credono di desumere dalla R. e in nome
del quale istituiscono più o meno interessate apologetiche religiose. 4°
Considerando la funzione della R. non già nei confronti della garanzia
soprannaturale che essa pretende di offrire ma nei confronti dei rapporti
inter-umani, tra i quali essa si inserisce come sistema di credenze e di
istituzioni, si può agevolmente mettere in luce l’utilità biologica e sociale
della R. stessa. Non che l’accordo tra i filosofi sia unanime su questo punto.
Sostenendo la non ingerenza della divinità nelle faccende umane gli Epicurei
avevano di mira l'eliminazione del timore degli dèi e consideravano pertanto la
R. come fonte aggiuntiva di preoccupazione e paura e non come aiuto (cfr.
EricuRro, Ep. a Meneceo, 123; Ep. a Erodoto, T7; Mass. Cap., 1). Anche qualche
sociologo contemporaneo non manca di osservare che spesso i riti religiosi e le
credenze con essi associate sono fonti di angoscia sicchè l’effetto psicologico
del rito sembra quello di creare nell’uomo un senso di insicurezza e di
pericolo (cfr. A. R. RADCLIFFE-BROWN, Structure and Function in Primitive
Society, 1952, pag. 148-49). Ma anche in questo caso si può riconoscere la
funzione sociale della R. e cioè il rafforzamento ad essa dovuto dei vincoli
sociali, soprattutto nella società primitiva (Ibid., pag. 157 sgg.). A. Loisy
diceva: « Abbandonato alla mercè degli elementi, delle stagioni, di ciò che la
terra gli dà e gli rifiuta, delle buone o cattive possibilità della sua caccia
o della sua pesca, delle vicende delle sue lotte con i suoi simili, l’uomo
crede trovare il mezzo per regolarizzare con simulacri di azione le sue
possibilità più o meno incerte. Ciò che egli fa non serve a niente rispetto
allo scopo che si propone, ma egli acquista fiducia nelle sue imprese, in se
stesso, osa e osando ottiene realmente più o meno ciò che vuole. Fiducia
rudimentale e attraverso un’umile strada; ma è il cominciamento del coraggio
morale » (Essai historique sur le sacrifice, 1920, pag. 533). Questo punto di vista
fu più tardi sviluppato da Malinowski (Magic, Science and Religion, ed. Anchor
Books, 1925, pag. 89). Ed è come si è visto più o meno il punto di vista di
Bergson. È un punto di vista che i sociologi hanno riscontrato soprattutto nei
confronti delle società primitive; ma è pur noto (v. PRIMITIVI) che la
sociologia contemporanea tende a eliminare l’abisso tra mentalità primitiva e
mentalità secondaria o civile. AI di là dei limiti in cui le tecniche razionali
gli consentono il controllo degli eventi che lo interessano, limiti, nonostante
tutto, assai ristretti, l’uomo rivendica di fatto la sua libertà di fede e si
affida a credenze liberatrici o consolatrici e a tecniche che gli promettono
una salvezza immancabile. Che egli possa o non possa ottenere da queste
tecniche ciò che promettono, la loro funzione è ben chiara: quella di dargli
speranza e coraggio e di consolidarlo nel suo rapporto con gli altri uomini e
con il mondo. RES DE RE NON PRAEDICATUR. La massima di Abelardo (riferita da
GIOVANNI DI SALIsBuRY, Metalogicus, II, 17), secondo la quale l’universale non
può essere nè una cosa nè una voce ma soltanto un’espressione (sermo) giacchè
solo l’espressione può essere predicata di più cose (v. UNIVERSALE). RESIDUI E DERIVAZIONI (ingl.
Residues and Derivations; franc. Résidus et dérivations). Con questi termini Vilfredo Pareto designò i due
fattori delle teorie non scientifiche che corrispondono ai due fattori delle
teorie scientifiche, cioè alle affermazioni sperimentali e alle deduzioni
logiche. I residui sono gli istinti, i sentimenti, gli interessi, ecc., che
costituiscono i materiali delle teorie non scientifiche; e le derivazioni sono
le sistemazioni logiche o pseudologiche date a tale materiale (Traftato di
sociologia generale, 1916, $ 803, 850, 870, 1397). Cfr. la discussione di
questa dottrina in TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 2* ediz.,
1949, pag. 196 sgg. RESIDUI, METODO DEI (ingl. Method of Residues; franc. Méthode des résidus;
ted. Rilckstandsmethode). Uno dei quattro
metodi della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e precisamente
quello espresso dalla regola: « Sottratta da un fenomeno la parte che si è
riconosciuta, per precedenti induzioni, come l’effetto di certi antecedenti, il
residuo del fenomeno è l’effetto dei rimanenti antecedenti » (Logic, III, 8, $
5) (v. ConcomiTANZA; (CONCORDANZA; DIFFERENZA). RESIDUO FENOMENOLOGICO (tedesco
Phanomenologische Residuum). Così Husserl ha chiamato l’essere proprio della
coscienza in quanto «non viene toccato nella sua assoluta essenza dalla
neutralizzazione fenomenologica » cioè dall’epoché (Ideen, I, $ 33).
RESPONSABILITÀ (ingl. Responsibility; franc. Responsabilité; ted.
Verantwortlichkeit). La possibilità di prevedere gli effetti del proprio
comportamento e di correggere il comportamento stesso in base a tale
previsione. La R. è cosa diversa dalla semplice imputabilità (gr. alzia; lat.
Imputatio; inglese Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zurechenbarkeit) che
significa l’attribuzione di un’azione a un agente come alla sua causa. Alla
nozione di imputabilità faceva riferimento Platone quando, a proposito della
scelta che le anime fanno del proprio destino affermava: « Ciascuno è la causa
della propria scelta, la divinità non ne è imputabile» (Rep., X, 617e; cfr.
Timeo, 42 d). Wolff definiva l'imputazione come « il giudizio con il quale
l’agente è dichiarato causa libera di ciò che consegue dalla sua azione cioè
del bene o del male che da essa derivano sia a lui stesso sia agli altri »
(Phi/osophia practica, I, $ 527). E questa definizione era semplicemente
ripetuta da Kant: «L’imputazione (imputatio) nel significato morale è il
giudizio per mezzo del quale qualcuno è considerato come autore (causa libera)
di un’azione che è sottomessa a leggi e si chiama fatto » (Mer. der Sitten, I,
Intr., IV). L’imputabilità così intesa è un concetto completamente diverso da
quello di responsabilità. Il concetto e il termine di R. sono recenti e
compaiono per la prima volta in inglese e in francese nel 1787 (precisamente
compaiono in inglese nel Federalist di Alessandro Hamilton, folio 64; cfr. R.
McKron, in Revue Internationale de Philosophie, 1957, n. 1, pag. 8 sgg.). Il
primo significato del termine fu quello politico, in espressioni come «governo
responsabile» o «R. del governo » che esprimevano il carattere per cui il
governo costituzionale agisce sotto il controllo dei cittadini ed in vista di
questo controllo. In filosofia, il termine fu usato nelle dispute sulla
libertà; e tornò utile soprattutto agli empiristi inglesi che vollero mostrare
l’incompatibilità di un giudizio morale con la libertà e con la necessità
assolute (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst.,
VIII, 2; STUART MILL, nota alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind di
J. Mit, 1869, II, pag. 325). La
nozione di R. è infatti fondata su quella della scelta e la nozione di scelta è
essenziale al concetto della libertà limitata (v. LIBERTÀ). È chiaro infatti
che nel caso della necessità, la previsione degli effetti non potrebbe influire
sull’azione; e che tale previsione non potrebbe influire sull’azione nel caso
della libertà assoluta, che farebbe il soggetto indifferente alla previsione
stessa. Il concetto di R. si inscrive pertanto in un determinato concetto della
libertà; ed anche nel linguaggio comune si dice « responsabile » una persona o
si apprezza il suo «senso di R.» quando si vuole indicare che la persona in
questione include, nei motivi del suo comportamento, la previsione degli
effetti possibili del comportamento stesso (cfr. il fascicolo citato della
Revue Internationale de Philosophie e specialmente gli articoli di McKeon,
Abbagnano e Weil. Per la distinzione tra imputabilità e R., cfr. SCHELER, Der
Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 504 sgg.) (V. INTENZIONE). RESTRIZIONE
(lat. Restrictio; ingl. Restriction; franc. Restriction; ted. Restriktion). A
partire dalla logica del xm secolo, la limitazione dell’estensione o
denotazione di un termine comune in modo che esso si riferisca a un numero
minore di oggetti designati (cfr. Lamberto di Auxerre, in PRANTL, Geschichte der
Logik, III, pag. 31, n. 130). Pietro Hispano distinse quattro specie di R.:
quella fatta col nome, come quando si dice « uomo bianco » per cui il termine
uomo non sta per (non supponit pro) i negri; con il verbo, come quando si dice
« l’uomo corre » e la proposizione si riferisce solo ai presenti; quella fatta
per participio come quando si dice «l’uomo correndo discute »; e quella fatta
per implicazione come nel caso «l’uomo, che è bianco, corre + (Summ. Log.,
11.02). Il processo inverso è l'ampliamento o estensione. Hamilton ha chiamato
R. il rapporto di subalternazione (v.). RETORICA (ingl. Rhetoric; franc.
Rhétorique; ted. Rhetorik). L’arte di persuadere mediante l’uso di strumenti
linguistici. La R. fu la grande invenzione dei Sofisti e Gorgia di Leontini
(sec. v a. C.) fu uno dei suoi fondatori. Il dialogo di Platone che s’intitola
a lui insiste sul carattere fondamentale della R. sofistica: la sua
indipendenza dalla disponibilità di prove o argomenti che producano un reale
sapere o una convinzione razionale. Scopo della R. è quello « di poter
persuadere con discorsi i giudici nei tribunali, i consiglieri nel consiglio, i
membri dell’assemblea nell’assemblea e in ogni altra riunione pubblica» (Gorg.,
452 e). Il retore pertanto è abile « nel parlare contro tutti e su ogni
argomento, sicchè riesce, alla maggior parte delle persone, più persuasivo di
ogni altro, rispetto a tutto ciò che vuole» (/bid., 457 a). La R. così intesa
apparve a Platone più vicina all’arte culinaria che alla medicina: più diretta ad
appagare il gusto che a migliorare la persona (/bid., 465 c). Ad essa Platone
contrappose una R. pedagogica o educativa che fosse «l'arte di guidar l’anima
per via di ragionamenti, non solo nei tribunali e nelle assemblee popolari ma
anche nelle conversazioni private » (Fedr., 261 a): ma la R. così intesa si
identifica con la filosofia. Platone pertanto non riservò alla R. una funzione
specifica. Riconobbe invece tale funzione Aristotele che considerò la R. in
stretta connessione con la dialettica e come la controparte di essa (Rer., I,
1, 1354 a 1). La R. è, secondo Aristotele, «la facoltà di considerare in ogni
caso i mezzi disponibili di persuasione + (/bid., I, 2, 1355 b 26). Mentre ogni
altra arte può istruire o persuadere soltanto intorno ai suoi propri oggetti,
la R. non è limitata da una speciale sfera di competenza ma considera i mezzi
di persuasione che si riferiscono a tutti gli oggetti possibili (/bid., I, 2,
1355 b 26). La R. pertanto desume dalla Topica la considerazione degli
argomenti probabili (che sono appunto quelli che hanno la capacità di
persuadere) e fornisce le regole per l’uso strategico di tali argomenti. Questo
concetto della R. stabilito da Aristotele è prevalso per molti secoli.
L’umanesimo sottolineò l’importanza della R. cui però intese riconoscere,
sull’esempio platonico e ciceroniano, un valore sostanziale (cfr. Testi
umanistici sulla R. di M. Nizolio, F. Patrizi, P. Ramo, a cura di E. GARIN, P.
Rossi, C. VasoLI, 1953). Con Pietro Ramo, il compito della R. ritorna ad essere
sostanzialmente quello aristotelico: «La tecnica della persuasione che Ramo
indaga nei testi ciceroniani, questa capacità di volgere il linguaggio alle
espressioni più compiute e tecnicamente elaborate dev’essere però sempre unita
all’esercizio della filosofia, alla quale resta affidata, per mezzo della
dialettica, la costruzione essenziale di tutti i princìpi conoscitivi. Perciò
alla R. intesa nel significato più tecnico e particolare, il Ramo concederà
soltanto 750 le due funzioni propedeutiche della e/ocutio e della
pronunciatio... laddove invece affiderà alla dialettica contro le pretese di
Quintiliano e di Cicerone il compito di organizzare la vera sostanza del
discorso logico » (C. VasoLI, Op. cit., pag. 117118). Dopo la fioritura del
Rinascimento le sorti della R. decaddero sino alla quasi completa eclissi che
essa subì nel sec. xIx. Il dogmatismo razionalistico iniziato da Cartesio e
diventato massiccio nell’800, fu la causa maggiore della decadenza della
retorica. Dove la ragione è tutto e può tutto, un’arte che voglia cercare gli
strumenti della persuasione è ovviamente fuori luogo. Perciò non fa meraviglia
che con l’abbandono del dogmatismo razionalistico la R. torna oggi agli onori
della ribalta nel senso classico di arte della persuasione ma con l’avvertimento
moderno della molteplicità delle condizioni a cui l’arte della persuasione deve
guardare. Il Traité de l’argumentation di Perelman e Olbrechts-Tyteca (1958)
s’inizia con le seguenti parole: «La pubblicazione di un trattato consacrato
all’argomentazione e il suo riattaccarsi a una vecchia tradizione, quella della
R. e della dialettica greca, costituiscono una rottura con una concezione della
ragione e del ragionamento, originata da Cartesio, che ha impresso il suo
sigillo sulla filosofia occidentale dei tre ultimi secoli ». Non c’è alcun
dubbio sulla correttezza di questa osservazione. Se la ragione è infallibile e
la ricerca umana può essere affidata in ogni campo alle sue infallibili regole,
non c’è posto per la R. che è l’arte della persuasione. Ma se nella sfera del
sapere umano la parte dell’incerto, del probabile, dell’approssimativo è assai
grande, la persuasione può avere la sua funzione e l’arte di essa può essere
coltivata. RETRODUZIONE (ingl. Retroduction). Termine introdotto da Peirce per
indicare il primo stadio della ricerca, che procede, come l’induzione, dal
conseguente all’antecedente ma è compiuto in modo spontaneo cioè senza un
metodo rigoroso («Reality of God», in Values in a Universe of Chance, pag. 368
sgg.) (v. ABDUZIONE). RETROSPEZIONE (ingl. Retrospection; francese
Rétrospection). Bergson ha indicato con questo termine la tendenza a «rigettare
nel passato, allo stato di possibilità o di virtualità, le realtà attuali » (La
pensée et le mouvant, 3° ediz., 1934, pag. 26). RETTITUDINE (gr. èp96mne,
xarépwor; lat. Rectitudo; ingl. Rectitude; franc. Rectitude; ted.
Rechtlichkeit). Il criterio o la misura razionale delle cose, cioè il principio
per giudicarle. Platone dice, ad es., che «La R. del nome è quella che mostra
quale la cosa sia » (Crat., 428 e), intendendo che questo è il criterio per
giudicare della giustezza del nome. Aristotele usa nello stesso senso
l’espressione retta ragione (èp8dc Xbyoc) e identifica la retta ragione con la
saggezza (Er. Nic., VI, 13, 1144 b 23). Ma furono soprattutto gli Stoici a dare
un significato tecnico al termine intendendo per essa «la convenienza o il bene
stesso, che consiste nel raggiungere l’accordo con la natura » (Cicer., De
Fin., III, 14, 45). Poichè l’accordo con la natura è il criterio di ogni
valutazione la R. non è che questo criterio. In un senso analogo, Duns Scoto
chiamò rectitudines le proposizioni teologiche in quanto forniscono la
conoscenza del retto comportamento dell’uomo di fronte a Dio (Op. Ox., Prol.,
q. 4, n. 31). Ai nostri giorni Heidegger ha contrapposto la R. alla verità
intesa come rivelazione dell’essere. Secondo Heidegger, fu Platone a far
prevalere per la prima volta il concetto della verità come R. cioè come
criterio del giudizio umano ed è stato pertanto Platone a preparare il terreno
per la nascita del soggettivismo moderno (« Die Zeit des Weltbildes », 1938, in
Holzwege, 1950, pag. 84). REVERSIBILE (ingl. Reversible; franc. Réversible;
ted. Umkehrbar). Si qualificano con questo termine i processi che non hanno un senso
definito (v. IRREVERSIBILE). RICERCA (gr. tnenows; lat. Investigatio,
Inquisitio; ingl. Inquiry; franc. Recherche; ted. Untersuchung). Per quanto il
concetto di R. si connetta spesso strettamente con quello di filosofia (come
accade in Platone, cfr. ad es., Teet., 196 d; Men., 81 e), difficilmente la R.
stessa è stata fatta oggetto di indagine filosofica. Nel mondo moderno Dewey ha
considerato la logica come teoria della ricerca. « Tutte le forme logiche, egli
ha detto, con le loro proprietà caratteristiche, nascono attraverso il lavoro
di R., e concernono il controllo della R. in vista della attendibilità delle
asserzioni prodotte +». In questo senso «la R. sulla R. è causa cognoscendi
delle forme logiche mentre l’indagine primitiva è causa essendi delle forme
rivelate da quell’indagine » (Logic, 1939, I; trad. ital., pag. 34). La R. è
definita da Dewey come «la trasformazione controllata o diretta di una
situazione indeterminata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e
relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della
situazione originaria in una totalità unificata » (Logic, VI; trad. ital.,
pagina 157). RICETTIVITÀ (ingl. Receptivity; franc. Réceptivité; ted.
Receptivitàt). La possibilità delle affezioni (v.) cioè di accogliere o subire
azioni. In questo senso Kant considera la sensibilità come «la R. del nostro
animo a ricevere rappresentazioni cioè a subire affezioni in un modo qualunque
» (Crit. R. Pura, Log. trasc., Intr., I). Lo stesso che passività. È il
contrario di spontaneità (v.) o attività (v.). RIFLESSIONE RICONCILIAZIONE. V.
Sintesi. RICONOSCIMENTO (ingl. Recognition; franc. Reconnaissance; ted.
Anerkennung). 1. In generale, conoscere qualcosa per quella che è. In questo
senso si dice, per es.: «L'ho riconosciuto per un ladro» Oppure «Riconosco la
giustezza di questa osservazione ». 2. Uno degli aspetti costitutivi della
memoria in quanto ad essa gli oggetti sono dati come già precedentemente
conosciuti (v. MEMORIA). RICORDO. V. MEMORIA. RICORRENZA (ingl. Recurrence;
franc. Récurrence; ted. Recurrenz). 1. Ciò che torna ad accadere o si ripete a
intervalli, regolari o irregolari. In questo senso si dice ricorrente un evento
che si ripete pressapoco allo stesso modo, ad intervalli di tempo. 2. Si chiama
anche con questo termine il ragionamento riflessivo o auto-referentesi che dà
luogo alle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). 3. In matematica, s'intende per «
ragionamento per R. » il principio dell’induzione matematica (vedi INDUZIONE
MATEMATICA). RICORSO. Vico intese con questo termine il ritorno della storia
sui suoi passi che si verifica quando i rimedi che la Provvidenza dispone
contro la corruzione degli stati vengano meno o non agiscano efficacemente. Il
R. consiste nel rinselvatichirsi degli uomini, nel loro ritorno alla durezza
della vita primitiva che li disperde e falcidia, finchè il poco numero degli
uomini rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendono possibile
la rinascita di un ordine civile, di nuovo fondato sulla religione e la giustizia
(Scienza Nuova, 1744, Conclusione). RIDUCIBILITÀ, ASSIOMA DI. V. ANTINOMIE.
RIDUZIONE (ingl. Reduction; franc. Réduction; ted. Reduktion). 1. La
trasformazione di un enunciato in un altro equipollente più semplice o più
preciso o tale che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario. Si
parla pure di «R. della scienza ai termini dell’esperienza immediata» (Quine,
From a Logical Point of View, II, 5), o di R. delle estensioni alle intensioni
o delle classi a proprietà (CARNAP, Meaning and Necessity,$ 23, 33). 2. La
spiegazione che consiste nel considerare certi ordini di fenomeni come soggetti
alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni; per
es., quella che consiste nel considerare i fenomeni organici come soggetti alle
leggi dei fenomeni fisici e questi ultimi come soggetti alle leggi dei fenomeni
meccanici. Su questo tipo di spiegazione, cfr. E. NAGEL, « The Meaning of
Reduction in the Natural Sciences», 1949, in Science and Civilisation, ed. R.
T. Staufer, 1949, pag. 99-138). 3. Per R. fenomenologica Husserl intese la
stessa epoché fenomenologica cioè la neutralizzazione dell’atteggiamento
naturale o la messa in parentesi del mondo (/deen, I, $ 56 sgg.). Talvolta, più
particolarmente, intese per R. il momento positivo dell’epoché cioè quello
della riflessione interna sull’atto, che cerca di cogliere l’atto stesso nella
sua intenzionalità (cfr. specialmente Die XKrisis der europàischen
Wissenschaften, 1954, pag. 247). 4. Per R. ai principi, v. RITORNO, 2.
RIFERIMENTO (ingl. Reference; franc. Référence; ted. Bericht). x. In generale
l’atto di porre un oggetto qualsiasi in una relazione qualsiasi con un altro
oggetto. In questo senso il termine ha un significato assai esteso: uno stesso
oggetto, per es., un comportamento può essere riferito al suo autore, ai suoi
effetti, al suo fine, alle sue intenzioni, alle sue condizioni, ecc. Il senso
specifico del R., cioè della relazione che esso stabilisce, è di volta in volta
chiarito o suggerito dal contesto. 2. Più particolarmente, si chiama R. l’atto
che stabilisce il rapporto tra il simbolo e il suo oggetto, cioè l’atto
dell’interpretazione (v.). Sono stati soprattutto Ogden e Richards a diffondere
in questo senso l’uso del termine. Essi identificarono addirittura il R. con il
pensiero ed entrambi con quello che essi chiamarono il significato conoscitivo
(The Meaning of Meaning, 103 ediz., 1952, pag. 9 sgg.). Nell'ambito di questo
significato, gli stessi autori hanno chiamato referendo (referend) il veicolo o
lo strumento di un atto di R. e referente (referent) l’oggetto verso il quale
l’atto di R. è diretto. RIFIUTO, GRAN (ingl. Great Refusal; francese Grand
Refus). Il R. della realtà in favore dell’immaginazione, e delle possibilità
che essa scopre, nell’arte. In tal senso l’espressione fu adoperata da André
Breton nel primo manifesto dei surrealisti (1924) (Les manifestes du
surréalisme, 1946). L'espressione è stata fatta propria da H. Marcuse per
indicare « la protesta contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva
di libertà: il vivere senza angoscia» (Eros and Civilization, 1954, cap. VII).
V. UTOPIA. RIFLESSA, AZIONE. V. AZIONE RIFLESSA. RIFLESSIONE (ingl. Reffection;
franc. Réflexion; ted. Reflexion). In generale l’atto o il procedimento con il
quale l’uomo prende a considerare le sue stesse operazioni. Questo concetto è
stato determinato in tre modi e cioè: 1° come conoscenza che l’intelletto ha di
sè; 2° come coscienza; 3° come astrazione. 1° Aristotele, per quanto non usi il
termine R., ammette il fatto ovvio che l'intelletto « può pensare se stesso»
(De An., III, 429 b 9). Gli Scolastici espressero questa possibilità con il
termine «R.s. S. Tommaso dice: « Poichè l’intelletto riflette sopra se stesso,
esso intende, secondo questa R., sia il suo intendere sia la specie mediante la
quale intende » (S. Th., I, q. 85, a. 2). Egli attribuisce anche alla R. una
funzione specifica giacchè l’intelletto che ha per suo oggetto proprio
l’universale, non può intendere il particolare se non riflettendo su se stesso
e considerando ciò da cui astrae l’universale (/bid., I, q. 86, a. 1). La R.
tuttavia non è dagli Scolastici ritenuta fonte autonoma di conoscenza. Ciò
accade per la prima volta solo con Locke. 2° Con Locke, s°inizia il concetto
della R. come coscienza. Secondo Locke, la seconda delle due fonti principali
(la prima essendo la sensazione) dalle quali l’intelletto trae le sue idee è la
R., intesa come «la percezione delle operazioni che l’anima nostra compie
dentro di sè sulle idee che ha ricevuto mediante i sensi: operazioni che,
diventando l’oggetto delle R. dell’anima, producono nell’intelligenza un’altra
specie di idee che gli oggetti esterni non le avrebbero potuto fornire e tali
sono le idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare,
conoscere, volere, ecc. ». (Saggio, II, 1, 4). Locke chiama pure senso interno
la R.: la quale, in questo senso non è altro che la coscienza, col quale nome
fu spesso chiamata dai filosofi inglesi posteriori. La definizione di
Vauvenargues « La R. è la potenza di ripiegarsi sulle idee, di esaminarle, di
modificarle o di combinarle in diversi modi: essa è gran principio del
ragionamento, del giudizio, ecc. » (Intr. à la connaissance de l’esprit humain,
1746, I, 2) e quella di Leibniz «La R. non è altro che l’attenzione a ciò che è
in noi, mentre i sensi non ci danno affatto ciò che noi portiamo già con noi»
(Nouv. Ess., Avantpropos) danno lo stesso significato: la R. è coscienza. Con
questo termine, appunto, essa veniva definita da Kant. «La R. (reffexio), egli
diceva, non mira agli oggetti stessi per acquistarne direttamente i concetti,
ma è quello stato dello spirito in cui cominciamo a disporci a scoprire le
condizioni soggettive che ci rendono possibile arrivare ai concetti. Essa è la
coscienza della relazione tra le rappresentazioni date e le varie fonti di
conoscenza » (Crit. R. Pura, Analitica dei Principi. Anfibolia dei concetti
della riflessione). Kant distingueva inoltre la R. /ogica, che è il semplice
confronto delle rappresentazioni fra di loro, dalla R. trascendentale che si
dirige agli oggetti stessi e contiene « la ragione della possibilità del
paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro. La R. trascendentale ha
perciò per oggetto i concetti di identità-diversità, di concordanzaposizione,
di interno-esterno, di materia-forma, che per l’appunto forniscono il
fondamento di ogni possibile confronto tra le rappresentazioni » (/bid.). Il
carattere attivo e creativo della R., che porta alla luce la vera natura di ciò
su cui indaga e perciò in qualche modo produce tale natura, fu uno dei punti
fondamentali della filosofia di Hegel: « Poichè nella R. si ottiene la vera
natura e questo pensiero è mia attività, così quella vera natura è parimenti il
prodotto del mio spirito, cioè del mio spirito come Soggetto pensante, di me
nella mia semplice universalità, come Io che è senz’altro da sè, ossia della
mia libertà » (Enc., $ 23). Una funzione metafisica fu attribuita alla R. anche
da Maine de Biran: «Chiamo R., egli disse, la facoltà per la quale lo spirito
appercepisce in un gruppo di sensazioni o in una combinazione di fenomeni i
rapporti comuni di tutti gli elementi con una unità fondamentale, per es., di
più modi o qualità con l’unità di resistenza, di più effetti diversi con una
medesima causa, di modificazioni variabili con lo stesso io o soggetto, ecc.»
(Fondements de la psychologie, ed. Naville, II, pag. 225). Nè molto diverso da
questo significato è quello attribuito al termine da Husserl quando afferma: «
Ogni cogifatio può diventare oggetto di una cosiddetta percezione interna e
successivamente oggetto di una valutazione riflessa, di approvazione o
disapprovazione, ecc.» (Ideen, I, $ 68). In questo senso la R. è quella che
Husserl chiama la percezione immanente, cioè la percezione che costituisce
un’unità immediata con il percepito, ed è la coscienza stessa (/bid., $ 68).
Husserl ha pure distinto la R. naturale, che si effettua nella vita comune
dalla R. fenomenologica o trascendentale che si fa praticando l’epoché (v.)
universale quanto alla esistenza o alla non-esistenza del mondo (Carr. Med., $
15). 3° Il terzo concetto della R., è quello che la considera come astrazione e
precisamente astrazione falsificatrice. Questo concetto della R. fu proprio
dell’idealismo romantico. Cominciò con Fichte, che vide nella R. l’atto con cui
l’io considera se stesso come limitato dall’oggetto: « L’Io ha in sè la legge
di riflettere sopra se stesso come riempiente l’infinito. Ma esso non può
riflettere sopra se stesso, e in generale su nulla, se ciò su cui riflette non
è limitato. Il compimento di questa legge è dunque condizionato e dipende
dall’oggetto » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 8). Come Schelling chiariva, la R.
è in questo senso un’astrazione perchè porta a separare l’oggetto dell'Io
dall’Io stesso, mentre in realtà l'oggetto non è altro che un prodotto dell’Io.
« Quella separazione dell’atto dal prodotto si chiama nell’uso ordinario del
linguaggio astrazione. Come prima condizione della R. compare dunque
l’astrazione » (System des transzendentalen Idealismus, III, epoca III, I;
trad. ital., pag. 179). Hegel a sua volta, mentre esaltava (come si è visto) la
R. come attività che non solo mette in luce ma produce la natura razionale
delle cose che investiga, riteneva falsificatore l’intelletto riflettente. «
Per l’intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale
l'intelletto astraente, e con ciò separante, che persiste nelle sue
separazioni. Volto contro la ragione, codesto intelletto si comporta come
l’ordinario intelletto umano o senso comune e fa valere la sua veduta che la
verità riposi sulla realtà sensibile; che i pensieri siano soltanto pensieri,
nel senso che la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà; e che la
ragione in quanto resta in sè e per sè non produca altro che sogni »
(Wissenschaft der Logik, Intr.; trad. ital., I, pag. 27). In altri termini la
R. è caratterizzata dalla separazione tra concetto e realtà, separazione che è
una falsa astrazione; mentre la ragione è caratterizzata dalla identità di
concetto e realtà. In tal modo, per Hegel, la filosofia della R. è quella del
senso comune, che culmina nella filosofia di Kant la quale afferma
l’inconoscibilità della cosa in sè. Nella filosofia contemporanea il termine è
usato prevalentemente nel significato 2° ed ha perciò come sinonimi i termini
«consapevolezza », « coscienza », « introspezione », « senso interno +, «
osservazione interiore ». RIFLESSIVA, PSICOLOGIA. V. PsicoLOGIA, B).
RIFLESSIVITÀ (ingl. Reflectivity; franc. Ré flexivité; ted. Reflectivitàt). Il
carattere di una relazione non aliorelativa: cioè tale che un termine può
averla con se stesso. Per es., la relazione non più grande di è riflessiva (v.
RELAZIONE). RIFLETTENTE E
DETERMINANTE (ingl. Reflecting and Determinant; franc. Réfléchissant et
déterminant; ted. Reflectierend und Bestimmend). Giudizio
determinante e giudizio R. sono, secondo Kant, i due modi d’azione della
facoltà del giudizio (v. GIUDICATIVA, FACOLTÀ). In genere, secondo Kant, il
giudizio è «la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale ».
Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) il giudizio che opera
la sussunzione del particolare è determinante. Se invece è dato il particolare
e il giudizio vi vede trovare il generale, esso è semplicemente R. (Crit. del Giud.,
Intr., $ Iv). « Giudizio determinante » significa giudizio che determina o
costituisce l’oggetto: come fa, secondo Kant, il giudizio intellettuale
(considerato nella Critica della Ragion Pura) il quale per l’appunto forma
l’oggetto empirico unificando secondo le categorie il materiale
dell’esperienza. « Giudizio R.» significa giudizio che trova già costituito
l’oggetto e perciò deve limitarsi a riflettere su di esso per trovare il modo
di subordinarlo ad una unità o legge che è però semplicemente soggettiva: come
fa da un lato il giudizio di gusto, che giudica gli oggetti secondo il criterio
del bello, e dall’altro il giudizio te48 — ABBAGNANO, Disionarin di filosofia.
leologico che giudica gli oggetti secondo il criterio de fine. RIFORMA (ingl.
Reformation; franc. Réformation; ted. Reformation). Il rinnovamento della vita
religiosa avvenuto nell’Europa del sec. xvi mediante il ritorno alle origini
del Cristianesimo. Preparata dall’umanista Erasmo da Rotterdam (1466-1536) la
R. fu iniziata dall’opera del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) che
nel 1517 affiggeva, alle porte della Cattedrale di Wittenberg, 95 tesi contro
la vendita delle indulgenze. Nel suo indirizzo complessivo la R. protestante
appare come una delle vie di realizzazione di quel ritorno ai principi che fu
l’emblema del Rinascimento (v.). Nel dominio religioso, il ritorno ai principi
portava a negare il valore della tradizione e quindi della Chiesa che se ne
riteneva la depositaria e l’interprete. Nello scritto Contro Enrico VIII d'Inghilterra
(1522) Lutero contrapponeva alla tradizione ecclesiastica, e a tutti i riti e
le glosse che essa aveva accumulato nei secoli, il ritorno diretto alla parola
di Cristo, cioè al Vangelo. L’insegnamento fondamentale del Vangelo è secondo
Lutero la giustificazione per mezzo della fede la quale implica due corollari
fondamentali: 1° la negazione del valore delle opere cioè delle tecniche
religiose (riti, sacrifici, cerimonie) e la riduzione dei sacramenti a quelli
di cui la Bibbia fa menzione cioè battesimo, penitenza ed eucarestia, anch'essi
però sottratti a ogni giurisdizione sacerdotale e considerati come espressione
del diretto rapporto dell’uomo con Dio. Al culto sacerdotale, Lutero
contrappose l’esercizio dei doveri civili come l’unico «servizio divino » che
abbia valore religioso; 2° la negazione della libertà umana e il riconoscimento
della predestinazione da parte di Dio. La fede è il segno sicuro di questa
predestinazione e quindi l’indizio della salvezza (De Libertate Christiana,
1520). Su questo punto nacque la polemica tra Erasmo e Lutero: alla Diatribe de
libero arbitrio (1524) di Erasmo, Lutero rispondeva col De servo arbitrio
(1525) nel quale ribadiva il carattere imperscrutabile della scelta divina
(cfr. PREDESTINAZIONE). Delle altre due principali figure della R. protestante
Ulrico Zuinglio (1484-1531) e Giovanni Calvino (1509-64), il primo si spinse al
di là di Lutero nella negazione delle forme religiose tradizionali, attribuendo
allo stesso sacramento dell’eucarestia un valore puramente simbolico e negando
l’obbedienza passiva all’autorità politica; il secondo considerò il ritorno ai
princìpi specialmente come ritorno alla religiosità del Vecchio Testamento.
Nella sua /stituzione della religione cristiana (pubblicata in latino nel 1536
e in francese nel 1541: questa traduzione è il primo testo letterario della
prosa francese) Calvino si propose infatti di mostrarel’unità del Vecchio e del
Nuovo Testamento e riprese specialmente da esso il principio che la buona
riuscita nelle faccende della vita è una prova evidente del favore di Dio, un
segno della sua predilezione. Fu specialmente questo principio a fare
dell’etica calvinista l’ispiratrice della nascente borghesia capitalistica; del
suo spirito attivo e aggressivo, sprezzante d’ogni sentimento e teso alla buona
riuscita degli affari. RIGORISMO (ingl. Rigorism; franc. Rigorisme; ted.
Rigorismus). Nella terminologia religiosa del sec. xvili R. si oppose a
/assismo e designò il punto di vista di coloro (specialmente Giansenisti e Padri
dell’oratorio) che maggiormente erano ostili al principio della morale
rilassata (cfr. BAYLE, Dictionnaire historique et critique, art. « Rigoristes
+). Secondo Kant si chiamano di solito rigoristi coloro che non ammettono «
alcuna neutralità morale (adiaphora) nè negli atti, nè nei caratteri umani»
mentre si chiamano latitudinari gli altri (Religion, I, Osservazione). Lo
stesso Kant però (nello stesso passo) mostra di accogliere per conto suo il
principio rigoristico: sicchè non a torto si è parlato e si parla di «R.
morale» a proposito della dottrina morale kantiana. RILEVANTE (ingl. Relevant;
franc. Relevant; ted. Bedeutend). Si chiama R. un enunciato significante,
specie se è importante per il significato complessivo del contesto in cui
ricorre. Si chiamano talora R. anche gli elementi di fatto importanti per il
giudizio di una situazione determinata. RIMORSO (ingl. Remorse; franc. Remords;
ted. Reue) (v. PENITENZA). RINASCIMENTO (ingl. Renaissance; francese
Renaissance; ted. Renaissance). S’intende con questo termine il movimento
letterario, artistico e filosofico che va dalla fine del sec. x1v alla fine del
secolo xvi e che si diffuse dall’Italia negli altri paesi d'Europa. La parola e
il concetto di R. hanno origine religiosa, come è stato accertato dagli studi
di Hildebrand, Walser e Burdach: rinascita è la seconda nascita, la nascita
dell’uomo nuovo o spirituale di cui parlano l’Evangelo di S. Giovanni e le
Lettere di S. Paolo. Concetto e parola si conservano per tutto il Medio Evo a
indicare il ritorno dell’uomo a Dio, la sua restituzione a quella vita che egli
ha perduto con la caduta di Adamo. A partire dal sec. xv la parola viene invece
usata per indicare un rinnovamento morale intellettuale e politico ottenuto
attraverso il ritorno ai valori di quella civiltà in cui si ritiene che l’uomo
abbia trovato la sua realizzazione migliore, cioè alla civiltà greco-romana. Il
R. fu pertanto portato a sottolineare polemicamente la sua propria differenza
di orientamento dall’età medievale, nel suo tentativo di rapportarsi all’età
classica e di desumere direttamente da essa l'ispirazione delle RIGORISMO
proprie attività. D’altra parte però non mancano gli elementi di continuità tra
il R. e il Medio Evo; e molti dei problemi preferiti da umanisti e filosofi del
R., sono gli stessi di quelli dibattuti nel Medio Evo come sono le stesse le
soluzioni. Si spiega quindi perchè l’interpretazione del R. è oscillata fra i
due estremi di una contrapposizione radicale tra Medio Evo e R. o di una loro
intrinseca continuità. La prima posizione fu assunta da Jacopo Burckhardt (Die
Kultur der Renaissance in Italien, 1860) e ripetuta e amplificata da Gentile e
dai suoi scolari. Laseconda concezione si ispira soprattutto all’opera di K.
Burdach (Vom Mittelalter zu Reformation, Renaissance, Humanismus, 1926*), ed è
stata portata alla sua forma estrema da G. Toffanin (Storia dell’ Umanesimo,
1933). I caratteri fondamentali dell’età del R. possono essere brevemente
ricapitolati nel modo seguente: 1° L’umanesimo cioè il riconoscimento del
valore dell’uomo e la credenza che l’umanità si è realizzata nella sua forma
perfetta nell’antichità classica (v., su questo punto, UMANESIMO). 2° Il
rinnovamento religioso effettuato o con il tentativo di ricollegarsi a una
rivelazione originaria cui si sarebbero ispirati gli stessi filosofi classici,
come fa il platonismo (Cusano, Pico, Ficino); o mediante il tentativo di
rifarsi alle fonti originarie del Cristianesimo saltando a piè pari la
tradizione medievale, come fa la Riforma protestante (v. RIFORMA). 3° Il
rinnovamento delle concezioni politiche effettuato col riconoscimento
dell’origine umana o naturale delle società e degli stati (Machiavelli) o col
tentativo di ritornare alle forme storiche originarie o alla natura delle
istituzioni sociali [giusnaturalismo (v.)]. 4° Il naturalismo cioè il risorto
interesse per l’indagine diretta della natura che si manifesta sia
nell’aristotelismo, negli indirizzi magici, sia nella metafisica della natura
(Campanella e Bruno) sia nel primo affermarsi della scienza moderna. Sul R.
cfr. la Bibliografia di H. BARON, « Renaissance in Italien», in Archiv fiir
Kulturgeschichte, 1927, 1931. Cfr. specialmente E. Cassirer, Individuo e cosmo
nella filosofia del R., e gli scritti di E. Garin (in particolare: Medio Evo e R.,
1954). RIPETIZIONE (ingl. Repetition; franc. Répétition; ted. Wiederholung). 1.
Termine introdotto nella terminologia esistenzialistica da Kierkegaard che, per
chiarirne il significato lo avvicinava alla espressione aristotelica quod quid
erat esse (v. EsSENZA; Sosranza). Tale espressione che alla lettera significa
ciò che l’essere era esprime infatti la necessità e immutabilità dell’essere,
il suo ripetersi. Kierkegaard si è servito del concetto soprattutto per
descrivere la natura della vita etica: a differenza della vita estetica, la
quale cerca di evitare la R. e vuole ad ogni istante la novità (perciò è
simbolizzata da Don Giovanni) la vita etica si fonda sulla continuità, sulla
scelta ripetuta che l’individuo fa di se stesso e del proprio compito, perciò è
simboleggiata dal matrimonio (Die Wiederholung, 1843; cfr. Diario, IV, A, 156).
Heidegger a sua volta ha utilizzato il concetto per caratterizzare l’esistenza
autentica, quale si realizza nell’angoscia. L’angoscia, in quanto libera l'uomo
« dalle possibilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche » consiste nel
riprendere, per l'avvenire, le possibilità che sono già state nel passato: il
che è appunto la R. (Sein und Zeit, $ 68b). R. è da questo punto di vista la
decisione autentica. « La R. è l’esplicito tramandamento cioè il ritorno su
possibilità dell’Esserci che è già stato. L’autentica R. di una possibilità di
esistenza già stata, il fatto che l’Esserci si scelga i suoi eroi, si fonda
esistenzialmente nella decisione anticipatrice; perchè è in essa che viene
primariamente scelta la scelta la quale rende liberi per la lotta successiva e
per la fedeltà a ciò che è da ripetere » (/bid., $ 74). Ciò vuol dire che la
decisione autentica, in cui consiste la storicità dell’esistenza umana, è una R.
o almeno (come Heidegger dice nello stesso luogo) una replica di possibilità
passate. 2. Nella filosofia della scienza, il concetto di R. viene adoperato
per esprimere il fondamento di ogni proposizione induttiva: la quale sarebbe
(secondo la dottrina di Hume) l’espressione di una R. di casi (cfr. Hume, Ing.
Conc. Underst., V, 1). Da questo punto di vista, la R. è stata assunta spesso
come la giustificazione delle proposizioni universali. K. Popper ha fatto la
critica di questa dottrina che egli chiama «dottrina del primato della R.» (The
Logic of Scientific Discovery, 1959, pag. 420 segg.) (v. INDUZIONE; TEORIA).
RISCHIO (gr. xivòuvoc; ingl. Risk; francese Risque; ted. Wagniss, Gefahr). In
generale, l’aspetto negativo della possibilità, il poter non essere. La nozione
ricorre frequentemente nelle filosofie in cui il riconoscimento del possibile
come tale trova posto: come in quella di Platone e degli esistenzialisti
contemporanei. Aristotele considerava il R. come «l'avvicinarsi di ciò che è
terribile » (Rer., II, 5, 1382 a 33). Platone considerava il R. come inerente
all'accettazione di certe ipotesi o credenze e lo considerava « bello » (Fed.,
114 d). Nell’esistenzialismo il R. è considerato inerente alla scelta che l'io
fa di se stesso, e ad ogni decisione esistenziale (cfr. Jaspers, Phil., II,
pagina 180, 403, ecc.) L’accettazione del R. implicito in questa scelta è uno
dei punti cardini dell’esistenzialismo contemporaneo: «La pretesa implicita
nella decisione è fondata su di una indeterminazione effettiva cioè sulla
possibilità che le cose si svolgano diversamente da ciò che io decido; ma è
anche fondata sull’assunzione, da parte di me che decido, di questo R. e sulla
considerazione di tutte le possibili garanzie che posso conseguire +
(ABBAGNANO, /ntroduzione all’esistenzialismo, 4* ediz., 1957, I, 3).
RISENTIMENTO (ingl. Resentment; francese Ressentiment; ted. Ressentiment).
L’odio impotente contro ciò che non si può essere o non si può avere. La
nozione è stata per la prima volta introdotta da Nietzsche nella Genealogia
della morale (1887): « La rivolta degli schiavi nella morale contemporanea,
dice Nietzsche, comincia quando il R. stesso diviene creatore e genera valori;
il R. di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella dell’azione, è negata
e che perciò non trovano compenso che in una vendetta immaginaria » (Genealogie
der Moral, I, $ 10). La morale cristiana è, secondo Nietzsche, frutto del R. in
questo senso: è una manifestazione dell’odio contro i valori propri della casta
superiore aristocratica, inaccessibili agli individui inferiori. Un’altra
manifestazione del R. è, secondo Nietzsche, la rabbia segreta dei filosofi
contro la vita per cui la filosofia è stata finora « la scuola della calunnia
»: la calunnia s'intende del mondo reale o sensibile al quale i filosofi hanno
cercato di sostituire il mondo ideale della metafisica e della morale (Wille
zur Mackht, ediz. 1901, $ 259, 287). A sua volta Scheler ha insistito sulla
azione del R. nel campo morale, pur negando che esso possa applicarsi alla concezione
cristiana cui Nietzsche si riferiva. Non l’amore cristiano, ma l’umanitarismo e
l'altruismo moderni sono, secondo Scheler, un prodotto del risentimento. Il
concetto di uguaglianza fra gli uomini, l’affermazione del soggettivismo dei
valori e la subordinazione di tutti i valori a quelli di utilità sono, secondo
Scheler altri tre prodotti del R. nella vita moderna (Uber Ressentiment, 1912;
trad. franc., 1958) (cfr. R. K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 2%
ediz., 1957, pag. 155 sgg.). RISERVA (lat. Reservatio; ingl. Reservation;
franc. Restriction; ted. Reservation). Uno dei punti tipici della casistica
cattolica del xvi secolo e del probabilismo o lassismo: la tesi che una
deliberata menzogna non impegna chi la pronunzia e non è peccato. Nella IX
delle sue Lettere provinciali (1656) B. Pascal faceva una critica famosa di
questa tesi. RISPETTO (gr. alc; lat. Respectus; inglese Respect; franc.
Respect; ted. Achtung). Il riconosci» mento della dignità propria o altrui e il
comportamento fondato su questo riconoscimento. Democrito per primo ha fatto
del R. il principio dell’etica: « Non devi aver R. per gli altri uomini più che
per te stesso nè agir male quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo
sappiano; ma devi avere per te stesso il massimo R. e imporre alla tua anima
questa legge: non fare ciò che non si deve fare » (Fr., 264, Diels). Nel
discorso con cui Protagora espone, nel dialogo omonimo di Platone, l’origine
della società umana è detto che «Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si
estinguesse, mandò Ermes a portare fra gli uomini il R. reciproco e la
giustizia affinchè fossero princìpi ordinatori delle città e creassero fra i
cittadini vincoli di benevolenza » (Prot., 322 c). Il R. reciproco e la
giustizia, sono, così intesi, i due ingredienti fondamentali dell’« arte
politica» cioè della tecnica del vivere insieme. Aristotele aveva invece
incluso il R. fra le emozioni, escludendolo dalle virtù (Ef. Nic., II, 7, 1108
a 32), e lo aveva contrapposto al timore (/bid., 10, 9, 1179b 11). E alla sfera
delle emozioni lo riduce anche Kant considerandolo tuttavia come un sentimento
sui generis, anzi come il solo sentimento morale e non patologico. Il
sentimento del R. «è prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al
giudizio delle azioni, nè a fondare la legge morale oggettiva ma semplicemente
come movente a fare in sè di questa legge la massima ». Il R. si riferisce
sempre alle persone mai alle cose; ed è proprio di un essere razionale finito
perchè suppone l’azione negativa della ragione sulla sensibilità, quindi la
sensibilità. Perciò «a un essere supremo oppure a un essere libero da ogni
sensibilità, al quale perciò la sensibilità non può essere un ostacolo per la
ragion pratica, non può essere attribuito il R. alla legge» (Crir. R. Prat., I,
I, cap. II). La nozione di R. è stata, anche fuori della filosofia, fortemente
influenzata da queste osservazioni di Kant. Per R. comunemente s’intende
l'impegno a riconoscere negli altri uomini, o in se stesso, una dignità che si
è in obbligo di salvaguardare. RITMO (ingl. R&ythm; franc. Rythme; tedesco
Rhythmus). L’alternarsi di fenomeni opposti nello stesso processo. Questo è il
significato che il termine ha ricevuto nel positivismo il quale per la prima
volta ne ha fatto un uso specifico, estendendone il significato originario di
movimento regolarmente ricorrente. Spencer ha parlato così di una legge del R.
secondo la quale il massimo e il minimo, la caduta e l’elevazione, si alternano
nello sviluppo di tutti i fenomeni: legge che è uno dei princìpi fondamentali
dell’evoluzione (First Principles, II, cap. 10). Su questa stessa legge ha
insistito Ardigò (Op., II, pag. 227; V, pag. 232, ecc.). E più recentemente
Whitehead: « Nel modo del R., una serie di esperienze che formano una
determinata successione di contrasti raggiungibili nell’ambito di un metodo
preciso, è regolato in modo che la fine di un ciclo è lo stadio antecedente
adatto per l’inizio di un altro ciclo simile. Il ciclo è tale che il suo
proprio completamento produce le condizioni per la sua semplice ripetizione »
(The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., pag. 25; cfr. The Aims of Education,
1929, cap. II, III). RITO (ingl. Rite; franc. Rite;
ted. Ritus). Una tecnica magica o religiosa: cioè diretta o ad ottenere un
controllo delle forze naturali che le tecniche razionali non possono offrire o
ad ottenere che sia mantenuta o conservata per l’uomo una certa garanzia di
salvezza nei confronti di queste forze. Il concetto del R. come «pratica
relativa alle cose sacre » è stato chiarito da Durkheim (Formes élémentaires de
la vie religieuse, 1912, passim) (cfr. T. Parsons, 7he Structure of Social
Action, 23 ediz., 1949, pag. 420 sgg.; 673 sgg., ecc.; cfr. RELIGIONE). RITORNO
(gr. èriorpoph; lat. Conversio; inglese Return; franc. Retour; ted. Riickgang).
1. Nel neoplatonismo antico, il movimento per cui l’anima ripercorre a ritroso
il processo dell’emanazione, ricongiungendosi, mediante la contemplazione, alla
sua origine: Bene, Causa, Dio, Unità. Diceva Plotino: «La purificazione è
necessaria all’unione: l’anima si unisce al Bene ritornando verso di esso. Ma
dunque la conversione segue alla purificazione? Proprio così, il R. accade dopo
la purificazione. Il R. è dunque la virtù dell’anima? Sì, è la virtù che
risulta e deriva all’anima dal ritorno. E che cosa è il R.? È la contemplazione
e l'impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso
modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili » (Enn., I, 2, 4).
Proclo generalizzava il concetto del R. attribuendolo a tutte le manifestazioni
dell’essere, delle quali ognuna effettuerebbe il R. a suo modo. «Ogni essere
compie il suo R. o soltanto rispetto alla sostanza o anche rispetto alla vita o
alla conoscenza: giacchè o ha acquistato dalla Causa soltanto l’essere o ha
avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conoscitiva. In quanto solo è,
effettua un R. alla Sostanza; in quanto vive, ritorna alla Vita e in quanto
conosce, alla Conoscenza. Difatti allo stesso modo in cui è proceduto dalla
Causa prima, così vi ritorna; e le misure del R. sono determinate dalle misure
della processione (Ist. Teol., 39). 2. Il Rinascimento ricollegandosi a questa
concezione generalizzata di Proclo considerò il R. ai principi come l’unica via
per effettuare un rinnovamento radicale della vita singola e associata
dell’uomo. Pico della Mirandola univa il vecchio concetto neoplatonico del R.
ai princìpi con quello nuovo di via del rinnovamento (De Ente et uno, VII,
Proem.). Machiavelli considerava la « riduzione ai princìpi » come il solo modo
in cui le comunità umane potessero rinnovarsi e sfuggire alla decadenza e alla
rovina: in quanto, egli diceva, tutti i princìpi hanno in sè qualche bontà
dalla quale le cose possono riprendere la loro vitalità e la loro forza
primitiva (Discorsi, III, 1). E Campanella vedeva la via del rinnovamento
religioso nello stesso principio che egli riteneva espresso dal salmo XXII:
Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, le cui
prime due parole egli poneva come titolo dello scritto con cui annunciava il
rinnovamento religioso (Quod reminiscentur, 1615). D'altronde la stessa Riforma
protestante obbediva all'esigenza di ritornare ai princìpi, rifacendosi
direttamente alla fonte primitiva della religiosità cristiana cioè alla Bibbia;
e dall’altro lato la Controriforma intese ricondurre la Chiesa alla forza
espansionistica che essa possedeva nel periodo delle sue origini. Un’altra
forma in cui si presentò lo stesso principio è quella del R. alla natura: la
natura essendo considerata il più delle volte come principio o l’origine degli
esseri. In questa forma il R. ai princìpi è un’esigenza frequente nel pensiero
dei secoli xv e xvi. RITSCHLIANISMO (ingl. Ritschlianism; francese
Ritschlianisme; ted. Ritschlianismus). Una corrente del cristianesimo
protestante del xrx secolo che fa capo ad Alberto Ritschl (1822-89), secondo la
quale la religione si fonda esclusivamente sul sentimento e la rivelazione
interiore: rivelazione che si concreta specialmente nei giudizi di valore, che
sono indipendenti dai fatti e sollevano l’uomo a una sfera superiore a quella
della sua limitazione empirica. La comunità dei fedeli, mentre rafforza la
rivelazione del sentimento interno, ne attua le esigenze; il regno di Dio si
realizza per l'appunto in essa (cfr. K. BARTH, Die protestantische Theologie in
19. Jahrhundert, 1947). RIVELAZIONE (ingl. Revelation; franc. Révélation; ted.
Offenbarung). La manifestazione della verità o della realtà suprema agli
uomini. La R. è stata intesa in due modi: 1° come R. storica; 2° come R.
naturale. 1° La R. storica è quella che ogni religione positiva assume a suo
fondamento. Essa consiste nella illuminazione di cui sono stati gratificati uno
o più membri della comunità che hanno avuto come compito quello di incamminare la
comunità stessa sulla via della salvezza. La R. in questo senso è un fatto
storico, cui si attribuisce l’origine della tradizione religiosa. 2° La R.
naturale è la manifestazione di Dio nella natura e nell’uomo. Talvolta questa
formaR. viene ammessa insieme alla prima, talaltra viene negata o subordinata
alla prima. Soltanto il concetto di R. naturale ha valore filosofico, l’altro
essendo specificatamente religioso. Tuttavia il concetto della realtà naturale
ed umana come manifestazione di un Principio soprannaturale o divino è stato
attinto dalla filosofia alla stessa religione ed è proprio delle filosofie che
hanno carattere o finalità religiosa. Nell’antichità, quel concetto fu proprio
dei neoplatonici per i quali il mondo, come prodotto dell'emanazione divina,
rivela, almeno parzialmente © imperfettamente, la stessa natura divina che lo
produce. Da questo punto di vista Scoto Eriugena chiamava reofania (v.) il
processo che da Dio discende all’uomo e dall'uomo ritorna a Dio; e chiamava
teofania anche tutta l’opera della creazione in quanto manifesta la sostanza
divina che in essa e attraverso di essa diventa visibile (De divis. nat., I,
10; V, 23). Questo concetto è ritornato frequentemente nella storia della
filosofia; ma la sua massima ricorrenza è stata la filosofia del romanticismo
(v.). Diceva Fichte, ad esempio: «Il sapere è l’esistenza, la manifestazione,
la perfetta immagine della forza divina » (Grundziige der gegenwdrtigen
Zeitalters, 1806, IX). Questo pensiero domina anche le filosofie di Schelling e
Hegel. Bisogna tuttavia osservare che in esse la R. non è soltanto
manifestazione: è anche, come diceva Fichte, esistenza (cioè realizzazione) di
Dio. È questo il tratto specifico che il concetto di R. assume nel romanticismo
e che conserva in forma più o meno decisa in quelle filosofie della R. che
costituiscono il secondo romanticismo e che hanno come insegna la difesa della
tradizione. Le filosofie di Maine De Biran, di Rosmini, di Gioberti, di Mazzini
muovono tutte dal principio che la coscienza sia la R. di Dio. Maine De Biran
non faceva che esprimere a questo proposito una convinzione assai comune
asserendo che la R. non è soltanto quella esterna della tradizione orale o
scritta ma anche quella interna o della coscienza giacchè l'una e l’altra vengono
direttamente da Dio ((Euvres, ed. Naville, III, pag. 96). Senza la tonalità
religiosa che essa aveva nel secolo scorso, il concetto di R. è stato assunto a
fondamento della filosofia di Heidegger. La R. dell’essere non è tuttavia mai
perfetta ed esauriente, secondo Heidegger, perchè l’essere si nasconde nello
stesso tempo che si rivela: « L’essere sottrae se stesso mentre si rivela
nell’ente. Così l’essere, illuminando l’ente, nel contempo lo svia e lo avvia
verso l’errore » (Holzwege, pag. 310). La R. dell’essere accade, secondo
Heidegger, attraverso il linguaggio: il quale per Heidegger non è strumento
umano ma l’essere stesso nella sua R. (Brief tiber den Humanismus, pag. 81).
D'altrondla concezione del linguaggio come R. non è oggi soltanto di Heidegger
(v. LinguaGGio): il che è un’altra prova della persistenza in filosofia del
concetto teologico di rivelazione. RIVOLUZIONE (ingl. Revolution; franc.
Révolution; ted. Revolution). La violenta e rapida distruzione di un regime
politico; oppure il mutamento radicale di una qualsiasi situazione culturale.
In questo secondo senso si parla di « R. filosofica » o « artistica » o «
letteraria » o «del costume ?, ecc. o anche di « R. copernicana». Ma è chiaro
che in questo senso l’uso della parola è diretto soltanto a sottolineare
l’importanza del mutamento intervenuto e non ha un significato preciso. L'unico
significato preciso del termine è quello politico, che esso ha incominciato ad
acquistare nel sec. xvmi. Le vere e proprie R. sono state quella inglese, quella
americana, quella francese e quella russa; ma talvolta si chiamano R. anche le
trasformazioni politiche che hanno avuto minore importanza nella storia
generale del mondo ma segnano date fondamentali nella storia di un paese
determinato. ROMANTICISMO (ingl. Romanticism; francese Romantisme; ted.
Romanticismus). Si indica con questo nome il movimento filosofico letterario e
artistico che si iniziò negli ultimi anni del sec. xvm, ebbe la sua massima
fioritura nei primi decenni del sec. xIx e costituì l’impronta propria di
questo secolo. Il significato corrente del termine « romantico » che significa
« sentimentale » deriva da uno degli aspetti più appariscenti del movimento
romantico cioè dal riconoscimento del valore da esso attribuito al sentimento:
una categoria spirituale che l’antichità classica aveva ignorato o disprezzato,
che il ’700 illuministico aveva riconosciuto nella sua forza e che nel R.
acquista un valore predominante. Questo valore predominante è la principale
eredità che il R. riceve dal movimento dello Sturm und Drang (v.), il quale
costituisce il tentativo di superare i limiti che l’illuminismo aveva
riconosciuti propri della ragione umana con l’appello all’esperienza mistica e
alla fede. Ciò che la ragione non può dare, può darlo invece, secondo i
filosofi dello Sturm und Drang, Haman, Herder, Jacobi, la fede intesa pertanto
come fatto di sentimento o di esperienza immediata. Ma, proprio per questo, la
ragione continuava ad essere per i seguaci dello Sturm und Drang (tra i quali
ci furono Goethe e Schiller nella loro giovinezza) ciò che era per
l’Illuminismo: una forza umana finita, capace bensì di trasformare gradualmente
il mondo, ma non assoluta nè onnipotente, e perciò sempre più o meno in
contrasto con il mondo stesso ed in lotta con la realtà che essa è destinata a
trasformare. Dallo Sturm und Drang si passa al R. solo quando questo concetto
della ragione viene abbandonato e per ragione comincia ad intendersi una forza
infinita (cioè onnipotente) che abita il mondo e lo domina e perciò costituisce
la sostanza stessa del mondo. Il principio dell’autocoscienza (v.) cioè
dell’infinità della coscienza che è tutto e fa tutto nel mondo, è il principio
fondamentale del R. e da esso derivano i tratti salienti del movimento. Fichte
identificò per la prima volta la ragione con l’Io infinito o Autocoscienza
assoluta e ne fece la forza dalla quale l’intero mondo è prodotto. L’infinità
in questo senso era un'infinità di coscienza o di potenza, non un'infinità di
estensione o di durata; e trovava il suo modello in concetti della filosofia
neoplatonica e specialmente in Plotino. Hegel contrapponeva a questo proposito
al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito cioè dalla
realtà o dal mondo e si contrappone a esso e cerca di trasformarlo o di
superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con il
mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un Principio
spirituale creativo: quello che Fichte chiamò /o, Schelling Assoluto, e Hegel
Idea. Ma l’infinito o meglio l’infinità di coscienza può essere intesa in due
modi. In primo luogo, come attività razionale che si muove da una
determinazione all’altra con necessità rigorosa sì che ogni determinazione può
essere dedotta dall’altra assolutamente e a priori. È questo il concetto che
dell’infinità di coscienza ebbero Fichte, Schelling ed Hegel (il secondo
tuttavia solo in una prima fase della sua filosofia). In secondo luogo,
l’infinità di coscienza può essere intesa come un'attività libera, amorfa cioè
priva di determinazioni rigorose e tale che si pone continuamente al di là di
ogni sua determinazione: e in questo senso l’infinità di coscienza è
sentimento. ll sentimento è l’infinito nella forma dell’indefinito e in questa
forma riconobbero l’infinità di coscienza Schleiermacher e la cosiddetta scuola
romantica (F. Schlegel, Novalis, Tieck, ecc.). Il R. letterario si iniziava
infatti con l’opera di Federico Schlegel (1772-1829) che pubblicava, dal 1798
al 1800, in collaborazione con il fratello Augusto Guglielmo, il periodico
Arhenaeum che fu il primo organo della scuola romantica. Federico Schlegel
esplicitamente additava in Fichte l’iniziatore del movimento romantico cioè lo
scopritore del concetto romantico dell’infinito. Ma interpretava l’infinito
come al di fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento.
Lo stesso concetto dell’infinito ricorre nel poeta e letterato Ludovico Tieck e
in Novalis: il quale sosteneva un idealismo magico, secondo cui il mondo non è
che una grande opera di poesia. A questa stessa corrente appartiene il teologo
Federico SchleierROMANTICISMO macher (1768-1834) che definì la religione come
«il sentimento dell’infinito ». Su questa interpretazione del principio
infinito, si fonda la supremazia che talvolta il R. attribuisce all’arte. Se
infatti l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell’arte che nella
filosofia: giacchè la filosofia è razionalità e l’arte invece appare
airomantici come « espressione del sentimento +. Schelling, che inclinava verso
questa interpretazione ritenne appunto che la migliore manifestazione
dell’Assoluto si avesse nell’arte; che il mondo fosse una specie di poema o di
opera d’arte il cui autore è l'Assoluto; e che l’esperienza artistica fosse per
l’uomo il solo mezzo efficace per avvicinarsi all’Assoluto cioè al modo in cui
l'Assoluto ha dato origine al mondo. Quando il movimento romantico si diffonde
al di fuori della Germania, è proprio quest’aspetto del R. che viene assunto
come bandiera. Il R. di Madame de Staél e di Chateaubriand consiste appunto
prevalentemente nell’esaltazione dei valori del sentimento; e in questa stessa
forma il R. trovò la sua espressione in Italia. Queste due interpretazioni
dell’autocoscienza furono spesso in contrasto; ed Hegel specialmente condusse
la polemica contro il primato del sentimento. Ma è proprio il loro contrasto e
la loro polemica che costituisce il tratto fondamentale del movimento romantico
nel suo complesso. Tuttavia appartiene soltanto alla scuola romantica del
sentimento uno dei tratti più appariscenti del R., l’îronia: che è
l’impossibilità, per Ja coscienza infinita, di prender sul serio e considerare
come cosa salda i suoi prodotti (la natura, l’arte, l’io stesso) nei quali non
può vedere altro che le proprie manifestazioni provvisorie. Sono invece
caratteri comuni e fondamentali di tutte le manifestazioni del R. l’ottimismo,
il provvidenzialismo, il tradizionalismo e il titanismo. L’oftimismo è la
convinzione che la realtà è tutto ciò che dev'essere ed è, ad ogni momento,
razionalità e perfezione. È per questo ottimismo che il R. tende a esaltare il
dolore, l’infelicità e il male. L'’infinità dello spirito infatti si manifesta
egualmente in questi aspetti della realtà ma li supera e li concilia nella sua
perfezione. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua
perfetta pacificazione razionale. Schopenhauer ce lo presenta nell’infelicità
dei suoi contrasti irrazionali e pur tuttavia soddisfatto di riconoscersi in
questo contrasto. La volontà irrazionale di Schopenhauer è un principio non
meno ottimistico della ragione assoluta di Hegel. Con l’ottimismo metafisico
del R. si connette il suo provvidenzialismo storico. La storia è un processo
necessario nel quale la ragione infinitamanifesta o realizza se stessa, sicchè
in essa non c’è nulla di irrazionale o d’inutile. Il R. si pone, su questo
punto, nel più radicale contrasto con l’illuminismo. L’illuminismo contrappone
tradizione e storia: alla forza della tradizione che tende a conservare e a
perpetuare pregiudizi, ignoranze, violenze e frodi, l’illuminismo oppone la
storia come riconoscimento di queste cose per quelle che sono e sforzo
razionale di liberazione da esse. Per il R. invece tutto ciò che è tramandato è
manifestazione della Ragione infinita: è verità e perfezione. Pertanto lo
spirito illuministico è critico e rivoluzionario; lo spirito romantico è
esaltativo e conservatore. Il concetto della storia come piano provvidenziale
del mondo domina tutta la filosofia dell’800; e la stessa filosofia del ’900
non arriva a liberarsene se non attraverso amare esperienze storiche e
culturali. È in questa concezione della storia che si manifesta meglio
l’affinità tra l’idealismo e positivismo nel senso comune del romanticismo.
Comte ha lo stesso concetto che della storia avevano Fichte e Schelling e che
più tardi ebbero Croce e gli epigoni novecenteschi del romanticismo. La storia,
come manifestazione di un principio infinito (Io, Autocoscienza, Ragione,
Spirito, Umanità o comunque si chiami) è razionalità intera e perfetta e non conosce
nè l’imperfezione nè il male. Il colmo di questo concetto della storia si ha in
Hegel (ripetuto da Croce): la storia non è progresso all’infinito, giacchè, se
fosse tale, ogni suo momento sarebbe meno perfetto dell’altro; essa è infinita
perfezione di ogni suo momento. La contrapposizione hegeliana del «vero
infinito » al «cattivo infinito» non significa altro. Ovviamente, in un simile
concetto della storia, non c’è posto per l'individuo e le sue libertà, per le
quali l’illuminismo si era battuto. C'è posto solo per gli « eroi » o
«individui della storia cosmica» che sono gli strumenti di cui la provvidenza
storica si avvale per realizzare astutamente i suoi fini. Un aspetto importante
del provvidenzialismo romantico è il rradizionalismo: l'esaltazione della
tradizione e delle istituzioni in cui essa si incarna è difatti uno degli
aspetti tipici del movimento romantico. A questo atteggiamento fu dovuta la
rivalutazione del Medio Evo che è caratteristica del romanticismo. Il Medio Evo
era apparso all’illuminismo (come già all’umanesimo) un’epoca di decadenza e di
barbarie: cioè come l’epoca in cui fossero andati smarriti i valori umani e
razionali che l’antichità classica aveva creati. Per il R. non esistono epoche
di decadenza o di barbarie giacchè tutta la storia è razionalità e perfezione.
Nel Medio Evo anzi, secondo il R., si possono e si debbono scorgere le origini
del mondo moderno meglio che nel mondo classico: sicchè il ritorno al Medio
Evocostituisce una delle parole d'ordine dell’atteggiamento romantico. In virtù
dello stesso atteggiamento il R. tedesco cominciò ad esaltare le tradizioni
originarie della nazione tedesca; e nacque la prima forma del nazionalismo che
doveva diffondersi e diventare uno dei tratti salienti della cultura europea
nel sec. xx. Il concetto di nazione è difatti composto di elementi
tradizionali: la razza, la lingua, il costume, la religione: elementi che non
possono essere negati o rinnegati senza tradimento perchè costituiscono ciò che
la nazione è stata già da sempre. Il concetto settecentesco di popolo era
invece definito dalla volontà e degli interessi comuni degli individui.
Tradizionalismo e nazionalismo affondano le loro radici nel comune terreno del
provvidenzialismo romantico. Infine, uno degli aspetti fondamentali del R., e
tra i più appariscenti, è il rifanismo. Infatti il culto e l’esaltazione
dell’infinito hanno, come loro controparte negativa, l’insofferenza o
l’insoddisfazione del finito. E in questa insofferenza (o insoddisfazione) si
radica l’atteggiamento di ribellione verso tutto ciò che appare o è un limite o
una regola e la sfida incessante a tutto ciò che, per la sua finitudine, appare
impari o inadeguato nei confronti dell’infinito. Prometeo è assunto come il
simbolo di questo titanismo, con una interpretazione che è molto distante dallo
spirito dell’antico mito greco. Per questo Prometeo era colui che aveva
infranto, per rendere possibile la sopravvivenza del genere umano, la legge del
fato e che giustamente subiva le conseguenze di questa infrazione. Per il R.,
invece, è il simbolo della sfida e della ribellione al finito: di una sfida e
di una ribellione, cioè, che non traggono la loro ragione da ciò cui
s'oppongono ma solo dal fatto che ciò a cui s’oppongono non è l'infinito.
L'atteggiamento del titanismo non conduce alla critica delle situazioni di
fatto e allo sforzo di trasformarle, perchè non ritiene che una situazione di
fatto sia o possa essere superiore o preferibile all’altra; ma si esaurisce in
una protesta universale e generica e non può impegnarsi in alcuna decisione
concreta. Il culto e l’esaltazione dell’infinito, il non contentarsi di meno
dell’infinità, costituiscono i tratti salienti dello spirito romantico. Come
già si è detto, lo stesso positivismo rientra in questo spirito. Esso estende
il concetto di progresso a tutta la storia del mondo: questo significa,
infatti, « evoluzione ». Esso fa della storia umana un progresso necessario e
infallibile. Infine esso fa della scienza, che è la manifestazione umana da
esso prediletta, l’infinito stesso della verità e la elegge ad unica guida
degli uomini in tutti i campi. Gli aspetti che il R. rivestì nella politica,
nell’arte e nel costume sono strettamente collegati con i caratteri ora
chiariti. Nella politica, il R. è difesa ed esaltazione delle istituzioni umane
fondamentali, come son quelle nelle quali s’incarna il Principio infinito: lo
stato e la chiesa, con tutto ciò che implicano. Nell'arte, esso cerca la
realizzazione dell’infinito in forme grandiose e drammatiche in cui i contrasti
sono portati all’estremo per poi conciliarsi e pacificarsi in forma altrettanto
estrema e definitiva. Nel costume, l’amore romantico va in cerca dell'unità
assoluta fra gli amanti, della loro identificazione nell’infinito; e a questa
unità o identificazione sacrifica il senso autentico del rapporto amoroso e la
sua possibilità di costituire la base di una vita comune (v. AMORE).
ROSMINIANESIMO. S’intendono con questo termine i tratti salienti della
filosofia di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e specialmente: 1° il
tradizionalismo cioè la preoccupazione di difendere i valori tradizionali e di
giustificare la tradizione come prodotto o manifestazione di Dio; 2°
l’ontologismo cioè la tesi che lo spirito umano fruisce di una immediata e
certissima, per quanto parziale, conoscenza dell’essere e che tale conoscenza è
la base di tutto il sapere (v. OnToLOGIA); 3° lo scolasticismo cioè la
concezione della filosofia come strumento diretto a giustificare le verità
della religione. ROTTURA (ted. Zerrissenheit). Termine introdotto dalle
filosofie esistenzialistiche. Per Jaspers, la R. del mondo si ha quando la
ricerca diretta a trovare una totalità assoluta e onnicomprensiva mette capo a
una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali è relativa a un certo punto
di vista e nessuna delle quali perciò può valere come un mondo (Phi/., I, pag.
64 sgg.). Secondo Heidegger, la R. del mondo si ha con la scienza e con la
tecnica che organizzano il distacco dell'uomo dalla natura (Erlduterungen zu
Hòlderlin, pag. 271 sgg.).SABELLIANISMO (ingl. Sabellianism; francese
Sabellianisme; ted. Sabellianismus). La dottrina trinitaria sostenuta da
Sabellio nella prima metà del n secolo d. C.: dottrina che insistendo
sull’unità della Sostanza divina riduceva le Persone divine a tre modi o
manifestazioni dell’unica Sostanza. La dottrina fu chiamata perciò anche
modalismo (v.). SACERDOTALISMO (ingl. Sacerdotalism). Termine adoperato
soprattutto da scrittori anglosassoni per designare la tendenza ad accordare,
nella religione, la massima importanza all’aspetto ecclesiastico e sacramentale
a scapito di quello interiore o spirituale. SACRIFICIO (ingl. Sacrifice; franc.
Sacrifice; ted. Opfer). La distruzione di un bene o la rinuncia ad esso, in
onore della divinità. Il S. è una delle più diffuse tecniche religiose. Il suo
scopo è o la purificazione cioè la liberazione da qualche colpa o peccato: nel
qual caso il S. appare come disinteressato e cioè senza un immediato fine
utilitario; 0 la consacrazione che ha sempre un fine più o meno utilitario consistendo
nel persuadere la divinità a concedere la sua garanzia alla cosa o alla persona
che si consacra. Sia la purificazione che la consacrazione banno il più delle
volte carattere simbolico: nel senso che il dono sacrificato non ha soltanto il
valore economico che la comunità gli attribuisce ma anche una certa relazione
simbolica con lo scopo purificatorio o consacrativo della cerimonia
sacrificale. Questi tratti sono riconoscibili nelle tecniche sacrificali di
tutte le religioni, quali che sia il loro grado di sviluppo o di raffinamento
intellettuale (cfr. S. REINACH, Cultes, mythes et religions, 1905; E. DURKHEIM,
Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; A. Loisy, Essai historique
sur le sacrifice, 1920; P. RADIN, Primitive Religion, 1937). SACRO (gr. tepéc; lat. Sacer;
ingl. Sacred; francese Sacré; ted. Heilig). L’oggetto religioso in generale: cioè tutto ciò che è
l’oggetto di una garanzia soprannaturale o che concerne tale garanzia. Poichè
questa garanzia può essere talvolta negativa o proibitiva, il S. ha il duplice
carattere di ciò che è santo e di ciò che è sacrilego cioè di ciò che è S.
perchè prescritto o esaltato dalla garanzia divina o di ciò che è S. perchè
proibito o condannato dalla stessa garanzia (cfr. DURKHEIM, Les formes
élémentaires de la vie religieuse, 1912). R. Otto ha chiamato questi due aspetti
rispettivamente quelli del fascinoso e del tremendo (Das Heilige, 1917).
Heidegger, interpretando una poesia di Hélderlin che identifica la natura con
il S., ha considerato il S. stesso come la radice del destino degli uomini e
degli dèi. «Il S., egli ha detto, decide inizialmente intorno agli uomini e
agli dèi, se siano, chi siano, come siano e quando siano » (Er/auterungen zu
Holderlin, 1943, pag. 73-74). Heidegger afferma pure che «il S. non è S. perchè
divino, ma il divino è divino perchè è S.» (/bid., pag. 58). SAGACIA (gr.
edovveola; lat. Sagacitas; inglese Sagacity; fran. Sagacité; ted. Sagazitàt).
La perspicacia nell’indagine. Aristotele identificò la S. con l’apprendere (Et.
Nic., VI, 10, 1143 a 17). E Kant la definì come «il dono naturale che consiste
nel giudicare in precedenza (iudicium praevium) dove si può trovare la verità e
di utilizzare le più piccole circostanze per scoprirla » (Antr., I, $ 56).
SAGGEZZA (gr. ppémot; lat. Sapientia, Prudentia; ingl. Wisdom; franc. Sagesse;
ted. Weisheit). In generale, la disciplina razionale delle faccende umane: cioè
il comportamento razionale in ogni campo o la virtù che determina ciò che è
bene o male per l’uomo. Il concetto di S. fa tradizionalmente riferimento alla
sfera propria delle attività umane ed esprime la condotta razionale nell’ambito
di questa sfera, cioè la possibilità di dirigerla nel modo migliore. La S. non
è la conoscenza di cose alte e sublimi, remote dalla comune umanità, come la
sapienza (v.): è la conoscenza delle faccende umane e del miglior modo di
condurle. Il primato accordato alla S. o alla sapienza denuncia
l’interpretazione fondamentale che si dà della filosofia: il primato accordato
alla sapienza è proprio del concetto della filosofia come contemplazione pura;
il primato accordato alla S. esprime il concetto della filosofia come guida
dell’uomo nel mondo (v. FILOSOFIA, JI). La netta distinzione tra S. e sapienza
è stata fatta da Aristotele. Platone non distingue neppure tra i due
termini.|Egli chiama sapienza (vogla) la scienza che presiede all’azione
virtuosa (Rep. IV, 443 e; cfr. 428b) che è lo stesso di saggezza! E della S.
dice che «la più alta e di gran lunga la più bella è quella che si occupa degli
ordinamenti politici e domestici e a cui si dà il nome di prudenza e di giustizia
» (Conv., 209 a). Un sapere fine a se stesso è estraneo all’impostazione della
sua filosofia. Questo sapere viene invece esaltato da Aristotele come la forma
più alta e divina del sapere stesso (v. SAPIENZA): di fronte ad esso la S. si
abbassa a cosa meramente umana, che perciò ha minor pregio. Da questo punto di
vista, essa è definita come «l’abito pratico razionale che concerne ciò che è
bene o male per l’uomo » (Er. Nic., VI, 5, 1140 b 4). Ma «l’uomo non è l’essere
migliore del mondo » (Zbid., VI, 7, 1141 a 21). È un essere mutevole; e la S.
che lo concerne è mutevole anch'essa, mentre la sapienza è sempre la stessa
(Ibid., 1141 a 20 sgg.). Aristotele pertanto pone al di sopra di tutto la
sapienza il cui oggetto è ciò che non può mutare nè essere diverso da com'è: il
necessario. Questa distinzione e contrapposizione di Aristotele si sono
mantenute nei secoli; e il modo di intendere la sapienza o S. (che in alcune
lingue sono indicate dalla stessa parola) rivela l’orientamento generale di una
determinata filosofia verso la contemplazione o verso l’azione. La filosofia
post-aristotelica fece prevalere l’ideale della saggezza. Epicuro diceva che la
S. «da cui nascon tutte le virtù è anche più preziosa della filosofia » (Lett.
a Menec., 132). Gli Stoici identificavano con la S. la virtù intera, dalla
quale tutte le altre dipendono (Diog. L., VII, 125-26). Il neoplatonismo
dall’altro lato, tornava all’esaltazione della sapienza (PLOTINO, Enn., V, 8,
4). Mentre S. Tommaso riproduceva la distinzione aristotelica chiamando la S.
prudentia e considerandola «la consigliera intorno alle cose che concernono
l’intera vita dell’uomo e anche l’ultimo fine della vita umana» (S. 7à., II, 1,
q. 57, a. 4). Il mondo moderno si riattacca di preferenza all’ideale pratico della
S., che ritorna in Cartesio (Princ. Phil., pref.) ed in Leibniz. Quest’ultimo
unisce nella sua definizione l’aspetto teoretico e l'aspetto pratico: «la S. è
la perfetta conoscenza dei princìpi di tutte le scienze e dell’arte di
applicarli» (De /a sagesse, Op.,ed. Erdmann, pag. 673): ma l’inclusione
dell’aspetto pratico significa il rifiuto dell’ideale della sapienza. Allo
stesso ambito appartiene la definizione di Kant: «La S. consiste nell’accordo
della volontà di un essere col suo scopo finale » (Mer. der Sitten, II, $ 45).
Hegel accentuava il carattere umano e mondano della S., parlando di una S.
mondana (Weltweisheit) che il Rinascimento avrebbe contrapposto, come ragione
umana, alla ragione divina cioè alla religione (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, I, pag. 92 sgg.). E Schopenhauer accentua ancora di più il carattere
mondano della S. intendendo per essa «l’arte di trascorrere la vita nel modo
più piacevole e felice possibile » (Aphorismen zur Lebensweisheit, Pref.). Ai
filosofi contemporanei la parola S., come ‘sapienza’, sembra troppo solenne
perchè essi si soffermino a chiarirne il concetto. La S. rimane tuttavia
legata, per loro come per gli antichi, alla sfera delle faccende umane e si può
dire costituita dalle tecniche vecchie o nuove di cui l’uomo dispone per la
migliore condotta della sua vita. SAGGIO (gr. copéc; lat. Sapiens; ingl. Sage; franc. Sage;
ted. Weise). La figura stereotipa del S. fu
delineata nella filosofia greca dell'età alessandrina da Epicurei, Stoici e
Scettici, ma soprattutto dagli Stoici, e rimase fissata nella tradizione con
certe caratteristiche fondamentali. Il carattere primo e fondamentale che
tutt’e tre le scuole attribuiscono al S. è la serenità o l’indifferenza alle
vicende o ai movimenti umani: serenità che esse chiamano con i nomi ararassia,
aponia, o aparia (v.). Gli altri caratteri sono i seguenti: 1° L’isolamento,
cioè la netta separazione del S. dagli altri mortali, con i quali non ha nulla
in comune. Gli Stoici portavano questa separazione all'estremo limite
ammettendo due specie di uomini, quelli che praticano la virtù e quelli che non
la praticano e ritennero che i primi sono S. tutti gli altri pazzi (StoBEO,
Ecl., II, 7, 11; 65, 12). 2° L’improgredibilità, per la quale chi non è S. è
stolto o pazzo e non può esserci un S. che sia più S. di un altro. « Chi è
immerso nell'acqua, dice Cicerone esponendo questa dottrina, se non è lontano
dalla superficie tanto da poter quasi affiorare, non può respirare più che se
fosse ancora sul fondo ...: allo stesso modo chi si è avanzato alquanto verso
l’abito della virtù non è soggetto all’infelicità meno di chi non si sia
avanzato affatto » (De Fin., III, 14, 48). 3° L’autarchia. Questo carattere è
stato già esaltato da Aristotele: «Il giusto ha ancora bisogno di persone che
egli possa trattare giustamente e con le quali essere giusto, similmente anche
l’uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi: il S.
invece può contemplare da sè solo, tanto più quanto più è S.; forse è meglio se
ha collaboratori, tuttavia egli è del tutto autosufficiente » (Er. Nic., X, 7,
1177a 30). Aristotele tuttavia si riferiva all’attività contemplativa, cui
limitava l’attività propria del S.; le scuole post-aristoteliane estendono il
carattere di auto-sufficienza del S. a tutte le manifestazioni della sua vita,
non limitata necessariamente alla contemplazione. 4° La rinuncia. Fu questo il
carattere del S. sul quale insistettero soprattutto gli Stoici latini,
Epitteto, Seneca e Marco Aurelio. La distinzione stabilita da Epitteto tra le
cose su cui l’uomo ha potere e che sono i suoi stessi stati d’animo e le cose
su cui non ha potere, che sono le cose esterne, fa sì che il S. deve
prescindere dalle cose esterne e riporre il bene e il male solo in quelle che
sono in suo potere (Manuale, 31). Questo implica la rinuncia del S. ad
occuparsi delle cose stesse e la sua accettazione della massima « sopporta e
astieniti» (A. GELLIO, Noct. Att., XVII, 19, 6). 5° La coscienza. Questo tratto
fu aggiunto alla figura del S. dal neoplatonismo che esaltò soprattutto in lui
la facoltà di guardare in sè stesso e di trarre tutto da sè. Dice Plotino: «Il
S. trae da se stesso ciò che egli manifesta agli altri: egli guarda solo a se
stesso: non solo tende a unificarsi e a isolarsi dalle cose esterne ma è
rivolto a se stesso e trova dentro di sè tutte le cose + (Enz., III, 8, 6; cfr.
I, 4, 4). Questo movimento per cui il S. guarda se stesso e trova tutto in se
stesso è la coscienza (v.); e da questo punto di vista solo nel S. la coscienza
si realizza e vive. SALTO (lat. Saltus; ingl. Leap; franc. Saut; ted. Sprung).
Termine adoperato da Kierkegaard per indicare il « passaggio qualitativo » cioè
il passaggio brusco e senza mediazione da una categoria all’altra o da una
forma di vita all’altra (per es., dalla vita etica alla vita religiosa) o in
genere da uno stato all’altro (per es., dall’innocenza al peccato, dal peccato
alla fede, ecc.). Kierkegaard contrappose questa nozione di S. alla nozione
hegeliana di mediazione (v.) e la illustrò ravvicinandola: 1° All’entimema (v.)
cioè al sillogismo contratto nel quale si omette una premessa e si passa
direttamente dalla promessa maggiore alla conclusione (« Tutti gli animali sono
mortali, perciò l’uomo è mortale +) (Diario, VIA, 33). La parola S. si trova a
questo proposito adoperata da Kant: « Un S. (saltus) nella deduzione o nella
prova è la connessione di una premessa con la conclusione, sicchè l’altra
premessa viene tralasciata » (Logik, 1800, $ 91). 2° All’analogia e
all’induzione: la prima delle quali stabilisce un rapporto tra cose
qualitativamente diverse, la seconda delle quali passa dal particolare
all’universale (Diario, V A, 74). 3° Alla dottrina hegeliana del passaggio dal
mutamento quantitativo a un mutamento qualitativo. Questa è la fonte autentica
del concetto kierkegaardiano. Diceva Hegel: « L'acqua, con il cambiare
temperatura, non diventa semplicemente più o meno calda, ma passa attraverso
gli stati solido, gassoso o liquido. Questi diversi stati non nascono a poco a
poco, ma il semplice processo graduale del mutamento di temperatura viene
interrotto da essi e il subentrare di un altro stato è un salto. Ogni nascita e
ogni morte, invece di essere un continuo a poco a poco, è anzi un troncarsi
dell’a poco a poco e un S. dal mutamento quantitativo nel mutamento qualitativo
» (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., pag. 418419).
Kierkegaard rimprovera a Hegel di aver confinato questo concetto nel dominio
della logica (Der Begriff Angst, I, $ 2; trad. ital., pag. 35 e nota). Jacobi
aveva adoperato l’espressione S. morrale (in italiano) per caratterizzare il
passaggio dalla fede alla conoscenza filosofica (Werke, IV, pag. xL sgg.);
mentre Kant adoperava la stessa espressione per indicare il passaggio dalla
ragione alla fede cieca (Religion, B 158). SALVEZZA (ingl. Salvation; franc.
Salut; tedesco Heil). La liberazione da un male mortale che minacci il corpo o
l’anima dell’uomo. La S. può essere intesa: 1° come liberazione da questo 0
quel male particolare che incomba sull’uomo nel mondo. In questo senso il
termine è inteso anche fuori della religione; 2° come liberazione dal mondo,
inteso nella sua totalità come un male; pertanto come interruzione definitiva
della catena delle nascite (buddismo); o come liberazione da ogni sofferenza o
dolore o punizione. Ed in questo senso il termine ha significato
specificatamente religioso (v. RELIGIONE). SAMSARA. V. Buppismo. SANKHYA. Uno
dei grandi sistemi di filosofia indiana secondo il quale esistono due sostanze
opposte ma entrambe eterne e infinite: le anime (purusa) che sono molteplici
semplici e inattive e la natura (prakrri) che è unica, complessa e dinamica. Il
sistema non ammette l’esistenza della divinità regolatrice del mondo. Ogni cosa
nasce dalla natura e ritorna ad essa con un movimento circolare che
continuamente si ripete (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957,
cap. V, e relativa bibliografia). 764 SANSIMONISMO (ingl. Saint-Simonism;
francese Saint-Simonisme; ted. Saint-Simonismus). La dottrina del Conte Claudio
Enrico di Saint-Simon (1760-1825) esposta in numerosi scritti dei quali i
principali sono /ntroduction aux travaux scientifigues du XIX° siècle, 1807;
L’industrie, 1816-18; Nouveaux christianisme, 1825, ecc. Saint-Simon è il vero
fondatore del positivismosociale cioè di quella dottrina che vuol porre la
scienza, e la filosofia fondata sulla scienza, a fondamento di una riorganizzazione
radicale della società umana. Nella nuova società il potere spirituale sarà
affidato agli scienziati e il potere temporale agli industriali. Nel Nuovo
cristianesimo Saint-Simon definì l’avvento della società tecnocratica come il
ritorno al cristianesimo primitivo. Il S. contribuì a formare la coscienza
dell'importanza sociale e spirituale delle conquiste della scienza e della
tecnica e incoraggiò potentemente lo sviluppo industriale: ferrovie, banche,
industrie, anche l’idea dei canali di Suez e di Panama furono dovuti a
sansimonisti (v. POSITIVISMO). SANTITÀ (gr. dowbmg; lat. Sanctitas; inglese
Holiness; franc. Sainteté; ted. Heiligkeit). Questo termine ha due significati
fondamentali: 1° un significato oggettivo per cui significa inviolabilità e designa
in generale un valore che va in ogni caso riconosciuto o salvaguardato; 2° un
significato soggettivo per cui designa il grado eccellente e superiore della
virtù o della religione come virtù. Nel primo senso si dice santo ciò che è
sancito o garantito da una legge umana o divina: per es., la santità delle
leggi o del giuramento, ecc. Nel secondo senso si dice santo l’essere che
realizza in sè la vita morale o religiosa nel suo grado più alto. Nel primo
senso Platone dice « assegnare rettamente a tutti ciò che è giusto ed è santo »
(Pol., 301 d); nel secondo senso egli nega che la S. consista nel «far cosa
gradita agli dèi» (Eut., 6 e) e identifica la S. col grado supremo della virtù
cioè con la giustizia (Rep., X, 615b; Leggi, II, 663 b, ecc.). Sempre in questo
secondo senso, S. Tommaso identificava la S. con la religione cioè con la virtù
più alta (S. 7A., II, 2, q. 81, a. 8); e Kant definiva la S. come «la
conformità completa della volontà alla legge morale ». In questo senso, secondo
Kant, la S. è « una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del
mondo sensibile in nessun momento della sua esistenza ». Perciò si può
ammettere soltanto come il limite di un progresso all’infinito verso la
perfezione morale (Crit. R. Prar., I, II, cap. II, $ 4). Dall'altro lato Kant
ammette pure la S. nel senso oggettivo, che definisce come inviolabilità. Così
egli dice che «la legge morale è santa (inviolabile) » (Zbid., $ 5), e che
«l’umanità deve essere santa per noi stessi nella nostra persona +» (/bid., $
5): nei quali casi ovviamente la nozione di S. è quella di un valore supremo,
che non si può disconoscere. Queste notazioni kantiane sono state largamente
ripetute nella filosofia moderna. SANZIONE (lat. Sanctio; ingl. Sanction;
francese Sanction; ted. Sanktion). Del termine ci sono due concetti
fondamentali che corrispondono ai due fondamentali indirizzi dell’erica (v.):
1° Per il primo, che corrisponde all’etica del fine, la S. è la conseguenza
piacevole o dolorosa (ricompensa o pena) che un’azione determinata produce in
un determinato ordinamento (naturale, morale o giuridico). In questo caso, la
natura della S. dipende dalla natura dell’ordinamento cui si fa riferimento ed
esistono S. naturali, morali, giuridiche a seconda che è l’ordinamento della natura
o quello morale o quello statuale a determinare la sanzione. 2° Per il secondo
significato, la S. è in generale, uno stimolo della condotta. Fu questo il
concetto della S. stabilito da Bentham: « Gli stimolanti della condotta, egli
disse, trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle
speranze e dei timori: delle speranze che ci offrono un eccedente di piaceri,
dei timori che prevedono per anticipazione un eccedente di dolore. Questi
stimolanti possono opportunamente ricevere il nome di S.» (Deontology, 1834, I,
7). Questo stesso concetto di S. fu accettato dagli utilitaristi inglesi (cfr.
STUART MILL, Urilitarianism, cap. III) (v. PENA). SAPERE (ingl. Knowing; franc.
Savoir; tedesco Wissen). Questo verbo sostantivo viene usato in due significati
principali: 1° Come conoscenza in generale e in questo caso designa ogni
tecnica ritenuta adatta a dare informazioni intorno a un oggetto; o un insieme
di tali tecniche; o l’insieme più o meno organizzato dei loro risultati. W.
James accettò la distinzione stabilita da J. Grote (Exploratio philosophica,
1856, pag. 60) tra conoscere una cosa o una persona o un oggetto qualsiasi, che
significa avere una certa familiarità con questo oggetto; e S. qualcosa intorno
all’oggetto, il che significa averne una conoscenza, magari limitata, ma
esatta, di natura intellettuale o scientifica (The Meaning of Truth., 1909,
pag. 11-12). Ma questa distinzione si diffuse soprattutto nella forma che a
essa dette Russell in un famoso articolo del 1905. «La distinzione tra
esperienza diretta (acquaintance) e conoscenza circa (Knowledge about) è la
distinzione fra le cose che ci sono immediatamente presenti e quelle che noi
raggiungiamo solo per mezzo di frasi denotanti +» (sOn Denoting», 1905, in
Logic and Knowledge, 1956, pag. 41). Tale distinzione costituì uno dei
capisaldi della dottrina del Circolo di Vienna; e per quanto Carnap ne abbia
riconosciute presto le difficoltà («Testability and Meaning», in Readines in
the Philosophy of Science, 1953, pag. 48 sgg.) essa ha continuato e continua ad
essere il presupposto di molte dottrine, quella di Carnap compresa (v.
ESPERIENZA). 2° Come scienza, cioè come conoscenza in qualche modo garantita
nella sua verità (per questo significato v. SCIENZA). SAPERE AUDE. Il motto di
Orazio (£pist., XII, 40) fu assunto nel sec. xvi come l’insegna
dell’illuminismo (« Osa conoscere +) e in questo senso fu richiamato da Kant,
nel suo scritto sull’illuminismo (Was ist Aufkldrung?, 1784, in Werke, editore
Cassirer, IV, pag. 169), che lo traduceva dicendo: « Abbi il coraggio di
servirti del tuo proprio intelletto ». Già nel 1736 il motto era stato assunto
come emblema da una « Società degli Aletofili » di Berlino che si ispirava a
Wolf (cfr. sulle vicende del motto: FRANCO VENTURI in Rivista Storica Italiana,
1959, pag. 119 sgg.). SAPIENZA (gr. copia; lat. Sapientia; inglese Wisdom;
franc. Sagesse; ted. Weisheit). La più alta conoscenza delle cose più
eccellenti. La S. è caratterizzata: 1° dall’essere il grado di conoscenza più
alto, cioè più certo e più completo; 2° dall’avere per oggetto le cose più alte
e sublimi cioè le cose divine. Questo fu almeno il concetto che si ebbe della
S. quando si cominciò a distinguerla dalla saggezza (v.), il che accadde con
Aristotele. Sino ad Aristotele e nello stesso Platone, S. e saggezza
significarono la stessa cosa e cioè la saggezza: la condotta razionale della
vita umana (cfr. PLATONE, Rep., 428 b; 443 e). Aristotele distinse e
contrappose le due cose. «La S., egli disse, è la più perfetta delle scienze.
Il sapiente deve sapere non solo ciò che deriva dai princìpi ma essere nel vero
anche intorno ai princìpi. Sicchè la S. può dirsi insieme intelletto e scienza,
ed essendo a capo delle scienze sarà la scienza delle cose più eccellenti »
(Er. Nic., VI, 7, 1141 a 16). Intelletto e scienza stanno qui nel senso
specifico definito da Aristotele: l’intelletto (vods) come conoscenza diretta
dei princìpi della dimostrazione (/bid., VI, 6, 1141 a 7); e la scienza come «
abito della dimostrazione » o facoltà dimostrativa (/bid., VI, 3 1139b 31). La
S. è perciò la conoscenza più certa e perfetta perchè è insieme conoscenza dei
princìpi e delle dimostrazioni che da essi seguono. Inoltre, come tale, è anche
la scienza delle cose più alte e sublimi. «Vi sono altre cose molto più divine
dell’uomo per natura, come gli astri luminosi di cui si compone il mondo...
Perciò si dice che Anassagora e Talete e siffatti uomini sono sapienti e non
saggi giacchè non conoscono ciò che giova a se stessi ma cose eccezionali,
meravigliose, difficili e divine, ma inutili giacchè essi non indagano intorno
ai beni umani» (/bid., VI, 7, 1041b 1). L’oggetto specifico della S. è pertanto
il necessario, ciò che non può essere altrimenti (/bid., 1041 b 11); mentre la
saggezza ha per oggetto le faccende umane che sono mutevoli e contingenti.
Questa dottrina aristotelica costituisce uno dei punti in cui il distacco
polemico tra Aristotele e Platone è più accentuato: Platone avendo di mira
nella sua filosofia la saggezza umana e contrapponendo Aristotele a tale
saggezza la divina sapienza. L’affermazione del primato della S. caratterizza
le filosofie di tipo contemplativo come l’affermazione del primato della
saggezza caratterizza la filosofia del tipo orientativo o pratico (v. FiLosora,
Il). Stante il riconosciuto carattere « divino » della S. non fa meraviglia che
nelle filosofie a sfondo religioso dell’età alessandrina e posteriori la S. sia
stata sostanzializzata e intesa come una specie di intermediaria fra Dio e il
mondo: un’equivalente del /ogos (v.). Secondo Plotino c'è una S. che è sostanza
e della quale nessun’altra S. è migliore; ed essa «crea tutti gli esseri, che
tutti emanano da essa ed è essa stessa gli esseri che nascono insieme con essa
e si identificano con essa, sicchè un’unica cosa sono S. e sostanza » (Enn., V,
8, 4). Questa concezione si trovava già nel libro biblico della Sapientia, dove
è detto di essa: « È un vapore della virtù divina e una emanazione sincera
della luce di Dio onnipotente. È splendore della luce eterna, è lo specchio immacolato
della maestà di Dio e l’immagine della Sua bontà. Pur essendo una, può tutto; e
permanendo in sè innova tutte le cose e si trasporta di nazione in nazione
nelle anime sante, costituendo gli amici di Dio e i profeti» (Sap., VII,
25-27). Gli Gnostici avevano, dall'altro lato, personificata la S. e fatto di
essa l’ultima emanazione o eone che vuol uscire dal suo stato di desiderio e
raggiungere la conoscenza diretta del Padre (IRENEO, Adv. Haer., II, 5). Gli
Stoici stessi avevano chiamato Dio, come anima del mondo, « la perfetta
sapienza » (Cicer., Acad., I, 29). La filosofia medievale ritorna, con S.
Tommaso, al concetto aristotelico della sapienza. La S. ha, secondo S. Tommaso,
in comune con tutte le scienze la capacità di dedurre le conclusioni dai
princìpi; ma anche qualche cosa in più delle altre scienze « in quanto giudica
di tutte le cose, non solo quanto alle conclusioni ma anche quanto ai primi
princìpi: sicchè è una virtù più perfetta della scienza» (S. 7h., III, q. 57,
a. 2, ad 1°). Nella filosofia moderna, il termine ha conservato il suo
significato di conoscenza perfetta sia per la sua completezza che per la natura
del suo oggetto. SAPIENZA POETICA. Così Vico chiamò nel secondo libro della
Scienza Nuova (1744) la cultura primitiva del genere umano, in quanto fondata
sulla sensibilità più che sull’intelligenza: «La S. poetica che fu la prima S.
della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed
astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale
dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli che erano di niuno
raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie ». Vico parla di una
logica poetica, di una morale poetica, di un’economia poetica, di una politica
poetica, di una storia poetica, di una fisica poetica, di una cosmografia
poetica, di un’astronomia poetica, di una cronologia poetica, di una geografia
poetica, come parti della S. poetica. SARCASMO (gr. capxao 6g; ingl. Sarcasm;
francese Sarcasme; ted. Sarkasmus). L'ironia congiunta all’amara presa in giro
di colui contro il quale è diretta. Il concetto è di origine stoica (cfr.
STOBEO, Ecl., II, 6, 222). SAVI, SETTE (gr. Zopiotal; ingl. Seven Sqges; franc. Sept Sages; ted.
Sieben Weisen). Così furono chiamati alcuni personaggi
dell’antichità greca che espressero la loro saggezza in sentenze o motti
brevissimi, onde ebbero anche il nome di Gnomici. Essi furono variamente
enumerati dagli scrittori antichi. Talete, Biante, Pittaco e Solone sono
compresi in tutte le liste. Platone, che per primo li enumerò, aggiunse ad essi
Cleobulo, Misone e Chilone (Pror., 343 a). A Talete si attribuisce il motto «
Conosci te stesso » (Dioc. L., I, 40). A Biante il motto «I più sono malvagi »
(/bid., I, 88): e l’altro motto « La carica rivela l’uomo + (ARIST., Et. Nic.,
V, 1, 1029 b 1). A Pittaco il motto « Sappi cogliere l'opportunità » (Dioc. L.,
I, 79). A Solone i motti «Prendi a cuore le cose importanti?, e « Nulla troppo
+ (/bid., I, 60, 63). A Cleobulo il motto «Ottima è la misura » (/bid., I, 93).
A Misone il motto «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire
dalle parole» (/bid., I, 108). A Chilone i motti « Bada a te stesso + e « Non
desiderare l’impossibile » (/bid., I, 70). SCACCO (franc. Échecj tedesco
Scheitern). Secondo Jaspers, è l’esperienza dell’impossibilità dell’esistenza,
nei suoi aspetti particolari o nel suo insieme; e specialmente l’esperienza
dell’impossibilità di superare le sifuazioni-limite (v.). Il valore positivo dello
S. consiste nel fatto che esso manifesta o rivela (negativamente) la
trascendenza dell'essere; ed è pertanto una cifra (v.) di questa trascendenza
(Philosophie, III, pag. 219 sgg.) (v. EsISTENZIALISMO). SCANDALO (ingl.
Scandal; franc. Scandale; tedesco Skandal). Kierkegaard ha fatto dello S. una
categoria religiosa, definendola come «il peccato di disperare della remissione
dei peccati +. Che il peccato possa essere perdonato è, per l’intelletto umano,
la cosa più impossibile di tutte: la religione è da questo punto di vista la «
possibilità dello scandalo +» (Die Krankheit zum Tode, Il, B, B; trad. ital.,
Fabro, pag. 347; cfr. Diario, X! A, 133). SCELTA (gr. alpeow, rmpoalpeo; lat.
Electio; ingl. Choice; franc. Choix; ted. Wahl). Il procedimento con cui una
possibilità determinata, a preferenza di altre, viene assunta o fatta propria o
decisa o realizzata in modo qualsiasi. Il concetto di S. è strettamente legato
a quello di possibilità (v.), sicchè non solo non c’è S. dove non c’è
possibilità (giacchè la possibilità è per l'appunto ciò che si offre ad una S.)
ma neppure c’è possibilità dove non c’è S. giacchè l’anticipazione, la
progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte.
Dall’altro lato il concetto di S. è una delle determinazioni fondamentali del
concetto di /ibertà (v.). Il concetto di S. è continuamente presente a Platone
che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla S. che ciascuno fa
del proprio modello di vita: «Non c’era, egli dice, nulla di necessariamente
preordinato per l’anima perchè ciascuna doveva cambiare secondo la S. che essa
faceva » (Rep., X, 618 b). Ma solo Aristotele ci ha dato la prima esauriente
analisi della S. distinguendola: 1° dal desiderio che è comune anche agli
esseri irragionevoli, mentre la S. non lo è (Er. Nic., III, 2, 1111 b 3); 2°
dalla volontà, perchè si possono volere anche le cose impossibili, per es.,
l’immortalità, ma non si possono scegliere (/bid., 1111 b 19); 3°
dall’opinione, che anch'essa può riguardare le cose impossibili, per es.,
quelle eterne, che non dipendono da noi (/bid., 1111 b 30). A queste
determinazioni negative, Aristotele aggiunse la determinazione positiva che la
S. «è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero + (/bid., 1112 a 15);
alla quale si può aggiungere l’altra fondamentale, che si desume dalle
determinazioni negative: la S. concerne solo le cose possibili. Quest’ultima
determinazione, che è quella fondamentale, veniva esplicitamente sottolineata
da S. Tommaso, che ripeteva sostanzialmente l’analisi aristotelica (S. Th., II,
1, q. 13, a. 5). La nozione di S. è stata sempre ampiamente utilizzata dai
filosofi, specialmente nella discussione del problema della libertà (v.) ma non
è stata frequentemente sottoposta ad analisi. A partire da Kierkegaard, la
filosofia dell’esistenza ha sottolineato il valore della S., per ciò che
concerne la personalità stessa dell’uomo o la sua esistenza. E ha considerato
la S. soprattutto sotto l’angolo visuale della sua stessa possibilità: cioè
come S. della scelta. Dice Kierkegaard: «La S. è decisiva per il contenuto
della personalità: con la S. essa sprofonda nella cosa scelta e se essa non
sceglie, appassisce in consunzione» (Werke, II, pag. 148). Da questo punto di
vista la S. importante non è quella tra il bene e il male ma quella tra
scegliere e non scegliere. « Con questa S., scelgo non tra il bene e il male ma
scelgo il bene; ma in quanto scelgo il bene, scelgo con ciò la S. tra il bene e
il male. La S. originaria è sempre presente in ogni S. ulteriore » (/bid., II,
pag. 196). Questo concetto è stato frequentemente ripetuto nell’esistenzialismo
contemporaneo. Secondo Heidegger, la S. autentica è la S. di ciò che è stato
già scelto cioè la S. di quelle possibilità che sono già proprie dell’uomo. «
Ripetizione della S. significa sceglimento di questa stessa S., decidersi per
una possibilità che ba la radice nel proprio se stesso. Nello scegliere la S.,
l’Esserci si rende per la prima volta possibile il suo autentico poter essere»
(Sein und Zeit, $ 54). Ma in questo senso la « S. della S. » è semplicemente
l'accettazione o il riconoscimento di ciò che si è, con la rinuncia ad ogni
pretesa di mutamento o di liberazione. E nello stesso senso Jaspers dice: «Io
non posso rifarmi da capo e scegliere tra l’esser me stesso e il non esser me
stesso come se la libertà fosse soltanto uno strumento. Ma in quanto scelgo io
sono, se non sono non scelgo » (Phil., Il, pag. 182). Ciò vuol dire che ciò che
posso scegliere è soltanto il mio me stesso: quel me stesso che è identico con
la situazione, col luogo della realtà in cui mi trovo (/bid., I, pag. 245). La
S. della S. è in realtà la S. di ciò che già si è e non si può non essere.
Questo concetto di S. della S. finisce per eliminare la S. stessa: la quale,
come Aristotele aveva riconosciuto, e sempre legata al possibile. Dall’altro
lato, Sartre ha insistito sulla perfetta arbitrarietà della S., ha identificato
S. e coscienza e ha pertanto visto un atto di S. in ogni atto di coscienza
(L’étre et le néant, pag. 539 sgg.). Ciò può essere vero, ma in qualche modo è
opportuno rintracciare un senso più specifico di S., un senso per il quale non
tutti gli atti siano scelte. Questo senso può essere appunto quello di S. della
S.; ma non come S. di ciò che è già stato scelto, bensì come S. di ciò che può
ancora essere scelto. In tal senso la 4 S. possibile » è non soltanto la S. che
si offre come una possibilità, ma la S. che, una volta effettuata, si
ripresenta ancora possibile. Inteso in questo senso, il concetto di S. diventa
suscettibile di trattamento oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi
delle tecniche di scelta. Da questo punto di vista, è indispensabile
determinare in primo luogo il contesto delle S. cioè il campo delle possibilità
(v.) oggettive in cui la S. deve operare. Per es., a un uomo che ha subito un
torto le S. che gli si offrono per vendicarsi del suo avversario ricorrendo
alla forza o alla violenza sono diverse da quelle che gli sono offerte dal
sistema giuridico in cui vive. Inoltre, sempre in riferimento a uncontesto
determinato, si può distinguere il grado delle S. che è il numero delle
possibilità offerte da un determinato contesto, dall’estensione delle S., che è
il numero di individui che hanno accesso a una S. determinata in un dato
contesto. Estensione e grado possono stare fra loro in tutti i rapporti
possibili, perchè l’aumento del grado può influire su quello dell’estensione e
reciprocamente. Il criterio della ripetibilità delle S., sul fondamento delle
considerazioni precedenti, e specialmente sulla base delle regole tecniche del
contesto, è universalmente (per quanto implicitamente adoperato) da tutte le
discipline: sicchè, per es., un assioma matematico o logico continua ad essere
ammesso (cioè la sua S. viene ripetuta) finchè non conduce a una contraddizione;
una tecnica scientifica o produttiva rimane in uso (cioè è continuamente S.)
finchè non da luogo a inconvenienti o non se ne trova una migliore; e via
dicendo. Della nozione di S. si fa oggi un uso larghissimo in tutte le scienze
e specialmente nella matematica, nella logica, nella psicologia e nella
sociologia. Ma, come si è detto, raramente essa viene sottoposta ad analisi da
queste scienze, che ne presuppongono il significato corrente. Dall'altro lato
le analisi istituite dai filosofi non sempre rendono conto dei caratteri
fondamentali della S. stessa. Bergson, ad es., ha considerato le alternative
davanti alle quali ogni S. si trova situata come false « spazializzazioni »
degli stati interiori di esitazione; e pertanto ha concepito la S. come distaccantesi
«al modo di un frutto maturo» dagli stati successivi dell’io (Les données
immédiates de la conscience, 1889, pag. 134). Ma è chiaro che se le alternative
sono fittizie, fittizia è la S. stessa la quale vive solo nel possibile, che è
costituito da alternative. Un tratto più autentico della S. umana è stato messo
in luce da Dewey: « La S. non è l'emergere di una preferenza dall’indifferenza:
è l'emergere di una preferenza unificata da un insieme di preferenze
competitive ». Pertanto la S. ragionevole è soltanto quella che unifica e
armonizza differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro (Human Nature
and Conduct, 1929, pag. 193). Dewey ha così fatto cadere fuori della S. il
criterio della ragionevolezza della S., mettendosi su un piano sul quale si
possono suggerire innumerevoli criteri. Egli ha tuttavia il merito di avere
sottolineato l’importanza della S. e la sua onnipresenza. « L'operazione della
S., ha detto, è inevitabile in qualsiasi intrapresa entri la riflessione. In se
stessa, non è falsificatrice. L'’illusione giace nel fatto che la sua presenza
è nascosta, camuffata, negata. Un metodo empirico ritrova e mette in chiaro
l'operazione della S., come fa per qualsiasi altro evento» (Experience and
Nature, 1926, pag. 35). SCELTE, ASSIOMA DELLE (ingl. Axiom of Choice; franc.
Axiome de choix; ted. Auswahlprinzip). Va con questo nome un principio
enunciato da Zermelo nel 1904 secondo il quale: data una classe XK i cui membri
sono classi non vuote a, b, c, ... esiste una funzione f che fa corrispondere
ad ogni classe a, d, c, un elemento e uno solo della classe stessa f (a), f
(5), f (c), ... Questo postulato nella forma di un assioma moltiplicativo, fu
riesposto da Russell nella forma seguente: data una classe X i cui membri sono
classi non vuote, che non hanno alcun membro in comune, esiste una classe A, i
cui membri sono tutti membri dei membri di X e che ha solo un membro in comune
con ciascun membro di X. I due assiomi sono stati dimostrati equivalenti dallo
stesso Zermelo. Un’assunzione del genere era frequentemente utilizzata dai
matematici, ma la sua enunciazione esplicita ad opera di Zermelo suscitò dubbi
e discussioni: dubbi e discussioni che vertono sostanzialmente sul concetto di
«esistenza » dei membri di un insieme. Il postulato di Zermelo, se applicato
agli insiemi infiniti, significa semplicemente che si può parlare della
esistenza di un membro dell’insieme anche se non è data una regola precisa che
consente di costruire o riconoscere il membro stesso (cfr. K. GODEL, The
Consistency of the Axiom of Choice and of the Generalized Continuum Hypothesis
with the Axioms of Set Theory, 1940; L. GevMonaT, Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, 1948). SCETTICISMO (gr. oxertiyà dyoyh; inglese
Scepticism; franc. Scepticisme; ted. Skepricizmus). Con questo termine, che
significa ricerca, s'intende la tesi che è impossibile decidere sulla verità o
falsità di una proposizione qualsiasi. Lo S. non ha nulla a che fare col
relativismo o con le dottrine che tutto è vero o che tutto è falso, giacchè
tali dottrine intendono per l’appunto fornire quel criterio di decisione che lo
S. nega che ci sia. Sesto Empirico ha definito con molto rigore la natura dello
S. affermando che il principio fondamentale dello S. è questo: « A ogni ragione
si oppone una ragione di egual valore ». Tale principio infatti impedisce di
prender partito per un’affermazione qualsiasi o la sua negazione e perciò
consente di mantenere l’imperturbabilità (/p. Pirr., I, 12). Lo S. fu difeso
nell’antichità da tre scuole filosofiche diverse: 1° dalla scuola di Pirrone
alla quale esplicitamente si riattaccava Sesto Empirico (1 secolo) (v.
PIRRONISMO); 2° dalla terza Accademia o nuova Accademia, il cui indirizzo
scetticheggiante fu iniziato da Carneade di Cirene (i secolo a. C.), che, pur
ammettendo l’impossibilità di decidere sul vero o sul SCELTE, ASSIOMA DELLE
falso, riteneva legittimo l’uso di criteri di credibilità puramente soggettivi;
3° da un gruppo di pensatori fioriti dall’ultimo secolo a. C. al I secolo d. C.
di cui i principali furono Enesidemo (1 secolo a. C.), Agrippa e Sesto
Empirico. Questi pensatori ripresero lo S. rigoroso di Pirrone. Enesidemo
enunciava dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio ed Agrippa ne
aggiungeva altri cinque (v. TROPI). Sesto Empirico, infine, le cui opere ci
sono state conservate, ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali
temi della filosofia antica e ha riaffermato il carattere investigativo,
sospensivo e dubitativo dello S. (Ip. Pirr., I, 7. Il vero precedente storico dello
S. antico è la scuola eleomegarica (v. MegaRICI) la quale si compiacque di
enunciare quegli argomenti insolubili che rappresentano casi tipici
dell’impossibilità di decidere sulla falsità o verità di una tesi (v.
ANTINOMIE). Nella storia ulteriore della filosofia lo S. non è mai ritornato
nella sua forma classica. Il Medio Evo lo ignora completamente. Nel
Rinascimento esso riaffiora nella meditazione di Montaigne, come una delle
esperienze fondamentali alle quali Montaigne fa più frequente riferimento. «
Noi non abbiamo comunicazioni con l’essere perchè l’intera natura umana è
sempre in mezzo tra la nascita e la morte e non attinge di sè che una apparenza
oscura ed umbratile, un’incerta e debole opinione» (Essais, ed. Plattard, I,
pag. 399). Montaigne ha in vista soprattutto quel carattere dello S. che gli
antichi scettici chiamavano investigativo e che per lui è sperimentativo: « Se
la mia anima potesse prender piede io non mi sperimenterei ma mi risolverei; ma
essa è sempre in tirocinio ed in prova » (/bid., III, 2, pag. 29). E lo stesso
significato fondamentale ha lo S. di P. Charron che nel libro Sulla saggezza fa
derivare da esso una saggezza naturale e razionale che rende serena la vita e
non è in contrasto con la religione. Queste stesse cose erano dette da
Francesco Sanchez nel Quod nihil scitur (1581). Ma queste non sono, come si
vede, forme di autentico scetticismo. Nè un tale S. si ritrova in colui che,
nel °700, si fece esplicito difensore della « filosofia accademica o scettica »
cioè in D. Hume. «Il grande avversario del pirronismo o dei princìpi esagerati
dello S. è l’azione, l’attività e le occupazioni della vita comune» diceva Hume
(/ng. Conc. Underst., XII, 2). Hume contrapponeva pertanto allo S. esagerato o
eccessivo lo S. mitigato che consiste nella «limitazione delle nostre ricerche
a quegli oggetti che meglio si adattano alla ristretta capacità della mente
umana » (Ibid., XII, 3). Ma tale S. non si distingue dalla tendenza critica
della filosofia e pertanto non può essere propriamente chiamato scetticismo.
Nella filosofia moderna la funzione dello S. è stata duplice. In primo luogo è
servito spesso, come bersaglio polemico o ipotesi da ridurre all’assurdo, ai
filosofi che si proponevano di fondare una qualsiasi dottrina dogmatica. In secondo
luogo è servito come insegna di battaglia contro determinate filosofie. Così A.
E. Schulze contrappose lo S. di Hume al razionalismo di Kant in un’opera che
intitolò al nome dello scettico antico Enesidemo (1792). In modo analogo G.
Rensi si appellò allo S. contro l’idealismo hegeliano italiano nei primi
decenni del sec. xx (Lineamenti di filosofia scettica, 1917). Ma quello di
Rensi fu un curioso S., mescolato con il materialismo (// materialismo critico,
1934) e perfino con il misticismo (Testamento filosofico, 1939). Sullo S.
antico, cfr. DAL PRA, Lo S. greco, 1950. Sullo S. rinascimentale, cfr. R.
Hoopes, in Huntington Library; R. H. PoPKIN, in Review of Metaphysics, 1953, e
relative bibliografie. SCHEBLIMINI. Termine che ricorre nel titolo di uno scritto
di J. G. Hamann (Golgotha und S., 1784) diretto contro Mendelssohn. Il termine,
probabilmente desunto da uno scritto di Lutero, significa l’ispirazione divina
e l’esaltazione che essa comunica, donde la sua opposizione simmetrica a
«Golgotha» che è il simbolo dell’umiliazione. (Cfr. i chiarimenti di L.
SCHREINER nel vol. II degli I. G. Hamanns Hauptschriften erklart, 1956; e V.
VERRA, Dopo Kant. Il criticismo nell’età preromantica, 1957, pag. 147 sgg.).
SCHEMA (gr. oxfua; ingl. Scheme; francese Schéma; ted. Schema). Nel significato
comune di forma o figura, la parola viene comunemente usata dai filosofi. Un
senso specifico fu dato al termine solamente da Kant che intese per esso
l’intermediario tra le categorie e il dato sensibile, intermediario la cui
funzione sarebbe quella di eliminare l’eterogeneità dei due elementi della
sintesi, essendo generale come la categoria e temporale come il contenuto
dell’esperienza. In questo senso lo S. o più precisamente lo S. trascendentale
è «la rappresentazione di un procedimento generale per cui l’immaginazione
offre ad un concetto la sua immagine » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
I). Kant distingue vari tipi di S. secondo i quattro gruppi delle categorie; e
pone tra essi il numero (S. della quantità) e la cosalità (S. della qualità).
In generale gli S. sono determinazioni del tempo e costituiscono perciò
fenomeni o concetti sensibili di oggetti in accordo con una categoria
determinata (/bid., Anal. dei Princ., cap. I). In modo analogo lo S. fu inteso
da Schelling, che lo distingueva dall’immagine (rispetto alla quale è più
generale) e dal simbolo; Schelling intendeva per S. «l'intuizione della regola
secondo cui l’oggetto può essere prodotto » e pertanto ne chiariva la nozione
con l’esempio dell’artigiano che deve creare un oggetto di forma determinata in
conformità di un concetto (System des transzendentalen Idealismus, 1800, III,
cap. II, 3* epocatrad. ital., pag. 183). Questo significato kantiano e
schellinghiano è l’unico significato tecnico della parola che talora ancora
ricorre (cfr., ad es., LEWIS, An Analysis of Knowledge and Valuation, pag.
134). AI di fuori di essa, il termine significa semplicemente modello o
immagine generale o forma (come avviene, per es., in BERGSON, Matière et
mémoire, pag. 130 sgg.; Énergie spirituelle, pag. 161; La pensée et le mouvant,
pag. 216) o progetto generale. SCHEMATISMO (gr. cynuariopée; ingl. Schematism;
franc. Schématisme; ted. Schematismus). 1. Configurazione o struttura. Questo è
il significato comune del termine greco, al quale fece riferimento Bacone
parlando dello S. latente come di uno dei due aspetti fondamentali dei fenomeni
naturali (l’altro è il processo latente o processo alla forma). Per S. latente
Bacone intese la configurazione o struttura dei corpi considerati staticamente
(De Augm. Scient., II, 1), sicchè lo studio dello S. fu da lui paragonato a ciò
che è l’anatomia per i corpi organici (Nov. Org., II, 7). 2. Kant intese per S.
«il modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi» (Crit. R. Pura, Anal.
dei Princ., cap. I). E in senso analogo usava la parola Schelling (System des
transzendentalen Idealismus, III, cap. II, 3* epoca). Sulla dottrina kantiana
dello S., cfr. E. Paci, « Critica dello schematismo trascendentale », in
Rivista di Filosofia, 1955, n. 4; 1956, n. 1. SCHIAVITÙ (gr. sovàela; lat.
Servitus; inglese Slavery; franc. Esclavage; ted. Sklavereì). La
giustificazione della S., presso i filosofi, ha rivestito sempre la stessa
forma: la S. è cosa utile non solo al padrone ma allo schiavo stesso. Questo è
il motivo per cui Aristotele ritiene la S. come una delle divisioni naturali
della società pari a quella tra femmina e maschio. Infatti poichè c’è «chi è
naturalmente disposto al comando » e « chi è naturalmente disposto ad essere
comandato » la loro unione è «ciò per cui entrambi possono sopravvivere ». La
stessa cosa (cioè la S.) è quindi « vantaggiosa sia per il padrone che per lo
schiavo + (Pol., I, 2, 1252 a). Lo stesso S. Tommaso ripeteva, citando
Aristotele, questa considerazione: « Che quest'uomo sia servo, a preferenza di
un altro è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale
ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che
egli sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi
dello schiavo » (S. Tà., II, 2, q. 57, a. 3, ad 2°). L’illustrazione che della
figura servo-padrone ha dato Hegel nella Fenomenologia dello spirito obbedisce
allo stesso spirito di giustificazione. Il signore è l’autocoscienza del servo
e il servo è lo strumento che elabora gli oggetti affinchè il signore ne goda e
affinchè, in questa maniera egli stesso partecipi, per mediazione, al godimento
dell’oggetto come il padrone partecipa per mediazione alla produzione di esso
(Phanom. des Geistes, I, IV, A; trad. ital., pag. 168 sgg.). D'altronde il
cristianesimo aveva reso insignificante la S.; e, in un certo senso, anche la
sua condanna. Poichè sia il giudeo che il greco, sia il servo che il libero,
sia il maschio che la femmina « fanno una sola cosa in Gesù Cristo » (Ga/.,
III, 28) non è importante che si sia schiavi o liberi, ma basta essere «liberto
del Signore» (/ Cor., VII, 21-22). Nel mondo antico soltanto gli Stoici
condannarono senza riserve la S.: « Solo il sapiente è libero e i malvagi sono schiavi:
giacchè la libertà non è che l’autodeterminazione e la S. è l’assenza
dell’autodeterminazione. C’è poi un’altra S. che consiste nella soggezione o
nella compera e nella soggezione, cui si contrappone la padronanza, che è
malvagia anch'essa » (Diog. L., VII, 121). Accanto alla negazione della S. come
istituzione sociale, gli Stoici fecero prevalere il concetto della S. come
stato o situazione morale. Diceva Seneca: « ‘Sono schiavi *. Sì, ma anche
uomini. ‘ Sono schiavi ”. Sì, ma anche compagni di abitazione. ‘ Sono schiavi
’. Sì, ma anche umili amici. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche compagni di
schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono soggetti ai capricci
della fortuna » (Ep., 47): concetti che sono variamente ripetuti nella
letteratura romana, per quanto non trovassero alcun riscontro nel diritto
romano codificato, che faceva dello schiavo la «cosa? del padrone. Nel mondo
moderno, è stata la filosofia illuministica a rendere assurda e ripugnante la
nozione stessa di S.: la difesa che essa fece della nozione di eguaglianza
significa appunto la condanna della S. in tutte le sue forme e gradi (cfr., ad
es., VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, 1764, articolo « Egalité +).
SCIENTISMO (ingl. Scientism; franc. Scientisme; 1. L'atteggiamento proprio di
chi si avvale dei metodi e dei procedimenti della scienza. Questo è il
significato che il termine ha specialmente in inglese (cfr. però anche LE
DANTEC, Contre la métaphysique, 1912, pag. 51). 2. L’atteggiamento di chi dà
importanza preponderante alla scienza nei confronti delle altre attività umane
o ritiene che non ci siano limiti alla validità e all’estensione della
conoscenza scientifica. In questo senso il termine equivale a positivismo ma
con una connotazione peggiorativa. Dice Bergson: SCIENTISMO « Noi abbiamo
soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in
una metafisica incosciente che si presenta allora agli ignoranti, o ai
semidotti, sotto la maschera della scienza. Durante più di mezzo secolo questo
S. ha ingombrato la strada della metafisica» (La SCIENZA (gr. ètriomhun; lat.
Scientia; inglese Science; franc. Science; ted. Wissenschaft). Una conoscenza
che includa, in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria validità.
La limitazione espressa con le parole «in modo o misura qualsiasi » è qui
inclusa per rendere la definizione applicabile alla S. moderna che non ha
pretese di assolutezza. Ma il concetto tradizionale della S. è quello per il
quale la S. include una garanzia assoluta di validità ed è perciò, come
conoscenza, il grado massimo della certezza. L’opposto della S. è l'opinione
(v.), caratterizzata per l'appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua
validità. Le differenti concezioni della S. si possono distinguere a seconda
della garanzia di validità che le si riconosce. Questa garanzia può consistere:
1° nella dimostrazione; 2° nella descrizione; 3° nella correggibilità. 1° La
dottrina che la S. provvede a garantire la propria validità dimostrando le sue
affermazioni, cioè connettendole in un sistema o in un organismo unitario nel
quale ciascuna di esse sia necessaria e nessuna possa essere tolta, aggiunta o
mutata, è l’ideale classico della scienza. Platone paragonava l’opinione (v.)
alle statue di Dedalo che sono sempre in atto di fuggire: le opinioni difatti «
disertano dall'anima umana sicchè non hanno gran pregio finchè qualcuno non
riesce a legarle con un ragionamento causale +. Ma « quando siano legate
diventano S. e rimangono fisse. Ecco perchè la S. (conclude Platone) è più
valida della retta opinione e differisce da essa per la sua connessione »
(Men., 98 a). La dottrina della S. di Aristotele è molto più ricca e
circostanziata, ma obbedisce allo stesso concetto. La S. è « conoscenza
dimostrativa ». Per conoscenza dimostrativa s’intende quella per cui «si
conosce la causa di un oggetto cioè si conosce perchè l’oggetto non può esser
diverso da com'è» (An. Pr., I, 2, 71b 9 sgg.). Di conseguenza, l’oggetto della
S. è il necessario (v.); e perciò la S. si distingue dall'opinione e non coincide
con essa: se coincidesse, « si sarebbe convinti che un medesimo oggetto possa
comportarsi diversamente da come si comporta e si sarebbe, al tempo stesso
convinti che non possa comportarsi diversamente» (An. Posr., I, 33, 89a 38).
Perciò Aristotele esclude che ci possa essere S. del non necessario: della
sensazione (/bid., 31, 87 b 27) e dell’accidentale (Mer., VI, 2, 1027 a 20);
mentre identifica la conoscenza scientifica con la conoscenza dell’essenza
necessaria o sostanza (/bid., VII, 6, 1031 b 5). La più perfetta realizzazione
di questo ideale della S. furono gli Elementi di Euclide (sec. Im a. C.).
Quest'opera, che ha voluto realizzare la matematica come S. perfettamente
deduttiva, senza nessun appello all’esperienza o all’induzione, è rimasta per
molti secoli (e sotto certi aspetti rimane a tutt'oggi) il modello stesso della
scienza. Attraverso gli E/ementi di Euclide la concezione della S. di Platone e
di Aristotele si trasmise più efficacemente che attraverso la delineazione
teorica di Aristotele. Da tale delineazione gli antichi non si scostarono. Gli
Stoici la ripetettero affermando che «la S. è la comprensione sicura, certa e
immutabile fondata sulla ragione» (Sesto E., Adv. Math., VII, 151) o che essa
«è una comprensione sicura o un abito immutabile ad accogliere
rappresentazioni, fondato sulla ragione» (Droc. L., VII, 47). S. Tommaso
ripeteva le notazioni aristoteliche (S. 77., II, 1, q. 57, a. 2) e Duns Scoto
accentuava il carattere dimostrativo e necessario della S. escludendo da essa
ogni conoscenza priva di quei caratteri, quindi l’intero dominio della fede
(Op. Ox., Prol., q. 1, n. 8). Anche l’ultima scolastica, con Ockham, manteneva
in piedi l’ideale aristotelico della S. (In Sent., III, q. 8). Il sorgere della
S. moderna non ha messo in crisi questo ideale. Da un lato il necessitarismo
degli aristotelici viene condiviso anche dai loro avversari; dall’altro
persiste la suggestione della matematica come S. perfetta per la sua
organizzazione dimostrativa; e Galilei stesso poneva le « dimostrazioni
necessarie » accanto alla « sensata esperienza » come fondamento della S.
(Opere, V, pag. 316). L’ideale geometrico della S. domina pure le filosofie di
Cartesio e Spinoza. Cartesio voleva organizzare tutto il sapere umano sul
modello dell’aritmetica e della geometria: le sole S. che egli riconosceva
«prive di falsità e di incertezza » perchè fondate interamente sulla deduzione
(Regulae ad directionem ingenii, IL E Spinoza chiamava S. intuitiva la
estensione del metodo geometrico all'intero universo, estensione per il quale
«dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di Dio si procede
alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose + (Er., II, 40, scol. 2°).
Kant contrassegnava questo vecchio ideale con un nuovo termine, quello di sistema
(v.). « L’unità sistematica, egli diceva, è ciò che prima di tutto fa di una
conoscenza comune una S. cioè di un semplice aggregato un sistema +; e
aggiungeva che per sistema bisogna intendere « l’unità di molteplici conoscenze
raccolte sotto un’unica idea » (Crif. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. III;
cfr. Meraphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft, Vorrede). Questo
concetto della S. come sistema, introdotto da Kant, è diventato un luogo comune
della filosofia dell’800 ed è ancora quello cui fanno oggi ricorso le filosofie
di carattere teologico o metafisico. Ciò è accaduto soprattutto perchè il
Romanticismo lo ha fatto suo e lo ha ripetuto fino alla nausea. Diceva Fichte:
« Una S. dev’essere una unità, un tutto... Le singole proposizioni in generale
non sono S., ma diventano S. solo nel tutto, mercè il loro posto nel tutto, la
loro relazione con il tutto » (Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794,
$ I) Schelling ripeteva: « Si ammette generalmente che alla filosofia convenga
una forma sua particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal forma
non dedotta tocca ad altre S. che già presuppongono la S. della S., ma non già
a questa che si propone per oggetto la possibilità di una S. siffatta » (System
des transzendentalen Idealismus, 1800, I, cap. I; trad. ital., pag. 27). E
Hegel affermava perentoriamente: « La vera forma nella quale la verità esiste
può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la
filosofia si avvicini alla forma della S. — cioè alla meta, raggiunta la quale
essa sia in grado di abbandonare il nome di amore del sapere per essere vero
sapere — ecco ciò che io mi sono proposto» (Phanom. des Geistes, Prefazione, I,
1). Fichte, Schelling e Hegel ritenevano che il solo sapere sistematico, quindi
la sola S., fosse la filosofia. Ma il concetto di sistema è rimasto a
caratterizzare la S. in generale, quindi anche la S. della natura, per molti
filosofi dell’800. H. Cohen vedeva nel sistema la categoria più alta della
natura e della S. (Logik, 1902, pag. 339). Husserl poneva il carattere
essenziale della S. nella « unità sistematica » che in essa trovano le singole
conoscenze e i loro fondamenti (Logische Untersuchungen, 1900, I, pag. 15); e
additava nel sistema l’ideale stesso della filosofia, se essa vuole
organizzarsi come «S. rigorosa» (Philosophie als strenge Wissenschaft, 1910-11;
trad. ital., pag. 5). L'ideale della S. come sistema ha continuato a vivere
anche molto tempo dopo che le S. naturali si sono allontanate da esso e hanno
cominciato a polemizzare contro «lo spirito di sistema ». Se si può oggi
considerare tramontato l’ideale classico della S. come sistema compiuto di
verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione, non si possono tuttavia
considerare tramontate tutte le caratteristiche di esso. Che la S. sia, o tenda
ad essere, un sistema, un’unità, una totalità organizzata, è pretesa che viene
talora condivisa anche dalle altre concezioni della S. stessa. Ciò che questa
pretesa conserva in ogni caso di valido è l’esigenza che le proposizioni che
costituiscono il corpo linguistico di una S. siano tra loro compatibili cioè
non contraddittorie. Questa esigenza indubbiamente è assai più debole di quella
che vorrebbe che tali proposizioni costituissero una unità o un sistema; anzi,
parlando a rigore, è un’esigenza totalmente diversa giacchè la non
contraddittorietà non implica in alcun modo l’unità sistematica. Tuttavia, nel
corrente linguaggio scientifico o filosofico, spesso l’esigenza sistematica
vicne ridotta a quella della compatibilità. 2° La concezione descrittiva della
S. si è venuta formando a partire da Bacone e per opera di Newton e dei
filosofi illuministi. Il suo fondamento è la distinzione baconiana tra
anticipazione e interpretazione della natura: l’interpretazione consistendo nel
«condurre gli uomini davanti ai fatti particolari e ai loro ordini » (Nov.
Org., I, 26, 36). Newton stabiliva il concetto descrittivo della S.
contrapponendo il metodo dell’analisi al metodo della sintesi. Quest’ultimo
consiste « nell’assumere che le cause sono state scoperte, nel porle come
princìpi e nello spiegare i fenomeni procedendo da tali principi e considerando
come prova questa spiegazione ». L'analisi consiste invece «nel fare
esperimenti ed osservazioni, nel trarre conclusioni generali da essi per mezzo
dell’induzione e nel non ammettere contro le conclusioni obiezioni che non
siano derivate dagli esperimenti o da altre verità certe» (Opricks, III, 1, q.
31). La filosofia dell’illuminismo esaltò e diffuse l’ideale scientifico di
Newton. « Questo grande genio, diceva D’Alembert, vide che era tempo di bandire
dalla fisica le congetture e le ipotesi vaghe o almeno di darle solo per quel
che valgono e di sottoporre questa S. soltanto alle esperienze e alla geometria
» (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in (Euvres, ed. Condorcet, pag.
143). Nello stesso tempo D’Alembert dichiarava ormai inutile, per la S. e per
la filosofia, lo spirito di sistema. « Tutte le S., egli diceva, rinchiuse, per
quanto è possibile, nei fatti e nelle conseguenze che si possono da essi
dedurre, non accordano nulla all’opinione, salvo quando vi sono costrette ». La
S. si riduce così all’osservazione dei fatti e alle inferenze o ai calcoli
fondati sui fatti. Il positivismo ottocentesco non faceva che appellarsi allo
stesso concetto della scienza. Diceva Comte: « Il carattere fondamentale della
filosofia positiva è quello di considerare tutti i fenomeni come soggetti a
leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al
minimo numero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi, mentre
consideriamo come assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di
quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali» (Cours de phil.
positive, I, $ 4; vol. I, pag. 26-27). Ma il positivismo insistette anche su
quel carattere della S. che già Bacone aveva messo in luce: il carattere attivo
od operativo, per cui essa permette all’uomo di agire sulla natura e dominarla
mediante la previsione dei fatti resa possibile dalle leggi (Ibid., II, $ 2;
pag. 100). L’ideale descrittivo della S. non implica pertanto che la S.
consista nel rispecchiamento o nella riproduzione fotografica dei fatti. Da un
lato, il carattere anticipatorio della conoscenza scientifica per il quale essa
si concreta in previsioni fondate sui rapporti accertati tra i fatti le toglie
il carattere fotografico: non si può infatti fotografare il futuro. Dall'altro
lato, la stessa S. positivistica ha messo in luce il carattere attivamente
orientato della descrizione scientifica. Le considerazioni di Claude Bernard a
questo proposito sono particolarmente importanti: « La semplice constatazione
dei fatti, egli dice, non potrà mai giungere a costituire una scienza. Si
possono moltiplicare i fatti e le osservazioni, ma questo non farà apprendere nulla.
Per istruirsi bisogna necessariamente ragionare su ciò che si è osservato,
paragonare i fatti e giudicarli con altri fatti che servono di controllo »
(Zntr. à l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, 1, $ 4). Da questo
punto di vista, una S. di osservazione sarà una S. che ragiona sui fatti
dell’osservazione naturale cioè sui fatti puramente e semplicemente constatati;
mentre una S. sperimentale o di esperimento ragionerà sui fatti ottenuti nelle
condizioni che lo sperimentatore ha creato e determinato lui stesso (2bid.,
1865, I, 1,84). La dottrina della S. di Mach non potrebbe chiamarsi descrittiva
se per descrizione si intendesse la riproduzione fotografica degli oggetti, ma
si può chiamare descrittiva nel senso ora chiarito. Dice Mach: « Se escludiamo
ciò che non ha senso ricercare, vedremo apparire più nettamente ciò che
possiamo realmente attingere mediante le S. particolari: tutte le relazioni e i
differenti modi di relazione degli elementi tra loro » (Erkenntniss und Irrtum,
cap. I; trad. franc., pag. 25). L’innovazione di Mach consiste nel suo concetto
degli elementi: tali elementi essendo per lui comuni sia alle cose che alla
coscienza e diversi nella coscienza e nella cosa solo in quanto appartenenti ad
insiemi diversi (1bid., cap. I; trad. franc., pag. 25; cfr. Die Analyse der
Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 14). La funzione economica che Mach attribuì
alla S. o, più precisamente ai concetti scientifici, non toglie pertanto il
carattere descrittivo della S., riconoscibile nella tesi che la S. ha per
oggetto i rapporzi fra gli elementi. Appunto perchè la S. considera i rapporti
tra i fatti, essa è una descrizione abbreviativa ed economica dei fatti stessi
(Die Mechanik; trad. ingl., 1902, pag. 481 sgg.). Allo stesso modo Bergson
riconosce il carattere convenzionale ed economico della S. dal fatto che essa,
che ha come suo organo l’intelligenza, si ferma non sulle cose ma sui rapporti
tra le cose o le situazioni (Év. créarr., 83 ediz., 1911, pag. 161, 356).
L’ideale descrittivo della S., ricorre ancora in scrittori recenti. Dewey
afferma: « Nella S., poichè i significati sono determinati sulla base della
loro relazione reciproca come significati, le relazioni divengono gli oggetti
dell’indagine e le qualità vengono assai sminuite di importanza, rivestendo una
funzione soltanto in quanto siano d’aiuto nello stabilire relazioni » (Logic,
VI, $ 6; trad. ital., pag. 171). Ora le relazioni non sono che un altro nome
per /eggi giacchè la legge non è che l’espressione di una relazione: sicchè lo
stesso concetto della S. si può riscontrare in tutti gli scrittori che
riconoscono nella formulazione della legge il compito della scienza. Diceva H.
Dingler: «Il compito principale della S. consiste nel raggiungere leggi nel
maggior numero possibile » (Die Methode der Physik, 1937, I, $ 9). E più
recentemente R. B. Braithwaite ha affermato: «Il concetto fondamentale della S.
è quello della legge scientifica e lo scopo fondamentale di una S. è lo
stabilimento di leggi. Per capire il modo in cui una S. opera e il modo in cui
essa fornisce spiegazioni dei fatti che investiga, è necessario capire la
natura delle leggi scientifiche c il modo di stabilirle » (Scientific
Explanation, Cambridge, 1953, pag. 2). 3° Una terza concezione è quella che
riconosce come unica garanzia della validità della S. la sua
autocorreggibilità. Si tratta di una concezione che si è affacciata nelle
avanguardie più critiche o meno dogmatiche della metodologia contemporanea e
non ha ancora raggiunto gli sviluppi assunti dalle due concezioni precedenti;
ma che è tuttavia significativa, sia perchè muove dall’abbandono di ogni
pretesa alla garanzia assoluta, sia perchè apre nuove prospettive allo studio
analitico degli strumenti di indagine di cui le S. dispongono. Il presupposto
di questa concezione è il fallibilismo (v.) che Peirce riconosceva proprio di
tutta la conoscenza umana (Coll. Pap., I. 13, 141-52). Ma la tesi in questione
è stata per la prima volta espressa da Morris R. Cohen: « Noi possiamo definire
la S. come un sistema autocorrettivo.. La S. invita al dubbio. Essa può
svilupparsi 0 progredire non solo perchè è frammentaria ma anche perchè nessuna
sua proposizione è in se stessa assolutamente certa e così il processo di
correzione può operare quando troviamo prove più adeguate. Ma bisogna notare
che il dubbio e la correzione sono sempre in accordo con i canoni del metodo
scientifico così che questa ultima è il suo legame di continuità » (Srudies in
Philosophy and Science, 1949, pag. 50). M. Black ha più recentemente adottato
un punto di vista analogo: «I princìpi stessi del metodo scientifico devono a
loro volta essere considerati come provvisori e soggetti a ulteriori
correzioni, in modo che una definizione di ‘ metodo scientifico * sarebbe
verificabile in qualche esteso senso del termine » (Problems of Analysis, 1954,
pag. 23). In termini apparentemente paradossali ma equivalenti, K. Popper aveva
affermato nella Logica della ricerca (1935) che l’armamentario della S. è
diretto, non alla verifica, ma alla falsifica delle proposizioni scientifiche.
« 11 nostro metodo di ricerca, egli diceva, non è diretto a difendere le nostre
anticipazioni per provare che abbiamo ragione, ma al contrario è diretto a
distruggerle. Usando tutte le armi del nostro armamentario logico, matematico e
tecnico, noi tentiamo di provare che le nostre anticipazioni sono false, per
avanzare, al loro posto, nuove ingiustificate e ingiustificabili anticipazioni,
nuovi ‘frettolosi e prematuri pregiudizi’ come Bacone derisoriamente le
chiamava » (The Logic of Scientific Discovery, 23 edizione, 1958, $ 85, pag.
279). Con questo Popper ha voluto segnare l’abbandono dell’ideale classico
della S.: « Il vecchio ideale scientifico dell’episteme, della conoscenza
assolutamente certa e dimostrabile, si è rivelato un idolo. L’esigenza
dell’obbiettività scientifica rende inevitabile che ogni asserzione scientifica
rimanga per sempre come un tentativo ». L'uomo, non può conoscere ma solo
congetturare (/bid., pag. 278, 280). Affermare che gli strumenti di cui la S.
dispone siano diretti a dimostrar false le asserzioni della S. è un altro modo
per esprimere il concetto dell’autocorreggibilità della S.: provar falsa
un’asserzione significa infatti sostituirla con un’altra asserzione, non ancora
provata falsa, quindi correttiva della prima. La nozione
dell’autocorreggibilità costituisce indubbiamente la garanzia meno dogmatica,
che la S. può esigere, della propria validità. Essa consente un’analisi meno
pregiudicata degli strumenti di accertamento e di controllo di cui le singole
S. dispongono (cfr. Beyond the Edge of Certainty, a cura di R. C. Colodny,
1965). SCIENZA, DOTTRINA DELLA (inglese Science of Science; franc. Doctrine de
la science; ted. Wissenschaftslehre). Espressione con cui Fichte designò «la S.
delle S. in generale » cioè la S. che espone in modo sistematico il principio
fondamentale su cui poggiano tutte le altre scienze. « Ogni possibile S. ha un
principio fondamentale che in essa non può essere dimostrato ma dev'essere già
certo prima di essa. Ora dove dev'essere dimostrato questo principio
fondamentale? Senza dubbio in quella S. la quale deve fondare tutte le
possibili S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital.,
pag. 11-12). Fichte identificava la dottrina della S. con la filosofia e vedeva
il suo principio fondamentale nell’Io. L’espressione viene tuttora usata
prevalentemente in riferimento a Fichte. Tuttavia B. Bolzano l’adoperò come
titolo di un’opera per indicare la dottrina che espone le regole per la
divisione del campo del sapere nelle singole S. e per l’apprendimento del
sapere stesso (Wissenschaftslehre, 1837, I, $ 6; cfr. IV, $ 392 sgg.). Ma per
la disciplina che considera le forme o i procedimenti della conoscenza
scientifica sono state più frequentemente adoperate le parole gnoseologia (v.)
e metodologia (v.). SCIENZA NUOVA. Espressione con cui G. B. Vico designò la
sua opera maggiore, pubblicata per la prima volta nel 1725 e in nuove edizioni
nel 1730 e nel 1744. Il titolo completo Principi di una scienza nuova intorno
alla comune natura delle nazioni dice l’intento dell’opera. Vico si proponeva
di instaurare una S. che avesse per suo compito la ricerca delle leggi che sono
proprie del mondo della storia umana, al modo in cui la S. naturale ricerca
leggi del mondo naturale. Vico vuol essere il Bacone del mondo della storia e
si propone di rintracciare l’ordine di tale mondo e di esprimerlo in leggi. Le
fondamentali caratterizzazioni che egli dà della S. nuova sono le seguenti
(cfr. specialmente S. N. del 1744, I, Del metodo): 1° la S. nuova è una «
teologia civile ragionata della provvidenza divina »: cioè la dimostrazione
dell’ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana a misura che
l’uomo si solleva dalla sua caduta e dalla sua miseria primitiva. Vico
contrappone questa teologia civile alla teologia fisica della tradizione, la
quale dimostra l’azione provvidenziale di Dio nella natura; 2° la S. nuova è
«una storia delle umane idee sulla quale sembra dover procedere la metafisica
della mente umana»: essa è cioè la determinazione dello sviluppo intellettuale
umano dalle rozze origini fino alla «ragione tutta spiegata +. In questo senso
essa è anche una « critica filosofica che mostra l’origine delle idee umane e
la loro successione +; 3° in terzo luogo la S. nuova tende a descrivere «una
storia ideale eterna, sopra la quale corrano in tempo le storie di tutte le
nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini ». Come tale,
la S. nuova è anche una S. dei principi della storia universale e del diritto
naturale universale; 4° la S. nuova è inoltre « una filosofia dell’autorità »
cioè della tradizione, giacchè dalla tradizione desume le prove di fatto (o
filologiche) che accertano l’ordine di successione delle età della storia. Sul
concetto della storia di Vico, v. STORIA. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE (ingl.
Classification of
Sciences; franc. Classification des sciences; ted. Klassifikation der
Wissenschafte). Mentre un'enciclopedia (v.) è il
tentativo di dare il quadro completo di tutte le discipline scientifiche e di
fissare in modo definitivo i loro rapporti di coordinazione e subordinazione,
una classificazione delle S. ha solo l’intento più modesto di dividere le S. in
due o più gruppi secondo l’affinità dei loro oggetti o dei loro strumenti
d’indagine. È ovvio che anche le enciclopedie delle S. possono essere
considerate come semplici classificazioni; ma molto più efficaci sono state nei
confronti dello stesso lavoro scientifico alcune semplici classificazioni
presentate dai filosofi dell’800. La più famosa di tutte è quella proposta da
Ampère di S. dello spirito o noologiche e S. della natura o cosmologiche (Essai
sur la philosophie des sciences, 1834). Questa classificazione è stata
estesamente accettata e talora riespressa con altri termini, per es., come distinzione
tra S. culturali e S. naturali (Du BolsReyMonp, Kulturgeschichte und
Naturwissenschaften, 1878). Alla sua diffusione contribuì soprattutto Dilthey
che nella Introduzione alle scienze dello spirito (1883) insistette sulla
differenza tra le scienze che mirano a conoscere causalmente l’oggetto, che
rimane esterno, cioè le S. naturali e quelle che invece mirano a comprendere
l’oggetto (che è l’uomo), e a riviverlo intrinsecamente, cioè le S. dello
spirito. Windelband a sua volta distingueva tra S. nomotetiche che cercano di
scoprire la legge e concernono la natura; e S. idiografiche che hanno invece di
mira il singolo nella sua forma storicamente determinata e hanno per oggetto la
storia (Geschichte und Naturwissenschaften, 1894, poi nei Praludien). In modo
più riuscito Rickert esprimeva la stessa differenza affermando che le S. della
natura hanno carattere generalizzante mentre le S. dello spirito hanno
carattere individuante (Die Grenzen der naturwissenschaftlichen
Begriffsbildung, 1896-1902, pagina 236 sgg.) (v. STORIOGRAFIA). Da un altro
punto di vista, Comte aveva distinto due specie di S. naturali: le S. astratte
o generali che hanno per oggetto la scoperta delle leggi che regolano le
diverse classi dei fenomeni e le S. concrete, particolari, descrittive, che
consistono nell’applicazione di queste leggi alla storia effettiva dei
differenti esseri esistenti (Cours de phil. positive, 1830, I, II, $ 4).
Spencer riprendeva questa distinzione e a sua volta divideva tutte le S. in
astratte (logica formale e matematica), astrattoconcrete (meccanica, fisica,
chimica) e concrete (astronomia, mineralogia, geologia, biologia, psicologia,
sociologia) (The Classification of the Sciences, 1864). E Wundt semplificava
questa classificazione riducendola a due gruppi soltanto: quello delle S.
formali (logica e matematica) e quello delle S. reali (le S. della natura e
dello spirito) (System der Philosophie, 1889). Poco diversa da questa è la
classificazione triadica di Ostwald in S. formali, S. fisiche e S. biologiche (Grundriss
der Naturphilosophie, 1908). La distinzione tra S. formali e S. reali è ancora
largamente accettata. R. Carnap l’ha riproposta sul fondamento che le S.
formali conterrebbero solo asserzioni analitiche e le S. reali o fattuali
conterrebbero anche asserzioni sintetiche (in Erkenntniss, 1934, n. 5; ora in
Readiîngs in the Philosophy of Science, 1953, pag. 123 sgg.). Così interpretata
la classificazione lascia, come nota Carnap, intatta l’unità della S. giacchè
«le S. formali non hanno oggetto affatto: sono sistemi di asserzioni ausiliarie
senza oggetto e senza contenuto » (/bid., pag. 128). Queste ultime parole di
Carnap si spiegano tenendo presente che alla distinzione tra le varie S. non si
può dare oggi un carattere assoluto 0 rigoroso. Le seguenti parole di von Mises
esprimono bene il punto di vista più diffuso sull’argomento: «Ogni ripartizione
e suddivisione delle S. ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è
sistematicamente necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne
in cui si compie il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle
singole discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal
chiarimento di problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora
trattati separatamente » (K/eines Lehrbuch des Positivismus, 1939, V, 7).
SCOLASTICA (ingl. Scholasticism; franc. Scolastique; ted. Scholastik). x.
Propriamente, la filosofia cristiana del Medio Evo. Si chiamò scholasticus nei
primi secoli del Medio Evo l'insegnante di arti liberali ed in seguito il
docente di filosofia o teologia che teneva le sue lezioni prima nella scuola
del chiostro, o della cattedrale, poi nell’Università. S. significa perciò,
alla lettera, la filosofia della scuola. Poichè le forme dell’insegnamento
medievale erano due, la /ecrio, che consisteva nel commento di un testo e la
disputatio, che consisteva nell’esame di un problema fatto con la discussione
degli argomenti che si possono addurre pro e contra, l’attività letteraria
assunse nella S. prevalentemente la forma di Commentari o di raccolte di
questioni (v. QUESTIONE).Il problema fondamentale della S. è quello di portare
l’uomo alla comprensione della verità rivelata. La S. è l’esercizio
dell’attività razionale (0, in pratica, l’uso di una qualche determinata filosofia,
che è quella neoplatonica o quella aristotelica) allo scopo di accedere alla
verità religiosa, di dimostrarla o chiarirla nei limiti in cui questo è
possibile e di approntare per essa un armamentario difensivo contro
l’incredulità e le eresie. La S. pertanto non è una filosofia autonoma, come,
ad es., la filosofia greca: il suo dato o il suo limite è l’insegnamento
religioso, il dogma. Nel suo stesso compito essa non si fida delle sole forze
della ragione ma fa appello, per aiuto, alla stessa tradizione religiosa o
filosofica con l’uso delle cosiddette aucioritates. Auctoritas è la decisione
di un concilio, un detto biblico, la sentenzia di un padre della chiesa o anche
di un grande filosofo pagano, arabo o giudaico. Il ricorso all’autorità è la
manifestazione tipica del carattere comune e super-individuale della ricerca
S., nella quale il singolo vuole contimuamente sentirsi appoggiato dalla
responsabilità collettiva della tradizione ecclesiastica. La S. medievale si
suole distinguere in tre grandi periodi: 1° l’alta S. che va dal rx secolo alla
fine del x secolo, che è caratterizzata dalla fiducia nell’armonia intrinseca e
sostanziale di fede e ragione e nella coincidenza dei loro risultati; 2° il
fiorire della S. che va dal 1200 ai primi anni del 1300, che è l’epoca dei
grandi sistemi nel quale l’accordo tra fede e ragione viene ritenuto solo
parziale, senza che tuttavia si ritenga possibile il loro contrasto; 3° la
dissoluzione della S. che va dai primi decenni del 1300 sino al Rinascimento
durante la quale il tema fondamentale è per l’appunto il contrasto tra fede e
ragione. Questo concetto della S. è stato avviato dall'opera fondamentale di M.
GRABMAN, Die Geschichte der scholastischen
Methode (1909, rist. 1956). Non sono mancati i tentativi di considerare
la S. come una sintesi dottrinale completa nella quale confluissero e si
fondessero i contributi individuali (per es., da parte di De WuLF, Histoire de
la philosophie médiévale, 1900 e successive ed.); ma questi tentativi non hanno
base storica e si riducono a mettere fuori dalla S. un gran numero di autori S.
e a stabilire, tra gli altri, concordanze e uniformità fittizie (cfr.
AsBagnANO, Storia della fil., 2% ed., 1958, I, $ 171, e relativa bibliografia).
2. Per estensione si può chiamare S. ogni filosofia che si assuma il compito di
illustrare e difendere razionalmente una determinata tradizione o rivelazione
religiosa. In questo compito di regola una S. si avvale di una filosofia già
stabilita e famosa: sicchè in questo senso la S. è l’utilizzazione di una
filosofia determinata per la difesa e l’illustrazione di una determinata
tradizione religiosa (v. FiLosoria). In questo senso generalizzato le S. sono
molte, sia nell’antichità che nel mondo moderno. Nell’antichità furono S. il
neoplatonismo, il neopitagorismo, ecc. Nel Medio Evo furono S. la filosofia
degli arabi e dei giudei. Nel mondo moderno è una scolastica la filosofia di
Malebranche, quella di Berkeley, della destra hegeliana, di Rosmini, di molti
spiritualisti, ecc. SCOMMESSA (ingl. Wager; franc. Pari; tedesco Wette). Viene
così chiamato il famoso argomento di Pascal in favore della fede. Poichè
l’esistenza di Dio non si può dimostrare, Pascal dimostra che è conveniente
scommettere sull’esistenza di Dio. « La vostra ragione non riceve maggior danno
scegliendo l’uno che scegliendo l’altro perchè bisogna scegliere
necessariamente. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il
guadagno e la perdita dando a croce il senso che Dio esiste. Valutiamo i due
casi: Se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete niente.
Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare» (Pensées, 233). Pascal
aggiunge che, una volta decisi a scommettere, sarà facile credere, « facendo
tutto come se si credesse, prendendo l’acqua benedetta, facendo dir messe, ecc.
Ciò vi farà credere e vi abbrutirà (abétira) (Ibid.).» L'argomento fu ripetuto
da W. James nella sua Volontà di credere (1897). James interpreta il passo
pascaliano come se dicesse che è irrazionale correre il rischio di perdere la verità,
pur di non incorrere eventualmente in errore (The Will to Believe, cap. I).
L’argomento pascaliano non è suscettibile di molte interpretazioni e tutte le
discussioni intorno ad esso tendono piuttosto a difenderlo o a confutarlo. È
soprattutto riuscita sconcertante l’espressione adoperata da Pascal «vi
abbrutirà» (vous abérira). E non è mancato chi ha cercato espungerla dal testo
pascaliano, leggendo invece a/lestira che significherebbe « vi renderà pronto »
(GAILLARD, « Une nouvelle leson d’un mot célèbre de Pascal», in Annales de
l'Université de Grenoble, XXI, 13). Ma in realtà l’espressione pascaliana non
intende ridurre la fede all’abbrutimento, ma si riferisce ad uno dei punti
fondamentali della dottrina di Pascal, per cui la fede deve investire non
soltanto lo spirito dell’uomo ma anche la macchina, l’auroma che è nell'uomo
(Pensées, 250) cioè il complesso delle abitudini che fissano la fede stessa e
la sottraggono al dubbio. L’abétira si riferisce a questo secondo aspetto,
senza il quale la fede stessa è incompleta. SCOPRIMENTO (ted. Entdecktheit).
Secondo Heidegger, «la possibilità dell’essere di ogni ente non conforme
all’Esserci » [cioè di ogni cosa del mondo] di essere rintracciata e
determinata « attraverso un particolare processo che la scopre movendo
dall'ente che per primo s'incontra nel mondo ». È, secondo Heidegger, uno dei
caratteri fondamentali delle cose, in quanto utilizzabili, quindi della mondità
in generale (Sein und Zeit, $ 18). SCOTISMO (ingl. Scorism; franc. Scotisme;
ted. Scotismus). La dottrina di Giovanni Duns Scoto (1266-1308) e dei suoi
seguaci caratterizzata dai seguenti punti: 1° la dottrina del carattere pratico
della scienza teologica, che non conterrebbe verità tcoretiche ma solo regole
per la condotta umana in vista della salvezza ultramondana; 2° l’affermazione
della indimostrabilità di un numero rilevante di proposizioni filosofiche e
teologiche. Già Duns Scoto riteneva impossibile dimostrare, ad es., tutti gli
attributi di Dio o l’immortalità dell'anima. Nello scritto a lui attribuito ma
di dubbia autenticità intitolato Theoremara numerose altre proposizioni
teologiche sono dichiarate indimostrabili; 3° la dottrina dell’univocità
dell’essere, che lo S. sostiene in polemica con il tomismo, e per la quale la
metafisica è la scienza suprema, avendo per oggetto l’essere in generale, cioè
sia quello delle creature sia quello di Dio; 4° la dottrina
dell’individuazione, che fa consistere l’individuazione stessa nell’ultima
determinazione della forma, della materia e del loro composto cioè nella
Aaecceitas (v. INDIVIDUAZIONE). Questa dottrina fu interpretata dalla scuola di
Scoto, in polemica con la dottrina tomistica che l’individuazione dipende dalla
materia signata, nel senso che l’individuazione dipende dalle forme e precisamente
dal sovrapporsi di un numero indefinito di forme nello stesso composto; 5° il
volontarismo, cioè la dottrina del primato della volontà, che Duns Scoto
condivide con Enrico di Gand (v. VOLONTARISMO). SCOZZESE, SCUOLA (ingl.
Scottish School; franc. École écossaise; ted. Schortische Schule). Un gruppo di
filosofi scozzesi che comprende Tommaso Reid (1710-96), Dugald Stewart
(1753-1828), Tommaso Brown (1778-1820), Guglielmo Hamilton (1788-1856) ed
Enrico Mansel (1820-71), le cui dottrine fondamentali sono: 1° l’appello al
senso comune per garantire alcune verità teoretiche e morali che si ritengono
fondamentali per l’uomo (v. SENSO COMUNE); 2° il realismo naturale cioè la
teoria che l’oggetto immediato del conoscere non è l’idea (come da Cartesio a
Hume si era ritenuto) ma la stessa cosa esterna (v. REALISMO). SCRUPOLO (ingl.
Scruple; franc. Scrupule; ted. Skrupel). Esitazione ad agire per una incerta
valutazione della situazione cioè perchè non si sa se l’azione progettata sia
corretta o meno. Tale è il significato della parola in frasi come «Gli è venuto
uno S.» oppure « Agire senza S.». Scrupolosità significa dall’altro lato
l’atteggiamento di chi suscita a se stesso S. al fine di eseguire meglio un
lavoro o di svolgere più accuratamente un'attività qualsiasi. SECONDARIA,
PROPOSIZIONE (ingl. Secondary Proposition; franc. Proposition secondaire; ted.
Sekundàr Satz). Boole indicò con questa espressione le proposizioni che hanno
per oggetto altre proposizioni, mentre chiamò primarie le proposizioni che
hanno per oggetto le relazioni tra cose (Laws of Thought, 1854, cap. XI).
SECONDARIE E PRIMARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. SECUNDUM QUID ET SIMPLICITER
(FALLACIA). Identificata già da Aristotele (Soph. El., 5, 167 a), è la fallacia
(v.) che consiste nel passare da una premessa in cui un certo termine è preso
in senso relativo ad una conclusione in cui il termine stesso è preso in senso
assoluto (« Se il non-essere è oggetto di opinione, il non-essere è 1). (Cfr.
Pietro Ispano, Sunm. Log., 7.46 sgg.). G.P. SEGNALE (ingl. Signal; franc.
Signal; tedesco Signal). 1. Lo stesso che segno (v.). Morris intende la parola
nel senso di segno naturale (Signs, Language and Behavior, I, 8). 2. Lo stesso
che simbolo (v.). In questo secondo senso la parola è usata quando si parla, per
es., di un «S. di pericolo +: S. qui è un segno convenzionale cioè un simbolo.
SEGNO (gr. omuetov; lat. Signum; ingl. Sign; franc. Signe; ted. Zeichen).
Qualsiasi oggetto od evento, usato come richiamo di altro oggetto od evento.
Questa definizione che è quella generalmente adoperata o presupposta nella
tradizione filosofica antica e recente, è generalissima e consente di
comprendere sotto la nozione di S. ogni possibilità di riferimento: per es.,
quello dell’effetto alla causa o viceversa; della condizione al condizionato o
viceversa, dello stimolo di un ricordo al ricordo stesso; della parola al suo
significato; del gesto indicativo (per es., un braccio teso) alla cosa
indicata; dell’indizio o del sintomo di una situazione alla situazione stessa,
ecc. Tutte queste relazioni possono essere comprese nella nozione di segno. In
senso proprio e ristretto, tuttavia, questa nozione dev’essere assunta come la
possibilità del riferimento di un oggetto o evento presente ad un oggetto o
evento non presente o la cui presenza o non presenza è indifferente. In questo
senso più ristretto la possibilità d’uso dei S. o semiosi è la caratteristica
fondamentale del comportamento umano perchè consente l’utilizzazione del
passato (di ciò che « non è più presente ») per la previsione e la
progettazione del futuro (di ciò che «non è ancora presente +). In tal senso si
può dire che l’uomo è per eccellenza un animale simbolico, in questo suo
carattere venendo a radicarsi la possibilità di scoperta e d’uso di quelle
recniche, in cui consiste propriamente la sua ragione (v.). La dottrina del S.
quale fu per la prima volta formulata dagli Stoici conserva ancor oggi la sua
validità. Gli Stoici chiamavano S. in generale « ciò che sembra rivelare
qualcosa »; ma in senso proprio chiamavano S. «ciò che è indicativo di una cosa
oscura » cioè non manifesta (Sesto Emp., Adv. Math., VIII, 143; /p. Pirr., I,
99 sgg.). Consideravano pertanto i S. di due specie fondamentali: S.
rammemorativi che si riferiscono a cose solo occasionalmente oscure, per es.,
il fumo che è S. del fuoco; e S. indicativi che non vengono mai osservati
insieme con la cosa indicata che è oscura per natura; e in questo senso i
movimenti del corpo si dicono S. dell’anima (/bid., VIII, 148-155). Sappiamo
pure che gli Stoici vedevano nella capacità dell’uomo di usare i S. la sua
differenza dall’animale (/bid., VIII, 276); e consideravano il S. come un
prodotto intellettuale, identificandolo con « una proposizione costituita da
una connessione valida e rivelatrice del conseguente » (/bid., VIII, 245). Gli
Epicurei invece consideravano il S. di natura sensibile e tale da consentire e
fondare l’induzione (Ibid, VIII, 215 sgg.; cfr. INDUZIONE). In seguito, sul
modello della dottrina stoica, il S. veniva sempre definito come la relazione
di riferimento fra due termini connessi. S. Tommaso non escludeva che si
potesse chiamar S. la causa sensibile di un effetto occulto (.S. Th., I, 70, a.
2, ad 2°). La logica terministica distinse il riferimento del S. al suo
denotato, che è il rapporto di significazione istituito ad arbitrio, dalla
supposizione (v.) che è il rapporto per il quale il termine compreso in una
proposizione sta in luogo di qualcosa (confronta Pretro Ispano, Summ. Log.,
6.03). Ockham definiva il S. come « tutto ciò che, una volta appreso, fa venire
a conoscere qualche altra cosa » (Surmna Logicae, I, 1); e distingueva il S.
naturale ch: è il concetto (o intenzione dell'anima) in quanto è prodotto dalla
cosa stessa al modo in cui il fumo è prodotto dal fuoco, dal S. convenzionale,
cioè istituito ad arbitrio che è la parola (/bid., I, 14). La filosofia inglese
del 6-700 si servi ampiamente della nozione di S. ma non lo definì in modo
nuovo. Hobbes diceva: « Un S. è l'antecedente evidentedelconseguente o, al
contrario, il conseguente dell’antecedente quando conseguenze simili sono state
osservate prima; e più spesso sono state osservate, meno incerto è il S. »
(Leviarh., I, 3). Berkeley si servì della nozione di S. per definire la
funzione delle idee generali, che sarebbero idee particolari «assunte a
rappresentare o a stare per altre idee particolari della stessa sorta +
(Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12). E Wolff dava nell’ultimo capitolo
della sua Ontologia una lucida e stringata dottrina del S. definendolo come «
un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata o futura di un
altro ente » (Onr., $ 952) e distinguendo conseguentemente il S. dimostrativo
che indica un designato presente, il S. prognostico il cui designato è futuro e
il S. rammemorativo o memoriale il cui designato è passato (/bid., $ 954). In
base a questi concetti, ogni procedimento conoscitivo può ovviamente essere
considerato un procedimento segnico. Kant invece, da un lato considerò le
parole e i S. visibili (algebrici, numerici, ecc.) come semplici espressioni
dei concetti cioè come « caratterisensibili » che designano concetti e servono
solo come mezzi soggettivi di riproduzione; dall'altro considerò i simboli come
rappresentazioni analogiche, cioè infra-intellettuali, degli oggetti intuiti (Crit.
del Giud., $ 59; Antr., I, $ 38). Pertanto, secondo Kant, «chi sa esprimersi
sempre soltanto in modo simbolico ha pochi concetti intellettuali e ciò che
spesso si ammira nella vivace espressione che i selvaggi (e talvolta anche i
pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei loro discorsi, non è che povertà
di idee, e quindi anche di parole per esprimerle» (/bid., $ 38). I kantiani
tuttavia non furono così alieni come il loro maestro dal ridurre tutta la
conoscenza all’uso dei segni. H. Helmholtz considerava le sensazioni come segni
prodotti nei nostri organi di senso dall’azione delle forze esterne; e riponeva
la validità di questi S., non n lla loro somiglianza con le cose, ma nel fatto
che essi hanno tra loro un ordine che riproduce quello che c’è tra le cose (Die
Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879). Nella stessa linea di pensiero E. Cassirer
ha studiato le forme simboliche della vita umana nonchè il loro significato
concettuale (Die Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., 1923-29) ed ha
chiamato l’uomo animal symbolicum (Essay on Man, 1944, cap. II; trad. ital.,
pag. 49). Quando la teoria dei S., per influenza della logica matematica, viene
ripresa nella filosofia contemporanea, i suoi tratti fondamentali non mutano;
ma ad essa viene aggiunta un altro ordine di considerazioni, precisamente
quelle che cadono sotto la cosiddetta pragmatica (v.): cioè le considerazioni
che concernono il rapporto del S. coi suoi interpreti. Si può dire che da
questo punto di vista non già il S. ma la semiosi (v.) cioè l’uso dei S. o il
comportamento segnico, sia il proprio oggetto della semiotica cioè della teoria
dei segni. Questo indirizzo è stato inaugurato da C. S. Peirce. Dopo aver dato
la definizione tradizionale del S. (come «qualcosa conoscendo la quale conosciamo
qualcos’altro »), Peirce aggiunge che « un S. è un oggetto che è da un lato in
relazione con il suo oggetto e dall’altro in relazione con un interpretante in
modo tale da portare l’interpretante in una relazione con l’oggetto
corrispondente alla sua propria relazione all’oggetto ». Il S. è pertanto una
relazione triadica tra il S. stesso, il suo oggetto e l’interpretante (Coll.
Pap., 2.243 sgg.; 8.332). Conseguentemente Peirce classificava i S. sotto tre
punti di vista diversi: di per se stessi cioè come S.; nella loro relazione
all'oggetto; nella loro relazione all’interpretante. Considerati in se stessi i
S. possono essere apparenze o qualisegni; od oggetti o eventi individuali, cioè
sinsegni (nella quale parola la sillaba sin è la prima sillaba di semel, simul,
similar, ecc.); o tipi generali o legisegni (Ibid., 8.334). Considerati in
rapporto all’oggetto rappresentato, un S. può essere: una icona, per es., una
percezione visiva o un’audizione musicale; un indice come sarebbe un nome
proprio o il sintomo di una malattia; o un simbolo che è un S. convenzionale
(/bid., 8.335). Rispetto all’oggetto immediato il S. può essere S. di una
qualità, di un ente o di una legge. Rispetto al suo interpretante, infine, il
S. può essere un rema, un dicente o un argomento, cioè un termine, una
proposizione o un ragionamento (/bid., 8.337). Questa classificazione di Peirce
è stata da lui riespressa con un’altra terminologia che ha avuto più fortuna.
Egli ha chiamato ripo una forma definitamente significante, che non è una
singola cosa o un singolo evento e non esiste da sè ma determina le cose che
esistono; gettone (token) un evento singolo che accade una volta sola, come
questa o quella parola che si trova su una sola linea di una sola pagina di una
sola copia di un libro; e fono (tone) un carattere indefinitamente significante
come un tono di voce (Coll. Pap., 4.537). Queste tre specie corrispondono
rispettivamente a legisegno, sinsegno, qualisegno della classificazione
precedente (v. PAROLA; TIPO). Molta fortuna ha avuto (e non meritata) la
classificazione dei S. che Ogden e Richards dettero in The Meaning of Meaning
(1923). Essi distinsero un uso simbolico e un uso emotivo dei S.: l’uso
simbolico è l’asserzione cioè il riferimento del S. a un oggetto; l’uso emotivo
tende invece a esprimere e a produrre sentimenti e atteggiamenti. « Sotto la
funzione simbolica sono incluse sia la simbolizzazione del riferimento sia la
comunicazione di esso all’ascoltatore, cioè la produzione nell’ascoltatore di
un riferimento simile. Sotto la funzione emotiva sono incluse sia l’espressione
di emozioni, atteggiamenti, umori, intenzioni, ecc., del parlante sia la loro
comunicazione cioè la loro evocazione nell’ascoltatore » (The Meaning of
Meaning, 10* ediz., 1952, pag. 149). Questa classificazione è stata utilizzata
(specialmente da C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944) per l’analisi del
linguaggio della morale e in generale del linguaggio normativo, ma ha deboli
fondamenti, soprattutto per l’impossibilità in cui si trova di fornire un
criterio semplice e sufficientemente sicuro per effettuare nei casi particolari
la distinzione proposta. Una più articolata e spregiudicata classificazione dei
segni è quella di C. Morris che distingue gli identificatori che significano la
localizzazione nello spazio e nel tempo; i designatori che significano le
caratteristiche dell'ambiente; gli apprezzatori che significano uno status
preferenziale e i prescrittori che significano la richiesta di risposte
specifiche (Signs, Language and Behavior, 1946, II, 2; trad. ital., pag. 97).
Da questi S. che complessivamente chiama /essicali Morris distingue i S.
formatori i quali significano che «la situazione significata in altro modo è
una situazione di alternative» (/bid., VI, 1). Questi ultimi sono distinti in
dererminatori, come « tutti », « alcuni », « nessuno »; connettori come le
virgole, le parentesi, la copula, le congiunzioni e € 0, ecc., e i manieratori,
che sono i S. di interpunzione. Morris ha fatto prevalere nella filosofia
contemporanea la teoria dei S. stabilita da Peirce introducendo un'utile
terminologia: chiamando veicolo segnico l’oggetto o evento che serve da S.;
designato l’oggetto cui il S. si riferisce, interpretante l’effetto del S.
sull’interprete cioè il senso del S.; ed infine interprete il soggetto del
processo segnico (Foundations of the Theory of Signs, 1938, II, 2). Morris ha
pure insistito, sulle orme di Peirce, sul carattere comportamentistico del
processo segnico; ha cercato anzi di definire il S. in termini puramente
comportamentisti. La definizione cui è giunto è la seguente: « Se qualcosa A
guida il comportamento verso un fine in un modo simile (ma non necessariamente
identico) a quello in cui qualche altra cosa, B, guiderebbe il comportamento
verso quel fine nel caso che B fosse osservata, allora A è un S.» (Ibid., I, 2;
trad. ital., pag. 21). L’infiuenza della teoria dei riflessi condizionati su
questa definizione è evidente (v. AZIONE RIFLESSA). Carnap, e con lui molti
altri, hanno accettati i fondamenti della teoria di Morris, come pure la
divisione della semiotica generale nelle tre parti da lui proposte (cfr. R.
CaRNAP, Foundations of Logic and Mathematics, 1939, I, 2; trad. ital., pag.
6-7) (v. SEMIOTICA). SELEZIONE (ingl. Selection; franc. Sélection; ted.
Selektion). Scelta: sia intesa come procedimente deliberato sia intesa come
risultato di un procedimento non deliberato. In questo secondo senso C. Darwin
parlò di S. naturale come nel procedimento attraverso il quale la lotta per la
vita assicura la sopravvivenza del più adatto (Origin of Species, IV, $ 1).
SEMANTICA (ingl. Semantics; franc. Sémantique; ted. Semantik). Propriamente, la
dottrina che considera il rapporto dei segni con gli oggetti cui si
riferiscono, cioè il rapporto di designazione. Il termine, che fu proposto per
tale dottrina da Bréal (Essais de sémantique. Science des significations,
1897), trova la sua giustificazione etimologica nel verbo greco anualvew,
introdotto da Aristotele per indicare quella specifica funzione del segno
linguistico per cui questo «significa», «designa» qualche cosa. La S. sarebbe
quindi quella parte della linguistica (e in particolare della Logica) che
studia, analizza, la funzione significatrice dei segni, i nessi tra i segni
linguistici (parole, frasi, ecc.) e i loro significati. Sebbene questa ne sia
l’accezione più generalmente diffusa, tuttavia nella filosofia e nella Logica
contemporanea il termine viene impiegato anche in altre. Per es., A. Korzybski
(Science and Sanity) adopera « S. » per indicare una teoria relativa all'uso
del linguaggio, soprattutto nei rapporti delle nevrosi che secondo questo
autore sono provocate da, o sono causa di, certi abusi linguistici. I logici
polacchi in genere (e in particolare Chwistek), che pure hanno contribuito
potentemente a far nascere questo ultimo ramo della Logica formale, non essendo
soliti distinguere tra proposizione ed enunciato, tra significato logico e
forma linguistica di una proposizione, usano questo termine per indicare in
genere la Logica formale. Ciononostante fu proprio sotto la spinta degli studi
dei logici polacchi che verso il 1956 si cominciò a delimitare il campo di
questa nuova disciplina. Fu per opera di Ch. W. Morris e R. Carnap che si
cominciarono a distinguere in seno alla semiotica (teoria dei segni in generale,
dei segni linguistici in particolare) alcuni aspetti fondamentali: la
pragmatica, che studia il comportamento segnico di esseri umani che si
scambiano segni per determinate cause, per certi scopi, ecc. (e quindi è un
ramo della psicologia e/o della sociologia); la S., la quale, prescindendo
dalle circostanze concrete (psicologiche e sociologiche) del comportamento
linguistico, restringe il suo campo all’analisi del rapporto tra segno e
referente (significatum, designatum, denotatum); e infine la sintattica, la
quale, facendo astrazione anche dai significati, studia i rapporti
intercorrenti tra i segni in se stessi entro un dato sistema linguistico. S. e
sintattica vengono di fatto a costituire due grandi capitoli in cui si spezza
la Logica formale pura. Però di quest’ultima fa parte non tanto la S.
descrittiva, ricerca empirica rivolta alla descrizione di un determinato
sistema semantico (o gruppo di sistemi affini) e quindi pertinente piuttosto
alla Linguistica che alla Logica, quanto invece la S. pura, la quale
costituisce a priori le regole di un sistema sintattico generale. Questa
pertanto, piuttosto che una dottrina dei significati, appare come una teoria
generale della verità e della deduzione nei sistemi sintattici interpretati, e
perciò la sua distinzione dalla sintattica diviene molto sottile e problematica
(cfr. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938, cap. IV; CARNAP, Foundations of
Logic and Mathematics, 1939, I, 2; Meaning and Necessity, 1957, pag. 233;
Introduction to Semantics, 1942; 2 ediz., 1958; Linskvy, editor, Semantics and
the Philosophy of Language, 1952). Quine
ha recentemente insistito sulla diversità del riferimento semantico vero e
proprio, che sarebbe il significare, dal riferimento del nominare. Tale
diversità risulta, per es., dal fatto che si può nominare lo stesso oggetto,
come quando si dice «Scott» e «l’autore di Waverley », mentre i significati
sono diversi. La S. conterrebbe così due parti: una teoria del significato alla
quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di sinonimia, significanza,
analiticità, implicazione; e una teoria del riferimento alla quale
apparterrebbe l’analisi dei concetti di nominazione, verità, denotazione,
estensione. Ma Quine stesso osserva che finora la parola S. è stata adoperata
soprattutto per la teoria del riferimento, sebbene il nome sarebbe più adatto
alla teoria del significato (From a Logical Point of View, 1953, VII, 1; II,
1). V. SIGNIFICATO. SEMASIOLOGIA. Lo stesso che semantica (v.). SEMI (gr.
oréppata; lat. Semina). Così sono stati spesso chiamati gli elementi ultimi
delle cose. Anassagora usò per primo il termine per designare le particelle che
Aristotele chiamò omeomerie (Fr., 4, Diels). Il termine fu poi adoperato da
Epicuro (Fr., 250, Uesener) e da Lucrezio (De nat. rer., VI, 201 sgg.; VI, 444,
ecc.). La stessa metafora è nella nozione stoica di ragioni seminali (v.).
SEMIOSI (ingl. Semiosis). Il processo in cui qualcosa funziona come segno, che
è l’oggetto proprio della semiotica, nel senso di Morris (Foundations of the
Theory of Signs, 1938, II, 2). L’espressione è equivalente a quella di
comportamento segnico dallo stesso Morris preferita nel volume Signs, Language
and Behavior, 1946, I, 2 (v. SEGNO). SEMIOTICA (gr. tò muiwrxéy; lat. Semioric;
franc. Sémiotique; ted. Semiotik). Il termine adoperato dapprima per indicare
la scienza dei sintomi nella medicina (cfr. GaLENO, Op., ed. Kiin, XIV, 689) fu
proposto da Locke per indicare la dottrina dei segni, corrispondente alla
logica tradizionale (Saggio, IV, 21, 4); e in seguito adoperato da Lambert come
titolo della terza parte del suo Nuovo organo (1764). Nella filosofia
contemporanea, C. Morris ha fatto prevalere, il concetto della S. come teoria
della semiosi (v.) più che del segno; e la divisione della S. stessa in tre
parti, che corrispondono alle tre dimensioni della semiosi: la semantica che
considera il rapporto dei segni con gli oggetti cui si riferiscono; la
pragmatica che considera la relazione dei segni con gli interpreti; e la
sintattica che considera la relazione formale dei segni tra loro (Foundations
of the Theory of Signs, 1938, II, 3). Accettata da Carnap (Foundations of Logic
and Mathematics, 1939, I, 2), questa distinzione si è largamente diffusa nella
filosofia e nella logica contemporanea (v. PRAGMATICA; SEMANTICA; SINTASSI).
SEMPLICE (gr. arà60g; lat. Simplex; inglese Simple; franc. Simple; ted.
Einfach). Ciò che manca di varietà o di composizione: vale a dire ciò che
esiste in un unico modo o che è privo di parti. Nel primo senso, come mancanza
di varietà, intese il S. Aristotele: « Nel senso primario e fondamentale è
necessario ciò che è S.: giacchè non è possibile che questo sia in modi diversi
o che sia ora in un modo ora in un altro » (Met., V, 5, 1015 b 12). Nel secondo
senso adoperò la parola Leibniz che definì la monade una sostanza S. perchè
senza parti (Monadologia, $ 1). TI concetto rimase fissato in questo senso per
opera di Wolff (Onrol., $ 673). Nella logica terministica medievale era
adoperato nello stesso senso il termine incomplexum (= non composto), come
contrario a complesso (v.): cioè o nel senso di un termine che è costituito da
una sola parola o nel senso del termine di una proposizione, sia esso
costituito da una o più parole (cfr. OckHAM, Expositio aurea, foglio 40 b). Per
semplicità come caratteristica delle ipotesi 0 delle teorie scientifiche
s'intende l’esigenza dell’econmomia (v.) cui esse devono obbedire (v. TEORIA).
Corrispondentemente, per semplificazione s'intende ogni procedura atta a
rendere economica la concettualizzazione o la teorizzazione, cioè ogni
procedura che riduca il numero o la complessità dei concetti adoperati.
SENSAZIONE (gr. atomo; lat. Sensus, Sensio; ingl. Sensation; franc. Sensation;
ted. Empfindung). Il termine ha due significati fondamentali: 1° un significato
generalissimo per cui designa la totalità della conoscenza sensibile cioè tutti
e ognuno i suoi costituenti; 2° un significato specifico per cui designa gli
elementi della conoscenza sensibile cioè le parti ultime indivisibili da cui
essa si suppone costituita. Questo secondo significato ricorre soltanto nella
filosofia moderna. 1° Aristotele intende sotto il termine S.: a) le qualità
elementari come il bianco, il nero, il dolce, ecc. (De An., III, 2, passim); b)
la percezione dell’oggetto reale, che chiama S. in arto e che fa coincidere con
la realtà stessa dell’oggetto: onde una S. uditiva in atto è identica col suono
in atto (/bid., III, 2, 425b 26); c) la facoltà di sentire in generale o senso
comune (v.), al quale attribuisce la funzione di percepire i sensibili comuni e
le S. stesse (cioè il sentir di sentire) (De Somno, 2, 455a 17; De An., III, 2,
426b 11; 415 b 12); d) il senso particolare o proprio come l’udito, la vista,
ecc. (De Somno, 2, 455 a 14; De An., III, 2, passim); e) l’organo di senso, più
frequentemente detto sensorio (De Part. An., II, 10, 657a 3; IV, 10, 686a 8; De
Sensu, 3, 440 a 19). Questa terminologia si mantiene lungamente nella storia
del pensiero occidentale cioè sino a quando, con Cartesio, il concetto di S.
comincia ad essere nettamente distinto da quello di percezione. 2° Nel suo più
specifico significato il concetto di S. fu delimitato da Cartesio che intese
per essa il semplice avvertimento dei « movimenti che vengono dalle cose » e la
distinse dalla percezione che è invece il riferimento alla cosa esterna
(Passions de l’îme, I, 23). Da questa distinzione, che si consolidò sempre più
dopo Cartesio, specialmente per opera della Scuola scozzese, la S. veniva
ridotta ad essere l’unità elementare della conoscenza sensibile, quel che Locke
chiamò «idea semplice », e considerata come il materiale della conoscenza;
mentre la funzione conoscitiva vera e propria, cioè il riferimento all’oggetto,
veniva assunta dalla percezione (v.). È questo il concetto che fu accettato e
diffuso da Kant: « La S., egli disse, è l’elemento puramente soggettivo della
nostra rappresentazione delle cose che son fuori di noi; ma è propriamente
l’elemento materiale della rappresentazione stessa, il reale, ciò con cui è
dato alcunchè di esistente » (Crit. del Giud., Intr., $ VII; cfr. Crit. R.
Pura, $ I; Dialettica trascendentale, libro I, sez. I: « Una percezione che si
riferisca unicamente al soggetto come modificazione del suo stato, è S. »). Il
carattere primordiale o elementare della S. veniva egualmente accentuato da
Hegel, per quanto in forma arbitraria e fantastica: «La S. è la forma
dell’agitarsi ottuso dello spirito nella sua individualità priva di coscienza e
di intelletto ». In un certo senso è vera, secondo Hegel, l’asserzione che
«tutto è nella S.» nel senso che tutto ha la fonte e l’origine in essa; ma
fonte e origine significano solo la maniera prima e più immediata in cui
qualcosa appare e la S. non si giustifica da sè (Enc., $ 400). Il concetto di
S. come elemento semplice ed ultimo della conoscenza fu dapprima accettato e
illustrato da filosofi, poi posto a fondamento della nascente psicologia dai
primi cultori di questa scienza. Condillac fu il primo a realizzare la portata
di questo concetto. Se la S. è l’elemento ultimo della conoscenza, si deve poter
ricostruire, a partire da essa, l’intero mondo della conoscenza o dell’attività
spirituale umana. Questa è la dimostrazione che egli si accinse a dare nel
7ratfato delle S. (1754), nel quale assumeva a fondamento il principio che «il
giudizio, le riflessioni, le passioni e in una parola tutte le operazioni
dell’anima non sono che la S. stessa che si trasforma variamente » (7raité des
sensations, Compendio della prima parte). Pur nella sua polemica contro il
sensismo, Maine de Biran riconosce il carattere semplice ed elementare della S.
(CEuvres, ed. Naville, II, pag. 115); come le riconosce tale carattere Herbart
(Allgemeine Metaphysik, 1828, II, pag. 90). Il concetto del carattere
elementare della S. fu posto a base della psicologia da H. Spencer che affermava
che «le S. sono stati di coscienza primariamente indecomponibili » (Principles
of Psychology, 1855, $ 211). Il principio veniva consacrato da G. Fechner nei
suoi E/emente der Psychophysik (1860) e da Wundt il quale esplicitamente
definiva le S. come « quegli stati di coscienza che non si trali e quindi come
i componenti semplici di ogni oggetto sia fisico sia psichico (Analyse der
Empfindungen, 1903, 48 ediz., pag. 14, 17, ecc.). Le esperienze elementari di
cui R. Carnap parlava nella Costruzione logica del mondo sono ancora le S. (Die
logische Aufbau der Welt, 1928, $ 67). Quando la psicologia della forma (v.
PSICOLOGIA) ba eliminato l’atomismo e l’associazionismo della vecchia
psicologia, il concetto di S. è diventato pressochè inutile. Ancora la psicologia
parla di S. per indicare i suoni, colori, ecc. Ma poichè questo materiale viene
dato all’uomo soltanto nel suo riferimento all’oggetto esterno, cioè nella
percezione, la percezione stessa diventa l’oggetto proprio della psicologia; e
il concetto della S. come unità psichica elementare diventa inutile. SENSIBILE
(gr. alo@nt6<; lat. Sensibilis; inglese Sensible; franc. Sensible; ted.
Sensibel). 1. Ciò che può essere percepito dai sensi. In questa accezione « il
S. » è l’oggetto proprio della conoscenza S. come « l’intelligibile » è
l'oggetto proprio della conoscenza intellettiva (ARIST., De An., II, 6, 418 a
7; KANT, Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III, Nota). Aristotele aveva
distinto i S. propri e i S. comuni (v. SENSO COMUNE); e il S. accidentale dal
S. per sè, in quanto il primo si percepisce accidentalmente, come accade quando
si percepisce il bianco percependo una persona che è bianca (De An., II, 6,
418a 16). 2. Ciò che ha la capacità di sentire. In questa accezione si chiamano
«esseri S.» gli animali o si dice che «x è particolarmente S. a qualcosa ». In
corrispondenza del significato 4° di senso (v.), si chiama talora S.,
specialmente in inglese, chi possiede buon senso o in generale è capace di
giudicare rettamente. 3. Chi ha la capacità di partecipare alle emozioni altrui
o di simpatizzare (v. SIMPATIA). SENSIBILITÀ (ingl. Sensibility, Feeling;
francese Sensibilité; ted. Sinnlichkeit). 1. L’intera sfera delle operazioni
sensibili dell’uomo, comprensiva sia della conoscenza sensibile sia degli
appetiti, degli istinti e delle emozioni. 2. La capacità di ricevere sensazioni
e di reagire agli stimoli. Per es., «La S. delle piante». 3. La capacità di
giudizio o di valutazione in un campo determinato. Per es., «S. morale», «S.
artistica 1, ecc. 4. La capacità di partecipare alle emozioni altrui o di
simpatizzare. In questo senso si dice sensibile chi si commuove con gli altri e
insensibile chi resta indifferente alle emozioni altrui (v. SIMPATIA). SENSISMO
(ingl. Sensationalism; franc. Sensualisme, Sensationisme; ted. Sensualismus).
La dottrina che riduce tutta la conoscenza alla sensazione € tutta la realtà
all'oggetto della sensazione. Kant chiamava sensista Epicuro (Crit. R. Pura,
Dottrina del Metodo, cap. IV). Il nome è stato, nella filosofia moderna,
riservato a quelle dottrine che ammetII, 5, 416b 33) e così è rimasto
costantemente definito nella tradizione filosofica (S. ToMmMaso, S. Th., I, q.
78, a. 3; Duns Sooro, /n Sent., I, d. 3, q. 8; WOLFF, Psychol. empirica, $ 67;
KANT, Antropologia, I, $ 7; ecc.). Il S. in questa accezione comprende sia la
capacità di ricevere le sensazioni sia la consapevolezza che si ha delle
sensazioni stesse e in generale delle proprie operazioni: capacità che nella
filosofia moderna è detta più spesso S. interno o riflessione (cfr. Locke,
Saggio, II, 1, 4; KANT, Crit. R. Pura, Estetica, $ 1); e talora S. intimo
(MAINE DE Biran, Journal intime, I, pag. 13-14; (Euvres, ed. Tisserand, pag.
15, ecc.) o coscienza (v.). 2. La sensazione o il complesso delle sensazioni, come
quando si dice «Il S. testimonia che... a. Oppure: gli appetiti sensibili e in
particolare i desideri sessuali. 3. L’organo di S., ciò che più propriamente si
chiama il sensorio o, nella terminologia moderna, il recettore. 4. La capacità
di giudicare in generale. In questo significato la parola viene adoperata nelle
seguenti espressioni: buon S., che Cartesio ritiene sinonimo di ragione e
definisce come «la facoltà di giudicar bene e di distinguere il vero dal falso
» (Disc., I). S. morale, che Shaftesbury (Characteristics of Men, 1711) e
Hutchinson (System of Moral Philosophy, 1755) assunsero come una capacità
istintiva di valutazione morale e quindi come guida infallibile dell’uomo. S.
razionale o S. logico, che Romagnosi assunse come l’attività che giudica e
ordina le sensazioni (Che cos'è la mente sana, 1827, $ 10). A questa stessa
accezione del termine si connette l’espressione S. comune sulla quale v. la
voce a parte; nonchè altre espressioni come S. pratico, S. degli affari, S.
artistico, ecc., che designano egualmente la capacità di giudicare o di
orientarsi nei campi particolari indicati dall’aggettivo o dal genitivo. 5. Lo
stesso che Significato (v.). SENSO COMPOSTO E DIVISO, FALLACIA DEL. V.
Composizione; DIVISIONE. SENSO COMUNE (gr. xowà aloBnos; latino Sensus communis;
ingl. Common Sense; franc. Sens commun; ted. Gemeinsinn). 1. Aristotele intese con questa
espressione la capacità generale di sentire, alla quale attribuì una duplice
funzione: 1° quella di costituire la coscienza della sensazione cioè il «sentir
di sentire» giacchè tale coscienza non può appartenere ad un organo particolare
di S., per es., alla vista o al tatto (De Somno, 2, 455a 13); 2° quella di
percepire le determinazioni sensibili comuni a più S., come il movimento, la
quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (De An., III, 1, 425 a
14). La nozione fu ammessa anche dagli Stoici che affidavano al S. comune le
stesse funzioni (StoBEO, Ecl., I, 50). Ripresa da Avicenna (De An., III, 30),
passò nella scolastica medievale (cfr.S. ToMmMaso, S. Th., I, q. 78, a. 4) ed
anche in seguito fu comunemente accettata da tutti gli aristotelici e dagli
scrittori che comunque si ispirarono alla psicologia aristotelica. 2. Nell’uso
degli scrittori classici latini, il termine ha il significato di consuetudine,
gusto, modo di vivere o di parlare comune. In questo senso, Cicerone avverte
che per l’oratore è difetto gravissimo «aborrire dal genere volgare del
discorso e dalla consuetudine del S. comune» (De Or., 1, 3, 12; cfr. 2, 16, 68);
e Seneca afferma che la filosofia intende sviluppare il S. comune (Ep., 5, 4;
cfr. 105, 3). Vico non faceva che esprimere in una formula lapidaria la
tradizione degli autori latini, quando affermava: « Il S. comune è un giudizio
senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un
popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano » (Sc. Nuova, 1744,
Degnità 12), e quando affidava al S. comune l’ufficio di accertare e
determinare «l’umano arbitrio, di sua natura incertissimo,... d’intorno alle
umane necessità o utilità » (/bid., Degnità 11). Allo stesso significato si
riconnette l’uso del termine presso la Scuola scozzese. Nella Ricerca sullo
spirito umano secondo i principî del senso comune (1764) T. Reid adopera
l’espressione per designare le credenze tradizionali del genere umano, ciò che
tutti gli uomini credono o devono credere. Il S. comune è, per tutta la Scuola
scozzese, il criterio ultimo di giudizio e il principio dirimente di tutti i
dubbi filosofici. L’espressione ricorre ora comunemente in un significato
analogo, per quanto privo dell’accentuazione elogiativa di cui la
privilegiavano i filosofi scozzesi. Dewey, ad es., sottolinea il carattere
pratico del S. comune. «Poichè i problemi e le indagini del S. comune riguardano
le interazioni che si stabiliscono da parte degli esseri viventi con l’ambiente
al fine di realizzare oggetti d’uso e di fruizione, i simboli impiegati sono
quelli che si sono determinati nella cultura corrente di un gruppo sociale.
Essi formano un sistema, ma si tratta di un sistema di carattere pratico
piuttosto che intellettuale. Questo sistema è costituito dalle tradizioni,
occupazioni, tecniche, interessi ed istituzioni stabilite del gruppo. Le
significazioni che lo compongono sono un portato del comune linguaggio
quotidiano col quale i membri del gruppo comunicano tra loro» (Logic, VI, 6;
trad. ital., pag. 170). 3. Nella dottrina di Kant il S. comune è il principio
del gusto cioè della facoltà di giudicare degli oggetti del sentimento in generale.
« Un tal principio, dice Kant, non potrebbe esser considerato che come un S.
comune, che è essenzialmente diverso dall’intelligenza comune la quale talvolta
si chiama anche S. comune (sensus communis); perchè questa giudica, non secondo
il sentimento, ma secondo concetti sebbene si tratti ordinariamente di concetti
oscuramente rappresentati » (Crif. de/ Giud., $ 20). L’intelligenza comune
(Gemeine Verstand) di cui qui parla Kant è il S. comune degli scrittori latini
e della Scuola scozzese che Kant ritiene inutile in filosofia (Prol., A 197);
seguito in ciò da Hegel e da altri (cfr. R. CANTONI, Tragico e senso comune,
pag. 35 sg.). SENSORIALE (ingl. Sensory; franc. Sensoriel; ted. Sensorisch).
Che concerne il sensorio, cioè l’organo di senso. SENSORIO (gr. alo@hpiov; lat.
Sensorium). Nella terminologia aristotelica, un organo di senso (De An., II, 9,
421b 32; De Part. An., II, 10, 657 a 3; ecc.): ciò che oggi si chiama un
recettore. SENSUALISMO (franc. Sensualisme). 1. L’atteggiamento che consiste
nell’attribuire importanza eccessiva ai piaceri dei sensi. In tale significato
adopera la parola Berkeley (A/ciphron, II, 16). 2. Lo stesso che sensismo (v.).
Quest’uso, che si presenta solo raramente in taluni scrittori francesi e
italiani del secolo scorso è dovuto alla suggestione del termine tedesco
corrispondente a sensismo, Sensualismus. SENSUALITÀ (lat. Sensualitas; ingl.
Sensuality; franc. Sensualité; ted. Sinnlichkeit). La tendenza a indulgere ai
piaceri sensibili. e, cioè all'amore. « Vicende S.+, «crisi S.+, ecc., sono
espressioni che si riferiscono a situazioni in cui è in giuoco l’amore e
precisamente l’amore sessuale. Spesso l’aggettivo S. include anche un
riferimento all'amore nel senso romantico (v.): come accade nel titolo di due
romanzi famosi: // viaggio S. di STERNE e L'educazione S. di Flaubert. In senso
specifico adoperò l’aggettivo F. Schiller per indicare una specie di poesia in
contrapposto alla poesia ingenua (v. INGENUITÀ). SENTIMENTALITÀ o
SENTIMENTALISMO (ingl. Sentimentalism; franc. Sentimentalisme; ted.
Sentimentalitàt). È l’abbandonarsi alle emozioni proprie o altrui, l’esaltarsi
in esse e per esse senza rapporto con la loro forza effettiva, il loro limite e
la loro funzione. Kant vide nel sentimentalismo la debolezza di lasciarsi dominare,
anche contro la propria volontà, dalla partecipazione allo stato emotivo degli
altri. La contrappose perciò alla padronanza di sè: la quale rende possibile
quella finezza di sentimento per cui si giudica dell’emozione degli altri, non
secondo la propria forza, ma secondo la loro debolezza. Di fronte alla
padronanza di sè, è ridicolo e puerile il lasciarsi dominare dall’emozione
altrui, abbandonandosi senza discrezione a partecipare a tale emozione (Antr.,
I, $ 62). In realtà però si ha sentimentalismo anche quando ci si abbandona
alle proprie emozioni o alla loro manifestazione esterna illudendosi sulla loro
forza e consistenza o amplificandone l’importanza. SENTIMENTO (ingl. Sentiment;
franc. Sentiment; ted. Geftihl). Il termine può significare: 1° lo stesso che
emozione nel significato più generale o qualche tipo o forma superiore di
emozione. Per questo significato v. EMOZIONE; 2° opinione, nel senso in cui si
dice « ho il S. che qualcosa non va » per significare un’opinione che si
ritiene esatta ma di cui non si saprebbe al momento dare giustificazione. Per
questo significato v. OPINIONE; 3° la fonte delle emozioni cioè il principio,
la facoltà o l’organo che presiede alle emozioni stesse e da cui esse
dipendono; ovvero la categoria nella quale esse rientrano. In questo senso la
parola viene ora adoperata nell’uso corrente, quando, per es., si contrappone
il «S.» alla «ragione» (considerata invece come l'organo o la facoltà delle
conoscenze obiettive) e in frasi come questa: «La politica non si fa col sentimento
». Quest’uso trova la sua giustificazione in una tradizione filosofica
relativamente recente cioè in quella della filosofia moderna. Difatti la
filosofia antica e medievale non conosce il S. come fonte o principio di
affezioni, affetti o emozioni e pertanto non adopera questa nozione come
categoria per ordinare e classificare le affezioni dell'anima. Nè la psicologia
platonica, che distingue un'anima razionale, un’anima concupiscibile e una
anima irascibile (Rep., IV, 12-15); nè la psicologia aristotelica che distingue
un principio vegetativo, un principio sensitivo e un principio intellettivo (De
An., II, 2) riconoscono una fonte e un principio autonomo delle emozioni, le
quali vengono ripartite tra le varie partizioni o princìpi ammessi, non esclusa
quella razionale o intellettiva. Lo stesso accade nella filosofia medievale che
segue le orme della psicologia aristotelica. In realtà, il riconoscimento di
una fonte o principio autonomo delle emozioni è connesso col riconoscimento
della soggettività umana come alcunchè di irreducibile a un complesso di
elementi oggettivi od oggettivabili o a modificazioni passive prodotte da tali
elementi. Questo riconoscimento caratterizza gl’inizi della filosofia moderna
ed è, come si sa, un portato del cartesianesimo. I presupposti di questo
riconoscimento vanno ricercati in quella linea di pensiero che va da Pascal ai
moralisti francesi e inglesi (La Rochefoucauld, Vauvenargue, Shaftesbury e
Hume) sino a Rousseau SENTIMENTO e a Kant e culmina in quest’ultimo: quello
stesso indirizzo che ha portato all’elaborazione del concetto moderno di
passione, come emozione dominante, e a quella nozione di gusto (v.) che è
strettamente collegata con quella di sentimento. Il «S.», il «cuore ?, lo
«spirito di finezza » furono le espressioni adoperate da Pascal per indicare il
principio o l’organo delle emozioni, in quanto distinto dal principio o
dall’organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. «Quelli che sono avvezzi a
giudicare col S., dice Pascal, non capiscono niente nelle cose di ragionamento
perchè vogliono penetrar subito la questione con un colpo d’occhio e non sono
avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, al contrario, che sono avvezzi a
ragionare per princìpi, non capiscono niente delle cose di S. perchè ricercano
i princìpi e non possono coglierli con un sol colpo d’occhio » (Pensées, 3). Al
S. o al cuore è dovuta la stessa certezza che i primi princìpi del ragionamento
hanno («I princìpi si sentono, le proposizioni si deducono e in ciascuna di
queste due forme vi è certezza, quantunque raggiunta per vie diverse »); e al
S. e al cuore è affidata la vera religiosità cui il ragionamento può solo
avvicinare e di cui solo può dare l’attesa (/bid., 282). All’elaborazione e al
riconoscimento della categoria del S. hanno poi contribuito i moralisti inglesi
e francesi sopra accennati con la loro accentuazione della parte dominante
delle emozioni nella vita dell’uomo. Infine bisogna ricordare che il « ritorno
alla natura » bandito da Rousseau come lo strumento adatto a liberare l’uomo
dai mali prodotti dagli artifici sociali e a riportarlo alla bontà originaria,
è inteso da lui come ritorno al primitivo S. naturale. Il S. naturale è un
istinto, una tendenza originaria, che porta l’uomo al bene; e che quando non è
alterata, sofisticata o bloccata, lo mantiene e lo fa progredire nel bene
stesso. In queste famose tesi di Rousseau sta forse la prima nascita della
categoria del S. come principio a sè della vita spirituale. Ma il primo che ha
teorizzato, filosoficamente, questa categoria e l’ha inclusa in una nuova
tripartizione dei poteri o delle facoltà spirituali, è stato probabilmente
Kant. Mentre Wolff (e sulle sue orme i wolffiani) ammetteva soltanto due
attività fondamentali dello spirito umano, il conoscere e il volere, oggetti delle
due branche fondamentali della filosofia, la teoretica e la pratica, Kant ha
riconosciuto un terzo potere o facoltà, quello del sentimento. « Tutti i poteri
o le facoltà dell’anima, dice Kant (Crir. d. giud., Intr., $ III) possono
essere ricondotte a tre, che non si lasciano ulteriormente ridurre a un
principio comune: il potere conoscitivo, il S. del piacere o del dolore e il
potere di desiderare +. Il S. del piacere o del dolore deve essere inserito tra
il potere conoscitivo e il potere di desiderare e gli deve essere riconosciuto
un proprio principio autonomo, che Kant chiama facoltà del giudizio (v.). Il S.
è così il campo proprio della critica della facoltà del giudizio, come la
facoltà di desiderare è il campo proprio della critica della ragion pratica.
Kant contrassegna il S. come l’aspetto irriducibilmente soggettivo di ogni
rappresentazione. Egli dice (/bid., $ VIN): «Quello che vi è di soggettivo in
una rappresentazione e che non può affatto diventare un pezzo di conoscenza è
il piacere o il dolore che è legato con la rappresentazione; giacchè attraverso
di essi io non conosco nulla dell'oggetto della rappresentazione sebbene essi
possano essere l’effetto di una qualche conoscenza ». Conformemente a questa
rivendicazione dell’autonomia del S. come categoria spirituale, Kant divide la
prima parte della sua Antropologia pragmatica, parte destinata al « modo di
conoscere interno ed esterno dell’uomo» in tre libri rispettivamente dedicati
al potere conoscitivo, al S. del piacere e del dolore e al potere appetitivo. A
sua volta, il secondo libro è diviso in due parti principali, la prima dedicata
al «S. del piacevole e del piacere sensibile nella sensazione di un oggetto »;
la seconda dedicata al « S. del bello, cioè al S. in parte sensibile, in parte
intellettuale proprio dell’intuizione riflessa o del gusto». Questa seconda
parte ricapitola in forma popolare i risultati della Critica del giudizio, la
prima contiene una serie di osservazioni sul S. del piacere e del dolore in
connessione con i dati dei sensi (cfr. pure, Mer. der Sitten, Intr., 1, nota)
(v. EMOZIONE). Con ciò il S. aveva fatto il suo ingresso ufficiale come
categoria indipendente nella considerazione filosofica dell’uomo. Hegel stesso
lo accoglie come una determinazione dello spirito soggettivo e lo definisce
come «un’affezione determinata», ma determinata in modo semplice cioè tale che,
anche se il suo contenuto è solido e vero (e non sempre lo è) esso assume la
forma di « particolarità accidentale ». Hegel aggiunge: «Quando un uomo, discutendo
di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa o almeno alla
ragione, all’universalità dell’intelletto, ma al suo S., non c'è altro da fare
che lasciarlo stare; perchè egli in tal modo si rifiuta di accettare la
comunanza della ragione e si rinchiude nella sua soggettività isolata, nella
sua particolarità » (Enc., $ 447). Hegel era su questo punto in polemica con
l’indirizzo letterario del Romanticismo. Questo infatti fece della scoperta e
dell’esaltazione del S. la propria bandiera, scorgendo nel S. stesso la forma
più intima e nello stesso tempo più libera della vita spirituale. Per i
Romantici artista può essere solo colui che, come dice Federico Schlegel
(/deen, $ 13), «ha una sua religione, un’intuizione originale 30 dell’infinito
». Questa intuizione originale dell'infinito è ciò che i Romantici chiamano
sentimento. Il S., in altri termini, è la manifestazione dell’Infinito, cioè di
Dio stesso, all’intimità della coscienza. I tratti che definiscono il S. nella
concezione romantica sono perciò due: 1° il suo carattere di intimità estrema,
per cui esso costituisce quanto di più soggettivo c’è nel soggetto; 2° la sua
capacità di rivelare il Principio infinito della realtà. Per questo secondo
aspetto il S. viene inteso dai Romantici, alternativamente o
contemporaneamente, come l’organo proprio dell’arte, della filosofia e della
religione. Come organo della religione lo considerò Schleiermacher in quanto
ritenne che « il S. soltanto rivela l’Infinito » (Reden, II; trad. ital., pag.
43): una tesi che è stata poi ripresentata e difesa frequentemente. In tempi
recenti come organo dell’arte il S. è stato considerato da Gentile (Filosofia
dell’arte, 1931) in quanto l’arte è la « pura, intima, e farà quindi una parte
importante alle donne, che rappresentano per l’appunto l’elemento affettivo del
genere umano (Politique positive, I, pag. 204 sgg.). Questo accadrà perchè la
morale di questa futura società sarà l’altruismo, ma un altruismo sviluppato al
punto di creare inclinazioni o istinti benevoli, che agiscano, come fa appunto
il S., senza più bisogno della riflessione. Le preoccupazioni religiose e
morali di Comte lo condussero ad insistere sul valore del S. e ad esaltare il
S. stesso in modo romantico. Ma al di fuori e contro il Romanticismo, il S. fu
accolto come categoria fondamentale della vita spirituale e cioè come una delle
« facoltà » o « poteri + dello spirito. Ed è curioso che mentre Kant aveva,
come si è visto, ammessa la tripartizione di conoscenza, S. e volontà, solo in
base a un modesto ma valido motivo metodologico, cioè per la ragione che i tre
gruppi di fenomeni non si lasciano ricondurre ad un principio comune, subito
dopo Kantquesta tripartizione comincia ad essere dogmatizzata: a Fries essa già
appare come un risultato immediato dell’osservazione di sè (Anthropologie, T,
1837, $ 4). Herbart, per quanto negasse la dottrina delle facoltà dell'anima e
ritenesse che esse sono piuttosto «concetti di classe +, secondo i quali si
ordinano i fenomeni osservati, incluse tuttavia tra tali concetti di classe
quello di sentimento. E Benecke vedeva nel S. le basi della morale e della
religione, la quale ultima si originerebbe appunto dal S. di dipendenza
dell’uomo da Dio, S. giustificato dalla frammentarietà della vita umana e
dall’esigenza di un completamento che può venirle solo da Dio (System der
Metaphysik und Religionsphilosophie, 1840). Rosmini considerò il S. come la
coscienza di sè che è il punto di partenza e la base per ogni conoscenza
dell’anima (Psicologia, $ 69). La tripartizione delle facoltà dello spirito in
conoscenza, sentimento e volontà rimase come uno schema pressochè costante
nella filosofia del secolo xtx. Alla sua diffusione molto contribuì l’opera di
Cousin che a quella tripartizione fece corrispondere tre valori assoluti: il
Vero, il Bello e il Bene (Du vrai, du beau et du bien fu il titolo della più
nota opera di Cousin, 1853). E se si prescinde dalle critiche di carattere
metodologico sull’opportunità di simili rigidi schemi di ripartizione per la
considerazione dei fenomeni spirituali, quella ripartizione è tuttora la più
diffusa e si è incorporata con il modo comune di pensare. Una eccezione è
rappresentata da Croce, che ha ridotto le forme dello spirito alle due ammesse
già da Wolff: la teoretica e la pratica con una critica del S. considerato come
categoria spuria ed ambigua. Nel S., Croce ha visto una parola « adoperata a
denominare una classe di fatti psichici costituita secondo il metodo
naturalistico e psicologico »: una nozione che ha esercitato varie volte
nell’estetica, nella storiografia, nella logica e nell’etica una funzione
negativa e critica, contrapponendo a interpretazioni troppo limitate ed anguste
ciò che di « indeterminato » e «semi-determinato + rimaneva fuori di tali
interpretazioni. La testimonianza a cui egli fa appello per rigettare questa
categoria, è quella dell’osservazione interiore: « Cerchi chi vuole nel suo
spirito; e si provi a indicare un atto solo che sia a differenza dei sopra
indicati [cioè degli atti teoretici e pratici] qualcosa di nuovo e originale e
meriti la speciale denominazione di S. » (Fil. della pratica, I, I, c. 2). Ma
questo genere di testimonianza è oltremodo variabile e fuori di qualsiasi
controllo; a Fries, per es., e a molti altri, la distinzione del S. dalle altre
attività spirituali parve così lampantemente sostenuta dalla testimonianza
interiore come a Croce è parsa da essa smentita. E in realtà l’uso di tali
categorie, come S., attività teoretica, attività pratica, può essere discusso e
quindi limitato e regolato, solo in base all’analisi precisa di un gruppo
delimitabile di fenomeni: analisi che Croce non ha neppure tentato. Nella
filosofia contemporanea, tuttavia, tali analisi non mancano e sono tra i
contributi meno discutibili che essa ha portato ad una positiva conoscenza
dell’uomo nel suo mondo. Uno di questi contributi e fra i più importanti è
quello di Max Scheler; il quale si è rifatto alle parole di Pascal, « Il cuore
ha ragioni che la ragione non conosce +, interpretandole non nel senso,
abbastanza frequente della filosofia moderna e contemporanea (v. CUORE), che la
ragione debba avere una certa condiscendenza per il S. e cercare di rispondere
alle sue esigenze, ma nel senso che il S. ha sue proprie leggi e suoi propri
oggetti e costituisce così un mondo rispetto a quello della conoscenza
razionale. Scheler comincia col distinguere, dai semplici stati emotivi che non
hanno carattere intenzionale, non si riferiscono cioè immediatamente ad un loro
proprio oggetto (v. EMOZIONE), il S. originario e intenzionale che è invece una
particolare reazione allo stato emotivo e consiste nel modo estremamente vario
e mutevole di atteggiarsi di fronte allo stato emotivo cioè di affrontarlo,
tollerarlo, goderlo, soffrirlo, ecc. Per es., uno stato emotivo è il piacere
sensibile corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di un profumo, di
un lieve contatto. Il S. puro consiste invece nelle reazioni dell’io a tale
stato emotivo: per es., nel goderlo più o meno o nel tollerarlo, ecc. Sicchè
mentre uno stato emotivo rientra nel contenuto fenomenico, un S. puro rientra
nelle funzioni destinate ad apprendere tale contenuto. Da questo punto di vista
l'attitudine a soffrire e a godere non ha nulla a che fare con la sensibilità
nei riguardi del piacere e del dolore. Il grado del piacere o del dolore può
essere lo stesso, eppure la sofferenza o il godimento che hanno di tale piacere
o dolore due individui o lo stesso individuo in momenti diversi può essere
completamente diverso. Ora mentre gli stati emotivi si possono riferire solo
indirettamente agli oggetti o fatti che li provocano o di cui sono considerati
i segni, i sentimenti puri si riferiscono immediatamente ad un loro oggetto
specifico, che è il valore. Il S. ha quindi col valore l'identica relazione che
si riscontra fra la rappresentazione e il suo oggetto: la relazione
intenzionale (v. INTENZIONALITÀ). Mentre occorre un atto di riflessione per
connettere uno stato emotivo con l’oggetto di cui è segno o che riteniamo
l’abbia provocato, il S. è connesso col suo oggetto specifico, il valore, in
modo immediato, come accade, per es., quando sentiamo la bellezza dei monti
nevosi al tramonto. La connessione intenzionale tra S. e valore non ha quindi
nulla a che fare con un legame causale tra S. ed oggetto ed è anche indipendente
con la causalità psichica individuale cioè dalle leggi che regolano la vita
psichica dell’individuo. E difatti quando le esigenze dei valori non sono
sodisfatte, noi soffriamo, ad es., di non poterci rallegrare di un avvenimento
quanto il suo valore meriterebbe, oppure di non poterci rattristare come, ad
es., la morte di una persona amata lo richiederebbe (Formalismus, pag. 260
sgg.). In tal modo, secondo Scheler, il S. apre l’accesso ad un mondo di
oggetti, che sono altrettanto reali come le cose o i fatti che sono gli oggetti
della rappresentazione, ma non hanno nulla in comune con essi perchè non sono
nè cose nè fatti, ma valori. Scheler è pertanto d’accordo con Kant nel ritenere
che il S. non sia «un pezzo di conoscenza »; ma non è d’accordo con lui nel
ritenere che esso non abbia alcun oggetto e sia quindi privo di carattere
intenzionale. Sono privi di oggetti e sono quindi puri stati emotivi solo le
emozioni sensibili, mentre i sentimenti vitali e quelli psichici possono sempre
rivelare un carattere intenzionale (cioè riferirsi ad un oggetto-valore) e
quelli spirituali lo rivelano necessariamente (per la distinzione dei gradi
emozionali, v. EMOZIONE). L'analisi di Scheler è molto importante perchè getta
nuova luce sulla vita emozionale dell’uomo. Essa tuttavia è stata fatta
servire, da Scheler stesso, alla fondazione di una vera e propria metafisica
dei valori, nella quale i che sia suscettibile di controllo (v. REALTÀ) e non
c’è ragione d’identificare l’intenzionalità emotiva con l’intenzionalità conoscitiva;
anzi Scheler stesso dà buone ragioni in contrario. Se le cose stanno così, se
cioè l’intenzionalità del S. è differente dall’intenzionalità della conoscenza,
e sono così diversi i rispettivi oggetti, la critica mossa da Scheler
all’indirizzo della psicologia contemporanea di negare « la funzione
conoscitiva » dei S., perde la sua base. La psicologia contemporanea ammette
infatti la funzione dei S. nel comportamento vitale dell’organismo e vede in
essi l’annunzio di situazioni presenti o future, annunzio che permette di
affrontare tali situazioni al modo in cui un dispositivo d’allarme mette in
opera i mezzi per affrontare un pericolo. Come Scheler, Heidegger ha
riconosciuto l’importanza fondamentale del S., che egli ritiene radicato nella
sostanza stessa dell’uomo, cioè nella struttura ontologica della sua esistenza.
Heidegger chiama situazione affettiva (Befindlichkeit) la tonalità emotiva
dell’affaccendarsi quotidiano dell’uomo e vede in questa tonalità una
manifestazione essenziale dell’essere dell'uomo nel mondo. « L’emotività
propria della situazione affettiva, egli dice (Sein und Zeit, $ 29) costituisce
essenzialmente l’essere aperto del mondo da parte dell’Esserci, cioè dell’uomo
esistente ». Il poter essere colpito dalla minaccia delle cose o degli eventi
del mondo e il reagire a questa minaccia con la paura o con l’intrepidezza, è,
secondo Heidegger, la situazione fondamentale di un ente, che come l’uomo vive
in un ambiente che gli fornisce le cose da utilizzare e che perciò lo può
minacciare con la non utilizzabilità, con la resistenza delle cose stesse.
Anche qui, se si prescinde dal linguaggio specifico dell’ontologia di
Heidegger, l’analisi risulta fondamentalmente concordante con quella della
psicologia contemporanea; e la nozione del S. come capacità di apprendere il
valore che un fatto o una situazione presenta per l’essere (animale o uomo) che
la deve affrontare, ne esce riconfermata. Infine bisogna ricordare che il
riconoscimento del S. come « sede primaria della datità dei valori » è stato
effettuato anche da Nicolai Hartmann, che l’ha posto a base della sua etica
(Ethik, 1926). SENTIMENTO FONDAMENTALE. Con questo termine Rosmini ha indicato
la coscienza che l’uomo ha del proprio io e della connessione, costitutiva di
esso, di anima e corpo. « Nell'uomo, quale è naturalmente al primo istante del
viver suo, vi è: 1° un sentimento unico costante-fondamentale,
animale-spirituale; 2° una percezione razionale, immanente, del sentimento
animale » (Psicologia, 1850, $ 256). SEPARAZIONE (gr. Bwxpiow; lat. Separatio;
franc. Séparation; ted. Trennung). La risoluzione di un composto nelle sue
parti o nei suoi elementi. Il termine fu usato da Anassagora (Fr., 10, Diels) e
da Empedocle (#7., 58, Diels) (cfr. PLAT., Sof., 243b; ArRIsT., Met., I, 4, 985
a 25). SEQUENZA (lat. Sequentia; ingl. Sequence; franc. Séquence; ted. Folge).
Un insieme di termini tra i quali intercede una relazione di prima e dopo (cfr.
PelrcE, Coll. Pap., 3. 562 B). SERIE (ingl. Series; franc. Série; ted. Reihe).
1. Un insieme di termini tra i quali intercorre una qualsiasi relazione
definibile. 2. Una relazione asimmetrica, transitiva e coerente. In questo
senso la S. non è l’insieme dei termini cioè il campo della relazione, ma la
relazione stessa; e, per es., le S.: 1, 2, 3; 1, 3, 2; 2, 3, 1, sono diverse
per quanto abbiano lo stesso campo (cfr. B. RussELL, Introduction to
Mathematical Philosophy, IV; trad. ital., pag. 47) (v. RELAZIONE). SERIETÀ
(ingl. Earnestness; franc. Sérieux; tedesco Ernst). Kierkegaard ha fatto della
S. una specie di categoria morale definendola come « l’originalità conquistata
dal sentimento, conservata nella responsabilità della libertà e affermata nel
godimento della beatitudine». La S. consiste nella ripetizione (v.) ed è la
condizione affinchè la ripetizione stessa non diminuisca il valore degli atti
ripetuti (Der Begriff Angst, IV, $ 2, 0). SESSO (ingl. Sex; franc. Sexe; ted.
Sex). 1. I filosofi si sono solo raramente occupati del sesso come di un
costituente dell’uomo. Nel Convivio platonico Aristofane espone, sulle origini
del sesso, il mito degli androgini, dai quali per separazione voluta da Zeus a
scopi punitivi sarebbero derivati i due sessi complementari (Conv., 189 e). Ma
le speculazioni platoniche vertono propriamente, non sul S., ma sull’amore. E
così fanno quelle di altri filosofi, compreso Schopenhauer che nella sua
Metafisica dell’amore sessuale considera l’amore sessuale come il semplice
espediente di cui «il genio della specie », cioè la Volontà di vita, si
servirebbe per favorire l’opera oscura e problematica della propagazione della
specie. Nel mondo moderno, l’azione della psicanalisi (v.) ha richiamato
l’attenzione dei filosofi sul S.; e specialmente i fenomenologici e gli
esistenzialisti si sono occupati dei fenomeni relativi. Una valorizzazione
dell'atto sessuale come forma di espressione della personalità umana è stata
tentata da Max Scheler nel libro sulla Wesen und Formen der Sympathie (1923;
trad. franc., pag. 168 sgg.). E mentre Heidegger ha considerato come privo di
sessualità il Dasein, Sartre ha considerato la sessualità stessa come una
struttura fondamentale dell’esistenza. Dice Sartre: « Benchè il corpo abbia un
compito importante, bisogna riportarsi all’essere nel mondo e all’essere per
altri: io desidero un essere umano, non un insetto o un mollusco e lo desidero
in quanto esso è, ed io sono, in situazione nel mondo, e in quanto è un altro
per me e io sono un altro per esso » (L’étre et le néant, 1943, pag. 452-53).
Il sesso sarebbe la struttura fondamentale dell’esistenza umana in quanto
esistenza nel mondo (cfr. pure ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 55)
(v. AMORE; PSICANALISI). 2. I filosofi hanno invece spesso insistito sulla
differenza sessuale. Aristotele ritenne che la donna costituisce una
mostruosità naturale, resa tuttavia inevitabile dalla conservazione della
specie (De Gen. An., 7, 775 a 15-17). La donna differisce dall’uomo per il
grado minore in cui partecipa dei poteri della ragione (Po/., 1260 a 11-14):
pertanto il suo posto è subordinato a quello dell’uomo e a le funzioni
biologiche entra poco o nulla. SETTA (lat. Secta; ingl. Sect; franc. Secte;
ted. Sekte). 1. Scuola o indirizzo filosofico. In questo senso la parola è
usata dagli scrittori latini (CIcER., Brut., 31, 120; Quint., /st. Or., V, 7, 35,
ecc.). 2. Gruppo di persone che difendono con fanatismo o intolleranza una
credenza qualsiasi. In questo senso si adopera oggi l'aggettivo sertario. SFERA
(gr. cpaipo, opatpoc; lat. Globus; inglese Globe; franc. Globe; ted. Sphdre).
Secondo gli antichi la figura perfetta, che comprende in sè tutte le altre
figure ed è l’immagine dell’omogeneità e della perfezione (cfr. PLAT., Tim., 33
b). Parmenide paragonava ad una «S. perfettamente rotonda » l’essere in quanto
è definito da ogni parte, uguale a se stesso e tale che in nessuna sua parte
sia maggiore O minore di se stesso (Fr., 8, 41, Diels). Ed Empedocle chiamava
sfero la fase perfetta dell’essere, quella nella quale domina l’amicizia: « Ma
da ogni parte era uguale e per tutto infinito, lo sfero rotondo che gode della
sua avvolgente solitudine» (F7., 28, Diels). Nel Rinascimento, Nicolò Cusano
riprendeva queste speculazioni, insistendo sulla perfezione della figura
circolare (De docta ignorantia, I, 21) e attribuendo la forma sferica all’anima
stessa (De ludo globi, I). SFORZO (ingl. Effort; franc. Effort; ted. Streben).
L'attività diretta a vincere un ostacolo o una resistenza qualsiasi. La nozione
fu introdotta in filosofia da Fichte che se ne avvalse per mostrare la
derivazione della realtà dall’Io: « L’attività pura dell’io, rientrante in se
stessa, è, in relazione ad un oggetto possibile, uno S.; anzi, uno S. infinito.
Questo S. infinito è all’infinito la possibilità di ogni oggetto: senza S., non
c’è oggetto» (Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II; trad. ital., pag. 213-14).
Maine de Biran si avvalse della nozione e identificò con l’esperienza immediata
dello S. sia il principio metafisico di causalità sia la libertà dell’io. Preso
nella sua sorgente, lo S. è libertà cioè è l’io come libertà; nei confronti della
resistenza che gli si oppone, è necessità (Fondements de la psychologie, in
CEuvres, ed. Naville, II, pag. 284). Si può considerare questo concetto come
una continuazione del più antico concetto di corato (v.). SI (ted. Man). V.
ANONIMIA. SIGNIFICANZA (ingl. Significance; ted. Bedeutsamkeit). 1. Lo stesso
che significato (v.). 2. Importanza o valore. Da questo punto di vista si
chiamano, per es., significanti gli eventi di importanza storica. SIGNIFICATO (gr. rexrév; lat.
Significatio; ingl. Meaning; franc. Signification; ted. Bedeutung). Si intende con questo termine la dimensione semantica
del procedimento segnico cioè la possibilità di riferimento del segno al suo
oggetto. Gli aspetti (o condizioni) fondamentali del S. sono due: 1° un nome o
un concetto o una essenza (per es., « Alessandro Manzoni», «uomo», «l’autore
dei Promessi Sposi »), usato allo scopo di delimitare e orientare il
riferimento; 2° l’oggetto (per es., rispettivamente, Alessandro Manzoni, gli
uomini, Alessandro Manzoni) al quale il nome o il concetto o l’essenza è riferito.
I due aspetti del S. sono inscindibili; il secondo è una funzione del primo
perchè è il nome o concetto che determina a quale oggetto il riferimento possa
o non possa indirizzarsi. Ma i due aspetti non si identificano tra loro giacchè
l’oggetto può essere lo stesso, mentre il nome o concetto adoperato per il
riferimento è diverso: come nel caso di « Alessandro Manzoni + e «l’autore dei
Promessi Sposi» che si riferiscono allo stesso oggetto ma sono nomi diversi. Nè
le determinazioni che hanno lo stesso oggetto possono essere ritenute
equivalenti perchè non sono sostituibili l’una all’altra; e, per es., chiedere
« se Alessandro Manzoni è l’autore dei Promessi Sposi + non è lo stesso che
chiedere « se Alessandro Manzoni è Alessandro Manzoni». La differenza tra i due
aspetti del S. (o la relazione tra di essi) costituisce la base dei problemi
cui il termine ha dato luogo e delle diverse definizioni che ha ricevuto. Gli
Stoici, che hanno fondato la dottrina del S., riconobbero entrambi gli aspetti
di esso. « Tre sono gli elementi che si collegano, il S., ciò che significa e
ciò che è. Ciò che significa è la voce, per es., ‘ Dione ’. Il S. è la cosa
indicata dalla voce, che noi cogliamo pensando alla cosa corrispondente. Ciò
che è, è il soggetto esterno, per es., lo stesso Dione» (Sesto EMP., Adv.
Math., VIII, 12). Più particolarmente, il S. è per essi « una rappresentazione
razionale cioè una rappresentazione grazie alla quale e possibile esporre con
un discorso ciò che è rappresentato » (/bid., VIII, 70; Dio. L., VII, 63). In
queste notazioni i due aspetti del S. sono chiamati rispettivamente « voce » o
« rappresentazione razionale » e « ciò che è » o «soggetto ». «Ciò che è» o «il
soggetto » è il S. come oggetto; la «voce» o la «rappresentazione razionale » è
il S. come nome, concetto o essenza. Gli Stoici riservano particolarmente a
quest’ultimo il nome di S.; e in ciò (come vedremo) sono seguiti da alcuni
autori moderni. Nella logica medievale, la distinzione tra i due aspetti del S.
fu espressa come distinzione tra significazione e supposizione. Dice Pietro
Ispano: « La supposizione e la significazione differiscono perchè la
significazione è fatta mediante l'imposizione di una voce per significare un
oggetto, ma la supposizione è l’accezione di un termine già significante per
qualcosa d'altro, e, per es., quando si dice ‘l’uomo corre’, questo termine
‘l’uomo ’ sta per Socrate e per Platone. La significazione perciò è precedente
alla supposizione e le due cose non sono identiche giacchè il significare è
proprio della voce e la supposizione è propria del termine che è già composto
di voce e S.» (Summ. Log., 6.03). Qui per significatio viene inteso ciò che gli
Stoici intendevano per lecton: il concetto o la rappresentazione che è
adoperata per il riferimento obbiettivo, mentre il riferimento obbiettivo
stesso è designato come suppositio. Ma in più degli Stoici questa dottrina
include la separazione dei due aspetti del S., attribuendo il primo ai termini
isolatamente presi, il secondo ai complessi cioè alle proposizioni. Una
dottrina identica veniva esposta nel Medio Evo da Ockham (Summa Logicae, I,
63), da Buridano (Sophismata, 2) e da Alberto di Sassonia (Logica, II, 1);
mentre S. Tommaso accennava a una dottrina diversa solo terminologicamente, per
la quale il S. e la supposizione coincidono nei termini singolari ma non in
quelli generali, per i quali il S. è l’essenza (S. Th., I, q. 39, a.4, in
principio). Sulla distinzione fra i due aspetti del S. si fonda la distinzione
che la logica moderna di stampo tradizionale ha stabilito tra i due elementi
del concetto: chiamati talora comprensione ed estensione {v. COMPRENSIONE);
talaltra intensione ed estensione (v. INTENSIONE): talaltra ancora connotazione
e denotazione (v. ConnoTazIoNE). La prima coppia di termini fu introdotta dalla
logica di Portoreale (I, 6); la seconda da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9);
la terza da Stuart Mill (Logic, I, 1,8 59). Quest'ultimo proponeva di
restringere il significato di S. alla connotazione, chiamando denotazione il
riferimento obbiettivo. Egli diceva: « Ogni volta che i nomi dati agli oggetti
apportano qualche informazione cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un
S., il S. risiede non in ciò che essi denotano ma in ciò che essi connotano. I
soli nomi di oggetti che non connotano niente sono i nomi propri; e questi,
strettamente parlando, non hanno significato » (/bid., I, 2, $ 5). Ciò che egli
intendeva con connotazione appare chiaro dal seguente passo: «La parola uomo,
per es., denota Pietro, Gianna, Giovanni e un numero indefinito di altri
individui, dei quali, presi come una classe, esso è il nome. Ma quella parola
viene applicata ad essi in quanto essi posseggono, e per significare che
posseggono, certi attributi » (/bid.). Gli attributi che costituiscono l’uomo e
cioè ad es., la corporeità, l’animalità, la razionalità, ecc. formano pertanto
la connotazione del nome « uomo »: ciò che nella tradizione filosofica si
chiamava «essenza» o, più tardi, «concetto». G. Frege non faceva pertanto che
dare espressione ad una vecchia e nuova tradizione distinguendo senso e
significato. « Pensando a un segno, diceva, (sia esso un nome o un nesso di più
parole o una semplice lettera) dovremo collegare ad esso due cose distinte:
cioè non soltanto l’oggetto designato che si chiamerà S. (Bedeutung) di quel
segno, ma anche il senso (Sinn) del segno, che denota il modo in cui
quell’oggetto ci viene dato ». Frege avvertiva che per senso o nome intendeva «
una qualunque indicazione che compiesse ufficio di un nome proprio cioè fosse
un oggetto determinato (prendendo la parola oggetto nel modo più ampio)» (Uber
Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag.
218-19). La stessa distinzione veniva effettuata da Peirce con una terminologia
diversa: Peirce parlava dell’oggerto del segno e dell’interpretante del segno
stesso, che è il senso di Frege. Diceva Peirce: « Il segno crea qualche cosa
nello spirito dell’interprete e questo qualche cosa, in quanto è stato creato
dal segno è stato anche creato, in modo mediato e relativo, dall’oggetto del
segno, per quanto l’oggetto sia essenzialmente altro dal segno. Questa creatura
del segno è detta l’interpretante » (Coll. Pap., 8.179; lo scritto è del 1903).
Questa terminologia è stata sostanzialmente accettata da Morris, che ha chiamato
designato (designatum) l’oggetto e interpretante il concetto (Foundations of
the Theory of Signs, 1938, $ 2). Vero è che Morris ritiene inutile il termine
stesso di S., sembrandogli esso ricco di confusioni e pretende farne a meno
nella sua trattazione (/bid., $ 12). Ma in realtà ne può fare a meno soltanto
perchè ha introdotto nella sua analisi del segno, sotto altri nomi, i due
componenti del S. che la tradizione ha costantemente distinto. I logici
contemporanei manifestano la tendenza, già presente in Stuart Mill, a
restringere la parola S. alla sfera della connotazione. Lewis, riservando il
termine S. per entrambi gli aspetti, distingue la significazione
(signification) del termine (cioè la connotazione) dal suo riferimento
obbiettivo che egli distingue in denotazione e comprensione: la prima essendo
la classe di tutte le cose reali alle quali il termine si applica, la seconda
essendo la classe di tutte le cose possibili alle quali si applica (Analysis of
Knowledge and Valuation, 1946, cap. III, pag. 39 sgg.). Dalla stessa
significazione, Lewis poi distingue il «S.-senso» (sense meaning) che si
distinguerebbe da essa per essere il modo in cui lo spirito si riferisce alla
significazione stessa (/bid., pag. 133 e nota 3). Ma queste distinzioni non
modificano sostanzialmente la dicotomia tradizionale del significato di
significato. La stessa dicotomia viene espressa da Quine come quella tra S. (o
connotazione o intensione) e nominazione (naming) che sarebbe l’estensione o
denotazione (From a Logical Point of View, 1953, II, 1); e da Carnap che fonda
su di essa la dicotomia di due operazioni fondamentali possibili rispetto a una
data espressione linguistica: quella di « analizzare l’espressione stessa con
lo scopo di capirla, di afferrarne il S. e quella che invece consiste in
ricerche concernenti la situazione di fatto alla quale l’espressione si
riferisce » (Meaning and Necessity, 1947, $ 45). Ed ha inoltre insistito sul
fatto che il concetto di significato intensionale, come condizione generale che
un oggetto deve adempiere affinchè un parlante XY predichi quel significato
dell’oggetto stesso, è privo di qualsiasi riferimento psicologico e può essere
applicato anche a un robot (/bid., pag. 246 e n. 5). A sua volta Church ha
adottato la terminologia di Frege chiamando senso la connotazione e significato
la denotazione; e in più introducendo la parola concetto: « Diremo che un nome
denota o nomina la sua denotazione ed esprime il suo senso. Meno esplicitamente
possiamo parlare di un nome che ha una certa denotazione ed fa un certo senso.
Del senso diciamo che derermina la denotazione o è un corcetto della
denotazione » (/ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 01). Di fronte a
questa salda e, salvo la varietà della terminologia, uniforme tradizione stanno
i tentativi di modificarla o riducendo l’una all'altra le due dimensioni del S.
(A) o aggiungendo nuove specie di significati (2). A) Il tentativo di ridurre
una delle dimensioni del S. all’altra è stato effettuato in entrambe le
direzioni: cioè riportando sia il senso al S. sia il S. al senso. Il primo
tentativo è quello proprio di Russell e Wittgenstein. L’intera teoria esposta
nell’articolo di Russell del 1905 («On Denoting» ora in Logic and Knowledge,
1956, pag. 41 sgg.) nonchè nel I capitolo dei Principia Mathematica di Russell
e Whitehead (1910) e nell’altro libro di Russell, An /nquiry into Meaning and
Truth (1940), è, nelle stesse parole di Russell, che « non c’è alcun
significato, ma solo talvolta una denotazione » (Logic and Knowledge, pag. 46,
nota). E difatti per Russell il S. di un simbolo si riduce unicamente ai
componenti del fatto cui il simbolo stesso si riferisce. «I componenti del
fatto che fa una proposizione vera o falsa, a seconda dei casi, sono i S. dei
simboli che noi dobbiamo capire per capire la proposizione» (Logic and
Knowledge, pag. 196). È proprio da questo punto di vista che il linguaggio
ideale è quello che ha la sola sintassi e nessun vocabolario: giacchè il
vocabolario è perchè costituisce una riduzione all’assurdo della eliminazione
del senso (Sinn) dal S.: il riferimento all'oggetto, non essendo guidato o
limitato dal concetto, è sempre legittimo e, dove non appare tale, è solo
perchè non è stato effettuato.La riduzione inversa del S. al senso cioè il
tentativo di ridurre l’intero S. alla connotazione o concetto è stato
effettuato da Husserl. Questi ha negato che l’oggetto costituisse il S. o
coincidesse con esso (Logische Untersuchungen, II, pag. 46). La sua tesi è che
«il S. logico è un'espressione » nel senso che esso solleva «al regno del
/ogos, del concettuale, quindi dell’universale » il senso (Sinn) percettivo
della cosa. In altri termini Husserl sostituisce alla dicotomia
oggetto-concetto la dicotomia senso (percepito)-concetto: nella quale il
concetto è l’essenza della cosa, la sua concettualizzazione o espressione
compiuta (/deen, I, $ 124). Un tentativo di riduzione analogo a questo è stato
quello di Royce il quale, dopo aver distinto il S. esterno di un’idea, che è la
corrispondenza dell'idea con l'oggetto, dal S. interno di essa che è «lo scopo
consapevole incorporato nell’idea», riduce a quest’ultimo lo stesso S. esterno,
sul fondamento che è « l’idea stessa che sceglie l’oggetto con il quale vuole
essere confrontata » (The World and the Individual, 1901, II, cap. 1). B) 1
principali tentativi di presentare nuove specie di S. in aggiunta o in
concorrenza con le due consacrate dalla tradizione sono i seguenti: 1° La
definizione del S. come uso. Questa è la tesi delle Philosophical
Investigations (1953) di Wittgenstein. « Per un’estesa classe di casi — sebbene
non per tutti — nei quali adoperiamo la parola ‘ S. * essa può essere definita
così: il S. di una parola è il suo uso nel linguaggio. E il S. di un nome è
qualche volta spiegato indicando il suo portatore» (Op. cit., $ 43). Ma per
quanto presentata, dallo stesso Wittgenstein e da altri, in concorrenza con la
definizione semantica di S., la nozione di uso appartiene ad un'altra sfera di
problemi e ad un altro livello di indagine. Il problema cui essa risponde è
difatti quello della formazione dei significati nelle lingue naturali. L’uso
non è il S., ma lo determina: nel senso che ad esso è dovuta la connessione tra
un oggetto e una voce (o in generale un veicolo segnico). Le definizioni di un
dizionario sono senza dubbio stabilite dall’uso; esse tuttavia esprimono la
connotazione e la denotazione dei termini. Pertanto la teoria dell'uso non è
una teoria del S., ma piuttosto una teoria circa l’origine e la formazione
delle lingue naturali. 2° La proposta di un S. emotivo accanto al S. «
simbolico » o « descrittivo». Questa proposta, fatta da Ogden e Richards
(Meaning of Meaning, 1923, ediz. 1952, pag. 149 e passim) è stata espressa da
C. L. Stevenson nel modo seguente: « Il S. emotivo è un S. nel quale la
risposta (dal punto di vista dell’ascoltatore) o lo stimolo (dal punto di vista
del parlatore) è un complesso di emozioni» (Ethics and Language, 1944, pag.
59). Il S. emotivo così inteso sarebbe distinto dal significato simbolico che
consisterebbe nel suo riferimento all’oggetto; e il significato stesso potrebbe
in generale definirsi come la qualità disposizionale di un segno a produrre
l’una o l’altra di queste reazioni, cioè o un insieme di emozioni o il
riferimento all’oggetto (/bid., pag. 53 sgg.). Prescindendo dal fatto che l’uso
del termine emotivo per indicare norme di leggi, prescrizioni tecniche o
comandi (tutte cose che rientrerebbero nella categoria dei significati emotivi)
può a buon diritto ritenersi barbarico (v. EMOZIONE), la dottrina in questione
sembra suggerita dal fatto che il significato denotativo viene ristretto al
riferimento a cose reali, sicchè molti segni semplici o composti sembrano non
avere denotazione perchè non si riferiscono a cose. In realtà il riferimento
denotativo si rivolge a oggetti in generale (v. OGGETTI) ed oggetti sono
ugualmente le cose reali come quelle fantastiche, i piani, i progetti, i
desideri e le aspirazioni come le qualità sensibili o le entità percepite.
Pertanto un enunciato che esprime un ordine o un desiderio o un progetto può
avere, nella situazione a cui tali cose si riferiscono, la sua denotazione cioè
il suo oggetto o il suo referente. Nè da un punto di vista logico, che è quello
appunto della teoria del significato, tali oggetti sono distinguibili dagli
altri. 3° La definizione del significato come dell'intenzione di chi parla. Il
S. in questo senso sarebbe ciò che il parlante intende dire, a prescindere dal
riferimento oggettivo della parola o dell’enunciato adoperato. In questo senso
si usa dire « Intendo dire... » (in inglese: / mean... dal verbo to mean che ha
la stessa radice di meaning = S.) per chiarire o rettificare una propria
dichiarazione. È abbastanza ovvio che ogni descrizione o chiarimento
dell’intenzione del parlante non può aversi che mediante la determinazione
dell’oggetto cui egli si riferisce o della sua connotazione: cioè mediante
l’uso delle dimensioni proprie del significato. Tali dimensioni vengono
pertanto semplicemente presupposte dalla definizione in esame. Talvolta questa
viene proposta come un S. aggiunto a quello tradizionale (cfr. M. BLACK,
Problems of Analysis, 1954, pag. 55-56); ma è anche chiaro che l’intenzione del
parlante non è un’altra specie di S. ma piuttosto il modo in cui il parlante
adopera le dimensioni logiche del significato. A questa stessa confusione tra
intenzione e S. si connette l’uso di questo termine in frasi come queste: « Un
universo meccanico non avrebbe S. », «Se tutto si svolgesse a caso, la storia
non avrebbe S.+: nelle quali la parola S. sta ovviamente per intenzione o
scopo, quindi per valore. 4° La proposta di un S. « pittorico » o «
immaginifico » accanto agli altri in quanto «il linguaggio può essere usato con
l’intenzione primaria di esprimere o evocare pitture (o immagini) in un modo
che differisce dall’uso dei segni e formula possibilità empiricamente
significanti» (v. C. AtDRICH, « Pictorial Meaning and Picture Thinking », in
Readings in Philosophical Analysis, 1949, pagina 175 sgg.). Ma è chiaro che
anche questa proposta è suggerita dal presupposto (estraneo a qualsiasi teoria
logica del S.) che l’oggetto del riferimento sia una cosa reale o una
situazione di fatto e non possa essere d’altra natura. In realtà i S. «
pittorici » hanno connotazione e denotazione come tutti gli altri. 5° La
definizione del S. come un vertore di campo nel senso che esso sarebbe una
disposizione messa in atto dall’oggetto stagliatosi sullo sfondo di un campo o
contesto appropriato. Più precisamente esso sarebbe l’attivazione o messa in
atto di una risposta descrittiva, provocata dall’oggetto (A. P. UsHENKO, 7he
Field Theory of Meaning, 1958, pag. 109). Ma questa è bensì una teoria circa la
formazione dei S. (che può essere discussa in sede di teoria del linguaggio) ma
non innova nulla no S. espressivo le locuzioni che non hanno S. teoretico e
tuttavia manifestano uno stato d'animo del soggetto che li adopera o servono a
produrre stati d’animo analoghi nel soggetto che le ascolta. Le interiezioni,
le esclamazioni, le espressioni metaforiche hanno un S. di questo genere.
Talvolta, e specialmente da parte dei seguaci dell’empirismo logico (v.), si
assimilano le espressioni della metafisica tradizionale a enunciati di questo
genere, al fine di negare ad essi ogni valore cognitivo. Questo però è un uso
polemico, che può essere registrato solamente come tale (v. ARTE; METAFISICA;
POESIA). SILENZIO (lat. Silentium; ingl. Silence; francese Silence; ted.
Schweigen). L'atteggiamento mistico di fronte all’ineffabilità dell’essere
supremo (cfr., ad es., BONAVENTURA, /finerarium mentis in Deum, VII, 5).
Secondo Jaspers, l’atteggiamento di fronte all’essere della Trascendenza
(Philosophie, III, pag. 233). Secondo Wittgenstein, l’atteggiamento di fronte
ai problemi della vita: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere »
(Tractatus logico-philosophicus, T). SILLOGISMO (gr. ovMmoywapsc; lat.
Syllogismus; ingl. Syllogism; franc. Syllogisme; ted. Syllogismus). La parola
che in origine significa calcolo e da Platone veniva usata per ragionamento in
generale (cfr. Teer., 186 d) fu adottata da Aristotele per indicare il tipo
perfetto del ragionamento deduttivo, definito come «un discorso in cui, poste
talune cose, alcune altre ne seguono di necessità + (An. Pr., I, 1, 24b 18; I,
32, 47a 34). Le caratteristiche fondamentali del S. aristotelico sono: 1° il suo
carattere mediato; 2° la sua necessità. Il carattere mediato del S. dipende dal
fatto che il S. è la controparte logico-linguistica del concetto metafisico di
sostanza. In virtù di questo, il rapporto tra due determinazioni di una cosa
non si può stabilire se non sulla base di ciò che la cosa è necessariamente
cioè della sua sostanza; e, per es., se si vuol decidere se l’uomo ha la
determinazione di « mortale » non si può che guardare alla sostanza dell’uomo
(a ciò che l’uomo non può non essere) e ragionare nel modo seguente: « Tutti
gli animali sono mortali, Tutti gli uomini sono animali, Dunque tutti gli
uomini sono mortali». Ciò significa che l’uomo è mortale perchè animale:
l’animalità è la causa o la ragion d'essere della sua mortalità. In questo senso
si dice che la nozione «animale» fa da rermine medio del S.: il termine medio è
ovviamente indispensabile perchè è quello che rappresenta nel S. la sostanza, o
il riferimento alla sostanza, che sola rende possibile la conclusione (An.
Posr., Il, 11, 94a 20). Il S. ha dunque tre termini cioè il soggetto e il
predicato della conclusione e il termine medio. Ma è la funzione del termine
medio che determina le diverse figure del sillogismo (v. SILLOGISTICA).
Aristotele distinse oltre le figure, varie specie del sillogismo. Il S. è per
definizione deduzione necessaria: perciò la sua forma primaria e privilegiata è
il S. necessario che Aristotele chiama pure dimostrativo o scientifico o S.
dell’universale (An. Pr., I, 24, 25b 29). Da esso si distingue il S. dialettico,
che è fondato su premesse probabili ed è quindi solo probabile (Ibid., II, 23,
68b 10; An. Posr., II, 8, 93a 15); esso è detto anche retorico; e di esso è una
specie il S. eristico, fondato su premesse che sembrano probabili ma non lo
sono (7op., I, 1, 100b 23). Dei S. necessari, la prima e migliore specie è
quella dei S. ostensivi (v.), che Aristotele contrappone a quelli che partono
da un’ipotesi (An. Pr., I, 23, 40b 23). Questi ultimi non sono quelli che si
chiameranno in seguito S. ipotetici ma quelli la cui premessa maggiore non è la
conclusione di un altro S. nè è evidente per sè, ma è assunta per via d’ipotesi
(/bid., I, 44, 5S0a 16). Di tali S. è una specie quello che conclude mediante
la riduzione all’assurdo (Ibid, 50a 29). Tra i S. ostensivi i più perfetti sono
i S. universali della prima figura ai quali è possibile ricondurre tutte le
altre forme del S. (/bid., I, 7, 29b 1). Infine dal S. deduttivo si distingue
il S. indurrivo o induzione (Ibid., I, 23, 68b 15). Dall’altro lato, non sono specie
dei S. quelle che Aristotele chiama S. geometrico, medico, politico (Top., I,
9, 170 a 32) e il S. pratico (Er. Nic., VI, 12, 1044a 31) che si distinguono
tra loro solo per il contenuto dei princìpi cui fanno appello, non per la forma
logica. Nè, propriamente parlando, sono specie del S. i S. composti come
l’epicherema e il sorite; o contratti come l’enrimema: sui quali tutti vedi le
singole voci. Non è poi affatto un S. la divisione, cioè uno dei metodi della
dialettica platonica, che Aristotele chiama «S. debole » (An. Pr., I, 31, 46a
33). Gli Stoici, che misero a base della loro logica, non la teoria della
sostanza, ma quella della percezione, considerarono come tipo fondamentale del
ragionamento non il S. ma il ragionamento anapodittico, che ha soltanto due
termini e ha per premessa maggiore una proposizione condizionale (« Se è giorno
c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce»; v. ANAPODITTICO). Gli aristotelici, a
partire da Teofrasto, tradussero negli schemi aristotelici i ragionamenti
anapodittici degli Stoici aggiungendo al S. categorico aristotelico, come due
altre specie di S., quello ipotetico e quello disgiuntivo (confronta PRANTL,
Geschichte der Logik, I, pag. 375 seguenti; i testi fondamentali sono dati da
Alessandro, Ad An. Pr., f. 134 a-b). La dottrina veniva trasmessa alla
filosofia occidentale attraverso l’opera di Boezio che tuttavia si ispirava ad
autori posteriori e soprattutto a Galeno (De syllogismo hypothetico, in P. L.,
64). La dottrina del S. così completata veniva trasmessa dalla tradizione senza
sostanziali mutamenti, l’attività dei logici sbizzarrendosi soltanto a trovar
nomi per ogni insignificante modificazione delle strutture tradizionali. Si è
già detto che il fondamento del S. aristotelico i gli animali; ma intendo nello
stesso tempo che l’idea dell’animale è compresa nell’idea dell’uomo. L’animale
comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme;
l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione,
l’altro più intensione. Perciò si può forse dire con verità che tutta la
dottrina sillogistica potrebbe essere dimostrata mediante quella del contenente
e del contenuto, del comprendente e del compreso, che è differente da quella
del tutto e della parte; giacchè il tutto eccede sempre la parte, mentre il
comprendente e il compreso sono talvolta eguali, come accade nelle proposizioni
reciproche » (Nouv. Ess., IV, 17, 8). Ma fu soprattutto Hamilton che fece
prevalere il punto di vista estensivo come fondamento del S. assumendone a base
quella che egli chiamò «la legge di identità o non identità proporzionale » per
la quale il S. si fonda sulle tre sole possibili relazioni tra i termini: 1° la
relazione di coinclusione toto-totale cioè di identità o di assoluta
convertibilità o reciprocazione; 2° la relazione di co-esclusione totototale
cioè di non identità o di assoluta non convertibilità o non reciprocazione; 3°
la relazione di coinclusione incompleta, che implica una relazione di
coesclusione incompleta, che significa l'identità parziale o la parziale non
identità o una convertibilità o reciprocazione relativa (Lectures on Logic, ll,
1866, pag. 290 sgg.). Hamilton stesso si preoccupò di sottolineare i precedenti
della sua dottrina, tra i quali però non incluse il principale, che è Leibniz
(/bid., 346-48). La logica posteriore di ispiSILLOGISTICA razione aristotelica
non seguì, su questo punto, la dottrina di Hamilton ritornando ad una
interpretazione intensiva del fondamento del sillogismo. E in realtà l’eredità
della proposta di Hamilton doveva essere raccolta piuttosto dalla logica
matematica; la quale però, a partire dalla sua prima manifestazione cioè dalle
Leggi del Pensiero (1854) di G. Boole fu d’accordo con l’empirismo (v. oltre)
nel togliere al S. il suo primato di forma fondamentale e tipica del
ragionamento. Diceva Boole: « Il S., la conversione, ecc. non sono gli ultimi
processi della logica. Essi sono fondati su, e sono risolvibili in, ulteriori e
più semplici processi che costituiscono gli elementi reali del metodo in logica.
Nè è vero in linea di fatto che ogni inferenza è riducibile alle forme
particolari del S. e della conversione + (Laws of Thought, cap. I; Dover
Pubblications, pag. 10). I processi elementari della logica sono secondo Boole,
identici con «i processi fondamentali dell’aritmetica » (/bid., pag. 11):
un'affermazione la quale servì di base a tutti gli ulteriori sviluppi della
logica matematica. Ma con ciò il S. era definitivamente spodestato dal suo
trono di tipo fondamentale del ragionamento deduttivo: cosa che non era
riuscita del tutto alla critica empiristica. D’allora in poi, il S. ha cessato
di essere un capitolo autonomo delia logica; e la preoccupazione dei logici a
suo riguardo consiste unicamente nel mostrare come esso possa essere risolto e
espresso nelle formule del calcolo che essi preferiscono: una preoccupazione
che i logici affrontano non senza perplessità (cfr., ad. es., W. v. O. QuInE,
Methods of Logic, 1952, $ 14; A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic,
1956, $ 46.22). Come già si è detto, indipendentemente dalla discussione sui
suoi fondamenti, la validità del S. è stata spesso messa in dubbio dal punto di
vista dell’empirismo. Sesto Empirico vedeva nel S. o la ripetizione inutile di
ciò che già si conosce o un circolo vizioso: nel senso che la premessa maggiore
(« Tutti gli uomini sono mortali +) implicherebbe già la verità della
conclusione (« Socrate è mortale +) (/p. Pirr., I, 163-64; II, 196). Stuart
Mill osservava a questo proposito che il circolo vizioso non c’è, perchè quando
si è giunti alla proposizione generale, l’inferenza è finita e non rimane che «
decifrare i nostri appunti » (Logic, II, 3, 2). Ma questo significa ridurre il
S. a una semplice decifrazione di note già possedute. Già Bacone aveva
osservato che « il S. forza l'assenso, ma non la realtà» (Nov. Org., I, 13). E
fu questa l’idea che Locke fece prevalere sulla natura del S.: il quale non
scopre nè le idee nè la connessione tra le idee, che solo la mente può
percepire, ma « dimostra soltanto che se l’idea intermedia concorda con quelle
cui è 795 riferita immediatamente da entrambi i lati, allora quelle due idee
lontane (o estreme) certamente concordano ». Sicchè «la connessione immediata
di ciascuna idea con quelle cui viene applicata da entrambi i lati, connessione
dalla quale dipende la forza del ragionamento, è vista altrettanto bene prima
quanto dopo il S. o altrimenti chi fa il S. non potrebbe mai vederla affatto»
(Saggio, IV, 17, 4). Questa critica famosa di Locke ha iniziato quella
decadenza del S. dalla sua supremazia che doveva concludersi col prevalere
della logica matematica nella seconda metà dell’800. SILLOGISTICA (ingl.
Syllogistic; franc. Syllogistique; ted. Syllogistik). È la dottrina del
sillogismo (v.). Sviluppata per la prima volta da Aristotele negli Analytica
Priora, doveva divenire in breve volgere di decenni la parte centrale della
Logica, e tale rimanere fino all’avvento della Logica matematica contemporanea.
La parte più antica è la teoria del sillogismo deduttivo categorico esposta,
appunto, da Aristotele. Questi fissa i quattro modi validi della prima figura.
(Le figure sono caratterizzate dalla posizione del termine medio, che nella
prima fa da soggetto nella premessa maggiore e predicato nella minore; nella
seconda è predicato in entrambe le premesse, nella terza è in entrambe
soggetto: onde la necessità, in queste, di convertire una delle premesse. I
modi si dispongono così: prima quelli che concludono con una proposizione
universale affermativa, poi quelli che concludono con una universale negativa,
poi particolare affermativa, infine particolare negativa). Indi passa
all’analisi dei modi possibili della seconda e terza figura, dimostrandone la
riducibilità, principalmente mediante la tecnica della conversione (v.), a
corrispondenti modi della prima. In seguito Teofrasto formulerà i modi della
quarta figura, ma il riconoscimento e l'esposizione di questa come figura
indipendente pare siano dovuti a Galeno. Tuttavia in seguito parecchi logici,
come Averroè, Zabarella, e, nell’età moderna, Wolff e Kant, si pronunciarono
contro di essa come sostanzialmente inutile; e infatti i modi di questa figura
non sono che modi indiretti della prima, con interscambio delle due premesse;
per di più alcuni di essi, e cioè il primo e il quarto, non «concludono necessariamente
» (condizione essenziale, nella dottrina aristotelica, perchè ci fosse
sillogismo). A queste quattro figure i logici moderni aggiunsero i cinque modi
«deboli», ottenuti dalla prima, seconda (e quarta) per subalternazione (cloè
sostituzione della conclusione universale con una particolare). Questa
dottrina, già largamente esplorata dai commentatori della tarda antichità,
peripatetici e neoplatonici, compendiata poi da Boezio, ricevette ad opera dei
logici medievali una rielaborazione 796 sistematica che la rese estremamente
formalizzata. Furono infatti i grandi terministi medievali che ridussero a
formule tutti i modi, seguendo questa complicata tecnica: indicarono con le
quattro vocali a, e, i, o i quattro tipi di proposizione (risp.: universale affermativa
{a], universale negativa fe], particolare affermativa fi], particolare negativa
[o]; con B, C, D, Fi quattro modi della prima figura, designandoli con le
parole-formule Barbara, Celarent, Darii, Ferio, dove le uniche lettere
significative sono appunto le iniziali e le tre vocali (indicanti il tipo di
proposizione rispettivamente della premessa maggiore, della minore e della
conclusione). Per i modi delle tre altre figure, le prime tre vocali hanno il
consueto significato; le iniziali indicano a quale modo della prima figura si
riducano; e in più sono significative alcune lettere minuscole posposte alla
vocale e indicative di operazioni da compiersi sulle proposizioni indicate da
quella vocale: s conversione «simpliciter », p conversione «per accidens +, m
metatesi delle premesse, c « reductio ad impossibile +. Ora, teoricamente, i
modi matematicamente possibili in ogni figura sono 16, che si ottengono
combinando a due a due in tutti i modi possibili (con ripetizione) le quattro
lettere a, e, i, 0 (infatti nel sillogismo quelle che decidono sono le
premesse, e le premesse sono due): 44, ea, ia, 0a; ae, ee, ie, 0e; ai, ei, ii,
oi; ao, eo, io, 00. Ne verrebbero quindi 64 modi; ma di essi sono validi solo i
seguenti 19: logismo ipotetico e disgiuntivo. Il sillogismo ipotetico consiste
in una premessa (detta maggiore) la quale stabilisce un’implicazione da un
enunciato ad un altro («se A, B +); di una premessa (detta minore) che afferma
(modus ponens) o nega (modus tollens) rispettivamente l’antecedente o il
conseguente dell’implicazione contenuta nella maggiore; la concluSIMBOLIISMO
sione afferma o, rispettivamente, nega il conseguente o l’antecedente: modus
ponens: se A, B modus tollens: se A, B Anon-8 dunque 8 dunque non-4
Analogamente, il sillogismo disgiuntivo consiste di una premessa (maggiore) in
cui sono affermate (modus tollendo ponens) oppure reciprocamente negate (modus
ponendo tollens) due proposizioni; di una premessa (minore) in cui è negata, 0,
rispettivamente, affermata, una delle disgiunte della premessa maggiore; la
conclusione consiste nell’affermare, o, rispettivamente, negare, l’altra
disgiunta: modus tollendo ponens: A o B AoB non-B non-A dunque 4 dunque 8 modus
ponendo tollens: o A o B po AoB A dunque non-8 dunque non-4 Questi tipi di «
sillogismo », malgrado certe forzate analogie, rappresentano una struttura
affatto diversa da quella del sillogismo categorico, sì che, se non si tenesse
conto dell’etimologia, a mala pena si potrebbe applicare loro il nome stesso di
sillogismo. Infatti essi, per esprimerci nel linguaggio della Logica
contemporanea, appartengono al cal- colo proposizionale semplice e si fondano
su impli- cazioni materiali, mentre i modi del sillogismo categorico
appartengono al calcolo delle funzioni proposizionali e si fondano su
implicazioni formali. Ciononostante nella Logica moderna, soprattutto
nell’Ottocento, è stato fatto il tentativo (peraltro più su basi gnoseologiche
ed epistemologiche che non su basi propriamente logiche) di ridurre il
sillogismo categorico a sillogismo ipotetico, inter- pretando il primo come
inferenza ipotetico-deduttiva: «se tutti gli uomini sono mortali, e se Socrate
è uomo, Socrate è mortale». Ma l’esposizione logica completa di quest’ultima
forma di inferenza mostra come essa in realtà non si riduca a nessuna delle due
forme classiche, andando perdute di queste la rigorosa brevità e la struttura
ternaria. Resterebbe da considerare il sillogismo induttivo. Ma la trattazione
di esso non appartiene alla S. vera e propria (v. INDUZIONE). G. P. SIMBOLISMO
(ingl. Symbolism; franc. Sym- bolisme; ted. Symbolismus). 1. L’uso dei segni
cioè il comportamento segnico o sermiosi (v.). 2. L'uso di un particolare
sistema di segni (per es., «il S. della matematica»). 3. L’uso dei simboli nel
senso 2 del termine cioè di segni convenzionali e secondari (segni di segni,
come accade nell’arte, nella religione, ecc.). In questo senso adopera la
parola Cassirer quando parla della « espressione simbolica come della più
matura forma dello sviluppo linguistico, contrasSIMPATIA segnata dalla distanza
tra il segno e il suo oggetto » (The Philosophy of Symbolic Forms, II, pag.
237); questa distanza è difatti propria del comportamento segnico. SIMBOLO
(ingl. Symbol; franc. Symbole; tedesco Symbol). 1. Lo stesso che segno. In
questo significato generico il termine viene più spesso adoperato nel
linguaggio comune. 2. Una particolare specie di segno. Secondo Peirce: « Un
segno che può essere interpretato in conseguenza di un abito o di una
disposizione naturale » (Coll. Pap., 4.531). Secondo Dewey, un segno arbitrario
o convenzionale (Logic, Intr., IV; trad. ital., pag. 93). Secondo Morris un
segno che ne sostituisce un altro nella guida di un comportamento (Signs,
Language and Behavior, I, 8). Secondo altri, un segno tipico, in contrapposto
al segno individuale cioè la parola come significato (v. PAROLA) (M. BLACK,
Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181). SIMILE (gr. 8poiog;
lat. Similis; franc. Semblable; ingl. Alike, Similar; ted. Ahnlich). Ciò che ha
una qualsiasi determinazione in comune con una © più cose. Aristotele distinse
i seguenti significati del termine: 1° sono S. le cose che hanno la stessa
forma per quanto siano sostanzialmente differenti; e in questo senso sono S. un
quadrato più grande e uno più piccolo e due linee rette ineguali; 2° sono S. le
cose che hanno la stessa forma ma sono soggette a variazioni quantitative,
quando le loro quantità sono uguali; 3° sono S. le cose che hanno in comune la
stessa affezione, per es., il bianco; 4° infine sono S. le cose le cui
affezioni uguali sono in maggior numero delle affezioni differenti (Mer., X, 3,
1054 b 3). Il primo significato è quello in cui in geometria si dicono S. le
figure (cfr. EUCLIDE, El., VI, def. 1, 3; def. 11, ecc.). Nella tradizione posteriore,
la simiglianza è stata intesa specialmente rispetto alla qualità comune (PIETRO
Ispano, Summ. Log., 3.29) ma talvolta anche alla forma (S. Tommaso, Contra
Gent., I, 29; cfr. S. Th., I, q. 4, a. 3). Più genericamente Wolff diceva che
«sono S. le cose che sono identiche in ciò in cui dovrebbero distinguersi l’una
dall’altra» (Ont., $ 195). Determinazioni siffatte stringono assai poco e
dicono solo che i criteri di simiglianza possono essere indefinitamente
variati; l’importante è che siano, ogni volta, esplicitamente dichiarati. Solo
nella matematica moderna la nozione di simiglianza è stata diversamente
definita mediante la teoria degli insiemi: che si dicono S. quando esiste tra
essi una relazione di termine a termine. Dice, ad es., Russell: «Si dice che
una classe è S. a un’altra quando esiste una relazione di termine a termine in
cui una classe è dominante mentre l’altra è il dominante inverso» (/ntroduction
to 797 Mathematical Philosophy, cap. II; trad. ital., pag. 27). Questa nozione
ha grande importanza per la definizione matematica dell’infinito (v.).
SIMMETRIA (ingl. Symmetry; franc. Symétrie; ted. Symunetrie). Misurabilità,
proporzione 0 armonia. Simmetrica si dice una relazione che intercede tra i due
termini nei due sensi: per es. è simmetrica la relazione «fratello » (v.
RELAZIONE). SIMPATIA (gr. ovyré0eu; ingl. Sympathy; franc. Sympathie; ted.
Sympathie). L'azione reciproca delle cose tra loro o la loro capacità di
influenzarsi a vicenda. Il concetto è antico e sin dall’antichità trovò applicazione
sia nel mondo umano che nel mondo fisico; ma è soprattutto a proposito del
mondo fisico che i filosofi antichi se ne servirono. Gli Stoici videro nella S.
il legame che unisce tra loro le cose e le tiene o le fa convergere nell’ordine
del mondo (ARrnIM, Sroicorum fragmenta, II, pag. 264). Plotino poneva la S. a
fondamento della magia: « Da dove derivano, egli diceva, gli incantesimi? Dalla
S. per la quale vi è un accordo naturale tra le cose simili ed una naturale
contrarietà tra le dissimili e per la quale anche c’è un gran numero di potenze
varie che collaborano all'unità di quei grande animale che è l’universo »
(Enn., IV,4, 40). « La S., egli diceva, è come un’unica corda tesa che quando
viene toccata ad un capo trasmette anche all’altro capo il movimento... E se la
vibrazione passa da uno strumento all’altro per S., anche nell’universo c’è
un’armonia unica, che talora è fatta di contrari ma talaltra è fatta anche di
parti simili e congeneri » (/bid., IV, 4, 41). La magia si inserisce nella S.
universale, e con opportuni accorgimenti se ne avvale per i propri scopi
realizzando così effetti che sembrano straordinari e miracolosi. Questo
concetto della S., che presuppone l’animazione di tutte le cose, è il
fondamento della magia e viene ammesso ugualmente da tutti i maghi del
Rinascimento (cfr. CAMPANELLA, De sensu rerum, IV, 1; III, 14; AGRIPPA, De
occulta philosofia, I, 1; I, 37; CARDANO, De varietate rerum, I, 1-2; G. B.
ELMONT, Opuscula philosophica, I, 6; ecc.) Col declino della magia nel mondo moderno,
il significato di S. fu ristretto a indicare la partecipazione emotiva fra gli
individui umani. Hume per primo insistette sull'importanza della S. per ciò che
riguarda la formazione di tutte le emozioni umane: « Nessuna qualità della
natura umana è più importante, sia in se stessa, sia nelle sue conseguenze,
della propensione che abbiamo a simpatizzare con gli altri, a ricevere per
comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti per quanto diversi siano
dai nostri o anche contrari... A questo principio dobbiamo attribuire la grande
uniformità che possiamo osservare negli umori e nei modi di 798 pensare dei
membri di una stessa nazione: è molto più probabile che questa rassomiglianza
sorga dalla S. piuttosto che dall’influenza del suolo e del clima che, per
quanto rimangano gli stessi, non riescono a conservare immutato per un intero
secolo il carattere di una nazione » (7reatise of Human Nature, 1738, II, I,
11). È da notare che Hume riconobbe alla S. il carattere sul quale giustamente
ha poi insistito Scheler, in polemica con autori più moderni e cioè sul fatto
che essa non implica alcuna identità di emozione o fusione emotiva fra le
persone tra le quali intercorre. Adamo Smith non fece che seguire l’idea
direttiva di Hume ponendo la S. a fondamento della vita morale e intendendo per
essa «la facoltà di partecipare le emozioni degli altri, quali che siano »
(Theory of Moral Sentiments, 1759, I, 1, 3). Alla S., talora chiamata emparia
(v.) si è fatto talora ricorso nel dominio estetico e biologico. Bergson ha
riportato alla S. l’istinto e ha visto in essa la possibilità di cogliere
direttamente la natura della vita: « L’istinto è simpatia. Se questa S. potesse
estendere il suo oggetto e riflettere su se stessa, ci darebbe la chiave delle
operazioni vitali, al modo in cui l’intelligenza sviluppata e raddrizzata, ci
introduce nella materia» (Év. Créarr., 8® ediz., 1911, pag. 191). Dall’altro
lato, Scheler in un'opera famosa sulla S., l’ha distinta da fenomine è stato
anche applicato alla storia del pensiero religioso che mostra spesso fenomeni
di sovrapposizione e fusione di credenze di provenienza diversa. Anche in
questo uso il termine è adoperato polemicamente cioè per designare sintesi mal
riuscite, perciò non ha significato preciso. Più arbitrario ancora è il
significato in cui viene adoperato da qualche scrittore francese per indicare
una veduta generale e confusa di una situazione (cfr. RENAN, L’avenir de la
science, pag. 301). SINCRONICO. V. Diacronico. SINDOSSICO (ingl. Syndoxicj
franc. Syndoxique). Termine adoperato da J. M. Baldwin SINONIMIA per indicare
quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli individui in quanto
hanno le stesse esperienze ma che non perciò sono necessariamente valide
(Thought and Things, 1906, I, pag. 146) (v. SinNoMICO). SINECHISMO (ingl.
Synechism; franc. Synéchisme). Termine adoperato da Peirce per indicare il
principio di continuità, che egli ritiene operante in tutte le forme della
realtà (cfr. Chance Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6.169-173). SINECOLOGIA
(ted. Sinechologie). La dottrina della continuità nel tempo e nello spazio che
secondo Herbart è una parte della metafisica, insieme alla metodologia,
all’ontologia e alla idolologia (Kurze Enciclopàdie der Philosophie, 1841, pag.
297 sgg.). SINERGIA (ingl. Synergy; franc. Synergie; ted. Synergie).
Coordinazione di differenti facoltà o forze oppure azione combinata di
differenti fattori. Il termine è corrente nel linguaggio comune e scientifico
ed è adoperato, ad es., sia ad indicare la cooperazione degli organi in un
corpo vivente sia il rafforzarsi a vicenda dell’azione dei medicamenti. Qualche
volta, ma raramente, è stato adoperato come sinonimo di simpatia o di
cooperazione intelligente (cfr. Risor, Psychologie des sentiments, 1896, pag.
229; FoOUILLÉE, Morale des idées-forces, 1908, pag. 352). SINERGISMO (ingl.
Synergism; francese Synergisme; ted. Synergismus). La dottrina teologica
secondo la quale la salvezza dell’uomo dipende non dalla sola azione di Dio, ma
anche dalla volontà umana che collabora con essa a produrla. Tale dottrina fu
sostenuta da Melantone contro il monergismo di Lutero che attribuiva la
salvezza alla sola azione di Dio (v. GRAZIA). SINGOLARE (ingl. Singular; franc.
Singulier; ted. Einzig, Singulàr). Un termine o una proposizione che denota un
unico oggetto; o in altre parole « Una forma (o espressione) che contiene
un'unica variabile libera » (CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, 1956,
$ 02; cfr. QUINE, Methods of Logic, $ 34). SINGOLO (ingl. Singular; franc.
Singulier; tedesco Einzeln). 1. Lo stesso che individuo (v.). 2. L’individuo
considerato come valore metafisico, religioso, morale e politico supremo. In
questo senso il S. è il tema preferito di alcune filosofie moderne e
contemporanee. Kierkegaard affermava polemicamente contro Hegel il valore
esistenziale del S.: « L'esistenza corrisponde alla realtà singolare, al S.
(ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori dal concetto e in ogni modo
non coincide con esso» (Diario, X?, A, 328). Il S. sta più in alto dell’universale,
a differenza di ciò che Hegel credeva. « In un genere animale vale sempre il
principio: il S. è inferiore al genere. Il genere 799 umano ha la
caratteristica, appunto perchè ogni S. è creato a immagine di Dio, che il S. è
più alto del genere » (Ibid, X?, A, 426). Questa esaltazione del S. si
accompagna in Kierkegaard con la svalutazione della categoria del «pubblico »
in cui il S. svanisce; ma il pubblico non è la comunità nella quale invece il
simbolo viene riconosciuto come tale (Ibid., X?, A, 390). L'unico (v.) di
Stirner e il superuomo (v.) di Nietzsche sono concezioni analoghe a quella che
Kierkegaard indicò come singolo. Nello stesso senso, Jaspers insiste sul
carattere eccezionale del S. (Phil.). SINISTRA HEGELIANA (ingl. Hegelian Left;
franc. Sinistre hégélienne; ted. Hegelsche Linke). Mentre la destra hegeliana
(v.) è la scolastica dell'hegelismo, la S. hegeliana tende a contrapporre alla
dottrina di Hegel quei tratti o caratteri dell’uomo che in essa non avevano
trovato un riconoscimento adeguato. Sul piano religioso questa tendenza dà
luogo ad una critica radicale dei testi biblici e al tentativo di ridurre a
mito l’intera dottrina della religione (Davide Federico Strauss, 1808-74). La
religione stessa veniva considerata da Ludovico Feuerbach (1804-72) come
«l’autocoscienza dell’uomo cioè come la proiezione nella divinità di ciò che
l’uomo vuol essere ». Sul piano storico politico, la S. hegeliana contrappose
alla concezione hegeliana della storia come razionalità assoluta l’interpretazione
materialistica della storia stessa che la considera in funzione dei bisogni
umani (K. Marx, 1818-83; F. EnGELS, 1820-95) (v. MATERIALISMO STORICO).
SINNOMICO (ingl. Synzomic; franc. Synnomique). Termine adoperato da G. M.
Baldwin per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli
individui, quando sono giudicate «adatte o appropriate per tutti i processi
logici come tali» (Thought and Things, 1906, II, pag. 270). Sindossico invece è
ciò che è comune ma senza carattere di normatività (v. SINDOSSICO). SINOLO (gr.
tò abvodov; lat. Compositum). Con questo termine che significa «tutt'uno »
Aristotele indicò il composto di materia e forma, la sostanza concreta. « La
sostanza è la forma immanente dalla quale, e insieme dalla materia, deriva ciò
che si chiama S. o sostanza: per es., la concavità è la forma dalla quale
insieme con il naso (materia) deriva il naso camuso » (Mer., VII, 11, 1037 a
30). La traduzione del termine è «composto » o « concreto ». SINONIMIA (ingl.
Synonimy; franc. Synonymie; ted. Synonimie). La relazione di S. è importante
per i logici in quanto essi se ne avvalgono per definire la nozione di
analiticità (v.). Il concetto della S. come « identità di significato tra due
forme linguistiche » non è sufficiente; ed i logici aggiungono abitualmente
qualche altra condizione, per 800 definire la sinonimia. Lewis dice: « Due
espressioni sono sinonime se e solo se: 1° hanno la stessa intensione e questa
intensione non è nè zero nè universale oppure 2° se la loro intensione è zero o
universale ma esse sono analiticamente confrontabili » (Analysis of Knowledge
and Valuation, 1946, pag. 86). Per espressioni che hanno intensione zero o
universale, Lewis intende espressioni come «essere», «entità», «cosa», «ogni
cosa» (/bid., pag. 87). Carnap, a sua volta, ha osservato: « Se chiediamo
un’esatta traduzione di un’asserzione data, per es., di un’ipotesi scientifica
o di una testimonianza in corte, da una lingua all’altra, noi abitualmente
richiediamo più che la concordanza nelle intensioni degli enunciati... Anche se
restringiamo la nostra attenzione a significati designativi (conoscitivi),
l'equivalenza logica degli enunciati non sarà sufficiente; sarà richiesto
almeno che alcuni dei designatori componenti siano logicamente equivalenti o in
altre parole che le strutture intensionali siano simili » La S. sarebbe perciò
espressa da un «isomorfismo intensionale », di cui Carnap dà le regole (Meaning
and Necessity, 1957, $ 14, 15). Le esigenze avanzate da Lewis e Carnap per la
definizione della S. rimangono tuttavia sul piano della intensionalità delle
forme linguistiche. Così fa pure la definizione di Church (Introduction to
Mathematical Logic, $ 01). Quine ha dimostrato, su questo stesso piano, come
sia difficile servirsi della S. per definire l’analiticità, giacchè « dire che
scapolo e uomo non sposato sono cognitivamente sinonimi significa dire nè più
nè meno che l’asserzione tutti e solo gli scapoli sono uomini non sposati è
analitica». La S. si può pertanto definire, secondo Quine, come la sostituibilità
di due termini salva analyticitate, cioè la possibilità di sostituire l’uno
all’altro due termini in una espressione senza che l’espressione perda il suo
carattere analitico (From a Logical Point of View, 1953, II, 3). SINONIMO
(ingl. Synonym; franc. Synonyme; ted. Synonym). Secondo la definizione
aristotelica (Cat., 1a 6; 3b 7) si dicono S. cose che hanno in comune il nome e
la definizione dell’essenza, come l’uomo e il bue che si dicono (e sono)
entrambi animali. Nell’uso moderno però si sono chiamati S. vocaboli (o
enunciati) diversi nella forma dell’espressione ma di uguale contenuto
semantico. Nella Logica contemporanea si dicono « S. + enunciati aventi forma
diversa ma il medesimo senso (designanti la medesima proposizione): tuttavia
non riesce sempre facile distinguere tra sinonimia (semantica) ed equivalenza
(sintattica). G. P. SINOSSI (gr. obvoyic; ingl. Synopsis; franc. Synopsis; ted.
Synopsis). Sguardo d’insieme. Platone adopera il termine per indicare il primo
momento del procedimento dialettico, quello che consiste nel raccogliere un
molteplice in un'unica idea (Rep., 537 c; Fedro, 265 d). Il termine fu anche
adoperato da Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura
nell’espressione «la sinopsi a priori del molteplice mediante il senso» (Crit.
R. Pura, $ 14, in fine) che sarebbe l’apprensione del molteplice sensibile
nelle forme dell’intuizione (spazio e tempo), in quanto distinta dalla sintesi
dell’immaginazione e da quella concettuale. SINTASSI (gr. cvviéeic; lat.
Syntaxis; inglese Syntax; franc. Syntaxe; ted. Syntax). 1. Qualsiasi ordinamento, combinazione o
sistemazione di parti. Lo stoico Crisippo definiva « S. del tutto » il destino
che presiede all’ordine del mondo (Stoicorum fragmenta, II, pag. 293). 2. Una
delle dimensioni del procedimento segnico (v. SEMIOsI) cioè la combinabilità
dei segni fra loro in base a regole determinabili. In questo senso si può
parlare, ad es., di « S. dei suoni» 0 «dei colori +?, ecc. 3. La scienza che
studia le forme grammaticali o logiche del linguaggio: intendendosi per forme
le loro possibilità di combinazione. Più in particolare la S. logica di un
linguaggio è stata definita da Carnap come «la teoria formale delle forme
linguistiche di quel linguaggio, la dichiarazione sistematica delle regole
formali che lo governano insieme con lo sviluppo delle conseguenze che seguono
da queste regole». Carnap aggiunge che «una teoria, una regola, una definizione
o simili dev’essere chiamata formale quando non fa alcun riferimento al
significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle espressioni
(per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all’ordine dei simboli
con i quali le espressioni sono costruite + (Logische Syntax der Sprache, 1934,
$ 1). Carnap ha identificato con la S. l’intera logica o metodologia delle scienze
(/bid., $ 81), in base alla considerazione che « per determinare se un
enunciato è o non è la conseguenza di un altro non è necessario alcun
riferimento al significato degli enunciati; e che pertanto «una logica speciale
del significato è superflua; una ‘logica non formale’ è una contraddizione nei
termini. La logica è S.» (2bid., $ 71). Più tardi lo stesso Carnap ha ammesso
la divisione dell’analisi del linguaggio o semiotica in pragmatica, semantica e
S. e ha considerato il punto di vista sintattico come il procedimento che
astrae dal fattore semantico (Foundations of Logic and Mathematics,1939, 88).
SINTELICO (ingl. Syntelic; franc. Syntélique). Termine adoperato da G. M.
Baldwin per designare gli elementi pratici comuni a più individui ma non perciò
necessariamente validi: elementi che corrispondono a ciò che si chiama
sindossico nel dominio della conoscenza (Thought and Things, 1906, III, pag.
79-80). SINTESI a, così la S. toglie i princìpi che sono a fondamento
dell’attività pratica. Il concetto rimase immutato negli scrittori scolastici
posteriori (cfr., ad es., Duns Scoro, Op. Ox., II, d. 39, q.2, a. 4). La
nozione ricorre, ma raramente, in scrittori posteriori: se ne avvalse Nicolò da
Cusa, assumendola nel significato mistico (De visfone Dei, ed. Bohnenstadt,
pag. 150 sg.); e nello stesso significato se ne servì frequentemente B.
Gracian: « È il trono della ragione, egli disse, la base della prudenza perchè
in virtù di essa costa poco riuscire. È dono del cielo e il più desiderato...
Consiste in una connaturale propensione verso tutto ciò che è più conforme a
ragione accoppiato sempre con quanto v'è di più certo» (Ordculo manual, 1647, $
96). SINTESI (gr. oiw0eotc; lat. Synthesis; ingl. Synthesis; franc. Synthèse;
ted. Synthese). Questo termine, oltre il significato comune di unificazione,
coordinazione o composizione, ha i seguenti significati specifici: 1° quello di
merodo conoscitivo, opposto all’analisi; 2° quello di attività intellettuale;
3° quelio 51 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 801 di unità dialettica
degli opposti; 4° quello di unificazione dei risultati delle scienze nella
filosofia. 1° Nel primo significato cioè come uno dei metodi fondamentali della
conoscenza, in contrapposto all’analisi, la sintesi può essere considerata come
il metodo che va dal semplice al composto cioè dagli elementi alle loro
combinazioni negli oggetti di cui si tratta di spiegare la natura. La
contrapposizione dei due metodi fu espressa per la prima volta da Cartesio
(Rép. aux II Objections; v. ANALISI); e Leibniz così la esprimeva: « Si arriva
spesso a belle verità mediante la S., andando dal semplice al composto; ma
quando si tratta di trovare il mezzo di fare ciò che si propone, la S.
ordinariamente non basta... E spetta all’analisi darci il filo nel labirinto,
quando ciò è possibile, perchè ci sono casi in cui la natura stessa della
questione esige che si vada a tentoni e non sempre la scorciatoia è possibile»
(Nouv. Ess., IV, 2, 7). Secondo Kant similmente il metodo sintetico è quello «
progressivo » mentre il metodo analitico è «regressivo» cioè va da un oggetto
alle condizioni che lo rendono possibile (Pro/., $ 5, nota). Il procedimento
dalla filosofia è secondo Kant analitico mentre quello della matematica è
sintetico; ma i due termini non hanno qui alcun riferimento alla
classificazione dei giudizi in analitici e sintetici. In generale, come il
procedimento analitico è caratterizzato dalla presenza di dati (inerenti
all’oggetto o alla situazione da risolvere), che guidano e controllano il
procedimento stesso, il procedimento sintetico si può caratterizzare con
l’assenza di tali dati e con la pretesa, che gli è inerente, di produrre da sè
gli elementi delle sue costruzioni (v. FioSOFIA). 2° Nel secondo significato il
termine designa l’unione del soggetto e del predicato nella proposizione;
quindi l’atto o l’attività intellettuale che opera tale unione. In questo senso
il termine fu usato da Aristotele, il quale disse che «là dove c'è il vero ed
il falso c’è anche una certa S. di pensieri simile alla S. che c’è nelle cose»
(De An., III, 6, 430 a 27); e che «ciò che opera questa unità è l’intelletto »
(/bid., 430b 5). Ma è stato soprattutto Kant a fare un uso larghissimo del
concetto di S., riducendo ad essa ogni specie di attività intellettuale. Egli definì
la S. in generale come «l’atto di unire diverse rappresentazioni e comprendere
la loro unità in un’unica conoscenza » (Crit. R. Pura, $ 10). E distinse
numerose specie di S. a seconda degli elementi che entrano in essa. In primo
luogo distinse la S. pura nella quale il molteplice è stato dato non
empiricamente ma a priori (come quello dello spazio e del tempo) dalla S.
empirica il cui molteplice è dato empiricamente. La S. pura è «l’atto
originario della 802 conoscenza, il primo fatto al quale dobbiamo rivolgere la
nostra attenzione se vogliamo renderci conto dell'origine prima della nostra
conoscenza » (Ibid.). La S. pura precede pertanto ogni analisi giacchè si può
analizzare solo ciò che è già dato unito in un atto conoscitivo. La S. pura,
che è possibile a priori, a sua volta può essere distinta in S. figurata
(Synthesis speciosa) e sintesi intellettuale (Synthesis intellectualis):
ambedue sono trascendentali perchè costituiscono la possibilità di ogni
conoscenza, ma mentre questa seconda unifica un molteplice puramente pensato,
la S. figurata è una S. del molteplice dell’intuizione sensibile, o meglio è
una S. dell’immaginazione intesa come «facoltà di determinare a priori la
sensibilità » (Ibid, $ 24). Su questa S. trascendentale dell'immaginazione è
fondato l’io penso o appercezione originaria (v.). Ma poichè ogni conoscenza è
sintesi e la conoscenza effettiva, è, secondo Kant l’esperienza, Kant chiama
l’esperienza stessa «la sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in
generale » (Cri. R. Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. II. Nella prima
edizione della critica Kant aveva parlato di tre specie di S.: 1° la S.
dell’apprensione nell’intuizione; 2° la S. della riproduzione
nell’immaginazione; 3° la S. della ricognizione nel concetto (Crit. R. Pura, 1%
ediz., An. Trasc., Libro I, cap. 2, sez. 2). Ma sia nella prima che nella
seconda edizione Kant riduce alla S. ogni specie o grado di attività
conoscitiva. Questo fu uno degli aspetti più vistosi, e più discussi, della sua
opera. Mentre la nozione di S. cambiava di natura passando nell’idealismo (v.
oltre), essa veniva da altri filosofi ripresa e variamente adattata. Galluppi
invertiva il punto di vista kantiano mettendo l’analisi avanti la sintesi. « La
S. è la facoltà di riunire le percezioni che l’analisi aveva separate.
L'analisi è dunque una condizione essenziale per la S.» (Saggio fil. sulla
critica della conoscenza, 1831, II, $ 146). Egli distingueva inoltre: la S.
ideale oggettiva che consiste nel riconoscere i rapporti oggettivi che sussistono
tra le cose; la S. immaginativa civile che consiste nel riunire in una
rappresentazione complessa, che non corrisponde ad alcun oggetto, diverse
rappresentazioni di cui ciascuna ha un 0ggetto; e la S. immaginativa poetica
che è una specie della precedente (/bid., III, $ 147-149). A sua volta Rosmini
chiamava S. primitiva la sua « percezione intellettiva» (Nuovo saggio, $ 46; $
528, ecc.) In generale, il concetto di S. è rimasto in filosofia ad esprimere
l’attività ordinatrice, organizzatrice o sistematrice dell'intelletto. I
neokantiani fecero largo uso di questa nozione. A. Riehl specialmente fece
dell’attività sintetica la funzione fondamentale della coscienza e l’a priori
di tutta la conoscenza (Der philosophische Kriticismus, II, 2, 1887, pag. 68).
SINTESI Altri neokantiani invece, come Cohen, preferirono al concetto di S.
quello di origine (Logik der reinen Erkenntnis, 1902, pag. 36). Wundt
introdusse il concetto nella psicologia e parlò del « principio della S.
creativa», secondo il quale «non solo le parti che entrano a comporre una S.
appercettiva, acquistano, accanto al significato che avevano nel loro
isolamento, un significato nuovo dovuto alla loro connessione nella
rappresentazione totale; ma anche questa rappresentazione è un nuovo contenuto
psichico, che è bensì reso possibile dalle parti componenti ma non consiste in
esse» (Grundriss der Psychologie, 1896, pag. 394). Dall’altro lato, la
filosofia fenomenologica metteva in luce la funzione della S. nella 4
costituzione delle oggettività di coscienza ». Husserl ritiene che ogni oggetto
di coscienza in generale sia una « unità sintetica » cioè una S. di coscienza
(Ideen, 1, $ 86). Egli distingue le S. continuative, del tipo di quella che
costituisce, ad es., la spazialità, e le S. articolate che sono i modi
particolari in cui atti separati l’uno dall’altro si connettono in un unico
atto sintetico di grado superiore. S. articolate sono, per es., gli atti di
preferenza o le emozioni simpatetiche; e inoltre le S. colleganti, disgiungenti
(cioè miranti a questo o a quello) ed esplicanti, che determinano le forme
della logica e dell’ontologia formale. 3° La nozione di S. come unità degli
opposti è nata insieme col relativo concetto della dialettica (v.) ed è stata
per la prima volta esposta da Fichte. Egli dice: « L'atto con il quale nelle
cose paragonate si ricerca la nota per cui esse sono opposte tra loro, si
chiama procedimento antitetico (detto ordinariamente analitico). ...Il
procedimento sintetico invece consiste nel ricercare negli opposti quella nota
per cui essi sono identici » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 3, D, 3). La legge di
questa identità è che « nessuna antitesi è possibile senza una S.; poichè
l’antitesi consiste precisamente nel ricercare negli uguali la nota opposta ma
gli uguali non sarebbero uguali se non fossero prima posti come uguali mediante
un atto sintetico » (/bid., $ 3, D, 3). Schelling parlava a sua volta di un «
processo dalla tesi all’antitesi e quindi alla S. +, che è il processo per cui
l’io pone l’oggetto, si contrappone ad esso ed infine lo ricomprende in se
stesso (System des transzendentalen Idealismus, 1800, III, cap. I; trad. ital,
pag. 58 sgg.). Hegel invece preferì al termine S. i termini « identità » o «
unità », pur lamentando che la parola unità indicasse, ancor più che «identità
», una « riflessione soggettiva ». L’unità o l'identità che chiude una triade
dialettica è una connessione oggettiva; la quale secondo Hegel, meglio si
chiamerebbe « inseparabilità » se, da questo nome, non restasse SISTEMA fuori
la natura positiva della S. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap.
I, c, nota 2; trad. ital., pag. 85). Nel linguaggio filosofico francese e
italiano, della S. a priori come della stessa attività creativa dello spirito:
« La S. a priori è delle forme tutte dello Spirito perchè lo Spirito,
considerato in genere, è nient'altro che S. a priori; e questa si esplica
nell'attività estetica e nella pratica, non meno che in quella logica» (Logica,
4* ediz., 1920, pag. 141). Ed ha visto nella S. a priori l'identità di
filosofia e storia, asserendo che essa « portava nel suo grembo la storicità
che il suo scopritore [Kant] ignorava o disconosceva » (Ibid., pag. 369). 4°
Infine per S. è stata intesa l’unificazione dei risultati ultimi delle scienze
particolari nel seno della filosofia prima secondo il concetto positivistico
della filosofia (v.). Tale S. fu detta soggettiva da Comte che riteneva si
dovesse fare, tenendo presente i bisogni naturali dell’uomo (S. soggettiva o
Sistema universale delle concezioni proprie dello stato normale dell’umanità,
1856, I). Spencer chiamò per lo stesso motivo « Sistema di filosofia sintetica
+ la sua opera complessiva, il cui primo volume è costituito dai Primi principi
(1862). SINTETICITÀ (ingl. Syntheticity). La validità delle proposizioni che
dipende dai fatti. Questo almeno è il significato che si attribuisce ora
comunemente all’aggettivo sintetico quando viene riferito a proposizioni o
enunciati. Kant, al quale si deve l’introduzione dei due termini analitico e
sintetico, li usò per distinguere i giudizi esplicativi e i giudizi estensivi.
«I primi nulla aggiungono, per mezzo del predicato, al concetto del soggetto,
ma solo dividono con l’analisi il concetto nei suoi concetti parziali, che
erano in esso già pensati sebbene confusamente; i secondi aggiungono invece al
concetto del soggetto un predicato che non era contenuto in esso e non era da
esso deducibile con 803 l’analisi » (Crif. R. Pura, Intr., $ IV). Ma i giudizi
sintetici, secondo Kant, sono non soltanto quelli che riguardano cose di fatto,
ma anche quelli della matematica e della fisica pura in quanto sono fondati
sulla intuizione a priori dello spazio e del tempo e sulle categorie e perciò
detti « giudizi sintetici a priori». Nella filosofia contemporanea, tuttavia,
la S., come carattere delle espressioni è stata intesa nel senso delle «
proposizioni di fatto » di Hume o delle « verità di fatto » di Leibniz (vedi
EsPERIENZA; FATTO): cioè come proposizioni che si riferiscono a situazioni o
stati di cose e che possono essere vere o false nei confronti di essi. Dice
Carnap: « Un enunciato sintetico è qualche volta vero — cioè quando certi fatti
esistono — e qualche volta falso; quindi esso dice qualche cosa circa quali
fatti esistono. Gli enunciati sintetici sono gli autentici enunciati circa la
realtà» (Logische Syntax der Sprache, $ 14). I logici tuttavia spesso
preferiscono definire negativamente gli enunciati sintetici, come quegli
enunciati che non sono nè analitici nè contraddittori: così fanno, ad es.,
Lewis (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 35) e Reichenbach
(Theory of Probability, 1949, pag. 20). Come le proposizioni analitiche (v.
ANALITICITÀ) sono dette «verità necessarie » perchè la loro negazione è
impossibile, così le proposizioni sintetiche sono spesso dette contingenti nel
senso che non sono nè necessarie nè impossibili (cfr. CarnaP, Meaning and
Necessity, $ 39). SINTETISMO (ted. Synrhetismus). Così chiamò n questo senso
nel periodo classico, fu adoperata da Sesto Empirico per indicare l’insieme delle
premesse e della conclusione o l'insieme delle premesse (/p. Pirr., II, 173). E
la parola è rimasta nell’uso filosofico a indicare prevalentemente un discorso
organizzato deduttivamente cioè costituente un tutto le cui parti si la804
sciano derivare l’una dall’altra. Leibniz chiamava S. un repertorio di
conoscenze che non si limiti ad elencarle ma ne contenga le ragioni o le prove
e descriveva l’ideale sistematico nel modo seguente: «L’ordine scientifico
perfetto è quello in cui le proposizioni sono situate secondo le loro
dimostrazioni più semplici e in modo che nascano l’una dall’altra » (Méthode de
la certitude, Op., ed. Erdmann, pag. 174-75). Wolff a sua volta diceva: « Si
dice S. un insieme di verità connesse tra loro e con i loro princìpi» (Log., $
889). La nozione di S. si modellava così su quella del procedimento matematico.
Kant la subordinò a una condizione ulteriore: l’unità del principio che è a
fondamento del sistema. Egli intese infatti per S. «l’unità di molteplici
conoscenze raccolte sotto un’unica idea »; affermò che il S. è un tutto
organizzato finalisticamente e pertanto è articolato (arficulatio), non
ammucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussusceptionem) ma
non dall’esterno (per appositionem) ed è perciò simile ad un corpo animale cui
la crescita non aggiunge alcun membro ma, senza alterare la proporzione
dell’insieme, rende ogni membro più forte e più adatto al suo scopo (Crit. R.
Pura, Dottr. del metodo, cap. III). Su questa base, Kant parla della « unità
sistematica della conoscenza, alla quale le idee della ragion pura cercano di
avvicinarsi» (/bid., Dialettica, cap. III, sez. I). L'unità del S. cioè la sua
derivabilità da un principio unico è la caratteristica che fa la fortuna della
nozione nella letteratura filosofica del Romanticismo. Essa costituisce
l’ideale della dottrina della scienza di Fichte: « Se non ci debbono essere
solo uno o parecchi frammenti di un S. o addirittura parecchi S., ma un S.
unico e perfetto dello spirito umano, allora dev’esserci un principio
fondamentale assolutamente primo e supremo. E se da esso il nostro sapere si
espande di per sè in tante serie dalle quali ancora procedono altre serie e
così via, tutte queste serie tuttavia debbono stringersi in un solo anello, il
quale non è attaccato a nulla, ma per la sua propria forza mantiene se stesso e
l’intero S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital.,
pagina 19). Che il S. sia la forma propria della scienza e che esso supponga un
principio unico ed assoluto diventa un luogo comune nella filosofia romantica.
L’origine di questo luogo comune è l’ideale matematico a cui Leibniz, Wolff e
lo stesso Kant si erano ispirati; ma questo ideale viene rivolto contro la
matematica stessa e rivendicato esclusivamente alla filosofia. «Si ammette
generalmente, diceva Schelling, che alla filosofia convenga una forma sua
particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta,
tocca ad altre scienze, che già presuppongono la scienza della scienza, SISTEMA
mantenuta e fatta valere nelle filosofie idealistiche. Diceva Croce: « Pensare
un determinato concetto puro significa pensarlo nella sua relazione di unità e
distinzione con gli altri tutti; sicchè quel che si pensa non è mai in realtà
un concetto singolo, ma il S. dei concetti, il Concetto » (Logica, 4* ediz.,
1920, pag. 172). L’ideale del S., come di un organismo deduttivo fondato su un
unico principio, è rimasto il patrimonio della filosofia, che l’ha coltivato
anche quando, sull’esempio di Kant, ha dichiarato irraggiungibile, per la
conoscenza umana, un simile ideale. Tuttavia il termine è stato ed è adoperato
anche senza connessione con questo significato, per indicare un qualsiasi
organismo deduttivo, anche se non abbia un unico principio a suo fondamento.
Questo è il caso dei S. di cui si parla oggi nelle matematiche e nella logica.
Un S. ipotetico-deduttivo, un S. astratto, un S. assiomatico, ecc., non sono S.
perchè abbiano un unico principio: i loro princìpi anzi, cioè gli assiomi,
devono essere reciprocamente indipendenti cioè non deducibili l’uno dall’altro
(v. ASSIOMA; ASSIOMATIZZAZIONE). Sono detti S. unicamente per il loro carattere
deduttivo; e nello stesso senso si parla di S. numerico e talvolta di «S. di
assiomi» per indicare un semplice insieme non contraddittorio di proposizioni
primitive (cfr. M. R. CoHEN-E. NAGEL, « The Nature of a Logical or Mathematical System », in Readines
in the Philosophy of Science, 1953, pag. 129 sgg.). L'uso della parola ha in altri termini perduto il suo
significato forte o elogiativo di discorso deduttivo. 2. Una qualsiasi totalità
o tutto organizzato. In questo senso si dice « S. solare », « S. nervoso »,
ecc., e si parla anche di «classificazione sistematica» o più semplicemente di
S. in luogo di classificazione, come fece Linneo, volendo insistere sul
carattere ordinato e completo della sua classificazione (Systema naturae,
1735). SITUAZIONE Da questo punto di vista, si distingue talora il S. come un
insieme continuo di parti che hanno tra loro relazioni varie dalla strurzura
(v.) od organizzazione che i componenti di esso possono assumere a un
determinato tempo (W. BUCKLEY, Sociology and Modern System Theory,1967,pag.5).
3. Una qualsiasi teoria, scientifica o filosofica, specie quando se ne voglia
sottolineare il carattere scarsamente empirico. Nel °700 si parlava del «S. del
mondo» per indicare le teorie cosmologiche (cfr., ad es., D’ALEMBERT, (Euvres,
ed. Condorcet, pag. 165 sgg.). Leibniz chiamava S. le sue teorie sul rapporto
tra l’anima e il corpo o tra le varie sostanze (Sysrème nouveau de la nature et
de la communication des substances, 1695). Baumgarten chiamava S. psicologici
le « opinioni che sembrano adatte a spiegare il rapporto tra l’anima e il
corpo» (Mer., $ 761). E gli Illuministi parlavano nello stesso senso, ma in
modo peggiorativo, del S. e dello spirito sistematico. Diceva Diderot: « Per
spirito sistematico io designo quello che imbastisce piani e forma sistemi
dell’universo ai quali pretende in seguito adattare i fenomeni, a diritto o a
forza » (CEuvres, XVI, pag. 291). D’Alembert parinferenza cioè di
trasformazione delle espressioni composte l’una nell’altra; 4° alcune
proposizioni primitive o assiomi. Dal S. logistico si distingue un linguaggio
formalizzato perchè per quest’ultimo è data anche una certa interpretazione.
Per passare dal S. logistico al linguaggio formalizzato sono pertanto
necessarie alcune regole semantiche che assegnino un significato alle formule
del sistema. La differenza fra S. logistico e linguaggio formalizzato si può
anche esprimere dicendo che il primo ha soltanto regole sintattiche, il secondo
ha anche regole semantiche (cfr., su questo, A. CHURCH, « The Need for Abstract
805 Entities in Semantic Analysis», in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences, 1951, pag. 100 sgg.; Zntroduction to Mathematical Logic,
1956) (v. CALCOLO; FORMALIZZAZIONE). SISTEMATICA (ingl. Systematics; franc.
Systématique; ted. Systematik). La tecnica, cioè la via o il mezzo, per
realizzare il sistema. La nozione deriva dal principio kantiano che il sistema
è l’ideale regolativo della ricerca filosofica, non la sua realtà. «Tuttavia,
dice Kant, il metodo può sempre essere sistematico. Infatti la nostra ragione
(soggettivamente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per semplici
concetti, è soltanto un sistema di ricerca secondo princìpi, dell’unità cui
l’esperienza può fornire soltanto la materia » (Crit. R. Pura, Dottrina del
metodo, cap. I, sez. 1). La nozione è rimasta soprattutto nel criticismo
tedesco. Natorp parlava di «S. filosofica » nel senso di ricerca diretta a dare
al sapere filosofico quella unità in cui consiste il sistema (Philosophische
Systematik, $ 1). SISTEMATICO (ingl. Systematic; franc. Systématique; ted.
Systematisch). 1. Che costituisce un sistema o appartiene a un sistema, in uno
dei sensi qualsiasi della parola sistema. In questo senso si dice «sapere S.» o
«errore sistematico ». 2. Che procede verso il sistema ma non è un sistema: con
riferimento a sistematica. In questo senso N. Hartmann distingueva nella storia
della filosofia il pensiero-sistema rivolto alla costruzione del sistema e il
pensiero-problema che si mantiene in un’indagine aperta (Systemarische
Philosophie, 1931, $ 1). Egli inoltre riteneva che « il tempo delle visioni S.
è ormai del tutto passato e la filosofia S. si è ritrovata sul terreno privo di
pretese ma solida dell’indagine problematica » (Der philosophische Gedanke und
seine Geschichte, III, 4; cfr. Zur Grundlegung der Ontologie, 1935, pag. 31).
SITUAZIONE (ingl. Situation; franc. Situation; ted. Situation). Il rapporto
dell’uomo col mondo in quanto limita, condiziona e, insieme, fonda e determina
le possibilità umane come tali. Il termine fu introdotto da Jaspers che così lo
illustrava: «La S. esterna, pur così mutevole e così diversa a seconda degli
uomini a cui si rivolge, ha questo tuttavia di tipico: essa è per tutti a due
tagli, incita e ostacola, e inevitabilmente limita, distrugge, è infida,
insicura » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, cap. III, $ 2; trad. ital.,
pag. 268). Jaspers parlava pure di sifuazioni-limite che posseggono in grado
eminente i caratteri propri di ogni S. dell’uomo nel mondo. Tali sono le S.
immutabili, definitive, incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova come di
fronte a un muro contro cui urti senza speranza. Tali sono: l’esistere sempre
in una S. determinata; il non poter vivere senza lotta e dolore; 806 il dover
prendere su di sè la colpa; l’essere destinato alla morte (Phil., II, pag.
209). In queste situazioni Jaspers vedeva la cifra (v.), cioè la rivelazione
negativa, della trascendenza. Heidegger ha notato che il termine ha anche un
significato spaziale ma soprattutto designa la determinazione per la quale
l’esistenza, come essere nel mondo, decide sul proprio luogo (Sein und
Zeit,$60). L’esistenza anonima si trova davanti a « S. generali » e si perde
nelle opportunità più prossime. Il richiamo della coscienza porta l’uomo
davanti alla sua situazione propria e alla esigenza di una decisione autentica
(/bid., $ 60). In senso analogo è stato detto: «La necessità del rapporto fra
la finitudine dell’ente e la determinazione costitutiva del mondo e dell’altro
ente è la S. esistenziale dell’ente... Il costituirsi dell’ente nella S. che lo
individua nella sua finitudine è l’accadere dell’ente, la sua storicità
fondamentale» (ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 70). E Sartre ha
detto: « Se il per sè [cioè la coscienza o l’uomo] non è altro che la sua S.,
ne segue che l’essere in S. definisce la realtà umana rendendo conto insieme
del suo esserci e del suo essere al di là. La realtà umana è, in effetti,
l’essere che è sempre al di là del suo esserci. E la S. è la totalità
organizzata dell’esserci, interpretato e vissuto da e per l’essere al di là di
questo stesso essere» (L’érre er le néant, 1943, pag. 634). In un senso
psicologico e precisamente nel senso della psicologia della forma (v.
PsicoLOGIA) si è servito del termine Dewey, identificando la S. con il campo
(Logic, 1939, I, cap. IV; trad. ital., pag. 111 sgg.). Dewey stesso però ha insistito
sul carattere oggettivo della S. (/bid., cap. IV, $ 1; trad. ital., 159 sgg.).
SIT VERUM. Una delle obbligazioni (v.) della logica terministica medievale.
Essa consiste nel rispondere ad una proposizione come se si sapesse che essa è
falsa; oppure come se si sapesse che essa è vera; oppure come se si dubitasse
di essa (confronta OcKHam, Summa Log., III, m, 44). SLANCIO VITALE (franc. Élan
vital). Secondo Bergson, è la coscienza in quanto penetra nella materia e
l’organizza realizzando in essa il mondo organico. Lo S. vitale passa « da una
generazione di germi alla generazione successiva di germi per l’intermediario
degli organismi sviluppati che formano il tratto di unione tra i germi stessi.
Esso si conserva sulle linee evolutive tra le quali si divide ed è la causa
profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, si
addizionano e creano nuove specie » (Év. créatr., 85 ediz., 1911, pag. 95). La
formazione della società, prima chiusa poi aperta, la religione fabulatrice e la
religione dinamica sono, secondo Bergson, gli ulteriori prodotti dello stesso
S. vitale cioè della SIT VERUM coscienza (Deux sources) (v. DURATA). SOCIALE
(ingl. Social; franc. Social; ted. Sozial). 1. Che appartiene alla società o ha
in vista le sue strutture o condizioni. In questo senso si dice «azione S. », «
movimento S. », « questione S. », ecc. 2. Che concerne la considerazione o lo
studio della società. In questo senso si dice « fisica S. +, *s economia S. »,
« psicologia S. », ecc. In particolare l’espressione scienze S. designa il
complesso delle discipline sociologiche giuridiche ed economiche e talvolta
anche l’etica e la pedagogia. SOCIALISMO (ingl. Socialism; franc. Socialisme;
ted. Sozialismus). Il termine che si diffuse in Inghilterra (in opposizione a
individualismo) nei primi decenni dell’800, ha due significati principali: 1°
Uno più vasto per il quale designa in generale ogni dottrina che difenda o
prospetti una riorganizzazione della società su basi collettivistiche. In tal
senso si chiama S. quello di Platone come quello di Marx, quello di Owen e
Proudhon come quello di Lenin e Stalin. A questo significato fa riferimento la
distinzione stabilita da Marx o Engels tra S. utopistico che presenta la
società socialistica come un ideale, senza preoccuparsi delle vie o dei modi
della sua realizzazione e il S. scientifico che, senza preoccuparsi di
presentare un ideale qualsiasi prevede l'avvento inevitabile della società
socialistica in base alle stesse leggi che governano lo sviluppo della società
capitalistica (cfr., su questa distinzione, specialmente: EnGELS, Antidihring,
1878, l’introduzione e il cap. I della III parte). In questo significato il
termine è molto vago e indica qualsiasi aspirazione, ideale, tendenza o
dottrina che comunque prospetti un mutamento in senso collettivistico della
società attuale. 2° Nel significato più ristretto s'intendono per S. gli
indirizzi collettivistici che si distinguono dal comunismo (v.) e si oppongono
ad esso in quanto: a) escludono la necessità di una dittatura del proletariato;
5) escludono che tale dittatura possa essere esercitata, in nome del
proletariato, da un partito politico qualsiasi; c) escludono la diversità
radicale, che si riscontra nei paesi a regime comunista tra il tenore di vita
della élite dirigente e quello della maggioranza dei cittadini; d) escludono la
subordinazione della vita culturale alle esigenze del partito cioè alle volontà
dei suoi dirigenti; e) esigono il rispetto delle regole del metodo democratico.
La distinzione delle forme storiche che il S. ha assunto interessa la politica
più che la filosofia e pertanto non può trovar posto in questa sede. SOCIALITÀ
(ingl. Sociality; franc. Socialité; ted. Geselligkeit). Lo stesso che società
nel senso 1°. G. H. Mead ha inteso la S. in un senso più vasto, SOCIETÀ
attribuendola all’intero universo. « Il carattere sociale dell’universo
consiste nella situazione nella quale il nuovo evento è insieme nel vecchio
ordine e nell’ordine nuovo di cui il suo avvento è l’araldo. La S. è la capacità
di essere diverse cose ad un tempo» (The Philosophy of the Present, 1932, pag.
49). SOCIETÀ (lat. Societas; ingl. Society; franc. Société; ted. Gesellschaft).
Nel senso generale e fondamentale: 1° il campo dei rapporti intersoggettivi
cioè dei rapporti umani di comunicazione, e pertanto anche: 2° la totalità
degli individui tra i quali questi rapporti intercedono; 3° un gruppo di
individui tra i quali tali rapporti intercedono in forma comunque condizionata
o determinata. 1° Il primo significato è, come si è detto, quello fondamentale
ed è stato introdotto nella cultura occidentale dagli scrittori latini, e
specialmente da Cicerone, che l’hanno desunto dallo stoicismo. Negli scrittori
classici della Grecia l'aspetto statuale e l’aspetto sociale sono fusi e indistinti
nel concetto della polis; il cosmopolitismo degli Stoici consente di
dissociarli e di considerare pertanto la S. come indipendente dallo stato cioè
dall’organizzazione politica. Appunto espo«Ciascuno, per quanto dipende da lui,
deve promuovere e mantenere con i suoi simili uno stato di socievolezza
pacifica, conforme in generale all’indole e alle finalità del genere umano » e
spiegava che per socievolezza si dovesse intendere « quella disposizione
dell’uomo verso l’uomo per la quale l’uno si intende vincolato all’altro dalla
benevolenza, dalla pace e dalla carità » (De jure naturae, 1672, II, 3). Una
definizione indiretta della S. si può anche scorgere nei testi che insistono
sulla tendenza naturale dell’uomo alla socialità, per es. in quelli che ricorrono
frequentemente nelle opere di Kant. « L'uomo ha una inclinazione ad associarsi
perchè nello 807 stato di S. si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter
meglio sviluppare le sue disposizioni naturali. Ma egli ha anche una forte
tendenza a dissociarsi (isolarsi) perchè ha in sè anche la qualità anti-sociale
di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse per cui si aspetta
resistenza da ogni parte e sa che deve da parte sua tendere a resistere contro
gli altri» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbirgerlicher Absicht, 1784, IV; trad. ital., pag. 127;
Mer. der Sitten, II, $ 47; Crit. del Giud., $ 41). Fichte non faceva che
esprimere lo stesso concetto dicendo: « Chiamo S. la relazione reciproca degli
esseri ragionevoli » (Die Bestimmung des Gelehrten, 1794, II). Da questo punto
di vista la considerazione della S. può consistere: a) Nella considerazione dei
fini che il genere umano nella sua totalità deve perseguire e dei mezzi che la
ragione addita per il raggiungimento di tali fini. Le dottrine politiche degli
autori greci, per es., di Platone e di Aristotele e le dottrine
giusnaturalistiche sono teorie della S. in questo senso. b) Nella
considerazione delle condizioni che, in linea di fatto, rendono possibili i
rapporti umani. Queste condizioni sono state variamente definite e la loro
definizione può dirsi il primo compito della sociologia (v.). Max Weber le ha
riconosciute nell’azione sociale che accade secondo ordinamenti deliberati e
relativamente costanti (Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie,
1913, V; trad. ital., in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 262
sgg.). Durkheim ha assunto come caratteristiche della S. umana le maniere
d’agire che sono imposte dall’esterno e si consolidano nelle istituzioni
(Régles de la méthode sociologique, 1895, cap. I). E l’azione stessa o il
comportamento viene talora assunto come l’elemento oggettivo che definisce il
campo dei rapporti umani (cfr. TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action,
1949; 2* ediz., 1957). Questo secondo modo d’intendere la S., riconosce ad essa
esplicitamente o implicitamente il carattere di un « campo » e la riduce perciò
a un costrutto concettuale togliendole sia il carattere di totalità reale sia
quello di ideale normativo. 2° Il concetto della S. come della totalità degli
individui tra i quali intercedono rapporti intersoggettivi cioè come «mondo
sociale» è abitualmente connesso con il concetto della S. come organismo o «
super-organismo ». Già gli antichi avevano assimilato a un organismo la comunità
politica cioè lo Stato. Gli Stoici assimilarono all’organismo la S. intera cioè
la comunità degli esseri razionali (cfr. Marco AURELIO, Ricordi, VII, 13); e
tale assimilazione continua nell’età moderna. Comte chiama la società un
«organismo collettivo» (Cours de phil. positive, IV, pag. 442 sgg.). Spencer a
sua volta chiama super-organica l’evoluzione che conduce 808 alla S. e
considera la S. stessa come un organismo i cui elementi sono prima le famiglie
poi gli individui singoli. L'organismo sociale si distingue, secondo Spencer,
dall’organismo animale, per il fatto che la coscienza appartiene solo agli
elementi che lo compongono in quanto la S. non ha organi di senso come
l’animale ma vive e sente solo negli individui che la compongono (The Study of
Sociology, 1873). Nello stesso senso si esprimeva Wundt (System der
Philosophie, 28 ediz., 1897, pag. 616 sgg.) L’ipotesi organicistica rimane
sullo sfondo di molte dottrine politiche e sociologiche moderne. Una variante
di questa stessa concezione può essere considerata la dottrina di Hegel che
vede nella «S. civile» una fase imperfetta o preparatoria dello Stato cioè
dell’Idea divina che si realizza in terra: « La sostanza che, in quanto
spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una
sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sè in libertà
indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico; giacchè
queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo
l’unità assoluta ma la loro propria particolarità e il loro essere per sè:
donde nasce il sistema dell’atomistica ». Questo sistema è appunto la S. civile
come « connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro
interessi particolari » 0 come « stato esterno + (Enc., $ 523; Fil. del Dir., $
184). In questo senso la S. civile comprende, secondo Hegel, in primo luogo, il
sistema dei bisogni; in secondo luogo, l’amministrazione della giustizia e in
terzo luogo la polizia e la corporazione cioè gli organi che hanno la cura
degli interessi particolari (Fil. del Dir., $ 188). Marx stesso mantenne
immutato questo concetto della S. civile, di cui capovolse il rapporto con lo
stato e che pertanto assunse come principio di spiegazione dello Stato stesso e
in generale di tutto il mondo ideologico: « Sono stato dai miei studi condotto
alla conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato non
potevano essere compresi nè di per se stessi nè per il cosiddetto sviluppo
generale dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali
dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di S.
civile: l’anatomia di questa S. civile dev'essere cercata nell’economia
politica » (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
Cantimori, pag. 10). Un concetto analogo di S. è apparso a Bergson come
l’ideale stesso della S. « aperta » cioè della S. mistica. « Una S. mistica che
conglobi l’umanità intera e che marci, animata da una volontà comune, verso la
creazione incessantemente rinnovellata di un’umanità più completa, di certo non
si realizzerà nell’avvenire più di quanto nel passato siano esistite S. umane
funzionanti in maniera orSOCINIANESIMO ganica a simiglianza delle S. animali.
L’aspirazione pura è un limite ideale come l’obbligazione nuda » (Deux sources,
I; trad. ital., pag. 87). 3° Nel terzo significato di un insieme di individui
caratterizzato da un atteggiamento comune o istituzionalizzato la parola è
usata correntemente nel linguaggio comune e nelle discipline sociologiche. In
questo significato la parola designa indifferentemente sia un gruppo di
individui sia l'istituzione che caratterizza il gruppo, come accade nelle frasi
«S. commerciale », « S. capitalistica », «S. dell’angolo della strada», ecc.
Quest’uso è così ovvio che di regola non viene neppure definito. Talvolta viene
definito in relazione a cultura, come fanno Kluckhohn e Kelly: « Una ‘S.’ si
riferisce ad un gruppo di gente che ha imparato a operare insieme; una ‘cultura
* si riferisce ai modi di vita che distinguono questo gruppo di gente » (R.
LINTON, The Science of Man in the World Crisis, 72 ediz., 1952, pag. 79).
SOCINIANESIMO (ingl. Socinianism; francese Socinianisme; ted. Socinianismus).
La dottrina religiosa di Lelio (1525-62) e Fausto (1539-1604) Socini di Siena
che esercitarono la loro influenza soprattutto in Polonia e che comprende
principalmente i punti seguenti: 1° la negazione del dogma trinitario; 2° la
negazione del peccato originale e della predestinazione; 3° la negazione del
valore delle opere e della necessità della mediazione ecclesiastica; 4°
l’appello diretto alla Bibbia come unico mezzo di salvezza; 5° il ricorso alla
ragione come unico strumento per l’interpretazione autentica della Bibbia.
Oltre che in Polonia il S. si diffuse in Olanda e in Inghilterra; ma la sua
influenza è stata grandissima su tutta la cultura liberale moderna (cfr. D.
CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, 1939). SOCIOCRAZIA, SOCIOLATRIA
(ingl. Sociocracy, Sociolatry; francese Sociocratie, Sociolatrie; ted. Soziokratie,
Soziolatrie). Termini creati da A. Comte per designare rispettivamente il
regime politico fondato sulla sociologia, che Comte concepisce come analogo o
corrispondente alla teocrazia medievale fondata sulla teologia (Politique
positive, 1851, I, pag. 403); e il culto della società che Comte riteneva
dovesse prendere il posto delle religioni positive (Caréchisme positiviste,
VI). SOCIOLOGIA (ingl. Sociology; franc. Sociologie; ted. Soziologie). È la
scienza della società, intendendosi per società il campo dei rapporti
intersoggettivi. Il termine fu creato da A. Comte nel 1838 per indicare «la
scienza di osservazione dei fenomeni sociali » (Cours de phil. positive, IV,
1838) ed è ora usato per designare ogni tipo o specie di analisi empirica o di
teoria che concerna i SOCIOLOGIA fatti sociali cioè gli effettivi rapporti
intersoggettivi, in contrasto con le «filosofie» o « metafisiche » delia
società, che pretendono di illustrare, indipendentemente dai fatti e una volta
per sempre, la natura della società come un tutto. Indubbiamente, osservazioni
utili e decisive, nel campo sociale, sono state sempre fatte nella storia del
pensiero occidentale e hanno trovato posto specialmente nell’etica e nella
politica. Tali osservazioni non costituivano tuttavia una disciplina autonoma,
dotata di una propria metodologia: hanno cominciato a costituirla solo con
Comte. Si possono distinguere due concetti fondamentali della S., che si sono
succeduti nel tempo, cioè: 1° la S. sintetica (o sistematica) avente come oggetto
la totalità dei fenomeni sociali da indagarsi nel suo complesso cioè nelle sue
leggi; 2° la S. analitica avente per oggetto gruppi o aspetti particolari dei
fenomeni sociali e da essi procedente a generalizzazioni opportune. In questa
seconda fase la S. si rompe in una molteplicità di indirizzi di ricerca e fa
una certa fatica a ritrovare la sua unità concettuale. 1° Ad opera di Comte, la
S. è nata come sistema cioè come determinazione della natura della società nel
suo complesso, mediante la determinazione delle leggi di essa. La S. pretende
di organizzarsi, in questa fase, a somiglianza della fisica newtoniana: come
scienza che delinea, mediante leggi rigorose, un ordine necessario, nonchè lo
sviluppo, non meno necessario, di quest'ordine. Comte pertanto chiamava la S.
fisica sociale e vedeva la prima parte di essa nello studio dell’ordine sociale
cioè nella statica e la sua seconda parte nello studio del progresso sociale,
cioè nella dinamica (Cours de phil. positive, IV, pag. 292). Comte inoltre attribuiva
alla S. la stessa funzione riconosciuta da Bacone in o infatti, mentre vuol
realizzare la S. come una scienza positiva che indaga «la realtà sperimentale
mediante l’applicazione dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica,
chimica, astronomia, biologia e nelle altre scienze +, ripudia, dall’altro
lato, ogni costruzione sistematica troppo complessa e non esita a definire come
metafisiche e dogmatiche le dottrine sociologiche di Comte e Spencer (Zraztato,
$ 5, 112). Il carattere essenziale della scienza è, secondo Pareto, il
carattere «logico-sperimentale » che implica due elementi: il ragionamento
logico e l’osservazione del fatto. Lo scopo della scienza rimane tuttavia
quello di formulare leggi necessarie che delineano nel loro insieme quello che
Pareto chiama l’equilibrio sociale e che è da lui paragonato talora a un
sistema meccanico di punti, talaltra a un organismo vivente (Cours d’économie
politique, 1896, $ 619). Ma dall’altro lato egli insiste anche sul semplice
carattere di « uniformità sperimentale » della legge e sul fatto che ogni
fenomeno concreto è dovuto all’intersecazione di un certo numero di leggi
differenti (Trattato, $ 99); il che vuol dire che ogni spiegazione scientifica
è solo approssimativa e parziale (Ibid., $ 106). E ancora più lontano
dall’ideale sistematico della S. è il corpo delle analisi che Pareto dà nel
7rattato; analisi che hanno per oggetto di preferenza quelle che egli chiama le
«azioni non logiche », di cui vede gli elementi nei residui e nelle derivazioni
(v.). 2° Il passaggio dalla S. sintetica a quella analitica può ritenersi
segnato dall'opera di E. Durkheim che abbandona il presupposto fondamentale
della S. sistematica: il presupposto cioè che la società costituisca un tutto o
un sistema organico. Dice Durkheim: «Ciò che esiste, ciò che solo è dato
all’osservazione, sono le società particolari che nascono, si sviluppano,
muoiono indipendentemente l’una dall’altra» (Régles de la méthode sociologique,
1895; 11® ediz., 1950, pag. 20). Parallelamente Durkheim ha insistito sul
carattere esterno dell’oggetto proprio della scienza sociale.«I fatti sociali,
egli ha detto, consistono in modi di agire, pensare e sentire, esterni
all’individuo e dotati di un potere di coercizione per il quale gli si
impongono * (/bid., pag. 5). Considerare i fatti sociali in questo modo
significa considerarli come cose cioè indipendentemente dai pregiudizi
soggettivi e dalle volontà individuali (/bid., pag. 11 sgg.). Gli stessi motivi
trovarono sistemazione nell’opera metodologica di Max Weber. Questi ha in primo
luogo il merito di aver distinto la S. dalle altre discipline antropologiche e
in particolare da quelle storiografiche. Egli riconobbe l’oggetto della S.
nelle uniformità dell’atteggiamento umano, in quanto dotate di senso cioè in
quanto accessibili alla comprensione. Più precisamente, l’atteggiamento è
quell'azione umana che: 1° è riferita, secondo l’intenzione di colui che
agisce, all’atteggiamento degli altri; 2° è determinata nel suo corso anche da
questo riferimento; 3° può essere spiegata da questo riferimento (Uber einige
Kategorien der verstehenden Soziologie, 1913; trad. ital, in // metodo delle
scienze storico-sociali). La seconda acquisizione importante della S. di Max
Weber è la netta separazione, che egli volle stabilire, tra la ricerca empirica
o logica da un lato e le valutazioni pratiche o etiche, politiche o metafisiche
dall’altro lato (Der Sinn der Werifreiheit der soziologischen und òkonomischen
Wissenschaften, 1917; nella citata raccolta, pag. 311 sgg.). Per quanto,
ovviamente, questa separazione sia più facile ad essere affacciata come
esigenza che realizzata nella ricerca, essa vale tuttora come una regola che
impegna l’onestà del ricercatore. In terzo luogo, dall’opera di Weber
scaturisce l’esigenza della ricerca empirica particolare, la quale soltanto può
determinare le uniformità di atteggiamento che costituiscono l’oggetto proprio
della sociologia. Questi tre punti sono rimasti saldi nell’ulteriore sviluppo
della S. contemporanea. Questa ha accolto con entusiasmo l’invito di Weber alla
ricerca empirica particolare e alla formulazione di tecniche di osservazione
adeguate. La S. dispone oggi di un complesso imponente di tecniche, che si
possono ordinare in quattro gruppi fondamentali: 1° le tecniche d’osservazione
(osservazione diretta, libera o controllata, osservazione clinica, osservazione
partecipante, ecc.); 2° le tecniche dell’intervista, che vanno dall’intervista
libera ai questionari; 3° le tecniche di sperimentazione e le tecniche
sociometriche: le quali ultime tendono a descrivere le relazioni sociali
spontanee (considerate come componenti elementari di tutti i raggruppamenti)
mediante la partecipazione attiva degli stessi soggetti studiati (cfr. Moreno,
Who Shall Survive?, 1934); 4° le recniche statistiche, che la S. condivide con
molte discipline sociali (cfr., per un quadro di SOCIOLOGIA queste tecniche, il
Traité de sociologie, diretto da G. Gurvitch, 1958, pag. 135 sgg.), Un numero
ingente di « ricerche sul campo + è stato effettuato con l’uso di queste
tecniche nelle direzioni più disparate ed è stato in questo modo accumulato,
soprattutto negli ultimi trent'anni, un materiale di osservazione ingente e
complesso. Non in tutti i paesi tuttavia la ricerca sociologica si è sviluppata
nelle stesse direzioni. In Inghilterra essa si è dedicata soprattutto a
illustrare il mondo dei primitivi, le sue istituzioni e i suoi comportamenti
fondamentali (cfr. specialmente l’opera di G. FRazER, The Golden Bough,
1911-14, 12 voll., e gli scritti di B. Malinowski e A. R. RadcliffBrowns). In
Francia, oltre a illustrare la mentalità dei primitivi (cfr. specialmente gli
scritti di LévyBruhl a partire dal Les fonctions mentales dans les sociétés
inférieures, 1910), essa ha conservato il carattere teoretico dedicandosi allo
studio di problemi fondamentali, specialmente ad opera di Gurvitch (La vocation
actuelle de la sociologie, 1950; Déterminismes sociaux et liberté humaine,
1955). In Italia, dopo aver dato con l’opera di Pareto e di altri minori, un
contributo importante alla S. sistematica, ha taciuto nel periodo tra le due
guerre per l’influenza negativa della cultura idealistica e solo oggi va
riacquistando forza e capacità, aggiornandosi rapidamente nei metodi e negli
interessi e procedendo a studiare la società italiana. Ma soprattutto negli
Stati Uniti la ricerca sociologica ha prodotto una mole imponente di lavoro
nelle più disparate direzioni. Si possono qui soltanto indicare le direzioni
principali in cui la ricerca sociologica si è incanalata: a) La S. urbana che
si è sviluppata in America soprattutto per l’opera di incoraggiamento di R. E.
Park e che ha dato luogo a opere classiche come quelle di R. S. e H. Lynp,
Middletown (1929) e Middletown in Transition (1937) (cfr. pure il classico
studio di PARK, The City, 1925, ora in Human Communities, 1952). b) Lo studio
della stratificazione e della mobilità sociale: che si è iniziato in America
all’epoca della crisi (1929) e ha conseguito d'allora in poi risultati
importanti (cfr., per un bilancio, G. GaDpDA Conti, Mobilità e stratificazione
sociale, 1959). c) Lo studio dei gruppi etnici che conta un insieme imponente
di opere tra le quali quella classica di Thomas e Znaniecki, The Polish Peasant
in Europe and America (1918-21). d) Lo studio della famiglia che si è soprattutto
fermato sull’analisi della disorganizzazione familiare e del disordine
matrimoniale (cfr., ad es. G. V. Hamilton, La Ricerca sul matrimonio, 1929). e)
L’analisi dell’opinione pubblica e degli strumenti di propaganda che ha ormai
una ricchissima letteratura (cfr., ad es., R. K. MERTON, Mass Persuasion,
1947). f) Lo studio del piccolo gruppo che ha dato in America i risultati
migliori (cfr. E. SHi1s, Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di
S.», 1953, n. 7). 2) La S. industriale, col qual termine s’intende lo studio
dei rapporti che si sviluppano nei luoghi di lavoro e l’infiuenza reciproca tra
tali rapporti e l’organizzazione industriale (cfr., per un bilancio, FRANCO
FERRAROTTI, La S. industriale in America e in Europa, 1959). h) La S. della religione,
che è stata fondata da Max Weber (Die protestantische Ethik und der Geist des
Kapitalismus, 1904; Die protestantische Sekten und der Geist des Kapitalismus,
1906; ecc.) e consiste nell’analisi delle relazioni reciproche tra i rapporti
sociali e i fatti religiosi; ma che non ha trovato negli ultimi anni sviluppi
importanti. 1) La S. della conoscenza che abitualmente si ritiene fondata da
Marx il quale per primo ha insistito sulle relazioni reciproche tra il sapere e
le forme sociali e che è stata coltivata specialmente da Max Scheler (Die
Wissensformen und die Gesellschaft, 1926) e da Karl Mannheim (Das Problem einer
Soziologie des Wissens, 1926). Come già è stato detto la mole di lavoro
effettuato in molte di queste branche della ricerca sociologica è ingente; ma a
tale mole non corrisponde l’adeguata utilizzazione concettuale di essa. « Il
difetto maggiore della S. americana, ha detto Shils è l'inverso della sua
principale particolare virtù: lsua indifferenza, finora predominante, verso la
formazione di una teoria generale è strettamente connessa con la sua avidità di
precisione nell’osservazione immediata» (Lo stato attuale della S. americana,
in «Quaderni di S.», 1953, n. 8). Questa condizione non è propria soltanto
della S. americana ma si ripresenta in tutti i paesi nei quali la ricerca
sociologica raggiunge un certo grado di sviluppo. Essa fa nascere talora una
nostalgia per la vecchia forma sistematica della S. anche in coloro che più
hanno insistito sull’importanza delle tecniche oggettive (cfr. PITIRIM SOROKIN,
Fads and Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, 1956). Non mancano
tuttavia nella letteratura sociologica moderna tentativi importanti e ben
riusciti di stabilire la teoria sistematica dell'oggetto proprio della S. cioè
dell’azione sociale (cfr., ad es., T. PaRSONS, The Structure of Social Action,
1937; 23 ediz., 1949) o di consolidare il rapporto tra la teoria sociale e la
ricerca sociale (cfr., ad es., R. K. MERTON, Social! Theory and Social
Structure, 1949; 2* ediz., 1957) o anche quelli di realizzare la S. come una «
tipologia quan-titativa e discontinuista », altamente teoretica, qual è quella
di G. Gurvitch (Traité de sociologie, 1959, pag. 155 sgg.). Pertanto, ciò che
si può prevedere, dato lo stato attuale di questa disciplina, è il
moltiplicarsi e il rafforzarsi dei tentativi di concettualizzazione teoretica
del materiale reso disponibile dalle ricerche particolari, pur senza un ritorno
alla forma sistematica che la S. aveva assunto nella sua prima fase dogmatica.
SOCIOLOGISMO (ingl. Sociologism; francese Sociologisme; ted. Soziologismus).
Termine polemico per designare la tendenza a ridurre i fenomeni morali o
religiosi a fatti sociali (cfr. BOUTROUX, Science et religion, pag. 342).
SOCIOMETRIA. V. SocioLogia; TECNICHE DI RICERCA. SOCRATISMO (ingl. Socratism;
franc. Socratisme; ted. Sokratismus). La dottrina di Socrate, quale è rimasta
fissata nella tradizione antica e che si può riassumere nei seguenti capisaldi:
1° il valore della ricerca filosofica per cui una vita senza ricerca non è
degna d’esser vissuta; 2° la limitazione della ricerca all’uomo e il
disinteresse per ogni indagine della natura; 3° l’identificazione di scienza e
virtù nel senso che la virtù si può insegnare ed apprendere e che non si può
fare il bene senza conoscerlo; 4° l’importanza attribuita all’insegnamento, con
la pretesa di non insegnare nulla e di limitarsi a favorire il parto
intellettuale degli ascoltatori; 5° il metodo dell’interrogazione e l’ironia
(v.). SOFISMA (ingl. Sophism; franc. Sophisme; ted. Sophisma). 1. Lo stesso che
fallacia (v.). 2. Un ragionamento cavilloso o che porta a conclusioni
paradossali o sgradite. In questo senso il termine ha un uso assai vasto e
possono essere chiamati S. anche i paradossi (v.) e gli argomenti duplici.
SOFISTICA (ingl. Sophistics; franc. Sophistique; ted. Sophistik). 1. Aristotele
chiamò S. «la sapienza apparente ma non reale» (E/. Sof., 1, 165a 21); ed il
nome è rimasto per indicare in generale l’abilità di addurre argomenti
cavillosi o speciosi. 2. In senso storico, la S. è l’indirizzo filosofico
proprio dei cosiddetti Sofisti cioè di quei maestri di retorica o di cultura
generale che nella Grecia tra il v ed il rv secolo ebbero una notevole
influenza nel clima intellettuale del tempo. La S. non è una scuola filosofica
ma un indirizzo generico che i Sofisti condivisero per le esigenze della loro
stessa professione. Si possono riassumere nel modo seguente i capisaldi di
questo indirizzo: 1° la concentrazione dell’interesse filosofico sull’uomo e
sui suoi problemi, che i Sofisti condivisero con Socrate2° la riduzione della
conoscenza all’opinione e del bene all’utilità col conseguente riconoscimento
della relatività del vero e dei valori morali, che muterebbero a seconda dei
luoghi e dei tempi; 3° l’eristica cioè l’abilità di confutare o di sostenere
contemporaneamente tesi contraddittorie; 4° la contrapposizione tra la natura e
la legge e il riconoscimento che la natura non conosce che il diritto del più
forte. a in un modo d’essere rappresentativo (in esse objectivo) che
corrisponde a ciò che la cosa esterna è nella sua esistenza sostanziale » (/rr
Senr., I, d.2, q. 8, E; cfr. Duns Scoro, De An., 17, 14). Questo significato si
mantiene per tutto il Medio Evo. 2. Il significato di S. come appartenente all’io
o al soggetto dell’uomo si trova per la prima volta in alcuni scrittori
tedeschi del sec. xvni (sui quali cfr. CassireR, Erkenntnisproblem, 1908, libro
VII). Già Baumgarten parlava della «fede considerata soggettivamente » di
fronte alla «fede considerata oggettivamente » che è l’insieme delle credenze
(Mer., 1739, $ 993). E qualche decennio più tardi si discuteva se la bellezza o
la verità fossero S. od oggettive intendendosi per oggettiva « una proprietà
degli oggetti » e per S. «una rappresentazione del rapporto delle cose con noi,
cioè una relazione con colui che le pensa» (J. C. Lossius, Physische Ursachen
des Wahren, 1775, pag. 65). La stessa distinzione si trova nel Tetens
(Philosophische Versuche, 1776, I, pag. 344, 560, ecc.). Da quest’uso dell’aggettivo,
Kant desumeva il nuovo significato attribuito al sostantivo soggetto. SOGGETTO
(gr. sroxeluevov; lat. Subjectum, Suppositum; ingl. Subject; franc. Sujet;
tedesco Subjekt). Il termine ha avuto due significati fondamentali: 1° ciò di
cui si parla o a cui si attribuiscono qualità o determinazioni o a cui qualità
o determinazioni sono inerenti; 2° l’io o lo spirito o la coscienza come
principio determinante del mondo della conoscenza o dell’azione o almeno come
capacità d’iniziativa in tale mondo. Entrambi questi significati rimangono
nell’uso corrente del termine. Il primo nella terminologia grammaticale e nel
concetto di S. come tema o argomento di discorso. Il secondo nel concetto di S.
come capacità autonoma di rapporti o di iniziative, capacità che viene
contrapposta all’esser semplice «oggetto » o parte passiva di tali rapporti. 1°
Il primo significato è quello della tradizione filosofica antica. Esso ricorre
in Platone (Prot., 349 b) ed è illustrato da Aristotele come uno dei modi della
sostanza. « Il S., dice Aristotele è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a
sua volta non può essere detto di nulla » (Mer., VII, 3, 1028 b 36). In questo
senso il S. può essere inteso: 4) come la materia di cui una cosa è composta,
per es., il bronzo; 5) come la forma della cosa stessa, per es., il disegno di
una statua; c) come l’unione di materia e forma, per es., la statua (/bid.,
1029 a 1). Questedeterminazioni sono strettamente proprie della metafisica
aristotelica. Ma il senso generale del termine è quello che conta: S. è
l’oggetto reale a cui ineriscono o a cui si riferiscono le determinazioni
predicabili (la qualità, la quantità, ecc.). Questo è pure il concetto che del
S. ebbero gli Stoici: essi lo considerarono come l'oggetto esterno a cui il
significato viene riferito cioè come la denotazione del significato (Sesto
EMP., Adv. Math., VIII, 12; cfr. SigNIFICATO). Nello stesso senso usarono il
termine gli Epicurei (EPICUR., Epistola, I, pag. 12, 24, Uesener). A questa
tradizione si riconnette l’uso grammaticale del termine che cominciò nel n
secolo d. C.; Apuleio già chiamava subjectiva o subdita la parte del discorso
che gli antichi chiamavano nome e declarativa la parte che gli antichi
chiamavano verbo (De Dogmate Platonis, III, pag. 30, 30; cfr. Marziano CAPELLA,
De Nuptiis, IV, 393). Questo significato di « S. » rimane immutato attraverso
una lunga tradizione. Gli scrittori medievali seguono le determinazioni
aristoteliche: chiamano subjectum o suppositum la sostanza in quanto ad essa
ineriscono le qualità o le altre determinazioni (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q.
29, a. 2; Duns Scoro, Op. Ox., II, d.3, q.6, n.8; OcKHAM, In Sent., I, d. 2, q.
8, E). Il significato del termine non cambia quando per S. viene intesa l’anima
come sostanza alla quale ineriscono determinati caratteri o dalla quale emanano
attività determinate. Dice Hobbes: « Il S. della sensazione è lo stesso
senziente, cioè l’animale » (De Corp., 25, 3). Locke chiama il S. in questo
senso substratum o sostegno (Saggio, II, 23, 1-2). E in questo senso si avvale
del termine Hume: «Qui appare Spinoza e mi dice che vi sono solo le
modificazioni e che il S. al quale esse ineriscono è semplice, incomposto e
indivisibile » (Treatise, I, IV, 5, ed. Selby-Bigge, pag. 242). Dall'altro lato
lo stesso significato si mantiene anche nel razionalismo tedesco. Leibniz
intende conservare il significato tradizionale di S. (Nouv. Ess., Il, 23, 2); e
quando parla di disposizioni «che vengono 4a subjecto o dall’anima stessa »
intende disposizioni che vengono dalla sostanza stessa dell'anima (Remarques
sur le livre de L'origine du Mal, in Op., ed. Erdmann, pag. 645). Wolff a sua
volta definisce il S. come « l’ente in quanto considerato dotato di essenza e
capace di altre cose oltre di essa » (Onr., $ 711). Baumgarten nello stesso
senso dice che S. è l’ente, determinato nella materia da cui è costituito
(Mer., $ 344). Lo stesso Kant fa d’altronde ricorso a questa nozione
tradizionale del soggetto. « Già da tempo, egli dice, è stato osservato che in
tutte le sostanze, il vero e proprio S., ciò che rimane tolti gli accidenti
(come predicati) quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto» (Prol., $
46).2° Il secondo significato del termine come io o coscienza o capacità
d’iniziativa in generale, si è iniziato solo con Kant che certamente ha tenuto
presente il significato che l’opposizione tra soggettivo e oggettivo aveva
assunto in taluni scrittori tedeschi a lui contemporanei (v. SOGGETTIVO). Il S.
è per Kant l’io penso, la coscienza o autocoscienza che determina e condiziona
ogni attività conoscitiva: «In tutti i giudizi io sono sempre il S.
determinante di quella relazione che costituisce il giudizio ». « Per l’io o
egli o quello (la cosa) che pensa, non ci rappresentiamo altro che un S.
trascendentale dei pensieri, = x che non è conosciuto se non mediante i
pensieri che sono suoi predicati e di cui, a parte da questi, non possiamo
avere il minimo concetto » (Crif. R. Pura, Dial. trascendentale, II, cap. I).
In queste parole di Kant si può cogliere il passaggio dal vecchio al nuovo
significato di soggetto. L’io è S. in quanto ad esso ineriscono i pensieri come
suoi predicati: questo è ancora il significato tradizionale del termine. Ma
l’io è S. in quanto determina l’unione del S. e del predicato nei giudizi cioè
in quanto è attività sintetica o giudicante, spontaneità conoscitiva, perciò
coscienza 0 auto-coscienza o appercezione; e questo è il nuovo significato di
soggetto. A questo secondo significato esclusivamente si appiglia la tradizione
post-kantiana. Secondo Fichte, il S. è l'Io, che è «S. assoluto », non
rappresentato nè rappresentabile », che « non ha nulla in comune con gli esseri
della natura» (Wissenschafislehre). La differenza tra la Sostanza di Spinoza e
l’Io assoluto, consiste secondo Fichte appunto nel fatto che Spinoza non ha
concepito la sostanza come S. (/bid.; trad. ital., pag. 78 sgg.). Schelling
parla nello stesso senso della identità o unità del S. e dell’oggetto
nell’Autocoscienza assoluta (System des transzendentalen Idealismus, 1800, I,
cap. II; trad. ital., pag. 34). Hegel a sua volta diceva: « Tutto dipende
dall’intendere e dall’esprimere il Vero non solo come Sostanza ma altrettanto
decisamente come Soggetto... La sostanza viva è l’essere il quale è in verità
S. o, ciò che è lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma solo in
quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi o in quanto è la mediazione
del divenire altro da sè con se stessa » (Phanom. des Geistes, Pref. II, 1).
Nello stesso senso Hegel afferma che l’Idea assoluta è unità di S. e oggetto
(ZEnc., $ 214). Ed aggiunge: «L'unità dell’idea è soggettività, pensiero,
infinità, e perciò da distinguere essenzialmente dall’idea come sostanza; allo
stesso modo che questa soggettività soverchiante, questo pensiero, questa
infinità è da distinguere dalla soggettività unilaterale dal pensiero
unilaterale, dall’infinità unilaterale, alla quale essa, col giudicare e col
definire, si abbassa » (Enc., $ 215). 814 La soggettività come «soggettività
infinita» cioè non intellettuale prevale dunque sull’oggettività in quella «
unità di S. e oggetto » che è l’Idea o l’Assoluto. Ma Hegel vede anche nel S.
come tale la capacità d’iniziativa o il principio dell'attività in generale.
«Il S. è l’attività della soddisfazione degli impulsi, della razionalità
formale; vale a dire, è l’attività che traduce la soggettività del contenuto,
che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività in cui il S. si congiunge con
se stesso + (Enc., $ 475). Schopenhauer insisteva, come Fichte, sulla
irrapempre correlativi l’uno all’altro e per questo inseparabili» riduce la
funzione del S. a quella di «farsi immagine, rappresentazione o conoscenza
dell’oggetto + escludendo che esso entri comunque a modificare la natura di
questo (Systematische Philosophie, 1931, $ 10). Infine, anche quando non si
esclude la funzione del S., tale funzione non viene riconosciuta come
incondizionata o creativa ma sottoposta a limiti e condizioni, e in ogni caso
si nega che il S. stesso possa valere come una sostanza o una forza autonoma.
Dice Husserl: «L’ego si costituisce per se stesso nell’unità di una storia. Se
si può dire che nella costituzione dell’ego sono contenute tutte le
costituzioni di tutti gli oggetti che esistono per lui, immanenti e
trascendenti, reali e ideali, bisogna aggiungere che il sistema delle
costituzioni, in virtù delle quali tali oggetti esistono per l’ego non sono
possibili che nel quadro di leggi genetiche » (Cart. Med., 1931, $ 37). Da
questo punto di vista il S. è una funzione, non una sostanza o una forza
creatrice. Heidegger ha detto: «Se per l’ente che noi stessi siamo e che
definiamo esserci si sceglie il termine di S., possiamo dire: la trascendenza
implica l’essenza del S., essa è la struttura fondamentale della soggettività.
Non è che il S. esista dapprima come S. e poi, qualora si rivelino come
presenti alcuni oggetti, esso li possa anche trascendere. Esser S. significa
invece essere esistente nella trascendenza e in quanto trascendenza +» (Vom
Wesen dell’immaginazione nel sonno. Questa è la definizione del S. che fu data
già da Platone (Tim., 45 e) e da SOLILOQUIO Aristotele (De Somniis, 1, 459a 15)
ed è anche quella della psicologia moderna: nella quale, naturalmente, dà luogo
ad una serie di problemi che esulano completamente dal campo della filosofia
(cfr., su di essi, E. SERvADIO, 7/ S., 1955). Freud e gli psicanalisti hanno
dato una interpretazione funzionalistica del S.: hanno cercato di determinare
la funzione che il S. esercita nella vita dell’uomo. Secondo Freud il S. «è un
mezzo per sopprimere le eccitazioni (psichiche) che vengono a turbare il sonno,
soppressione che si effettua con l’aiuto di soddisfazioni allucinatorie »
(/ntr. d la psychanalyse, 1932, pag. 151). I desideri che nel S. trovano una
realizzazione simbolica sono, il più delle volte, desideri proibiti, inibiti
dalla censura e che perciò subiscono attraverso il S. una elaborazione radicale
che è compito dello psicologo interpretare (/bid., pag. 189, 234). Questa
teoria di Freud è stata a lungo discussa e non pare che si adatti a spiegare
tutte le specie di S. o tutti gli aspetti del S.; essa è la sola tuttavia che
si è proposta il problema della funzionalità del S., cioè del compito cui esso
adempie nell'economia della vita psichica. I filosofi si sono talvolta
soffermati sul S. per mostrare l’incertezza della discriminazione tra il S. e
la veglia, avvalendosene come un elemento di dubbio teoretico. Diceva Platone:
« Nulla vieta di credere che i discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno;
e quando in S. crediamo di raccontare un S., la somiglianza delle sensazioni
nel S. e nella veglia è addirittura meravigliosa » (Teert., 158 c). D'altronde
«Il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo desti e nell’uno e
nell’altro la nostra anima afferma che solo le opinioni che ha in quel momento
presente sono vere; sicchè per un eguale spazio di tempo noi diciamo che sono
vere ora le une ora le altre e le une e le altre sosteniamo con lo stesso
vigore » (/bid., 158 d). Nel sec. XVII e XVIII questo tema fu ripetuto
frequentemente da poeti e filosofi. Shakespeare diceva: « Noi siamo della
stessa sostanza di cui son fatti i S. e la nostra breve vita è racchiusa in un
sonno » (Tempest, atto IV, scena I). Calderòn de la Barca aveva utilizzato lo
stesso tema ne La vita è un S. (1635): « Sono dunque le glorie così simili ai
S. che quelle vere son tenute per false e quelle finte per certe? C'è così poco
dalle une alle altre che si fa questione di sapere se quel che si vede o si
gode sia un S. o verità?» (atto III, scena X). Cartesio utilizzava lo stesso
tema come elemento di dubbio: 4 Ciò che accade neì sogno non sembra così chiaro
e così distinto come ciò che accade nella veglia. Ma pensandoci sopra mi
ricordo d'essere stato spesso ingannato, quando dormivo, da semplici illusioni.
E fermandomi su questo pensiero, vedo chiaramente che non ci sono indici
concludenti nè contrassegni abbastanza certi per poter distinguere nettamente
la veglia dal sogno al punto che ne sono stupito e il mio stupore è tale che è
quasi capace di persuadermi che sto dormendo » (Méd., I; cfr. Princ. Phil., I,
4). La dottrina di Leibniz secondo la quale la vita della monade, cioè della
sostanza spirituale, è «un S. ben regolato» è un’altra manifestazione dello
stesso tema. Dice Leibniz: « Non è impossibile, metafisicamente parlando, che
ci sia un S. continuo e duraturo come la vita di un uomo... Ma posto che i
fenomeni siano legati non importa che li si chiamino S. o no poichè
l’esperienza mostra che non ci si inganna nella misura in cui si apprendono i
fenomeni, quando essi sono appresi secondo le verità di ragione » (Nouv. Ess.,
IV, 2, 14). Diceva Voltaire: « Se gli organi da soli producono i S. della notte
perchè non potrebbero produrre da soli le idee del giorno? Se l’anima sola,
tranquilla nel riposo dei sensi e operante da sè è l’unica causa, il soggetto
unico di tutte le idee che abbiamo dormendo, perchè tutte queste idee sono
quasi sempre irregolari, irrazionali, incoerenti? » (Dictionnaire
philosophique, 1764, art. Songes). Schopenhauer è forse l’ultimo a presentare
questo tema nella sua forma classica: «La vita e i S. sono pagine di uno stesso
libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale
della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo allora
spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e connessione, a sfogliare
qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un’altra ancora
sconosciuta, ma sempre dello stesso libro » (Die Welt, I, $ 5). SOLECISMO
(ingl. Solecism; franc. Solécisme; ted. Solecismus). In Aristotele (Soph. El.,
passim) e poi nella Logica di origine aristotelica designa uno degli scopi
della dialettica sofistica, ossia il tentativo di indurre l’interlocutore ad
accettare un enunciato contenente un'impossibilità grammaticale, come homines
currit. Il termine è rimasto ad indicare in genere uno sproposito di morfologia
o sintassi grammaticale. G. P. SOLIDARIETÀ (ingl. Solidarity; franc.
Solidarité; ted. Solidaritàt). Termine di origine giuridica che nel linguaggio
corrente comune e filosofico significa: 1° connessione reciproca o
interdipendenza: per esempio, «S. dei fenomeni»; 2° assistenza reciproca fra i
membri di uno stesso gruppo: (per es., S. familiare, S. umana, ecc.). In questo
senso si parla di solidarismo per indicare la dottrina morale e giuridica che
assume come sua idea fondamentale la S. (cfr. L. BourGEOIS, La soli darité,
1897). SOLILOQUIO (lat. Soliloguium). Il colloquio dell’anima con se stessa.
Soliloquia S. Agostino intitolò uno dei suoi primi scritti nel quale dichiarava
di voler conoscere soltanto Dio e l’anima e null’altro (So/., I, 2). S. Anselmo
chiamò Monologion il suo colloquio interiore intorno all’essenza di Dio.
SOLIPSISMO (ingl. Solipsism; franc. Solipsisme; ted. Solipsismus). La tesi che
esisto solo io e che tutti gli altri enti (uomini e cose) sono soltanto mie
idee. Il termine più antico per indicare questa tesi è egoismo (cfr. WoLFF,
Psychol. rationalis, $ 38; BAUMGARTEN, Met., $ 392; GALLUPPI, Saggio filosofico
sulla critica della conoscenza, IV, 3, 24; ecc.) o egoismo metafisico (KANT,
Antr., I, $ 2) o egoismo teorico (SCHOPENHAUER, Die Welt, I, $ 19). Kant
adoperò il termine S. per indicare la totalità delle inclinazioni, che, quando
sono soddisfatte, producono la felicità (Cri. R. Prat., I, libro I, cap. III;
trad. ital., pag. 85): e questo termine fu adoperato a indicare l’egoismo
metafisico da alcuni scrittori tedeschi della seconda metà del1°800 (cfr.
SCHUBERT-SOLDERN, Grundlagen zu einer Erkenntnistheorie, 1884, pag. 83 sgg.; W.
SCHUPPE, Der Solipsismus, 1898; H. DrIescH, Ordnungslehre, 1912, pag. 23 sgg.;
ecc.). Come già notava Wolff, il S. è una specie di idealismo che riduce ad
idee non solo le cose ma anche gli spiriti (Psychol. rat., fra gli elementi del
linguaggio stesso e gli elementi della realtà, e la riduzione di questi ultimi
a fatti di esperienza immediata che perciò sono soltanto miei. Dove tali fatti
mancano, manca il significato (cioè l’oggetto) della parola ed io non la
capisco: perciò Wittgenstein dice che i limiti del mio linguaggio sono i limiti
del mondo. Lo stesso presupposto conduce Carnap a parlare di S. metodico. Molto
giustamente Carnap parla di S. a proposito della scelta degli elementi
fondamentali (Grundelemente): poichè per tali elementi, che sono quelli in base
ai quali si può ricostruire logicamente il mondo, Carnap sceglie (come
Wittgenstein) i fatti immediati di esperienza o come egli dice «la base
psichica propria », il suo procedimento è solipsistico (Der logische Aufbau der
Welt). J. R. Weinberg già osservava come nel positivismo logico il S.
linguistico è inevitabile; e che, poichè occorre superarlo per raggiungere
l’oggettività scientifica, «o si devono alterare alcuni postulati del sistema
per eliminare dal positivismo le idee metafisiche o, se questo metodo fallisce,
si dovrà abbandonare l’intero sistema del positivismo logico » (An Examination
of Logical Positivism, cap. VII; trad. ital., pag. 235 sgg.). In realtà il
presupposto del positivismo da cui nasce il S. è il riflesso nella teoria del
linguaggio della tesi idealistica: gli elementi del linguaggio sono segni di
esperienze immediate, perchè le esperienze immediate sono la sola realtà (v.
ESPERIENZA; LINGUAGGIO). SOLITUDINE (ingl. Solitude; franc. Solitude; ted.
Einsamkeit). L’isolamento dagli altri o la ricerca di una migliore
comunicazione. Nel primo senso la S. è la situazione del sapiente che, nella
sua figura tradizionale, è perfettamente autarchico e perciò isolato nella sua
perfezione (v. SaGGIO). Fuori da questo ideale, l’isolamento è un fatto
patologico: è l'impossibilità della comunicazione connessa a tutte le forme
della pazzia. In senso proprio, tuttavia, la S. non è isolamento ma piuttosto
la ricerca di forme diverse e superiori di comunicazione: «Essa non prescinde
dai legami offerti dall’ambiente e dalla vita quotidiana se non in vista di
altri legami con uomini del passato e dell’avvenire, con i quali sia possibile
una forma nuova o più feconda di comunicazione. Il suo prescindere da quei
legami è perciò il tentativo di rendersi liberi da essi per rendersi disponibili
per altri rapporti sociali» (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, $ 8).
SOMATICO (ingl. Somatic; franc. Somatique; ted. Somatisch). Corporeo (v.
CORPO)SOMATOLOGIA (ingl. Somatology; francese Somatologie; ted. Somatologie).
La {parte dell’antropologia che considera gli aspetti fisici dell’uomo (v.
ANTROPOLOGIA). SOMMA LOGICA (ingl. Logical Sum; francese Somme logique; ted.
Logische Summe). È la figura (a + 5) risultante da un’addizione /ogica (v.).
G.P. SOMMO BENE. V. BENE sommo. SONNO E VEGLIA. V. Sogno. SOPRACOSTRUZIONE. V.
SopraSTRUTTURA. suna conoscenza è possibile (noumenorum non datur scientia)»
(Fortschrifte der Metaphysik, 1804, [A 55)). Il S. è pertanto il dominio delle
idee della Ragion pura, con tutto ciò che esse implicano per la vita morale
dell’uomo. Hegel a sua volta adoperò il termine in senso analogo, ma positivo
per indicare 52 — ARBAGNANO, Dizionario di flosofia. 817 ciò che l’apparenza
sensibile è nella sua natura razionale: « Il S. è il sensibile e il percepito
posti come in verità essi sono» perciò come 4 l’universale semplice,
l’universale in cui la molteplicità non sussiste, in cui non c’è niente da
conoscere »: in breve l’universale come lo ha inteso Schelling (Phinom. des
Geistes, I, IV, B; trad. ital., pag. 127 e nota). SOPRASTRUTTURA (ingl.
Superstructure; franc. Superstructure; ted. Uberbau). Termine adoperato dai
Marxisti per designare l’ordinamento politico e giuridico nonchè le ideologie
politiche religiose, filosofiche, ecc., in quanto dipendono dalla struttura economica
di una data fase della società. Dice Marx: «L'insieme dei rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale
sulla quale si eleva una S. giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita» (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.) (v. MATERIALISMO
STORICO). Il termine è stato anche adoperato da N. Hartmann per indicare uno
strato o piano dell’essere nel quale si conservino solo alcune delle categorie
del piano inferiore; e si distinguerebbe dalla sopraformazione (Uberformung)
perchè in questa si conserverebbero fufte le categorie del piano inferiore. Ad
es., il piano psichico sarebbe, nei confronti del piano organico, una S. perchè
in esso è abbandonata la categoria dello spazio che domina ancora l’essere
organico. La differenza tra S. e sopraformazione taglierebbe così la strada
alla concezione meccanica della vita psichica (Aufbau der realen Welt, 1940).
Talora, per la traduzione del termine di Hartmann si è usato in italiano
sopracostruzione (cfr. BARONE, Nicolai Hartmann, pag. 342). SOPRAVVIVENZA. V.
IMMORTALITÀ. SORITE (lat. Acervus; ingl. Sorites; franc. Sorite; ted. Sorites).
1. L'argomento di Eubulide contro la molteplicità (v. ACERVO, ARGOMENTO DELL’).
a. Un sillogismo composto o polisillogismo (v.) nel quale la conclusione del
sillogismo precedente si assume come la premessa del sillogismo susseguente,
finchè si giunga nell’ultima a connettere l’antecedente del primo sillogismo e
la conseguenza dell’ultimo (cfr. ARNAULD, Log., III, I; JunGIUS, Logica
Hamburgensis, III, 28; WOLFF, Log., $ 474; HAMILTON, Lectures on Logic, pag.
366; ecc.). L'espressione soriticus syllogismus fu usata forse per la prima
volta da Mario Vittorino (Iv secolo) (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I,
pag. 663). Ma fu diffusa da Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, III,
12)SOSPIRO (ted. Sehnsucht). Aspirazione che si @) ciò che è necessariamente
quello che è; 5) ciò che esiste necessariamente. Entrambe queste determinazioni
si trovano illustrate nella metafisica aristotelica, della quale il concetto di
S. costituisce il cardine. La prima determinazione è quella che Aristotele
designa con l’espressione tè tl 7v elvar (quod quid erat esse) e che si può
tradurre come essenza necessaria; l’espressione significa infatti alla lettera
ciò che l’essere era dove l’imperfetto «era » indica la continuità o stabilità
dell’essere stesso, il suo essere già da sempre e per sempre. L'essenza
necessaria è quella che è espressa dalla definizione (v.) ed è l’oggetto
proprio della conoscenza scientifica (v. ScIENZA). A questa prima
determinazione, si connette la seconda, per la quale è S. ciò che
necessariamente esiste. Dice Aristotele: « Abbiamo scienza delle cose
particolari solo quando conosciamo l’essenza necessaria di esse ed accade per
tutte le cose ciò che accade per il bene: se ciò che è per essenza bene non è
bene, allora neppure ciò che per essenza esiste non esiste e ciò che per
essenza è uno non è uno; e così per tutte le altre cose» (Mer., VII, 6, 1031 b
6). Aristotele adduce questo argomento contro la separazione platonica
dell’idea dalle cose; ma l’argomento ovviamente significa che ogni cosa è
quella che è in virtù dell’essenza necessaria (che è la sua causa intrinseca o
estrinseca) e che pertanto tutto ciò che nelle cose c'è di reale e di
conoscibile fa parte dell’essenza necessaria e necessariamente esiste. La S. costituisce
così per Aristotele la struttura necessaria dell’essere nella sua
concatenazione causale perchè tutte le specie di cause sono determinazioni
della S. (v. CausaLITÀ). In questo senso appunto Aristotele afferma che la
forma delle cose è eterna e non può essere nè prodotta nè distrutta (Mer., VII,
8; VIII, 3); la forma è infatti l’essenza necessaria delle cose composte.
Dall'altro lato Aristotele non è troppo preoccupato di enumerare tutti i modi
d’essere della sostanza. Egli comincia con il dire che comunemente si parla di
S. in quattro sensi, se non di più, e cioè come essenza necessaria, come
universale, come specie e come soggetto (Mer., VII, 3, 1028 a 32). Ma la S.
come universale o come specie è esclusa dalla critica al platonismo; oppure, il
che vale lo stesso, è chiamata da Aristotele sostanza seconda nei confronti
della S. prima che è quella autentica (Car., 5, 2a 13). Rimangono perciò solo
la S. come essenza necessaria e la S. come soggetto (v.). In quest’ultimo
significato la S. può essere o la forma o la materia o il loro composto (/bid.,
1029 a 2). Nei suoi due significati legittimi la S. esprime il significato
fondamentale del concetto dell’essere e pertanto costituisce l'oggetto proprio
della metafisica. « Ciò che da tempo e anche ora e sempre abbiamo cercato, ciò
che sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che
cosa è la S.?» (Met., VII, 1, 1028 b 2). Dall’altro lato la struttura
sostanziale dell’essere è il fondamento del sapere scientifico. L'essenza necessaria
delle cose che non hanno una causa fuori di sè è intuita direttamente
dall’intelletto e costituisce i primi principi che sono a fondamento della
dimostrazione; mentre l’essenza necessaria delle cose che hanno una causa fuori
di sè può essere rivelata, se non dimostrata, dalla stessa dimostrazione. In
ogni caso la necessità della dimostrazione è la stessa necessità della S. (An.
Post., II, 9, 43 b 21; cfr. tutta la discussione precedente). La storia
ulteriore del concetto di S. ripete il carattere che era già servito ad
Aristotele per definirlo, quello della necessità. Tale carattere viene
esplicitamente assunto da Plotino per la definizione del termine (Enn., VI, 3,
4). Ma su di esso insiste specialmente la scolastica araba e in particolare
Avicenna: « Diciamo che tutto ciò che è ha una S. (essentia) per la quale è ciò
che è e per la quale è la necessità di esso e il suo essere (Logica, I). E S.
Tommaso che, con le equivalenze linguistiche stabilite nel De ente et essentia
aveva chiuso un lungo periodo di confusioni terminologiche (v. EsSENZA), riduce
la S. (rettamente interpretando i testi di Aristotele) alla quiddità (l'essenza
necessaria) e al soggetto (S. Th., I, q. 29, a. 2). Cartesio non faceva che
esprimere lo stesso carattere di necessità affermando che «quando concepiamo la
S. concepiamo solo una cosa che esiste in tal maniera che non ha bisogno per
esistere d’altro che di se stessa » (Princ. Phil., I, 51). Giustamente Spinoza
osservava che questa è la stessa definizione della S. infinita (R. Cartesi
Principia Philosophiae, 1663)favore di quella di una semplice coesistenza di
fatto delle determinazioni percepite. Il concetto della S. subisce così, in
Locke, una trasformazione analoga a quella che il concetto di causa subirà
nelle mani di Hume: si trasforma da necessità razionale in uniformità fattuale.
Da necessità razionale per la quale le determinaziondi un ente sarebbero tutte
razionalmente connesse l'una con l’altra e derivabili da quella fondamentale
costitutiva dell’essernza dell’ente stesso, la sostanza diventa un insieme di
determinazioni che si trovano insieme in linea di fatto ma di cui non si può
dimostrare la necessità. Hume esprimeva bene questa nuova idea di S. dicendo
che « le particolari qualità che formano una S. sono comunemente riferite ad un
qualcosa di sconosciuto al quale si suppone che ineriscano o, mettendo da parte
questa finzione, sono considerate strettamente e inseparabilmente connesse da
relazioni di contiguità e causazione ? {Treatise, I, 1, 6; ed. Selby-Bigge,
pag. 16). La connessione per contiguità e causazione ha preso il posto della
necessità razionale. Una formulazione ancora più rigorosa dello stesso concetto
è stata data da Mach: «La S. non è che la persistenza del collegamento: una
persistenza che non è mai assoluta o rigorosa (Analyse der Empfindungen, XIV, $
14; trad. ital., pag. 382). Nello stesso senso Dewey ha scritto: «La
condizione, la sola condizione perchè vi possa essere sostanzialità, è che
certe qualificazioni dipendano l’una dall’altra come segni sicuri che,
verificandosi certe interazioni, ne seguiranno certi risultati » (Logic, cap.
VII; trad. ital., pag. 187). L’idea di S., nel suo significato tradizionale di
necessità, e quella connessa di causa, costituiscono i cardini di qualsiasi
metafisica (v.). Esse sono pertanto accettate di peso da tutte le metafisiche
di stampo tradizionale; mentre gli indirizzi empiristici inclinano a vedere nel
concetto di S. il collegamento che già Hume vi aveva scorto o tendono
addirittura farne a meno opponendo ad essa l’idea di funzione, cioè di
relazione. Già da Mach quest’ultimo passaggio è stato effettuato in quanto la «
persistenza del collegamento» non è altro che l’uniformità di certe relazioni.
SOSTANZIALE (ingl. Substantial; franc. Substantiel; ted. Substantiell). 1. Ciò
che costituisce una sostanza o appartiene a una sostanza: cioè che è essenziale
o è tale da esistere necessariamente. 2. Ciò che è, in un senso qualsiasi,
importante o decisivo: per es., «un contributo sostanziale +. SOSTANZIALISMO
(ingl. Substantialism) franc. Substantialisme; ted. Substantialismus). Termine
con il quale si è talora designato la dottrina metafisica della sostanza da
parte di coloro che la combattono (Renouvier, Hamelin, ecc.). SOSTANZIALITÀ
(inglese Substantiality; franc. Substantialité; ted. Substantialitàt). Il modo
d’essere della sostanza (nel senso 1). Nella prima edizione della Critica della
Ragion Pura, Kant chiamò « paralogismo della S.» quello per il quale si
attribuisce all’io penso il modo d'essere della sostanza (Crit. R. Pura, A,
349). Il termine fu poi la ottenuta da A sostituendo una formula 8 per una
particolare variabile in A (cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic,
$ 10; ed inoltre CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 6; Meaning and
Necessity, $ 11; Quine, Methods of Logic, $ 6; ecc.). SOSTRATO (lat.
Substratum; ingl. Substratum; franc. Substrat). Il termine fu introdotto dalla
scolastica del sec. xrv per indicare l’individuo reale (substratum singulare:
Pietro AuREOLO, /n Sent., I, d. 35, q.4, a. 1); e poi ripreso da Locke per
indicare ciò che nella tradizione veniva piuttosto chiamato subjectum o
suppositum cioè il soggetto o la sostanza come soggetto (Saggio, II, 23, 1).
Accettato da Berkeley (Principles of Human Knowledge, I, $ 7) e da Leibniz (Nouv.
Ess., II, 23, 1) il termine è entrato nell’uso e ha finito per prevalere sugli
altri, non senza pericolo di confusioni (v. SogGETTO). SOTERIOLOGIA (ingl.
Soteriology; franc. Soteriologie; ted. Soteriologie). La dottrina religiosa
della salvezza. Sull’affacciarsi dell’indirizzo religioso soteriologico nel
mondo occidentale cfr. l’opera di F. CUMONT, Les religions orientales dans le
paganisme romain, 1906, 2* ediz. 1909. SOTTRAZIONE (ingl. Subrraction; francese
Soustraction; ted. Subtraction)i. La nozione di S. logica fu introdotta da
Boole nel modo seguente: «Se x rappresenta una classe di oggetti, allora 1 — x
rappresenta la classe contraria o supplementare di oggetti cioè la classe
includente tutti gli oggetti che non sono compresi nella classe x» (Laws of
Thought, 1854, cap. III, Prop. III, Dover publ., pag. 48; cfr. pure PEIRCE,
Coll. Pap., 3. 5,9, 18, ecc.). Nella logica posteriore questa nozione è
scomparsa. SOVRANITÀ (ingl. Sovereignty; franc. Souveraineté; ted.
Souverdnitàt). Il potere preponderante o supremo dello Stato, che fu
riconosciuto per la prima volta come carattere fondamentale dello Stato stesso
da Jean Bodin nei Six livres de la république (1576). La S. consiste, secondo
Bodin, negativamente nell’essere sciolto o dispensato dalle leggi e dagli usi
dello Stato e positivamente nel potere di abolire o creare leggi. Il solo
limite della S. è la legge naturale e divina (Six livres de la république, 9*
ediz., 1576, I, pag. 131-32). Il termine e il concetto furono accettati da
Hegel: « Queste due determinazioni che gli affari e i poteri particolari dello
Stato non sono autonomi e stabili nè per sè, nè nella volontà particolare degli
individui ma hanno la loro ultima radice nell’unità dello Stato, di qualche
parte di se stesso o la sua sottomissione a un altro sovrano. Violare l’atto
per il quale esso esiste significherebbe annullarsi; e ciò che è niente, non
produce niente » (/bid., I, 7). Il principio della S. è pertanto quello di
essere il potere più alto in un dato territorio: il che non vuol dire che essa
debba essere un potere assoluto o arbitrario. Nella dottrina moderna del
diritto, la S. è riconosciuta propria dell'ordinamento giuridico (v. STATO) ed
è intesa come quel carattere per il quale « l'ordinamento giuridico statale è
un ordinamento al di sopra del quale non c’è un ordinamento superiore » (H.
KELSEN, General Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 390). Secondo
Kelsen, se si ammette l’ipotesi della priorità del diritto internazionale, lo
Stato può essere detto sovrano solo in senso relativo; se si ammette l’ipotesi
della priorità del diritto statale può esser detto sovrano nel senso assoluto e
originario del termine. La scelta tra le due ipotesi è arbitraria (/bid., pag.
391). SPAESATO (ted. Unheimlich). Il « sentirsi S.» è, secondo Heidegger, uno
degli aspetti dell’angoscia (v.). Sentirsi S. vuol dire «non sentirsi a casa
propria» nel mondo e questo è, in sede ontologico-esistenziale, il «fenomeno
più originario » (Sein und Zeit, $ 40). SPAZIO (gr. yx&bpa, 16rog; lat. Spatium;
inglese Space; franc. Espace; ted. Raum). La nozione di S. ha dato origine a
tre problemi diversi o meglio a tre ordini di problemi: 1° quello circa la
natura dello S.; 2° quello circa la realtà dello S.; 3° quello circa la
struttura metrica dello spazio. Una risposta a quest’ultimo problema non è che
una geometria e le diverse risposte ad esso costituiscono le differenti
geometrie. Per tali risposte, cfr. GEOMETRIA. 1° Il primo problema concerne il
vero e proprio concetto di S. ed è il problema circa la natura dell’esteriorità
in generale cioè di ciò che rende possibile il rapporto estrinseco tra gli
oggetti. Finstein nella prefazione ad un libro storico sul concetto di S. (Max
JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha distinto due fondamentali teorie dello S.,
cioè: a) lo S. come la qualità posizionale degli oggetti materiali nel mondo;
5) lo S. come il contenente di tutti gli oggetti materiali. A questi due
concetti si può aggiungere l’altro, che lo stesso Einstein ha fondato; c)
quello dello S. come campo. a) La prima concezione è quella dello S. come luogo
(v.) cioè come posizione di un corpo tra gli altri corpi. Lo S. è definito in
questo senso da Aristotele come «il limite immobile che abbraccia un corpo »
(Fis., IV, 4, 212a 20): una definizione che Aristotele riconosce identica con
il concetto platonico che identificava lo S. con la materia (Tim., 52b, Sla).
In virtù di questo concetto, non c’è S. là dove non c’è un oggetto materiale;
perciò il teorema principale di questa teoria dello S. è l’inesistenza del
vuoto (cfr. ARISTOTELE, Fis., IV, 8, 214 b 11). È questa la teoria che prevale
nell'antichità e viene accettata per tutto il Medio Evo anche dagli avversari
di Aristotele (cfr. OckHAM, Summulae physicorum, IV, 20; Quodi., I, 4). Essa
veniva difesa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, I, 12) e
accettata e riesposta da Cartesio nei termini della sua geometria. Tra il luogo
e lo S., Cartesio poneva una differenza solo nominale in quanto «il luogo segna
più espressamente la situazione che la grandezza o la figura e in quanto al
contrario pensiamo più a queste quando parliamo dello S.». Ma le due cose sono
identiche: « Se diciamo che una cosa è in un tal luogo intendiamo solamente che
è situata in tal modo rispetto ad altre cose; ma se aggiungiamo che occupa un
tale S. o un tal luogo, intendiamo inoltre che essa è di una tale grandezza e
di una tale figura che può riempirlo esattamente» (Princ. Phil., II, 14).
Cartesio conseguentemente negava l’esistenza del vuoto (/bid., II, 16); come la
negava Spinoza che condivideva la stessa concezione dello S. (Ez., I, 15,
scol.). Leibniz a sua volta difendeva questa concezione contro Newton e i
newtoniani. «Se lo S. è una proprietà o un attributo, egli diceva, dev’essere
la proprietà di qualche sostanza. Lo S. vuoto limitato, che i suoi sostenitori
suppongono tra due corpi, di quale sostanza sarebbe la proprietà o l’affezione?
» (IV° Lettre à Clarke, 8; Op., ed. Erdmann, pag. 756). Ma la vecchia
concezione trovava in Leibniz una nuova e felice espressione: l’espressione in
termini della nozione di ordine, che doveva rimanere classica. « Io ritengo lo
S., diceva Leibniz (polemizzando contro Newton e i newtoniani) come qualcosa di
puramente relativo, allo stesso modo del tempo cioè come un ordinè delle
coesistenze, al modo in cui il tempo è un ordine delle successioni. Giacchè lo
S. contrassegna in termini di possibilità un ordine di cose che esistono nello
stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi di
esistere» (///° Lettre à Clarke, 4; Op., ed. Erdmann, pag. 752). La definizione
di Leibniz veniva ripresa da Wolff (Ontol., $ 589), e da Baumgarten (Mer., $
239). Kant stesso nei primi scritti la difende e dichiara di abbandonarla
soltanto nel 1768 nello scritto Su/ primo fondamento della distinzione delle
regioni nello spazio. In questo scritto egli dichiara insufficiente la
concezione dello S. come ordine delle coesistenze: « Le posizioni delle parti
dello S. in relazione tra loro, egli dice, presuppongono la regione secondo la
quale esse sono ordinate in tale relazione; e intesa nel modo più astratto la
regione non consiste nella relazione che una cosa ha con un’altra nello S. (il
che propriamente costituisce il concetto di posizione) ma nel rapporto del
sistema di queste posizioni con lo S. cosmico assoluto ». Tuttavia, la
concezione posizionale dello S. non viene mai completamente abbandonata dal
pensiero filosofico posteriore. Essa sembra presupposta, per quanto può
rilevarsi dal carattere generico e confuso dei concetti adoperati, dalle teorie
idealistiche dello S. (v. oltre). Ed ha trovato una difesa energica e e che
questo S. è infinito (F7., 38-40, Diels). Epicuro ereditò questa concezione
(Lettera a Erodoto; cfr. Dioc. L., X, 67), che veniva difesa da Lucrezio Caro
(De nat. rer., I, 950 sgg.). La stessa concezione dello S. era condivisa dagli
Stoici, in particolare da Zenone (Diog. L., VII, 140). Obliterata per lungo
tempo dalla concezione aristotelica, questa dottrina torna a riaffacciarsi nel
Rinascimento. Telesio afferma che lo S. deve poter essere il ricettacolo di
qualsiasi cosa, in modo tale che sia che le cose gli siano dentro, sia che se
ne allontanino, esso rimanga identico e accolga prontamente tutte le cose che
si succedono in esso e sia nello stesso tempo tanto grande quanto lo sono le
cose che vi trovano posto. Lo S. è quindi infinito e incorporeo: l’esistenza
del vuoto è un fatto di esperienza (De rer. nat., I, 25). L'infinità dello S.
veniva nello stesso senso difesa da Giordano Bruno (De l’infinito, universo e
mondi, I). Questa concezione dello S. prevalse nella scienza per opera di
Newton. Diceva Newton: « L’assoluto S., per sua natura propria, senza relazione
a qualcosa di esterno, rimane sempre simile ed immobile. Lo S. relativo è la
dimensione mobile o la misura dello S. assoluto; e i nostri sensi lo
determinano mediante la sua posizione rispetto ai corpi ed è spesso scambiato
per lo S. immobile; tale è la dimensione di un sotterraneo, uno S. aereo
celeste, determinato dalla sua posizione rispetto alla terra. Lo S. assoluto e
relativo sono identici in figura e grandezza ma non rimangono sempre
numericamente gli stessi. Perchè se la terra, ad es., si muove, uno S. della
nostra aria il quale, relativamente, rispetto alla terra, rimane sempre lo
stesso, sarà, ad un dato tempo, parte dello S. assoluto che l’aria attraversa e
ad un altro tempo sarà un’altra parte dello stesso S. » (Philosophiae naturalis
principia mathematica, 1687, I, def. 8, scol.). La polemica di Leibniz contro
questa dottrina non valse a impedirne il successo. Circa un secolo dopo Eulero
diceva: « Supponiamo che tutti i corpi, che si trovano ora nella mia camera,
compresa l’aria, siano annientati dall’onnipotenza divina. Otterremo allora uno
S. che, pur avendo la stessa lunghezza, larghezza e profondità di prima, non
contiene più alcun corpo. Ecco dunque, quanto meno, la possibilità di
un’estensione che non è un corpo. Un simile S. senza corpo è chiamato vuoto: un
vuoto è dunque un’estensione senza corpo + (Lettres d une Princesse
d°Allemagne, 69, del 21-x-1760; trad. ital., pag. 228). Si è già visto come la
nozione newtoniana dello S. abbia finito per prevalere (forse per influenza
dello stesso Eulero) nella dottrina di Kant. Essa prevalse allo stesso modo in
tutta la fisica dell’800 per quanto incontrasse frequenti critiche quella parte
di essa che si riferisce allo S. assoluto. Clerk Maxwell affermava che « tutta
la nostra conoscenza, sia del tempo che dello S., è essenzialmente relativa »
(Matter and Motion, Dover publ., pag. 12). Mach parlava della «mostruosità
concettuale dello S. assoluto » (Die Mechanik in ihrer Entwicklung, 1883; 78
ediz., 1921, pag. X). Questa teoria dello S. fu tuttavia assunta o presupposta
dalla fisica sino ad Einstein. c) La terza concezione fondamentale dello S. è
quella che Einstein ha fatto prevalere nella fisica contemporanea. A prima
vista, e specialmente considerando soltanto la relatività speciale, la dottrina
einsteiniana dello S. costituisce un ritorno alla teoria classica dello S. come
posizione o luogo. Dice Einstein a questo proposito: « Il nostro S. fisico,
così come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro moto, possiede
tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante
in cui si verifica l'evento è il quarto numero. Ad ogni evento corrispondono
quattro numeri determinati ed un gruppo di quattro numeri corrisponde ad un
evento determinato. Pertanto il mondo degli eventi costituisce un continuo
quadrimensionale » (ErsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; trad. ital.,
pag. 217). In questo concetto di S., la novità sembra costituita esclusivamente
dall’aggiunta della coordinata temporale alle coordinate con cui Cartesio
definiva lo S. stesso. sia la materia (ponderabile o imponderabile) sia lo S.» (M. K. MUNITZ, Space, Time
and Creation, 1957, VII, 1; trad. ital., pagina 112-13). Paradossalmente, perciò, la più aggiornata concezione
dello S. non è che la rinuncia implicita al concetto di S. e l’avviamento
all’uso di altri concetti, meno legati ad astrazioni tradi823zionali e più
adatti a descrivere i risultati della osservazione. 2° Il problema della realtà
dello S. ha dato luogo a tre differenti soluzioni: a) la tesi della realtà
fisica o teologica dello S.; 5) la tesi della soggettività dello S.; c) la tesi
che lo S. è indifferente al problema della realtà o irrealtà. a) La tesi della
realtà fisica o teologica dello S. è propria della filosofia antica. Sia che
concepissero lo S. come luogo o posizione, sia che lo concepissero come
recipiente, gli antichi credevano alla realtà dello S. e lo ritenevano un
elemento o una condizione del mondo oppure un attributo di Dio. Mentre per
Platone, per Aristotele e per gli Epicurei lo S. è un costituente del mondo,
per i Neoplatonici diventa Dio stesso. Questa concezione è attribuita da Sesto Empirico
ai Peripatetici: « Sembra che per i Peripatetici, il primo Dio è il luogo di
tutte le cose. Infatti, secondo Aristotele, il primo Dio è il limite dei
cieli.. E dal momento che il limite dei cieli è il luogo di tutte le cose
dentro i cieli, Dio sarà il luogo di tutte le cose» (Adv. Mathem., II, 33). La
filosofia giudaica alessandrina fa sua questa concezione, che ricorre ancora
nei libri della Kabala. Nel sec. xvi fu accettata da Campanella (De sensu
rerum, I, 12); da Henry More (Enchiridion Metaphysicum, 1, 8) e da Spinoza che
concepì l’estensione come un attributo di Dio ed affermò pertanto che « tutto
ciò che è, è in Dio » (Et., I, 15). Newton stesso parlò dello S. come del
sensorium cioè dell'organo mediante il quale Dio muove le cose (Opticks, III,
q. 31; Dover publ., pag. 403): un concetto che fu a lungo criticato da Leibniz
nelle sue lettere a Clarke e fu accettato nel sec. xvIn da parecchi scrittori
compreso lo stesso Clarke. Come ultima manifestazione di questo punto di vista
si può considerare la dottrina di S. Alexander, secondo la quale lo S. e il
tempo sono la sostanza stessa dell’universo e di Dio e stanno tra loro nello
stesso rapporto in cui il corpo è con lo spirito. Da questo punto di vista, lo
S. infatti sarebbe il « corpo » dell’intera realtà, quindi di Dio stesso che è
al culmine della realtà (Space Time and Deity, 1920). b) La tesi della
soggettività dello S. fu avanzata per la prima volta da Hobbes che definì lo S.
come « l’immagine della cosa esistente in quanto esistente cioè in quanto non
si considera di essa altro accidente se non il suo apparire al di fuori del
soggetto immaginante » (De Corp.). L’analisi che Locke fece dello S. come di
un’idea complessa di modo ha anch’essa per presupposto la riduzione dello S. a
un’idea (Saggio, II, 13, 2): riduzione che è ancora più radicale in Berkeley,
per la polemica che egli conduce contro il concetto newtoniano dello S.: « La
considerazione filosoficaè una percezione ma una «intuizione a priori» o
«intuizione pura» cioè la condizione di ogni possibile intuizione esterna. Così
inteso esso corrisponde esattamente allo «S. assoluto » di Newton: questo era
inteso dallo stesso Newton come il sensorio di Dio; da Kant è inteso come il
sensorio del soggetto conoscente, cioè la condizione assoluta della possibilità
degli oggetti esterni. Nella filosofia moderna e contemporanea la tesi della
soggettività dello S. assume la forma del carattere . apparente o illusorio
dello S. stesso. Idealismo e spiritualismo insistono su questa tesi. Già Hegel
affermava che « Lo S. è una mera forma, cioè un’astrazione, e cioè quella della
esteriorità immediata » (Enc., $ 254): il che tuttavia non gli impediva di
cercare una dimostrazione razionale della necessità delle tre dimensioni dello
S. (/b., $ 255). L’idealismo di ispirazione hegeliana considera lo S. una
semplice apparenza (cfr. BRADLEY, Appearance and Reality, 1893; GENTILE, Teoria
generale dello spirito, 1916, cap. IX). E lo spirituaSPAZIO VITALE lismo si
mette sulla stessa via vedendo, con Bergson, per una soluzione positiva di
questo problema, optando i più di essi per la geometria euclidea, il carattere
provvisorio e parziale di queste risposte mostra, meglio di ogni altra cosa,
l'impossibilità di risolvere la questione e avvia perciò all'adozione del punto
di vista che prescinda da essa. Si può allora affermare che soltanto motivi di
opportunità scientifica suggeriscono l’uso di un particolare schema geometrico
per la descrizione di un determinato campo di fenomeni. Dice M. K. Munitz a
questo proposito: « Potrà essere più conveniente e fecondo usare uno schema
metrico piuttosto che un altro, ma non possiamo dire che sono i fatti a
spingerci a farlo. Il problema è questo: l’adozione di un valore particolare
per la curvatura, preso in congiunzione con il resto della teoria, ci permette
di fare inferenze corrette da dati fatti ad altri fatti? Nella misura in cui
l’esattezza nell’ambito dei fatti osservabili inferiti, è maggiore quando sono
stabiliti mediante una teoria con la sua metrica associata piuttosto che con
altre teorie, in quella misura possiamo dire che ‘la metrica dell’universo è
così e così ”. Quest’ultima espressione tuttavia non è che una maniera
sbrigativa di accennare alla superiorità relativa di una data teoria o modello
dell’universo » (Space Time and Creation, VII, $ 4; trad. ital., pag. 133).
SPAZIO VITALE. V. Campo. SPECIE (gr. el3oc; lat. Species; ingl. Kind, Species;
franc. Espèce; ted. Art, Species). 1. Un concetto in quanto è parte o elemento
di un altro concetto. In questo senso la parola fu comunemente adoperata da
Platone (cfr. Sof., 235d, Teer., 178 a, ecc.) e da Aristotele (Mer., X, 7,
1057b 7; Car. 2b 7, ecc.). Ed in questo senso la nozione di S. fu illustrata
nell’Isggoge di Porfirio, che ne dà la definizione seguente: « La S. è ciò che
è situato sotto il genere e a cui il genere è attribuito essenzialSPECULAZIONE
mente ». Porfirio aggiunge: «La S. è l’attributo che si applica essenzialmente
a una pluralità di termini che differiscono specificamente tra loro +
osservando però che quest’ultima definizione si applica solo alla «S.
specialissima » che precede immediatamente l’individuo, per es., al concetto di
uomo (/sag., 4, 10 sgg.). Il concetto di S. è rimasto in questo senso immutato
in tutta la logica tradizionale, sino a quando, con l’affermarsi della logica
matematica, è stato sostituito dal concetto di classe (v.). Nel dominio della
biologia, il termine ha avuto, per un certo tempo, un significato
corrispondente a quello ora descritto, intendendosi per S. un tipo biologico
ben definito da caratteristiche ereditarie, in quanto subordinato a un altro
tipo più esteso (genere). Ma nella biologia contemporanea i concetti di genere
e S. hanno perso ogni riferimento ai significati tradizionali e per S.
s’intende semplicemente una classe d’individui i cui accoppiamenti dànno luogo
a individui fertili; il che non accade per ibridi nati da accoppiamenti tra
individui appartenenti a S. diverse (C. PINCHER, Evolution, 1950, pag. 21;
KaLMus, Variation and Heredity, 1957, pag. 29). 2. Lo stesso che idea nel senso
platonico (v. IDEA). 3. Lo stesso che forma nel senso aristotelico (v. FORMA).
4. In relazione con il significato 3 e nel linguaggio della scolastica
medievale la S. è l’intermediaria della conoscenza: cioè l’oggetto proprio
della sence della similitudine, che farebbe da intermediaria tra l’oggetto e la
potenza conoscitiva umana, domina il periodo classico della scolastica: è
accettata da Bonaventura (/n Sent., II, d. 39, a. 1, q.2) e da Duns Scoto (Op.
Ox., I, d.3, q.7, n. 2, 3, 20). Ma essa venne abbandonata dalla scolastica del
sec. xIv. Durando di Pourcain (In Sent., II, d.3, q. 6, n. 10) e Pietro Aureolo
(In Sent., I, d.9, a. 1) negano senz’altro l’esistenza della S. e affermano che
l’oggetto della conoscenza è la cosa stessa. Questa dottrina è ribadita da
Ockham con molta energia e con l’argomento che se la S. fosse l’oggetto
immediato del conoscere la conoscenza non sarebbe conoscenza dell’oggetto ma
della sua immagine, al modo in cui la statuadi Ercole non condurrebbe alla
conoscenza di Ercole nè permetterebbe di giudicare della sua somiglianza con
lui, se non si conoscesse Ercole stesso (/n .Senz., II, q.14, T). Il punto di
vista che ha permesso a questi scolastici di abbandonare la nozione della S. è
quello della intenzionalità (v.) del conoscere, per la quale l’atto del
conoscere è un rapporto con l'oggetto in persona. Tuttavia, la dottrina
cartesiana dell'idea come oggetto immediato della conoscenza si può
considerare, sotto un certo rispetto, come la ripresa della nozione scolastica della
S. (v. IDEA). SPECIFICAZIONE (ingl. Specification; francese Spécification; ted.
Spezifikation). Kant ha chiamato «legge trascendentale di S.» la regola che
«impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi un
certo numero di sottospecie e per ogni differenza un certo numero di differenze
minori + (Crit. R. Pura, Appendice alla Dialettica trascendentale). Questa
legge ha il suo corrispondente simmetrico in quella della omogeneità (v.)
secondo la quale il molteplice va continuamente riportato sotto generi
superiori; ed entrambe queste leggi poi confluiscono in quella della affinità
(v.) di tutti i concetti che permette il passaggio continuo da un concetto
all’altro (/bid.). Il principio della S. fu chiamato da Hamilton « Legge di
eterogeneità + {v. OMOGENEITÀ). Kant parlò pure di una «legge della S. della
natura » secondo la quale la natura « specifica le sue leggi generali secondo
il principio di una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere. Ma
questa legge appartiene alla sfera del giudizio riflettente cioè non è
costitutiva della natura ma semplicemente prescrive una regola per la sua
interpretazione» (Crit. del Giud., Intr., in se stessa, sicchè la felicità è
una specie di S.+ (Er. Nic., X, 8, 1178 b 28). Questa esaltazione della S. che
costituisce uno dei modi fondamentali d’intendere la funzione della filosofia
(v.) fu ereditata soprattutto dal misticismo neoplatonico. Plotino ridusse alla
S. ogni altra attività e affermò che la stessa generazione delle cose naturali
è S.: s’intende, S. di Dio (Enn., III, 8, 5). Dal misticismo medievale la S.
viene identificata con la contemplazione, che è il grado più alto dell’ascesa
mistica prima dell’estasi (cfr. RicCARDO DI SAN VITTORE, De Contemplatione, I,
3); ma S. Tommaso la identifica con la meditazione che è il grado precedente
(S. 7A., II, 2, q. 180, a. 3, ad 2°). In tutti questi usi tuttavia il
significato di contemplazioe il terzo momento della dialettica, cioè il momento
della sintesi nel quale si ha «l’unità delle determinazioni nella loro
opposizione +. Questa unità significa che « la filosofia non ha da fare con
mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti »
cioè con pensieri che sono nello stesso tempo realtà vere e proprie (/bid., $
82). Inoltre è proprio della filosofia speculativa la dimostrazione della
necessità dei suoi oggetti (Enc., $ 9). SPERANZA Sicchè l’aggettivo speculativo
rimane a indicare per Hegel il punto di vista che considera la realtà come
razionalità, la razionalità come reale, ed entrambe come necessità. L’aggettivo
che Kant adoperava a designare ciò che è al di là dell’esperienza possibile,
quindi della conoscenza effettiva, viene adoperato da Hegel per designare la
conoscenza effettiva che, in quanto tale, è al di là dell’esperienza e delle
separazioni che in essa appaiono. I significati di S. e di speculativo sono
rimasti fissati da questa alternativa. S’intende per S. una conoscenza che non
trova fondamento o giustificazione nell’esperienza o nell’osservazione; e questo
è da un lato motivo per dichiarare illusoria o chimerica una tale conoscenza,
dall’altro (ma sempre più raramente) motivo per ritenerla suriore. SPERANZA
(ingl. Hope; franc. Espérance; ted. Hoffnung). 1. Una delle emozioni
fondamentali (v. EMOZIONE). 2. Una delle virtù teologali (v. VIRTÙ).
SPERIMENTALE (ingl. Experimental; francese Expérimental; ted. Experimentell).
L'aggettivo ha significati analoghi a quelli del corrispondente sostantivo e
cioè designa: 1° ciò che fa uso dell’esperimento cioè dell’osservazione
controllata. In tal senso si dice: « scienze S.+, « medicina S.+ (cfr. il
titolo dell’opera famosa di C. BERNARD, /ntroduction à l’étude de la médecine
expérimentale, 1865), ecc.; 2° ciò che fa uso dell’esperienza e in tal caso
l’aggettivo è equivalente ad empirico. SPERIMENTALISMO (inglese
Experimentalism; franc. Expérimentalisme; ted. Experimentalismus). Altro nome
del pragmatismo o dello strumentalismo. In Italia il termine è stato adottato
da A. Aliotta per designare la dottrina seguente: «Il solo fatto concreto,
verificabile di cui possiamo parlare è l’esperienza più o meno cosciente che un
individuo ha del mondo. Non ha senso discutere di elementi di dati, prima o
fuori di questa sintesi + («Il mio S.», 1929, in // nuovo positivismo e lo S.,
1954). SPIEGAZIONE (ingl. Explanation, Explication; franc. Explication; ted.
Erklarung). In generale, ogni procedimento diretto a determinare il perchè di
un oggetto, a rendere un discorso o una situazione chiara e accessibile
all’intendimento o a eliminare da una situazione difficoltà e conflitti. Il
termine già usato da Cicerone in questo senso (De Fin.; De nat. deorum, III,
24, 62; ecc.) fu ripreso da Cusano nel senso di manifestazione: « Dio è la
complicazione di tutte le cose perchè tutte le cose sono in lui; ed è
l’esplicazione di tutte le cose in quanto egli è in tutte le cose» (De docta
ignor., II, 3). Sotto la metafora dello SPIEGAZIONE « spianare +, « distendere
» o « rendere esplicito », il termine nasconde tuttavia una molteplicità di
significati che si possono distinguere tra loro a seconda delle situazioni cui
fanno riferimento. Si ha allora che: 1° nei confronti di un termine, spiegare
significa determinare il significato del termine, cioè interpretarlo (v.
INTERPRETAZIONE); 2° nei confronti di un enunciato analitico, spiegare
significa sostituire all’enunciato in questione un enunciato meno vago o più
esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formalizzato (CARNAP,
Meaning and Necessity, $ 2); 3° nei confronti di una situazione umana di
conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto
stesso; 4° ilosofica e scientifica (v. CAUSALITÀ); e cioè: a) il concetto della
causalità come deducibilità; b) il concetto della causalità come uniformità.
Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere
possibile una previsione infallibile, per schema di S. causale si può intendere
in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto.
Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di
oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono essere
diversamente da come sono, la S. causale è in ogni caso la dimostrazione della
necessità del suo oggetto. Da questo punto di vista affermare «x è stato
spiegato » significa affermare «x è stato dimostrato nella sua necessità » e
perciò «x era infallibilmente prevedibile ». Su questa base comune, si possono
distinguere: «@) la tecnica esplicativa causale che fa appello alla
deducibilità; 5) la tecnica esplicativa causale che fa appello all’uniformità.
a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è quella della
metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto Aristotele abbia
distinto quattro specie di cause, egli rico827 nosce agli effetti della S., il
primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza o forma dell’oggetto
(De Part. An., I, 1, 639 b, 14; 642 a, 17; cfr. CausALITÀ). La S. finalistica
è, da questo punto di vista, la prima e fondamentale; e coincide con quella che
con termini moderni si chiama S. genetica giacchè questa fa appello alla causa
efficiete, che in ultima analisi coincide con la causa finale. In questo senso,
la S. causale si identifica con la dimostrazione (v.) in quanto è dimostrazione
della necessità. E Hegel non faceva che ripetere su questo punto l’insegnamento
di Aristotele quando affermava essere compito della filosofia speculativa «la
dimostrazione della necessità» e vedeva in questa sola l’appagamento del
bisogno proprio della ragione. Ma questo concetto della S. non è soltanto
proprio della metafisica: è stato frequentemente riferito alla scienza stessa.
E. Meyerson mentre affermava, contro l’analisi positivistica della scienza, che
la scienza non cerca solo la previsione ma la S. dei fenomeni, riduceva la S.
stessa all’identificazione, perchè solo l’identificazione permette la deduzione
del fenomeno. «Noi dobbiamo, egli dice, in virtù della causa o ragione e con
l’aiuto di una pura operazione di ragionamento, poter concludere al fenomeno. È
ciò che si chiama una deduzione. La causa, allora, può definirsi come il punto
di partenza di una deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo » (De
l’explication dans les sciences, 1927, pag. 66; cfr. Identité et realité,
1908). D'altronde lo stesso positivismo aveva assegnato la S. al dominio della
deduzione. Dice Stuart Mill: « Si dice che un fatto individuale è spiegato
quando si indica la sua causa cioè la legge o le leggi di causazione di cui la
sua produzione è un esempio... E similmente una legge o uniformità di natura si
dice spiegata quando si inon, 1965, pag. 247 sgg.). Questa dottrina della S. è
polemicamente orientata contro la riduzione della S. a princìpi o elementi
familiari, alla quale invece fanno ricorso i seguaci del secondo tipo di S.
causale (/bid., pag. 257). Questa stessa dottrina è stata estesa da Hempel al
campo della storia (« The Function of General Laws in History +, 1942; ora nel
vol. cit. pag. 231-243): ed Hempel stesso ha insistito sull’esigenza che la S.
causale sia accompagnata dalla predizione infallibile del fenomeno spiegato
(/bid., pag. 38). Ma è stato giustamente osservato che la sua intera teoria
della S. può essereadatta alla fisica newtoniana ma è completamente incapace di
dar conto di ciò che si deve intendere per S. nella fisica quantica (N. R.
Hanson, « On the Symmetry between Explanation and Prediction », in The
Philosophical Review, 1959, pag. 349-58). A maggior ragione questo tipo di S.
non può essere ritenuto adeguato nel dominio della storia e in generale delle
scienze che concernono l’uomo (v. oltre). b) Il secondo tipo di S. causale è
quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei
fenomeni tra loro. È questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte
pose a base della S. « positiva » dei fenomeni stessi. Comte contrappose al
tentativo metafisico di scoprire «i modi essenziali di produzione» dei fenomeni
il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a
scoprire le /eggi dei fenomeni cioè i loro rapporti costanti (Cours de phil.
positive, 48 ediz., 1887, II, pag. 169, 268, 312, ecc.). Nello stadio positivo,
diceva Comte, «la S. dei fatti, ridotta ai suoi termini reali non è più che il
legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali di
cui il progresso della scienza tende sempre più a diminuire il numero» (/bid.,
I, pag. 5). Questo punto di vista ereditava la contrapposizione stabilita dagli
illuministi, e specialmente da D’Alembert, tra lo spirito di sistema e la
descrizione scientifica della natura. Esso è assai meno ambizioso dell’altro
perchè fa appello non alla deducibilità di un fenomeno (o della sua
descrizione) dalla sua causa (o da un complesso di leggi generali) ma piuttosto
alla uniformità o SPIEGAZIONE costanza del rapporto tra fenomeni e perciò alla
riduzione del fenomeno da spiegare a tali rapporti costanti. È questo il valore
dato, ad es., alla tecnica esplicativa causale da P. W. Bridgman: « L’essenza
di una S. causale consiste nel ridurre una situazione ad elementi a noi
talmente familiari che possiamo accettarli come cosa ovvia e spegnere la nostra
curiosità. Ridurre una situazione in elementi significa, dal punto di vista
operativo, scoprire correlazioni familiari tra i fenomeni di cui la situazione
è composta » (The Logic of Modern Physics, 1927, cap. II; trad. ital., pag.
50). In senso analogo R. B. Braithwaite ha detto: « Quando si chiede la causa
di un evento particolare, ciò che si richiede è la specificazione dell’evento
precedente o simultaneo, il quale, in congiunzione con alcuni fattori causali
che hanno natura di condizioni permanenti, è sufficiente a determinare
l’accadimento dell’evento da spiegare in accordo con una legge causale, in uno
dei significati consuetudinari di legge causale + (Scientific Explanation,
1953, pag. 320). Poichè per leggi causali Braithwaite intende le
generalizzazioni empiriche le quali asseriscono concomitanze di successione o
di simultaneità (/bid., cap. IX), una S. che sia «conforme a una legge causale
» è una S. che fa riferimento ad un’uniformità empiricamente constatata. Questo
punto di vista si trova variamente ripetuto nella filosofia contemporanea anche
se non sempre viene nettamente distinto da quello precedente. B) Le tecniche
esplicative causali, sia quella fondata sulla dati. Un'ipotesi trascendentale
in cui, per la S. delle cose naturali, si adoperasse una semplice idea della
ragione, non sarebbe affatto una S., perchè ciò che non s’intende abbastanza
con princìpi empirici sarebbe spiegato con qualcosa di cui non s'intende
addirittura nulla » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez. 3). Ma è
soprattutto nel campo della metodologia storica che questo tipo di S. è stato
elaborato, e il primo a introdurlo in modo esplicito è stato Max Weber. «La
considerazione del significato causale di un fatto storico, egli scriveva,
comincerà innanzitutto con la questione seguente: se escludendolo dal complesso
di fattori assunti come condizionanti oppure mutandolo in un determinato senso,
il corso degli avvenimenti avrebbe potuto, in base alle regole generali
dell’esperienza, assumere una direzione in qualche modo diversamente
configurata, nei punti decisivi per il nostro interesse». Se si può rispondere
di sì a questa domanda, il fatto in questione sarà da considerare uno dei
fattori condizionanti del processo storico; se si risponde di no, sarà da
escludere da tali fattori (Kritische Studien auf dem Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, II; trad. ital., in // metodo delle
scienze storico-sociali, pag. 223). La moderna metodologia della storia è
unanime nell’abbandono degli schemi di S. causale e nell’accettazione di uno
schema condizionale, per quanto esso sia variamente configurato dai singoli
metodologi. Quando K. Popper osserva alla dottrina di Stuart Mill sulla natura
della S. che « Mill e i suoi compagni storicisti non considerano che le
tendenze generali dipendono dalle condizioni iniziali e trattano tali tendenze
come se fossero leggi assolute », mentre la spiegazione deve tener conto, per
quanto è possibile delle « condizioni nelle quali esse persistono » (The
Poverty of Historicism, 1944, $ 28) egli cerca di trasformare lo schema causale
in uno schema condizionale. Ma la migliore formulazione dello schema
condizionale, in riferimento all’uso che se ne può fare nelle discipline
storiche, può essere forse considerata quella di W. Dray. «L'esigenza della S.,
dice Dray è, in alcuni contesti, sufficientemente soddisfatta se si mostra che
ciò che è accaduto era stato possibile e non c'è bisogno di mostrare inoltre
che esso era necessario. Per quanto, spiegare una cosa, come il professor
Toulmin dice, significa spesso ‘ mostrare che essa poteva essere attesa” [The
Place of Reason in Ethics, 1950, pag. 96], il criterio appropriato per
un’importante dominio di casi è più largo di questo; per spiegare una cosa
basta, talvolta, mostrare che essa non doveva causare sorpresa » (Laws and
Explanation in History, 1957, pag. 157). Dray contrappone questo schema
esplicativo che egli chiama del come-possibilmente (how-possibly) a quello
causale del perchè-necessariamente (whynecessarily) in quanto i due schemi sono
logicamente diversi e rispondono a due specie diverse di domande sicchè «nel
caso della spiegazione come-possibilmente esigere un insieme di condizioni
sufficienti, sarebbe mutare la questione» (/bid., pag. 169). Questo punto di
vista che è stato elaborato nei confronti delle discipline storiche è tuttavia
egualmente adatto ad intendere la natura della S. che ricorre ora nell’ambito
delle scienze 829 naturali e specialmente della più avanzata di esse che è la
fisica quantica. Mancando anche in questa, con la condizione della
prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico schema
possibile di S. è quella condizionale che si limita a determinare Ja possibilità
dell’explanandum. In tal senso, si può dire che la S. è la determinazione della
possibilità determinata e controllabile dell’oggetto; dove determinata
significa individuata e riconoscibile con un metodo o procedimento appropriato
e, talvolta, misurabile secondo uno schema di probabilità; e controllabile
significa ripetibile in condizioni adatte (ABBAGNANO, Possibilità e libertà,
1957, VI, $ 4-5; Problemi di sociologia, 1959, VIII, $ 1-5). È da osservare
infine che Jo stesso procedimento della S. logica, quale è stato descritto da
Carnap e Reichenbach cade sotto la categoria della S. condizionale. Secondo
Carnap, la S. consiste nel sostituire a un termine originario chiamato
explicandum, che è un concetto vago o familiare, un nuovo concetto esatto, che
Carnap chiama explicatum e Reichenbach explicans. Posto ciò, una S. consiste,
secondo Reichenbach, nel determinare il significato del termine e il
significato si riduce a una possibilità o logica o fisica o tecnica, ma in ogni
caso ad una possibilità (REICHENBACR, « Verifiability Theory of Meaning », in
Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.;
CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2) (v. PossiBILE; SIGNIFICATO; VERIFICAZIONE).
SPINOZISMO (ingl. Spinozism; franc. Spino zisme; ted. Spinozismus). La dottrina
di Benedetto Spinoza (1632-77) nei punti salienti che la tradizione storica le
ha riconosciuti e che possono essere riassunti così: 1° l’unicità della
sostanza del mondo e la sua identificazione con Dio, per la quale Spinoza
indica la sostanza stessa con l'espressione « Deus sive natura »; 2° l’ateismo
o come altri dice (con Hegel) l’acosmismo (v.) secondo il quale Dio è il
principio e l’ordine del mondo; 3° il necessitarismo, secondo il quale tutte le
cose derivano con assoluta necessità dalla sostanza divina; 4° il geometrismo
cioè l’affermazione del carattere geometrico della necessità cosmica, sulla
quale si modella il metodo geometrico della filosofia; 5° la riduzione della
libertà umana al riconoscimento e all’accettazione della necessità dell'ordine
cosmico; 6° la difesa della libertà filosofica e religiosa dell’uomo fondata
sulla riduzione della fede religiosa all’obbedienza (v. FEDE). SPIRITI ANIMALI
O VITALI. V. PNEUMA. SPIRITISMO (ingl. Spiritism; franc. Spiritisme; ted.
Spiritismus). La credenza in fenomeni mentali o naturali che non si lasciano
spiegare nel modo ordinario o scientifico e siano da attribuirsi all’azione di
spiriti, siano essi anime di defunti o potenze angeliche o demoniache (v.
METAPSICHICA). SPIRITO (ingl. Mind, Spirit; franc. Esprit; ted. Geist). Si
possono distinguere i seguenti sigpificati: 1° L’anima razionale o l'intelletto
(v.)in generale; questo è il significato prevalente nella filosofia moderna e
contemporanea e nel linguaggio comune. 2° Lo pneuma (v.) o soffio animatore,
ammesso dalla fisica stoica e da essa passato a varie dottrine antiche e
moderne. Questo è il significato originario del termine dal quale tutti gli
altri sono derivati. Ancora questo significato rimane nelle espressioni in cui
S. sta per «ciò che vivifica». Kant usò il termine in questo senso nella sua
teoria estetica. «S., egli disse, nel significato estetico è il principio
vivificante del sentimento. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima,
la materia di cui si serve, è ciò che conferisce slancio finalistico alla
facoltà del sentimento e la pone in un giuoco che si alimenta di sè e fortifica
le facoltà stesse da cui risulta » (Crir. del Giud., $ 49; Antr., $ 71 b). In
questo senso la parola S. è rimasta nell’uso corrente in cui viene talora
contrapposto alla «lettera», per indicare ciò che dà vita o, fuor di metafora,
il significato autentico di qualcosa. In questo senso venne anche adoperata da
Montesquieu nel titolo della sua opera Lo S. delle leggi. 3° Le sostanze
incorporee cioè gli angeli, i demoni e le anime dei defunti. In questo senso
Locke adoperava la parola spirit (riservando mind a S. nel significato 1°) e
diceva: « Eccettuando alcune pochissime idee che otteniamo mediante la
riflessione e tutto ciò che possiamo mettere insieme da esse circa il Padre di
tutti gli S., l’eterno e indipendente autore di essi e nostro e di tutte le
cose, persino dell’esistenza di altri S. non abbiamo informazione certa se non
per via di rivelazione » (Saggio, IV, 3, 27). E Kant nei Sogni di un visionario
chiariti con sogni della metafisica intendeva Geist nello stesso senso: « Uno
S., si dice, è un essere che ha la ragione. Non è dunque un dono miracoloso
vedere S. giacchè chiunque vede uomini vede esseri che hanno la ragione. Ma, si
prosegue, quest’essere che nell’uomo ha la ragione è soltanto una parte
dell’uomo; e questa parte, che lo vivifica, è uno S.» (7rdume eines
Geistersehers, I, 1). Come Locke, Kant è scettico sull’esistenza dello S. in
questo senso e in ogni caso ritiene impossibile dimostrarla. Anche in questo
senso la parola S. è rimasta nell’uso corrente (v. ANGELI; DEMONE; SPIRITISMO).
4° La materia sottile o impalpabile che è la forza animatrice delle cose.
Questo significato, derivato da quello stoico, si trova frequentemente nei
maghi del Rinascimento e soprattutto in Agrippa SPIRITO (De occulta
philosophia, I, 14) e in Paracelso (Meteor., pag. 79 sgg.). 5° Infine, e in
rapporto più stretto con il significato 1° il termine significa talvolta
disposi. zione (v.) o atteggiamento (v.): come nelle celebri espressioni di
Pascal «S. di geometria» e «S. di finezza » e in espressioni correnti come «S.
religioso », « S. sportivo», ecc. Di questi cinque significati il solo che sia
strettamente collegato alla problematica della filosofia moderna è il primo. Fu
Cartesio a introdurre e a far valere questo significato. «Io non sono dunque,
precisamente parlando, che una cosa che pensa, cioè uno S., un intelletto o una
ragione, che sono termini il cui significato mi era prima sconosciuto » (Med.,
II). E nella risposta alle seconde obiezioni egli precisa, in forma di
definizione, il significato del termine: «La sostanza nella quale risiede
immediatamente il pensiero è qui chiamata spirito. Sebbene questo nome sia
equivoco perchè lo si attribuisce anche talvolta al vento e ai liquori
sottilissimi, io non ne conosco affatto di più propri » (II Rép., def. VI).
Sebbene la nozione di sostanza faccia in quest’espressione cartesiana da
intermediaria tra il nuovo e il vecchio (sostanza incorporea) significato del
termine, l’uso che Cartesio fa di essa stabilisce piuttosto la sua equivalenza
col termine coscienza. Sostanza pensante o coscienza o intelletto o ragione
sono quindi i sinonimi di spirito. Locke, come si è detto, usava nello stesso
senso il termine mind (cfr., ad es., Saggio, II, 1, 5). Leibniz diceva a sua
volta: «La conoscenza delle verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue
dai semplici animali e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla
conoscenza di noi stessi e di Dio. È questo che si chiama in noi anima
ragionevole o S.» (Mon., $ 29). Berkeley a sua volta adottò il termine e ne
stabilì le equivalenze: « Questo essere attivo e percipiente è quello che io
chiamo mind, spirit, soul (anima) o my self (io)» (Principles of Human
Knowledge, I, $ 2). Come anima, intelletto o io intendeva il termine Hume
(7reatise, I, 4, 2, ed. Selby-Bigge, pag. 207). Queste equivalenze vengono
mantenute costantemente nell’uso posteriore del termine: sicchè i problemi al
quale esso dà origine sono quelli connessi con le nozioni di anima, coscienza,
intelletto, ragione e io. Sotto queste voci si troverà l’indicazione dei
problemi ai quali la nozione S. ha dato origine nelle sue diverse
specificazioni. Basti qui solo ricordare che alcuni usi paradossali talora
fatti dalla filosofia contemporanea del termine in questione si riportano in
realtà al sigSCIENZE, ‘CLASSIFICAZIONE DELLE). Ad una diversa specificazione
della nozione di S. ha dato luogo solo Hegel con le sue nozioni di S. oggettivo
e di S. assoluto. Mentre per S. soggettivo, Hegel intende lo S. finito cioè
l’anima o l’intelletto o la ragione (lo S. nel significato cartesiano del
termine) (Enc., $ 386), per S. oggettivo egli intende le istituzioni
fondamentali del mondo umano cioè il diritto, la moralità e l’eticità e per S.
assoluto intende il mondo dell’arte, della religione e della filosofia. In
queste due concezioni, lo S. ha cessato di essere attività soggettiva per
diventare realtà storica, mondo di valori. Mentre lo S. oggettivo, è il mondo
delle istituzioni giuridiche, sociali e storiche e culmina nell’eticità che
comprende le tre tezza, che è la Ragione assoluta, come fece Croce (Logica,
1920, pag. 26 sgg.). Anche fuori dell’idealismo tuttavia la nozione dello S.
oggettivo, cioè dello S. come mondo di istituzioni storico-sociali o di valori
istituzionalizzati o di forme di vita, ha trovato accoglimento ed
illustrazione. La nozione fu infatti accettata da Dilthey che intese per essa
«la connessione strutturale delle unità viventi, che si continua nelle comunità
» e criticò l’assolutezza e il dogmatismo che la nozione stessa aveva assunto
in Hegel (Gesammelte Schriften, VII, pag. 150; cfr. P. Rossi, Lo storicismo
tedesco contemporaneo, 1956, pag. 104105). In questo stesso senso limitato la
nozione fu 831 accettata da E. Spranger, che intese come scienza dello S. la
disciplina che si occupa delle formazioni ultrapersonali o collettive della
vita storica (Lebensformen, 1914, pag. 7). Fu accettata altresì da N. Hartmann
che considerò lo S. oggettivo come una soprastruttura che si solleva al di
sopra della coscienza come questa si solleva al di sopra del mondo organico.
Allo S. oggettivo apparterrebbero tutte le produzioni spirituali cioè le
lettere, le arti, la tecnica, le religioni, i miti, le scienze, le filosofie,
ecc. Esso è il vero protagonista della storia, secondo Hartmann (Das Problem
des geistigen Seins, 1931, pag. 262). AI di sopra dello S. oggettivo Hartmann
situa poi lo S. vivente che sarebbe l’unità dello S. oggettivo e della
coscienza personale (Ibid., pag. 259). N. Hartmann è certo ancora molto vicino
all’ispiultante di una molteplicità di fattori. Dice Montesquieu: « Molte cose
guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo,
le tradizioni, i costumi, le usanze; donde si forma uno S. generale che ne è il
risultato » (Esprit des lois, 1748, XIX, 4). Altrove Montesquieu chiama lo S.
nazionale « anima universale » (Mélanges inédits, pag. 160); ma egli era in
ogni caso ben lungi da fare di questo concetto una realtà a sè. Questo passo fu
fatto da Hegel che concepì lo S. nazionale come il vero soggetto della storia:
«Lo S. della storia è un individuo che è di natura universale ma che è
determinato cioè, in generale, una nazione; e lo S. con cui abbiamo a che fare
è lo S. della nazione. Gli S. delle nazioni si distinguono secondo l’idea che
essi si fanno di se stessi, secondo la superficialità o la profondità con cui
hanno compreso e approfondito ciò che è lo S.» (Philosophie der Geschichte, ed.
Lasson, pag. 36; trad. ital., I, pag. 43). Di volta in volta un determinato S.
nazionale assume la figura di « S. del mondo » (Welfgeist) cioè di guida e di
soggetto unico della storia. « Il Welt geist è lo S. del mondo, come si esplica
nella coscienza umana; gli uomini stanno ad esso come 832 le realtà singole
stanno alla totalità che le sostanzia. E questo S. del mondo è conforme allo S.
divino, che è lo S. assoluto. In quanto Dio è onnipresente, è presso ogni uomo,
appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo S. del mondo» (/bid., pag. 37;
trad. ital., pag. 44). La nozione di S. del mondo è stata varie volte ripetuta
e in generale essa si incontra in ogni concezione provvidenzialistica della
storia (v.). SPIRITUALISMO (ingl. Spiritualism, Personalism; franc.
Spiritualisme; ted. Spiritualismus). 1. Si intende con questo termine ogni
dottrina che pratichi la filosofia come analisi della coscienza (v.) o che in
generale pretenda desumere dalla coscienza i dati della ricerca filosofica o
scientifica. La parola è stata messa in voga nel secolo scorso da V. Cousin che
nella prefazione all’edizione del 1853 della sua opera Du vrai, du beau et du
bien, così scriveva: « La nostra vera dottrina, la nostra vera bandiera è lo
S., questa filosofia solida quanto generosa, che comincia con Socrate e
Platone, che l’Evangelo ha diffuso nel mondo, che Descartes ha messo nelle
forme severe del genio moderno, che è stata nel xvm secolo una delle glorie e
delle forze della patria, che è perita con la grandezza nazionale nel sec. xvi,
e che al principio di questo secolo Royer Collard è venuto a riabilitare
nell’insegnamento pubblico mentre Chàateaubriand e Madame de Staél la
trasportavano nella letteratura e nell’arte... Questa filosofia insegna la
spiritualità dell'anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le
obbligazioni morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia, la
bellezza della carità; e al di là dei limiti di questo mondo, essa mostra un
Dio, autore e tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno
scopo eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino.
Questa filosofia è l’alleata naturale di tutte le buone cause. Essa sostiene il
sentimento religioso, seconda l’arte vera, la poesia degna di questo nome, la
grande letteratura; è l’appoggio del diritto; respinge ugualmente la demagogia
e la tirannide; ecc. ». Questo programma dello S., magistralmente delineato da
Cousin, è rimasto proprio di tutte le forme, numerosissime, che questo
indirizzo filosofico ha assunto nella filosofia moderna e contemporanea.
L’appoggio alle «buone cause » cioè ai valori morali, politici, sociali e
religiosi della tradizione è rimasta la costante preoccupazione dello S. che,
sotto questo rispetto, ha l'andamento e la natura di una sco/astica (v.). Ed il
mezzo con cui lo S. ha cercato di realizzare il suo programma è stato ancora
quello additato da Cousin: il ricorso alla coscienza, cioè alla riflessione
interiore o introspezione per il reperimento dei dati indispensabili alla speculazione.
SPIRITUALISMO Il ricorso alla coscienza collega, come lo stesso Cousin vedeva,
lo S. all’idealismo romantico; mentre lo S. non condivide con tale idealismo
l’identificazione, propria di esso, della coscienza finita (umana) con la
Coscienza infinita (divina). Come difensore della teologia cristiana
tradizionale (la principale delle sue « buone cause +), lo S. non accoglie
questa identificazione, che puzza di panteismo o ateismo (v.). La figura
principale dello S. del secolo scorso è Maine de Biran (1766-1824); la figura
principale delio S. del nostro secolo è Enrico Bergson (18591941). Lo S. è
particolarmente congeniale con la filosofia francese la quale ha desunto da
Montaigne e Pascal la pratica del filosofare come interrogazione della
coscienza. Ma esso trova in tutti i paesi manifestazioni numerose per quanto
non troppo diverse l’una dall’altra. Le grandi figure della filosofia
risorgimentale italiana: Galluppi, Rosmini, Gioberti e Mazzini, si sono
ispirate alla tradizione spiritualistica. In Germania l’opera di Hermann Lotze
ha ispirato e guidato la ripresa dello S. e il Microcosmo di questo autore
costituisce, si può dire, la summa dello S. ottocentesco, difeso in modo
intelligente contro lo scientismo positivistico. Nel mondo contemporaneo, l’opera
di Bergson ha rinnovato lo S. venendo incontro, per quanto è possibile, alle
esigenze della scienza e riproponendo le sue tesi fondamentali nei confronti di
problemi specifici, come quello della libertà, dell'anima, della vita, della
moralità, della religione, ecc. In tutte le sue forme tuttavia lo S. ha in
comune alcune tesi fondamentali, che discendono dal suo concetto della
filosofia come analisi della coscienza e che possono essere ricapitolate così:
1° la negazione della realtà del mondo esterno cioè l’idealismo gnoseologico.
Questa negazione può essere più o meno condizionata o indiretta ma in ultima
analisi è inevitabile perchè una realtà esterna alla coscienza sarebbe, per
definizione, inaccessibile a questa e contraddirebbe all’impegno metodologico
dello spiritualismo. Pertanto, direttamente o indirettamente, questa dottrina
riduce ogni realtà a oggetto immediato di coscienza; 2° la conseguente
riduzione della scienza a conoscenza falsa o imperfetta o preparatoria. Gli
spiritualisti più avveduti, come Lotze e Bergson, hanno appunto ridotto la
scienza a conoscenza preparatoria; 3° il ritrovamento nella coscienza di dati
adatti a costruire il mondo della natura e il mondo della storia nel loro
carattere finalistico o provvidenziale; 4° il ritrovamento nella coscienza, e
quindi nel mondo della natura e della storia, di dati adatti a risalite a Dio o
a un principio divino in qualche STATO sua specificazione che si accordi con la
tradizione teologica del cristianesimo; 5° la difesa della tradizione e delle
istituzicetto classico della libertà come causa sui: il che risulta anche
chiaro dalla definizione di Wolff, secondo la quale essa è «il principio
intrinseco per determinarsi ad agire » (Psychol. empirica, $ 933). Nello stesso
significato, Kant parlò dell’intelletto come della «S. della conoscenza» in
quanto esso è «la facoltà di produrre da sè rappresentazioni » (Critica della
R. Pura, Logica trascendentale, Introd., I). In questo senso S. si oppone a
ricettività (v.) o passività (v.), mentre è sinonimo di artività; che è il
termine oggi più frequentemente adoperato per indicare un processo o un
mutamento che è causa sui, cioè che non ha la sua causa fuori di sè. Come
libertà ha inteso la S. anche Heidegger che pertanto l’ha identificata con la
trascendenza in cui consiste la libertà finita dell’uomo: « L'essenza del
se-stesso (l’ipseità), cioè l’essenza di quel se stesso che giace già nel fondo
di ogni S., consiste nella trascendenza... Solo perchè la libertà costituisce
la trascendenza essa si può rivelare, nell’esserci che esiste, come modo
particolare della causalità cioè come autocausalità » (Vom Wesen des Grundes,
1929, III; trad. ital, pag. 65). 53 — ARBAGNANO, Dizionario di filosofia.
STADIO (gr. otàsuoy; lat. Stadium; ingl. Stadium; franc. Stade; ted. Stadium).
L'ultimo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il movimento. Esso può
essere espresso nel modo seguente: Due masse uguali, dotate di velocità uguali
dovrebbero percorrere spazi uguali in tempi uguali. Ma se due masse si muovono
incontro dalle estremità opposte dello S., ognuna di esse impiega a percorrere
la lunghezza dell’altra la metà del tempo che impiegherebbero se una di esse
fosse ferma: da ciò Zenone traeva la conclusione che la metà del tempo è uguale
al doppio (ARIST., Fis., VI, 9, 239 b 33). L'argomento torna a dire che, se si
ammette la realtà del movimento, si ammette l’equivalenza di un tempo metà al
tempo doppio. Vedi ACHILLE; DICOTOMIA; FRECCIA. STATALISMO (franc. Érarisme).
In senso proprio la dottrina che considera lo Stato come unica fonte del
diritto. In senso generico, ogni indirizzo politico che attribuisce allo Stato
funzioni o poteri preponderanti in un qualsiasi campo dell’attività umana.
STATICA. V. MECCANICISMO, 1, a). STATISTICA (ingl. Statistics; franc. Statistique;
ted. Statistik). La raccolta e l’interpretazione dei dati numerici in un
determinato campo; oppure in generale la scienza che ha per oggetto i metodi
per la raccolta e l’interpretazione dei dati numerici. Nata sul terreno
dell’osservazione dei fatti sociali, la S. si è ora estesa a numerosi campi
d'indagine e in primo luogo al dominio della fisica, dapprima per la
formulazione di teorie speciali (la teoria cinetica dei gas) poi per la
formulazione delle leggi della meccanica quantica. Il concetto di legge S. cioè
della relativa uniformità della frequenza di un certo evento, quando l’evento
stesso è considerato su una scala numerica abbastanza estesa, è stato per la
prima volta formulato dall’astronomo e matento comincia col determinare quali
sono le parti e le funzioni dello S. per procedere poi a determinare le parti e
le funzioni dell’individuo (/bid., IV, 434 e). Questo è un modo di esprimere la
priorità dello S.: la struttura dello S. è la stessa di quella dell’uomo, ma è
più evidente. Aristotele, a sua volta, affermava: « Lo S. esiste per natura ed
è anteriore all’individuo, perchè, se l’individuo di per sè non è
autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le
altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non
ha bisogno di nulla in quanto basta a se stesso, non è membro di uno S., ma è
una belva o un Dio» (Pol., I, 2, 1253 a 18). Queste considerazioni
aristoteliche sono state ripetute molte volte nella storia della filosofia
(cfr., ad es., S. TOMMASO, De Regimine Principum, I; DANTE, De Monarchia, I,
3); ma nel mondo moderno hanno assunto nuova forza solo per opera del
Romanticismo che insistette sul carattere superiore e divino dello stato. Già
Fichte diceva: « Nella nostra età, più che in ogni altro tempo precedente, ogni
cittadino con tutte le sue forze, è sottomesso alla finalità dello S., è
completamente penetrato da esso ed è divenuto suo strumento » (Grundziige des
gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, X). Ma nel modo più semplice ed estremo questa
concezione fu formulata da Hegel, che identificò lo S. con Dio: « L’ingresso di
Dio nel mondo è lo S.: il suo fondamento è la potenza della ragione che si
realizza come volontà. Nelrfetta, l’autosufficienza e la supremazia assoluta
possono essere nel modo migliore ricapitolati proprio nella tesi di Hegel: lo
S. è Dio. Non sempre tuttavia la tesi organicistica è stata formulata in modo
così rigoroso ed estremo: il primato riconosciuto allo S. rispetto agli
individui e l’autosufficienza dello S. non sempre hanno persuaso a considerare
lo S. come Dio stesso; ma sempre hanno portato a considerarlo come qualcosa di
divino, che giustificasse la soggezione degli individui rispetto ad esso. Il
fine che ogni concezione organicistica si è sempre proposto è stato bene
espresso da O. Gierke: « Solamente dal valore superiore del tutto in confronto
con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e,
se necessario, di morire per il tutto. Se il popolo fosse solo la somma dei
suoi membri e lo S. solo un’istituzione per il benessere dei cittadini, nati e
nascituri, allora l’individuo potrebbe, è vero, esser costretto a dare la sua
energia e la sua vita per lo S., ma non avrebbe alcun obbligo morale di farlo»
(Das Wesen der menschlichen Verbànden, 1902, pag. 34 sgg.). 2° Per la
concezione atomistica o contrattualistica lo S. è opera umana: non ha dignità o
caratteri che non gli siano stati conferiti dagli individui che l’hanno
prodotto. Fu questa la concezione dello S. propria degli Stoici che lo
consideravano res populi. Dice Cicerone: «Lo S. (res publica) è cosa del popolo
e il popolo non è qualsiasi agglomerato di uomini riunito in un modo qualsiasi,
ma i suoi membri o le sue parti, ma è l’unità di un patto o di una convenzione
e vale solo nei limiti di validità del patto o della convenzione. Talvolta
tuttavia sul tronco stesso del contrattualismo si innestano le esigenze proprie
dell’organicismo: così accade, per es., in Rousseau quando afferma che «la
volontà generale non può errare ». Rousseau infatti distingue tra la volontà di
tutti e la volontà generale: « Quella guarda soltanto all’interesse comune,
questa guarda all’interesse privato ed è la somma delle volontà particolari; ma
togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono tra loro e resta
per somma delle differenze la volontà generale » (Contrat social, II, 3). Per
quanto giustificata come semplice somma algebrica delle volontà particolari, la
«volontà generale» di Rousseau, con la sua infallibilità, assomiglia molto alla
razionalità perfetta dello S. organico. 3° Le precedenti due concezioni dello
S. hanno in comune il riconoscimento di quello che i giuristi oggi chiamano
l’aspetto sociologico dello S., cioè il riconoscimento della realtà sociale di
esso, considerato, in primo luogo, come una comunità cioè un gruppo sociale
residente su un determinato territorio. Questo riconoscimento è stato assunto a
fondamento di quella descrizione dello S. che giuristi e filosofi del sec. xx
hanno formulato (quale che fosse il loro concetto filosofico di S.) e che si
esprime dicendo che lo S. ha tre elementi o proprietà caratteristiche: la
sovranità o il potere preponderante o supremo; il suo popolo e il suo
territorio. Questi tre aspetti o elementi venivano illustrati e descritti singolarmente
e indipendentemente l’uno dall’altro nonchè indipendentemente dal concetto
filosofico di S. cui si faceva implicitamente o esplicitamente riferimento. La
migliore espressione a questo punto di vista fu data da Jellinek (Allgemeine
Staatslehre, 1900), ma esso è stato ripetuto e illustrato innumerevoli volte
(cfr., ad es., W. W. WiLoucHBY, The Fundamental Concepts of Public Law, 1924).
L'aspetto sociologico dello S. è invece negato da H. Kelsen; e questa negazione
è la caratteristica fondamentale del suo formalismo. Lo S. è per Kelsen
semplicemente l’ordinamento giuridico nel suo carattere normativo o coercitivo.
« Vi è un solo concetto giuridico dello S., dice Kelsen: lo S. come ordinamento
giuridico (accentrato). Il concetto sociologico di un modello effettivo di
comportamento orientato verso l’ordinamento giuridico, non è un concetto dello
S. ma presuppone il concetto dello S., che è il concetto giuridico » (Genera!
Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 192). In altri termini lo S.
«è una società politicamente organizzata perchè è una comunità costituita da un
ordinamento coercitivo, e questo ordinamento coercitivo è il diritto» (/bid.,
pag. 194). Kelsen non nega naturalmente che esistano fatti, azioni o
comportamenti più o meno connessi con l’ordinamento giuridico statale ma
afferma che tali fatti, azioni o comportamenti sono manifestazioni dello S.
solo in quanto sono interpretati «secondo un ordinamento normativo, la cui
validità deve venire presupposta » (/bid., pag. 193). Questa dottrina si presta
a definire in modo semplice ed elegante gli elementi tradizionalmente
riconosciuti propri dello Stato. Il territorio non è altro che «la sfera
territoriale di validità dell’ordinamento giuridico chiamato S. Il l diritto
(v.) lascia aperta la strada alla considerazione dell’efficacia (e perciò dei
limiti) della tecnica coercitiva in ognuna delle sue fasi o manifestazioni,
cioè degli ordinamenti in cui si concreta. Quando Humboldt parlava dei «limiti
dell’azione dello S.» (Die Grenzen der Wirksamkeit des Staates, 1851) fondava
tali limiti proprio sulla impossibilità, in cui lo S. si trova, di raggiungere
certi fini col solo mezzo di cui dispone, cioè con la tecnica coercitiva. Per
tale motivo Humboldt poneva al di là dei limiti dell’azione dello S. la
religione, il miglioramento dei costumi e l’educazione morale: cose che
dipendono da una disposizione non controllabile con gli strumenti di cui lo S.
dispone. Dall'altro lato lo S., come ordinamento giuridie state of affairs.
L'espressione tedesca fu introdotta da Husserl nelle Logische Untersuchungen,
(1901, II, 1, pag. 472 sgg.) e da lui definita come il correlato oggettivo del
giudizio (cfr. Ideen, I, $ 6). La nozione fu accettata da Wittgenstein, che
intendeva per essa «una combinazione di oggetti (entità, cose)» (Tractatus, 2).
È questa espressione che viene a volte tradotta con « fatto atomico ». Ma per
quanto lo S. di cose di cui parla Wittgenstein sia un elemento indivisibile del
mondo, l’espressione « fatto atomico » non traduce alla lettera quella
originale. La critica di Bergson alla concezione che la psicologia dell’800
dava della vita psichica nel suo insieme, s’impernia sul concetto di S.,
considerato da Bergson come una forma o un’istantanea immobile presa sul
divenire (cfr. specialmente Évol. créatr., cap. IV, e l’analisi del «
meccanismo cinematografico del pensiero »). In realtà la nozione di S. non
include per nulla quella di riposo o di immobilità ma piuttosto quella del
rapporto di oggetti tra loro nell’insieme di una situazione. Per Stato di
natura v. NATURA, STATO DI. STATUA (ingl. Statue; franc. Statue; tedesco
Statue). L'ipotesi immaginata da Condillac per dimostrare la derivazione di
tutte le attività psichiche dalla sensazione. « Immaginammo, dice Condillac,
una statua organizzata internamente come noi e animata da uno spirito privo di
ogni specie di idee. Supponemmo pure che l’esterno tutto di marmo non le
permettesse l’uso dei suoi sensi e ci riservammo la libertà di aprirli, a
nostra scelta, alle diverse impressioni di cui sono capaci» (7raité des
sensations, 1754, Pref.). STATUS. Condizione o modo d'essere: specialmente in
senso sociologico, come appartenenza a un determinato strato sociale. STATUTO
(ingl. Statute; franc. Statut; tedesco Statut). Un insieme di norme che definiscono
lo stato, cioè la condizione o il modo d'essere, di un gruppo sociale. STILE
(ingl. Style; franc. Style; ted. Stil). L'insieme dei caratteri che distinguono
dalle altre una determinata forma espressiva. Alla sua origine, nel *700, la
nozione di stile trovò la sua espressione nel motto francese, /e style c'est
l'homme méme e venne considerata come l’apparizione nella forma espressiva dei
caratteri propri del soggetto, nella sua relazione col materiale adoperato.
Hegel ritenne troppo ristretta questa concezione e incluse nello S. anche le
determinazioni che derivano alla forma espressiva dalle condizioni proprie
dell’arte di cui si tratta: nel qual senso si può distinguere, ad es., nella
musica lo S. ecclesiastico e lo S. operistico, e nella pittura lo S. storico e
lo S. generico, ecc. (Vorlesungen iiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag.
394-95). In questo senso lo S. sarebbe, non l’uomo, ma la cosa stessa. In ogni
caso, tuttavia, lo S. sarebbe una certa uniformità di caratteri, riscontrabile
in un determinato dominio del mondo espressivo. «Lo S. ci si rivela come
un’unità di forme, di accenti e di atteggiamenti dominanti in una complessa
varietà formale e di cCosì Hamilton chiamò la parte della logica che studia le
parti elementari o costituenti dei processi del pensiero. Egli divise la S. in
noetica, ennoematica, apofantica e dottrina del ragionamento (Lectures on
Logic, I, pag. 72). STOICISMO (ingl. Stoicism; franc. Stofcisme; ted.
Stoizismus). Una delle grandi scuole filosofiche dell’età ellenistica,
cosiddetta dal portico dipinto (Stod poikile) nel quale fu fondata, intorno al
300 a. C., da Zenone di Cizio. I principali maestri della scuola furono, oltre
Zenone, Cleante di Asso e Crisippo di Soli. Lo S. condivise con le scuole
contemporanee, epicureismo e scetticismo, l'affermazione del primato del
problema morale sui problemi teoretici e il concetto della filosofia come delle
cure e delle emozioni della vita comune. Il suo ideale è pertanto quello della
ararassia (v.) o apatia (v.). I capisaldi dell’insegnamento stoico possono
essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la divisione della filosofia in tre
parti: la logica, la fisica e l’etica (v. FILOSOFIA); 2° la concezione della
logica come dialettica cioè come scienza di ragionamenti ipotetici, la cui
premessa esprime uno stato di fatto immediatamente percepito (v. ANAPODITTICO;
DIALETTICA); 3° la teoria dei segni che doveva costituire il modello della
logica terministica medievale e l’antecedente della semiotica moderna (v.
SEMIOTICA; SIGNIFICATO); 4° il concetto di una Ragione divina che il mondo e
tutte le cose nel mondo secondo un ordine necessario e perfetto (v. DestINo;
LiBERTÀ; NECESSITARISMO); 5° la dottrina che, come l’animale è guidato
infallibilmente dall’istinto, così l’uomo è guidato infallibilmente dalla
ragione; e che la ragione gli fornisce norme infallibili d’azione che
costituiscono il diritto naturale (v. DIRITTO; ISTINTO); 6° la condanna totale
di tutte le emozioni e l’esaltazione dell’apatia come ideale del saggio (v.
APATIA; EMOZIONI); 7° il cosmopolitismo (v.) cioè la dottrina che l’uomo è
cittadino non di un paese ma del mondo; 8° l’esaltazione della figura del
sapiente e il suo isolamento dagli altri, con la distinzione tra pazzi e savi
(v. SAPIENTE; SAPIENZA); La dottrina stoica è stata, accanto a quella
aristotelica, la filosofia che ha avuto maggiore influenza nella storia del
pensiero occidentale. Molti dei capisaldi enunciati costituiscono ancora parti
integranti di dottrine moderne e contemporanee. STORIA (gr. iotopla; lat.
Historia; ingl. History; franc. Histoire; ted. Geschichte). Il termine, che in
generale significa indagine, informazione o resoconto e che già in greco veniva
usato a indicare il resoconto o la narrazione dei fatti umani, presenta oggi
un’ambiguità fondamentale: significa, da un lato, la conoscenza di tali fatti o
la scienza che disciplina e dirige questa conoscenza (historia rerum gestarum);
dall’altro i fatti stessi o un insieme o la totalità di essi (res gestae).
Questa ambiguità ricorre in tutte le lingue colte moderne (cfr. H. I. MarROU,
De la connaissance historique, 1954, pag. 38-39). Ma poichè in italiano è
prevalso l’uso di indicare con il termine storiografia la conoscenza storica in
generale o la scienza della S. (non già l’arte di scrivere S.) si può porre
sotto questa voce la trattazione dei significati storicamente attribuiti alla
S. come conoscenza e comprendere sotto il termine S. solo i significati che
sono stati dati alla realtà storica come tale. Tali significati sono i
seguenti: 1° la S. come passato; 2° la S. come tradizione; 3° la S. come mondo
storico; 4° la S. come oggetto della storiografia. 1° Che la S. sia
interpretata come passato può essere a buon diritto ritenuta una tautologia; ma
il senso in cui Heidegger ha inteso questa interpretazione (Sein und Zeit, $
73), non appare puramente tautologico. Quando si dice « Questa cosa appartiene
alla S. » s'intende infatti che appartiene al passato e ad un passato che ha
scarsa efficacia sul presente. Dall’altro lato, quando si dice « Non ci si può
sottrarre alla S.»: s'intende ancora la S. come passato ma come passato che
agisce inevitabilmente sul presente. Così pure dire che « Qualcosa ha S.»
significa affermare che ha un passato ed è frutto di questo passato. In queste
e simili espressioni, il significato del termine rimane estremamente generico:
rimanda ad una dimensione del tempo e alle relazioni che possono stabilirsi tra
essa e le altre dimensioni. 2° In secondo luogo, la S. può essere intesa come
tradizione cioè come tramandarsi e conservarsi, attraverso il tempo, di
credenze e di tecniche: sia che tale tramandarsi possa ente reale solo
nell’esistenza, il suo esser un fatto si costituisce soltanto e proprio nel
deciso autoprogettarsi su un pofer essere che è già stato scelto. Ma allora ciò
che è stato autenticamente un fatto, è la possibilità esistentiva in cui si
determinano effettivamente destino, destino comune e mondanamente storico »
(/bid., $ 76). Talvolta però la tradizione viene intesa come conservazione
infallibile e progressiva di ogni risultato o conquista umana; e in tal caso il
concetto di essa si identifica con quello della S. come piano provvidenziale
(vedi TRADIZIONE). 3° Il terzo significato di S. è quello filosoficamente più
rilevante; per esso la S. è il mondo storico: la totalità dei modi d’essere e
delle creazioni umane nel mondo oppure la totalità della « vita spirituale» o
delle culture. La S. viene in questo senso a contrapporsi a «natura», che è la
totalità di ciò che è indipendente dall'uomo o non può essere considerato come
sua produzione o creazione; ma rimane imparentata con la natura stessa per il
suo carattere di totalità, di mondo. È nell’ambito di questo concetto che si
possono 838 distinguere le interpretazioni « filosofiche » della S. cioè quelle
che costituiscono la cosiddetta « filosofia della S. ». Tra tali
interpretazioni, le principali possono essere considerate le seguenti: a) la S.
come decadenza; 5) la S. come ciclo; c) la S. come regno del caso; d) la S.
come progresso; e) la S. come ordine provvidenziale. a) L’interpretazione della
S. come decadenza è propria dell’antichità che la espresse con la dottrina
delle erà (v.) del genere umano. La successione delle cinque età descritta da
Esiodo va dall’età dell’oro, nella quale gli uomini « vivevano come dei»
all’erd degli uomini, in cui essi sono soggetti a ogni sorta di mali,
attraverso l’età dell’argento, del bronzo e degli eroi, che segnano la graduale
decadenza dello stato del genere umano (Op., 109-79). Platone ridusse a tre le
età, enumerando soltanto l’età degli dei, degli eroi e degli uomini, ma
conservando il carattere di successiva decadenza che queste età presentano
nelle condizioni materiali e morali degli uomini stessi (Critia, 109 b, sgg.).
Quando questa dottrina delle età viene ripresa nel mondo moderno (per es., da
Vico, da Fichte, ecc.) ha perso il suo significato pessimistico ed è diventato
ottimistica: le età sono in un ordine di progresso anzichè di decadenza. Ma non
c’è dubbio che, presso i Greci, questa dottrina costituisca una interpretazione
della S. come decadenza (v. ETÀ). b) La nozione della S. come ciclo (v.) è
legata a quella del ciclo del mondo assai diffusa nell’antichità greca. Che la
ripetizione del ciclo cosmico includesse la ripetizione della S. umana nel suo
complesso, ci viene testimoniato a proposito degli Stoici. Secondo costoro,
infatti, in ogni nuovo ciclo del mondo, «vi sarà di nuovo Socrate, di nuovo
Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini;
le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi e ogni città o villaggio
e campagna ritornerà ugualmente » (NEMESsIO, De Nat. Hom., 38). Una ripresa
moderna di questo concetto della S. si può vedere nell’opera di Spengler. I
cicli storici, le culture, non si ripetono, secondo Spengler, identicamente,
come ritenevano gli Stoici; ma si ripete identicamente la loro forma: il loro
nascere crescere e morire. «Ogni cultura, ogni suo sorgere, ogni progredire e
ogni declinare, ognuno dei suoi gradi e dei suoi periodi interamente necessari
ha una durata determinata, sempre uguale, sempre ricorrente con la forma di un
simbolo » (Der Untergang des Abendlandes, 1932, I, pag. 147) (v. CicLo). c) Il
concetto della S. come regno del caso non è frequente nell’interpretazione
filosofica della storia. Sembra tuttavia che Aristotele non sia stato molto
lontano da esso quando contrappose lo storico al poeta e ritenne proprio di
quest’ultimo rappresentare l’universale, cioè «le cose quali potrebbero
accadere secondo verisimiglianza e necessità » mentre ritenne proprio dello
storico rappresentare le cose «realmente accadute», cioè «il particolare » e,
per es., «che cosa Achille fece e che cosa gli capitò» (Poetica, 1X, 1451b
2-10). Non bisogna infatti dimenticare che solo l’universale è, secondo
Aristotele, oggetto di conoscenza scientifica e che il particolare come tale
cade fuori della scienza (Met., III, 6, 1003 a 15). Più esplicitamente
Schopenhauer diceva: « La S. del genere umano, la folla degli eventi, il mutare
dei tempi, i molteplici aspetti della vita umana in paesi e secoli diversi,
tutto questo non è se non la forma casuale presa dal manifestarsi dell’Idea e
non appartiene a questa, nella quale soltanto è l’adeguata oggettività della
volontà, ma solo al fenomeno che cade nella conoscenza dell’individuo; ed è
tanto estranea, inessenziale e indifferente all’Idea quanto sono estranee alle
nubi le figure che rappresentano, al fiume la forma dei suoi gorghi e delle sue
spume e al ghiaccio le sue figure di alberi e fiori» (Die Welt, I, $ 35). Non
si può considerare invece sotto questa rubrica il concetto della S. che
Machiavelli espresse dicendo che «la fortuna sia arbitra della metà delle
azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a
noi»; e paragonando la fortuna stessa a un fiume che quando si adira travolge
tutto ma il cui impeto non riesce dannoso o riesce meno rovinoso quando l’uomo
provvede per tempo a farvi ripari e argini (Princ., 25). La «fortuna» è, di
fatti, per Machiavelli, l’insieme delle condizioni che limitano, ostacolano o
frustrano l’azione dell’uomo nella S. ma non è la totalità della storia.
Agostino Cournot si servì invece del caso per definire il dominio proprio della
S., che egli contrappose a quello della natura, che è invece il dominio
dell’ordine e della legge (Essai sur les fondements de la connaissance, 1851).
d) Il concetto della S. come progresso ha come sua caratteristica
l’affermazione del carattere problematico o non inevitabile del progresso
stesso; giacchè se il progresso è necessario la S. è piuttosto un ordine
provvidenziale di cui tutti i momenti sono egualmente perfetti in quanto tutti
indispensabili alla perfezione o al perfezionamento dell’insieme. La S. come
progresso problematico è un’idea illuministica; e suppone una misura del
progresso stesso cioè una norma o un ideale cui la S. cerca di avvicinarsi o
che essa cerca di realizzare ma che non trova mai in essa un’adeguazione
perfetta. G. B. Vico ha espresso questo ideale nel concetto di una S. ideale
eterna «sopra la quale, egli disse, corrono in tempo le S. di tutte le nazioni
nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini » (Sc. Nuova, De’
princìpi). La S. ideale eterna è l’ordine universale ed eterno che la S.
temporale, o anzi le varie S. temporali dei vari tempi e nazioni, tendono ad
adeguare, senza mai riuscirvi perfettamente e anzi talvolta precipitando nella
confusione e nella rovina (/bid., Conchiusione dell’opera). Vico intendeva la
storia ideale eterna come la successione progressiva di tre età (degli dei,
degli eroi e degli uomini) e la permanenza indefinita nell’ultima, che è la
conclusione del ciclo. Voltaire considerò invece come norma e misura del
progresso storico l’illuminismo: la liberazione della ragione umana dai
pregiudizi e il suo porsi come guida della vita singola e associata dell’uomo
(cfr. specialmente il Essai sur les maurs, 1740; Philosophie de l’histoire,
1765). Kant seguì lo stesso criterio, suggerendolo tuttavia soltanto come un «
filo conduttore » per orientarsi filosoficamente nella S. dei popoli. Egli
scrisse: « A misura che le limitazioni all’attività personale saranno tolte,
che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si produrrà per gradi, pur
con intervalli di illusioni e fantasie, l’illuminismo come un gran bene che la
specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose di potenza dei suoi
dominatori» (/dee zu einer allgemeinen Geschichte, 1784, tesi VIII). Secondo
Jaspers, l’unico fine progettabile della S. è l’unità dell'umanità
raggiungibile non già attraverso la scienza o l’uniformità linguistica o
culturale ma soltanto attraverso «l’illimitata comunicazione di ciò che è
diverso storicamente, quale può realizzarsi in un dialogo incessantemente
condotto al livello di una lotta amorevole » (Vom Ursprung und Ziel der
Geschichte, 1949). Altri criteri o norme possono certo essere proposti o stati
proposti come misura del progresso nella S.; ma le caratteristiche di questa
nozione non mutano finchè non si ammetta l’inevitabilità del progresso. e) Con
l’affermazione dell’inevitabilità del progresso, il progresso stesso diventa
inconcepibile (come Hegel vide): giacchè se la S. è necessaria, ogni momento di
essa è tutto ciò che dev'essere e non può essere migliore o peggiore degli
altri. La concezione della necessità della S. è la concezione della S. come
piano provvidenziale. La nozione di piano provvidenziale è implicita in ogni
miflenarismo o chiliasmo (v.): ogni dottrina siffatta include l’idea di uno
sviluppo necessario degli eventi umani, sino al raggiungimento di uno stato
definitivo di perfezione. Questo fu, per es., il concetto che della S. ebbe
Origene: che considerò i mondi succedentisi nel tempo come altrettante scuole
nelle quali si rieducano gli esseri decaduti (De Princ., IH, 6, 3); e vide nel
ciclo complessivo della S. il ritorno a Dio del mondo, che culmina
nell’apocatastasi, cioè nella restituzione di tutti gli esseri alla loro
perfezione originaria (In Johann, XX, 7). Ma il primo a formulare chiaramente
il concetto del piano provvidenziale è stato S. Agostino. Questi vide nella S.
la lotta tra la città celeste e la città terrena: lotta destinata a finire con
il trionfo della città celeste. A questo trionfo, secondo S. Agostino, Dio fa
contribuire anche il male e la volontà catdell’intelligenza piena della verità
divina (Concordia novi et veteris testamenti, V, 84, 112). Tuttavia il piano
provvidenziale della S., per quanto infallibile e necessario, è, dal punto di
vista religioso, imperscrutabile nei suoi particolari. L’uomo religioso crede
in esso e nella sua perfezione; ma sa di non poter comprendere le vie
attraverso le quali si va realizzando. Posto di fronte al male, egli ha fiducia
che il male da ultimo non trionferà, ma come ciò avvenga o possa avvenire, sa
di non poter dire. Quando la dottrina del piano provvidenziale della S. si
trasforma, nel Romanticismo, in dottrina filosofica, il non sapere religioso si
trasforma in certezza razionale. Hegel ha più volte affermato che la differenza
tra religione e filosofia è che la seconda dimostra nella sua determinazione
quella relazione tra Dio e il mondo, quel piano provvidenziale, che la prima si
limita solo a riconoscere (Enc., $ 573; Philosophie der Geschichte, ed. Lasson,
I, pag. 55). L'ingresso di questa nozione in filosofia è però in primo luogo
opera di Fichte. Nei Caratteri dell’età contemporanea (1806) Fichte affermava
energicamente la necessità della S. e la riduzione di essa a un piano
provvidenziale. « Qualsiasi cosa realmente esiste, egli diceva, esiste per
assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste
» (Ibid., IX). E distingueva, nel progressivo incivilimento della specie umana,
due elementi: un elemento a priori che è il piano del mondo o l’ordine
provvidenziale e un elemento a posteriori o temporale od empirico, costituito
dai fatti. La risultante di questa concezione è che: « Nulla è come è perchè
Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti.
Riconoscere questo, sottomettersi umilmente ed essere beati, nella coscienza
della nostra identità con la forza divina, è compito di ogni uomo» (/bid., IX;
trad. ital., Cantoni, pag. 67). Con questa distinzione Fichte sembra
riconoscere ai «fatti» della S. una certa autonomia (per quanto fittizia) di
fronte al piano provvidenziale di cui devono entrare a far parte. Ma anche
questa fittizia autonomia dei fatti sparisce nella dottrina di Hegel. « Dio
prevale, dice Hegel, e la S. del mondo non rappresenta altro che il piano della
provmente e gradualmente» e distingueva tre periodi: quello in cui la
provvidenza appare come destino o forza cieca; quello in cui appare come natura
e infine quello in cui appare come provvidenza (System des transzendentalen
Idealismus, sez. IV, Aggiunte, III C; trad. ital., pag. 283 sgg.). Il concetto
di rivelazione è stato adoperato frequentemente nel tardo Romanticismo del sec.
xrx e nello spiritualismo e idealismo del sec. xx. In queste sue
manifestazioni, ha conservato la connessione con l’idea di progresso che
Schelling gli aveva riconosciuta. Tale connessione non gli è tuttavia indispensabile.
La rivelazione di Dio nella S. può essere non graduale, ma totale e completa in
ogni punto della S. stessa. Ogni epoca, ogni momento di essa è in questo caso
una rivelazione compiuta di Dio, secondo il detto di Goethe: « L’attimo è
l’eternità » e secondo la frase dello storico Ranke « Ogni epoca è in immediata
relazione con Dio +». In questa forma il concetto romantico della S. come
ordine provvidenziale è stato accettato anche da alcuni storicisti tedeschi
come E. Troeltsch (Der Historismus und seine Probleme, 1922) e F. Meinecke (Die
Entstehung des Historismus, 1936; Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der
Geschichte, 1939), preoccupati di salvare l’assolutezza dei valori e il
carattere divino del cristianesimo dalla mobilità e relatività della S. (cfr.
Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, parte VI). Dall'altro
lato non è indispensabile che il concetto della S. come ordine provvidenziale
si fondi sulla credenza in una provvidenza, immanente o trascendente, di natura
divina. « Ordine provvidenziale » significa «ordine necessario e perfetto »: e
un ordine siffatto è riconosciuto proprio della S. anche da dottrine che negano
il concetto religioso della provvidenza, come il positivismo sociale e il
marxismo. Augusto Comte considerava la S. come lo sviluppo progressivo
dell'Umanità o Grande Essere che è «l’insieme degli esseri passati, futuri e
presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale »
(Politique positive, 1854, IV, pag. 30). E riconosceva a De Maistre il merito
di aver concorso a preparare la vera teoria del progresso con la sua
rivalutazione del Medio Evo: giacchè solo dopo questa nozione consente infatti
di parlare della S. come di un oggetto unico e semplice, valutabile nel suo
complesso una volta per tutte. La nozione di mondo storico, come tutte le
nozioni totalitarie e la nozione stessa di mondo (v.), è al di là delle
capacità effettive di indagine e di intelligenza di cui l’uomo dispone. La S.,
come oggetto della storiografia non è mai un mondo in questo senso, cioè la
totalità assoluta degli eventi umani. Un periodo storico o un insieme di
istituzioni è detto talvolta un mondo (per es., il «mondo antico» o il «mondo
orientale », ecc.) soltanto nel senso di una totalità relativamente omogenea di
culture e non in senso assoluto. La stessa espressione « mondo storico» se
riceve il significato di «oggetto generale delle discipline storiografiche »
designa, non una totalità assoluta, ma il campo relativamente omogeneo in cui
vengono ad operare e a incontrarsi le tecniche delle discipline storiografiche.
Quando perciò come «realtà storica » s’intenda semplicemente l’oggetto della
conoscenza storica, si rinunzia ipso facto al concetto di mondo storico come
totalità assoluta e ad ogni giudizio su questa totalità. Si rinuncia, anche, a
considerare rurti i fatti come fatti storici: giacchè l’affermazione che tutti
i fatti sono storici (che ricorre, per es., in CROCE, La S. come pensiero e
come azione, 1938, pag. 19) non è che un altro modo di esprimere la nozione
della S. come totalità assoluta. Dall’altro lato, se la S. non è il mondo
storico, non esiste /a storia. Odi irrepetibile. Il riconoscimento esplicito di
questo carattere è dovuto allo storicismo tedesco. Già affermato da Dilthey
(Gesammelte Schriften, V, pag. 236) esso fu sottolineato da Windelband
(Pràludien, II°, pag. 145) e da Rickert (Die Grenzen der
naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896-1902, pag. 251, 420, ecc.) come
una conseguenza della distinzione tra il procedimento generalizzante delle scienze
della natura e il procedimento individuante delle scienze dello spirito. Questo
carattere della S. ha suscitato talora la diffidenza dei metodologi perchè è
apparso come un carattere « metafisico » (cfr., ad es., C. G. HEMPEL, in
Readings in Philosophical Analysis, ed. Feigl e Sellars, 1949, pag. 461;
GARDINER, The Nature of Historical Explanatiohe non è nè individuato nè
connesso sufficientemente con altri fatti, nè sinificante. STORIA IDEALE
ETERNA. V. STORIA. STORIA UNIVERSALE. V. STORIOGRAFIA. STORICHE, FONTI (ingl.
Historical Sources; franc. Sources historiques; ted. Historische Quellen). Con
questa espressione si indica comunemente il materiale della ricerca
storiografica. Le fonti S. sogliono dividersi in avanzi e tradizioni. Gli
avanzi sono: 1° i resti delle opere prodotte dall'uomo (case, ponti, teatri,
utensili, ecc.); 2° i modi di vita delle comunità (usi, costumi, ordinamenti
giuridici, politici, ecc.); 3° le opere letterarie e filosofiche; 4° i
documenti in generale. Gli avanzi che furono prodotti con l’intenzione di
tramandare il ricordo di un evento si chiamano monumenti. Tali sono i documenti
che ebbero lo scopo di testimoniare per l’avvenire la conclusione di una
faccenda e tali sono le iscrizioni, le medaglie, le monete, ecc. Infine le
fonti di tradizione sono quelle mediante le quali è stata tramandata la memoria
degli eventi passati e possono essere orali o scritte. (cfr. G. G. Droysen,
Grundzilge der Historik, 1882, $ 20-24). STORICISMO (ingl. Historicism; franc. Historicisme; ted. Historismus). Con questo termine
che fu adoperato per la prima volta da Novalis (Werke, III, pag. 173) si
possono intendere tre indirizzi diversi e cioè: 1° La dottrina che la realtà è
storia (cioè svolgimento razionalità e necessità) e che ogni conoscenza è
conoscenza storica, quale fu espressa da Hegel (cfr. specialmente Geschichte
der Philosophie, I, intr.) e da Croce (La storia come pensiero e come azione,
1938, pag. 51). Questa dottrina non è che la tesi fondamentale dell’idealismo
romantico (v.): essa suppone la coincidenza di finito e infinito, del mondo e
di Dio, e considera pertanto la storia come la stessa realizzazione di Dio.
Essa si può chiamare S. assoluto. STORIA IDEALE ETERNA 2° Una variante della
precedente dottrina, che vede nella storia la rivelazione di Dio nel senso di
considerare ogni momento della storia stessa in diretto rapporto con Dio e
permeato dei valori trascendenti da Lui inclusi nella storia. È stato questo il
punto di vista sostenuto da E. Troeltsch e F. Meinecke [cfr. la voce STORIA, 3,
e)]. Si può chiamare questa dottrina S. fideistico perchè la rivelazione di Dio
nella storia avviene per essa sostanzialmente attraverso la fede. 3° La
dottrina che vede nelle unità di cui la storia costituisce la successione
(Epoche o Civiltà) organismi globali i cui elementi, necessariamente connessi,
possono vivere solo nell’insieme; ed afferma pertanto la relatività dei valori
(che sono appunto alcuni di tali elementi) all’unità storica cui appartengono e
la morte inevitabile di essi con la morte di questa. È questo il punto di vista
di Spengler e di altri e si può chiamare S. relativistico. Esiste anche, almeno
come termine polemico, una nozione volgare di questo S.: secondo la quale la
storia sarebbe un movimento incessante che travolge tutto, anche la verità e i
valori, subito dopo l’attimo del loro fiorire. La dottrina che più si avvicina
a questa è quella difesa da G. Simmel ; secondo il quale la vita è un fluire
incessante che risolve e concilia ogni cosa entro di sè: «Il bene e il male che
facciamo e che riceviamo, il bello che ci allieta e il brutto da cui fuggiamo,
le serie compiute come quelle rimaste interrotte nella nostra vita, tutte
queste cose, per quanto possano di fatto reciprocamente contrastare rientrano,
come elementi della vita, come scene di un destino, nella connessione
dell'esperienza vissuta che si continua senza posa e senza interruzione: in una
vita, cioè, il cui senso, appunto come vita, sovrasta a tutte le opposizioni
che i suoi contenuti possono presentare secondo altri criteri» (Hauptprobleme
der Philosophie, 1910, IV; traduzione ital., pag. 201). Lo stesso Simmel però
ammetteva qualcosa che è più che vita (v.) cioè la forma della vita stessa che
emerge da essa e in essa ritorna (Lebensanschauung, 1918, pag. 22-23). 4°
L'indirizzo della filosofia tedesca che, negli ultimi decenni dell’800 e nei
primi del nostro secolo, ha dibattuto il problema critico della storia.
L’assurgere delle discipline storiche, nel corso del sec. xIx, al rango di
scienze faceva nascere nei loro confronti un problema analogo a quello che Kant
si era proposto nei confronti delle scienze naturali: il problema della
possibilità della scienza storica, cioè della sua validità. Questo problema
viene dibattuto in Germania a partire dagli scritti di Dilthey e specialmente
dalla Einleitung in die Geisteswquesti indirizzi non solo da Dilthey,
Windelband e Rickhert ma anche da Simmel, Troeltsch e Meinecke; ma ebbero il
loro contributo più sostanziale da Max Weber che affrontò soprattutto il
problema della spiegazione storica e della causalità della storia. L'eredità di
questo indirizzo di studi, che ha iniziato l’elaborazione della metodologia
storica, è stata raccolta dai moderni metodologi della storia (sui quali v.
STORIOGRAFIA) (cfr., R. Aron, La philosophie critique de l’histoire, Essais sur
une théorie allemande de l’histoire, 2 ediz., 1950; P. Rossi, Lo S. tedesco
contemporaneo, 1956). STORICITÀ (ingl. Historicity; franc. Historicitè; ted.
Geschichtlichkeit). 1. Il modo d’essere del mondo storico o d’una qualsiasi
realtà storica. 2. L'esisteme mondo. L’interpretazione di essa come storia
pluralistica corrisponde all’interpretazione della realtà storica come oggetto
definibile o accertabile solo attraverso gli strumenti di indagine di cui si
disponA) La storia universale o come meglio si direbbe cosmica (ted.
Weltgeschichte) è la conoscenza del piano provvidenziale del mondo storico
(cfr. HeGeL, Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pagina 52). Essa ha due
caratteristiche fondamentali: 1° È opera del filosofo e non dello storico e ad
essa l’opera dello storico può servire solo come aiuto non indispensabile.
Fichte, che la chiama «storia @ priori», afferma: « Comprendere con chiara
intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno e l’immutabile in quanto guida
la specie umana, è compito del filosofo. Fissare di fatto la sfera sempre
cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia
della specie umana, è compito dello storico, le cui scoperte sono solo
casualmente ricordate dal filosofo + (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters,
1806, IX; trad. ital., Cantoni, pag. 67). Ed Hegel, in polemica contro i grandi
storici del suo tempo, degradati a «filologi» (v. FiLoLogia), affermava: «Per
conoscere il sostanziale, bisogna accedervi da sè con la ragione... La
filosofia, nella certezza che ciò che impera è la ragione, sarà convinta che
l’accaduto troverà il suo luogo nel concetto e non altererà la verità, come
oggi è moda particolarmente presso i filologi che, con quel che si dice acume, introducono
nella sl’occhio del concetto, della ragione» e perciò affidarsi a un modo di
procedere rigorosamente aprioristico (Phil. der Geschichte, 1, pag. 8). Croce
parlava di una «anamnesi » dello Spirito universale che tesse la storia e per
il quale le fonti della storia stessa servono solo come occasioni di ricordo
(Teoria e storia della S., pag. 16). Lo stesso Heidegger condivide questa
concezione della storia cosmica. Egli avverte che « storia cosmica » significa
in primo luogo «lo storicizzarsi del mondo nella sua essenziale unità
esistenziale con l’Esserci»; e in secondo luogo «lo storicizzarsi intramondano
degli strumenti e delle cose» e che in entrambi i sensi la storia cosmica è
indipendente dalla conoscenza storiografica (Sein und Zeit, $ 75) sicchè è la
scelta implicita nella storicità dell’Esserci a determinare la scelta
storiografica. B) La S. pluralistica è caratterizzata in primo luogo
dall’abbandono di concetti come « mondo storico + o « storia universale », e
dal riconoscimento della pluralità delle forme della conoscenza storica e della
sua dipendenza dal materiale documentario disponibile e dai princìpi che
guidano la scelta storiografica. Da questo punto di vista, la conoscenza
storica autentica verte sempre su oggetti delimitati o delimitabili, mai sulla
totalità della storia; e non è mai giudizio su tale totalità sicchè esclude
come privi di senso i concetti di progresso, di decadenza, ecc., intesi in
senso assoluto. Per quanto l’antichità greca ci abbia lasciato esempi eccelto
che 1’Umanesimo ha dato alla metodologia storica. Giacchè mentre il Medio Evo
ignorava la prospettiva storica, facendo dei fatti e degli eventi più
eterogenei e lontani fatti ed eventi contemporanei, l’Umanesimo ha cercato di
intendere il passato come passato, l’antichità come antichità, l’altro come
altro (cfr. E. Garin, Medioevo e Rinascimento, 1954, Il, 5). L'esigenza di
«rivivere» il passato, di farlo «ritornare» sarebbe falsificatrice della
storia, se fosse presa alla lettera (cfr. H. I. Marrou, De la connaissance
historique, 1954, pag. 43 sgg): come sarebbe falsificatrice, se fosse presa
alla lettera l'esigenza affacciata da Croce (Teoria e storia della S. pag. 3
sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 5), che ogni storia sia
intesa come « storia contemporanea +. Un corollario dell’esigenza della
prospetSTORIOGRAFIA tiva storica è il distacco dal passato, che Nietzsche
riteneva proprio della storia crifica (posta accanto alla storia archeologica
che «conserva e venera » e alla storia monumentale che esalta e incoraggia,
Unzeitgemàsse Betrachtungen, 1873, II) distacco che Nietzsche intendeva come
l’abbandono del passato e l’incamminarsi del presente per nuove vie, e che è
certamente uno degli insegnamenti della storiografia. Ma c’è poi un distacco dal
presente che è inerente all’atteggiamento storiografico su cui insistette
soprattutto l’Illuminismo e che fu espresso da P. Bayle con famose parole: « Lo
storico, egli diceva, deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato
allevato in una certa comunità, che deve la sua fortuna a questo o a quello e
che questi e quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in
quanto tale è, come Melchisedec, senza padre, senza madre, senza genealogia »
(Dictionnaire, art. Usson, rem. F.). L'ideale proposto da Bayle è difficile,
per non dire impossibile, da realizzare perchè, come gli storici oggi
riconoscono (cfr. ad es., MARROU, Op. cif., cap. Il) l’intervento attivo degli
interessi e degli orientamenti dello storico, condiziona sempre, in qualche misura,
i risultati della sua indagine e persino la scoperta dei fatti. Tuttavia tutta
la tecnica dell’indagine storiografica tende, non già a disincarnare o a
disumanare lo storico, come voleva Bayle, ma a limitare e disciplinare
l’intervento dei suoi interessi nella ricerca. 2° La conoscenza storica è
individuante perchè individuanti sono gli strumenti di cui si avvale.
L’individualità o l’unicità (irripetibilità) che è frequentemente riconosciuta
ai fatti storici è in realtà il riflesso in tali fatti degli strumenti che li
accertano (v. STORIA). In primo luogo ogni evento storico è individuato dai due
parametri fondamentali, cronologico e geografico. In secondo luogo, il
materiale documentario della S. ha carattere individuante. Un documento, una
moneta, un’iscrizione si riferiscono sempre, ognuno, ad un unico fatto; e così
una testimonianza. In terzo luogo, hanno carattere individuante i criteri di
scelta storiografica, perchè tendono a porre in evidennel passato di ogni cosa
cambia a misura che la cosa stessa cambia e si sviluppa + (Op. cir., pag. 36).
La scelta storiografica investe così in primo luogo i fatti; ma essa investe
anche e contemporaneamente le ipotesi che sono incorporate nello stesso
accertamento dei fatti. La scelta di un’ipotesi non è necessariamente suggerita
allo storico dalle sue proprie simpatie o dai suoi orientamenti; qualche volta,
come accade nel caso di Tucidide, l’ipotesi che egli prospetta e che trova
verificata dai fatti è contraria a tutti i suoi desideri. Il pluralismo delle
scelte, cioè la possibilità di effettuare scelte storiografiche differenti e di
mutare e correggere quelle effettuate, è una delle condizioni della conoscenza
storica. I filosofi hanno tentato talvolta di limitare, in linea di principio,
la pluralità delle scelte; cioè di stabilire un principio che orienti in ogni
caso, unilateralmente, la selezione storiografica. Così ha fatto Hegel
affermando che la storia è « storia dello spirito » e obbligando così la scelta
dello storiografo a fermarsi sulle idee e a dichiarare storicamente inesistente
tutto il resto. Così ha fatto anche il materialismo storico (v.) affermando che
la storia è in primo luogo storia dei « rapporti di produzione di lavoro » e
che tutto il resto è « soprastruttura » cioè non determina ma segue. Non c’è
dubbio che questi tentativi di limitazione della scelta storiografica, e
specialmente quello marxista, hanno polemicamente richiamato l’attenzione su
fatti che potevano essertà di applicazione nel dominio storiografico (come
anche d’altronde nel dominio della fisica) tende a prevalere tra i metodologi
della storia. Lo scritto citato di W. Dray, è in questo senso, particolarmente
significativo (v. su questo punto la voce SPIEGAZIONE). La preferenza accordata
alla spiegazione condizionale toglie tutta la sua importanza al contrasto tra
spiegazione e comprensione che per un certo tempo parve esprimere il contrasto
tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Difatti, sia la
spiegazione che la comprensione consistono nella determinazione della
possibilità dell’oggetto (v. COMPRENSIONE). 5° La conoscenza storica è diretta
alla determinazione di possibilità retrospettive. Questa è una conseguenza
della rinuncia della S. allo schema causale (che suppone la necessità
dell’oggetto storico) e del suo ricorso allo schema condizionale. Questo schema
consiste nella determinazione di possibilità, o, se si vuole, di probabilità
retrospettive. Questa caratteristica fu già riconosciuta propria alla
conoscenza storica da Max Weber: «La considerazione del significato causale di
un fatto storico, egli diceva, comincerà anzitutto con la questione seguente:
se escludendolo dal complesso dei fattori assunti come condizionanti, oppure
mutandolo in un determinato senso, il corso degli avvenimenti avrebbe potuto,
in base a regole generali dell’esperienza, assumere una direzione in qualche
modo diversamente configurata nei punti decisivi per il nostro interesse »
(Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906;
traduzione ital, in Z/ metodo delle scienze storicosociali, pag. 223).
Certamente ogni storico riconoscerebbe privo di senso il tentativo fatto da
Renouvier nell’Ucronia d’immaginare «lo sviluppo della civiltà europea quale
avrebbe potuto essere e non è stata +. Ma, come dice R. Aron: «Ogni storico,
per spiegare ciò che è stato, si domanda ciò che sarebbe potuto essere. La
teoria si limita a mettere in forma logica questa pratica spontanea dell’uomo
comune + (op. cit., pag. 164; cfr. MARROU, op. cit., pag. 181). Per quanto
spesso gli storici e i metodologi della storia continuino a parlare di « causa
», il senso che danno a questa parola non ha niente a che fare con il
significato tradizionale di essa: pertanto un mutamento terminologico sarebbe
opportuno seguisse al già intervenuto mutamento concettuale (Cfr. una
bibliografia selezionata sulla metodologia storiografica in Theory und Practice
in Historical Study: a Report of the Committee on Historiography, 1942, e cfr.
sugli autori trattati in questa voce: P. Rossi, Storia e storicismo nella
filosofia contemporanea, 1960). STRETTO (ingl. Strict; franc. Strict; tedesco
Streng). L’aggettivo si applica talora al diritto o al dovere per indicare il
suo carattere più rigorosamente obbligatorio. Dice Kant.: « Vi sono azioni così
conformate che la loro massima non può nemmeno essere concepita senza
contraddizioni come una legge universale della natura... Ve ne sono altre in
cui non si incontra questa impossibilità interna, ma che sono tali che è
impossibile volere che la loro massima sia elevata all’universalità di una
legge della natura, perchè una tale volontà si contraddirebbe in se stessa. Si
scorge facilmente che la massima delle prime è contraria al dovere S. o rigido
(rigoroso), mentre la massima delle seconde non è contraria che al dovere in
senso /argo (meritorio) » (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I. Altrove
Kant chiama diritto S. quello che « può anche essere rappresentato come la
possibilità di una costrizione generale reciproca in accordo con la libertà di
ognuno secondo leggi universali » (Mer. der Sitten, Introduzione alla dottrina
del diritto, $ FE). Queste notazioni kantiane sono tra le più precise in questa
materia e tuttavia son ben lontane dall’essere convincenti. STRUMENTALISMO. V.
PRAGMATISMO. STRUMENTO (ingl. Instrument; franc. Instrument; ted. Werkzeug). La
parola è stata estesa da Dewey a significare ogni mezzo adatto a conseguire un
risultato in qualsiasi campo dell'attività umana, pratico o teorico. Dice
Dewey: « Come termine generale strumentale significa la relazione
mezzi-risultati come categoria fondamentale per la interpretazione delle forme
logiche, mentre operativo esprime le condizioni grazie alle quali la materia è:
1° resa adatta a servire come mezzo e STRETTO 2° effettivamente funziona come
mezzo nel compiere la trasformazione obiettiva che è il fine dell'indagine »
(Logic, I, $ 2, nota; trad. ital., pag. 47-48). STRUTTURA (ingl. Structure;
franc. Structure; ted. Strukture). 1. Nel senso logico, la pianta o il piano
d’una relazione: sicchè si dice che due relazioni hanno la stessa S. quando lo
stesso piano vale per entrambe, cioè quando sono analoghe l’una all’altra come
una carta geografica è analoga al paese che rappresenta. La S. è in questo
senso il « numero-relazione » ed è concetto generalissimo, equivalente a piano,
costruzione, costituzione, ecc. (RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, VI; trad. ital., pag.
74-75; Human Knowledge, IV, 3; trad. ital., pag. 362 sgg.). La descrizione formale di Russell si attaglia all’uso
corrente del termine: per es., all’uso che se ne fa nella terminologia di Marx
e dei marxisti. In questa terminologia, S. è la costituzione economica della
società in cui entrano i rapporti di produzione e i rapporti di lavoro mentre
soprastruttura (v.) è la costituzione giuridica, statale, ideologica della
società stessa (Marx, Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.;
Deutsche Ideologie, I). In questo senso la parola S. è da un lato sinonimo di
forma nel senso in cui questo termine ricorre nel gestaltismo che infatti viene
anche chiamato strutturalismo o psicologia strutturale (v. PstcoLogia);
dall’altro è sinonimo di sistema (nel significato 2) come insieme o totalità di
relazioni. In quest’ultimo senso la parola è passata nella linguistica,
nell’estetica e negli altri campi in cui viene oggi comunemente adoperata. Lo
stesso Saussure aveva parlato di sistema: «La lingua è un sistema di cui tutte
le parti debbono essere considerate nella loro solidarietà sincronica » (Cours
de linguistique générale, III, $ 3). Quando si parla della struttura come di
«un insieme di elementi qualsiasi, dunque astratti, tra i quali o tra certi
loro sotto-insiemi, si saranno definite relazioni ugualmente astratte »
(Granger) o come «un complesso di elementi sottoposto a relazioni determinate »
(Mouloud) («La notion de structure» in Revue Inter. de Phil. 1965, pag. 254,
315) o in modi analoghi (Sens er usage du terme Structure dans les sciences
humaines et sociales, a cura di Bastide, 1962, passim; The Structure of
Language, a cura di Fodor e Katz, 1964, pag. 33 e passim), il termine ha
significato generico di sistema e potrebbe essere opportunamente sostituito da
esso. Lo stesso può dirsi dell’uso fatto del termine nel campo antropologico,
soprattutto da Lévi-Strauss; il quale esplicitamente definisce la S. come un
sistema di elementi tali che una modificazione qualsiasi dell'uno implica una
modificazione di tutti gli altri; e la considera come un modello
concetSTRUTTURALISMO tuale che deve dar conto dei fatti osservati e permettere
di prevedere in qual modo l’insieme reagirà nel caso della modificazione di uno
degli elementi (Anthropologie structurale, 1958, XV, 1, pag. 306 sgg). 2. In un
senso ristretto e specifico, la S. non è un qualsiasi piano o sistema di
relazioni, ma un piano gerarchicamente ordinato cioè con un ordine finalistico
intrinseco, destinato a conservare, per quanto possibile, il piano stesso. In
questo senso specifico la parola fu usata da Dilthey che con essa designò il
fondamentale strumento esplicativo del mondo umano e storico. Egli parlò di una
« S. psichica » intesa come « l’ordine secondo cui, nella vita psichica
sviluppata, i fatti psichici di qualità differente sono reciprocamente legati
da un’interna relazione che può essere immediatamente vissuta » (Gesammelte
Schriften, VII, pag. 3 sgg.; cfr. Critica della ragione storica, trad. ital.,
pag. 63). E soprattutto si servì del termine per indicare le unità elementari
del mondo storico cioè gli individui, le epoche, le comunità, le istituzioni e
i sistemi di cultura, intendendo per esso in questo senso una connessione
dinamica accentrata in se stessa «cioè che ha in se stessa il suo fine e i suoi
criteri di valutazione » (Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften, 1910, VI, 2; trad. ital., in Critica della ragione
storica, VI, 1, 2, pag. 243 sgg.). La connessione dinamica o vitale in cui
Dilthey vide il carattere proprio della S. fu tradotta da Spengler col concetto
di organismo, del quale si servì per descrivere le epoche storiche che nascono,
decadono e muoiono (v. Epoca). In questo senso il termine viene adoperato
comunemente in biologia. Secondo l'illustrazione che ne ha dato recentemente un
biologo, la S. sarebbe «la forma relativa alla funzione +, come la funzione
sarebbe la «S. che cambia nel tempo» (A. C. MOULYin due modi: I) come
costituente l’ordine o la sostanza della realtà in esame, quindi determinante
necessariamente tutte le sue determinazioni in modo da renderle infallibilmente
prevedibili (Levi-Strauss, Sapir V. art. seguente). Il) Come un modello (v.) o
un costrutto (v.) ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse, che
eserciti condizionamenti non necessitanti e renda possibili solo previsioni
probabili (strutturalisti russi, cibernetici). STRUTTURALISMO (inglese
Structuralism; fr. Structuralisme; ted. Strukturalismus). Con questo termine si
intende ogni metodo o procedimento d’indagine che, in qualsiasi campo, faccia
uso del concetto di Struttura in uno dei sensi chiariti. Il termine è nato
nella psicologia della forma e nella linguistica: nel qual campo, lo S. è stato
difeso dai russi R. Jakobson, N. Trubetzkoy e da numerosi altri. Nel campo
dell’antropologia il punto di vista strutturalistico è stato introdotto da
RadcliffeBrown a partire dalla sua introduzione all’opera African Systems of
Kinship and Marriage (1950) e diffuso nell’antropologia moderna da Levi-Strauss
(Anthropologie structurale, 1958 e spec. cap. XV). Ci sono anche tentativi di
estenderlo a tutto il dominio delle scienze umane. Nella sua esigenza più
generale, lo S. tende non soltanto a interpretare in termini di sistema un
campo specifico di indagine ma a mostrare come i diversi sistemi specifici,
verificati in diversi campi (per es. nell’antropologia, nell'economia e nella
linguistica), si corrispondano o abbiano tra loro caratteri analoghi.
Levi-Strauss ad es. ritiene possibile che una stessa struttura possa essere
riscontrata a tre livelli della società: nel senso che le regole della
parentela e del matrimonio servono ad assicurare la comunicazione delle donne tra
i gruppi come le regole economiche servono ad assicurare la comunicazione dei
beni e dei servizi e le regole linguistiche la comunicazione dei messaggi
(Anthropologie structurale, cap. III, pag. 95). Lo S. è schierato polemicamente
contro tre fronti: lo storicismo, l’idealismo e l’umanesimo. Contro lo
storicismo, che è sostanzialmente una considerazione /ongitudinale della realtà
cioè una interpretazione di essa in termini di divenire, sviluppo o progresso,
afferma il primato di una concezione rrasversale (cross-tion) cioè di una
concezione che considera la realtà stessa come un sistema relativamente
costante o uniforme di relazioni. Il sistema non è certo ritenuto dallo S.
statico o immobile perché si ammette una considerazione diacronica oltre che
sincronica del sistema stesso; ma si subordina la considerazione diacronica a
quella sincronica, considerando i mutamenti temporali come trasformazioni nelle
relazioni costituenti un sistema o oscillazioni di queste trasformazioni
intorno al limite costituito dal sistema stesso. Contro l’idealismo, lo S.
afferma l’oggettività di ogni sistema di relazioni che, anche quando è
concepito come un modello concettuale cioè una costruzione scientifica, non è
ridotto a un atto o una funzione soggettiva ma ha come funzione fondamentale
quella di spiegare il maggior numero di fatti accertati. Infine, contro
l’umanesimo lo S. afferma la priorità del sistema sull'uomo: delle strutture
sociali sulle scelte individuali, della lingua sul parlante singolo e in
generale dell’organizzazione economica o politica sugli atteggiamenti
individuali. Sapir ha scritto: « Le lingue sono per noi qualcosa di più che
sistemi di comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili che si
drappeggiano intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di tutte le
sue espressioni simboliche » (Language, 1922, cap. XI, trad. ital, pag. 218).
Secondo Althusser, la struttura globale della società determina tutte le sue
manifestazioni al modo in cui la Sostanza di Spinoza determina tutti i suoi modi
(Lire Le Capital, 1965, IX, trad. ital., pag. 196 sgg.). Questo determinismo è
una conseguenza dell’interpretazione realistica del concetto di struttura
mentre è esclusa dall’interpretazione di esso come modello (v.) 0 costrutto
ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse. Tuttavia poichè storicismo,
idealismo e umanesimo indeterministico sono stati i tratti caratteristici del
clima idealistico dalla prima metà del ’900, lo S., nelle sue varie forme,
denuncia il dissolversi di questo clima nella cultura contemporanea. STURM UND
DRANG. Con questa espressione, che è il titolo di un dramma di Massimiliano
Klinger del 1776 e significa « tempesta e impeto », s'intende un movimento
filosofico e letterario che ebbe luogo in Germania nella seconda metà del sec.
XVII e che costituisce l’antecedente immediato del Romanticismo. Gli
atteggiamenti propri di questo movimento sono quelli che, per l'appunto,
possono essere simboleggiati dalle due parole in questione. Si tratta di
atteggiamenti irrazionalistici che trovano la loro espressione filosofica nelle
dottrine di Haman, Herder e Jacobi: le quali prendono atto STURM UND DRANG dei
limiti che Kant aveva imposti alla ragione solo per procedere al di là della
ragione stessa e far appello all’esperienza mistica o alla fede (v. FEDE,
FiLosoFia DELLA). Dallo «S. und Drang» si passa al Romanticismo quando dal
concetto kantiano della ragione finita — alla quale si contrappone la fede o il
sentimento, cui si attribuisce il potere conoscitivo più alto — si passa al concetto
della ragione infinita o capace di raggiungere l’Infinito, che comincia con
Fichte: al quale infatti si deve la prima ispirazione del Romanticismo (v.).
SUAREZISMO (ingl. Suarezianism; franc. Suarezisme). La dottrina dello spagnolo
Francisco Suarez (1548-1617) che costituisce la principale manifestazione
filosofica della Controriforma cattolica. Essa è costituita sostanzialmente da
un deciso e rigoroso ritorno al tomismo: le Disputationes metaphysicae di
Suarez sono un manuale sistematico di metafisica tomistica. Suarez tuttavia
fece una concessione importante all’indirizzo della scolastica del sec. xrv,
ammettendo l’individualità del reale cioè riconoscendo che una cosa singola è
tale di per se stessa e non per la materia o per la forma o per un qualsiasi
altro principio. Si scostò pure dal tomismo nella dottrina politica esposta nel
De Legibus (1612), asserendo che il potere temporale dei prìncipi deriva
soltanto dal popolo; e ciò per privilegiare di fronte ad esso il potere
ecclesiastico, derivante immediatamente da Dio. SUBALTERNAZIONE (lat.
Subalternatio ; inglese Subalternation; franc. Subalternation; ted.
Subalternation). Con questo termine o con quello di opposizione subalterna si
indica il rapporto tra la proposizione universale e la proposizione particolare
corrispondente della stessa qualità; per es., tra « ogni uomo è giusto » e «
qualche uomo è giusto è; o tra « nessun uomo è giusto » e « qualche uomo non è
giusto ». La proposizione universale si chiama subalternante e quella
particolare subalternata (PIETRO Ispano, Summ. Log., 1.14); JunGIuUs, Log.
Hamburgensis, II, 9, 15; B. HERDMANN, Logik, $ 70). Hamilton ha chiamato
restrizione la S. (Lectures on Logic) (v. QUADRATO DEGLI oPPOSTI).
SUB-CONTRARIA, PROPOSIZIONE (latino Propositio sub-contraria; ingl.
Sub-contrary Proposition; ted. Subcontràrsatz). Nella logica tradizionale si
chiamano così, nel loro rapporto reciproco, la proposizione particolare
affermativa e quella particolare negativa: per es., « qualche uomo corre» e
«qualche uomo non corre» (cfr., ad es., Pietro Ispano, Summ. Logicales, 1.13)
(v. QuaDRATO DEGLI OPPOSTI). SUBCONTRARIETAÀ (lat. Subcontrarietas; inglese
Subcontrary; franc. Subcontraire; ted. Subcontràr). Il rapporto di opposizione
tra proposizioni SUBLIME 849 particolari. Ad es., « Socrate corre », « Socrate
non corre + (Pietro Ispano, Sum. Log., 1.27). Talvolta, il rapporto tra
possibile e non necessario (JunGiUS, Logica Hamburgensis, II, 12, 29).
SUBCOSCIENTE (ingl. Subconscious; francese Subconscient; ted. Unterbewusst). Lo
stesso che inconscio. Alcuni psicologi francesi del secolo scorso hanno cercato
di distinguerlo da inconscio considerandolo come coscienza debole o diminuita
(Ribot, Janet, ecc.). Ma la distinzione è apparsa fallace e il termine stesso è
caduto in disuso (v. INCONSCIO). SUBLIMAZIONE (ingl. Sublimation; franc.
Sublimation; ted. Sublimierung). Un meccanismo psicologico di difesa che
consiste nella trasformazione degli impulsi sessuali in attività psichiche
superiori e specialmente nella produzione artistica. Il meccanismo fu così
descritto da Freud: « Le eccitazioni eccessive che derivano da sorgenti
differenti della sessualità trovano una derivazione e una utilizzazione in
altri domini, in modo che le disposizioni che all’inizio erano pericolose
produrranno un aumento apprezzabile nelle attitudini e nelle attività psichiche
» (Trois essais sur la théorie de la sexualité, trad. franc., pag. 177).
SUBLIME (gr. tyoc; lat. Sublime; ingl. Sublime; franc. Sublime; ted. Erhaben).
1. Una forma linguistica, letteraria o artistica che esprima sentimenti o
atteggiamenti particolarmente elevati o nobili. In loro, distinzione che non
deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare passioni » (Inquiry into the
Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, 1756, MII, 27). Il terrore,
il dolore in generale, le situazioni di pericolo sono la causa del S. (Zbid.,
IV, 5). Come questa causa possa produrre un godimento (poichè il S. è un
godimento) è problema che Burke risolve al modo stesso in cui l’aveva risolto
Hume, che a sua volta si era ispirato a Fontenelle (Réflexions sur la poétique,
$ 36): Il godimento deriva dall’esercizio cioè dal movimento, che il dolore e
il terrore provocano nell'animo, quando sono liberati dal pericolo reale della
distruzione. In questo caso si produce, dice Burke, non un piacere ma « una
specie di dilettoso orrore, di tranquroporzionata alle facoltà sensibili
dell’uomo (S. matematico) o di una potenza terrificante per queste stesse
facoltà (S. dinamico); 2° il sentimento di poter operare il riconoscimento di
quella sproporzione o di quella minaccia, e perciò di essere superiore all’una
o all’altra. «La qualità del sentimento del sublime, dice Kant, è che esso è,
nei confronti di un oggetto, un sentimento di pena, che è rappresentato insieme
come finale; il che è possibile perchè la nostra propria impotenza rivela la
coscienza di una potenza illimitata dello stesso soggetto e il sentimento può
giudicare esteticamente quest’ultima solo attraverso la prima» (Crit. del
Giud., $ 27). Kant pertanto definisce il S. come «ciò che piace immediatamente
per la sua opposizione all’interesse dei sensi » (/bid., $ 29, Oss. generale):
intendendo con questo che, avvertendo la sproporzione o il pericolo che il S.
rappresenta per la sua natura sensibile, l’uomo si rende conto che, per via di
questo stesso avvertimento, egli non è schiavo di tale natura ma libero di
fronte ad essa. Federico Schiller non fece che esporre e chiarire le idee
kantiane dicendo che «si chiama S. un oggetto alla cui rappresentazione la nostra
natura fisica sente i propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra natura
ragionevole sente la propria superiorità, la sua indipendenza da ogni limite:
un oggetto rispetto al quale siamo fisicamente deboli mentre moralmente ci
eleviamo sopra di esso con le idee» (Vom Erhabenen, 1793). Egli distinse il S.
superamento delle espressioni, è la sublimità; la quale perciò non consiste,
come Kant ritenne, nella pura soggettività del sentimento e nel suo potere di
elevarsi alle idee della ragione, ma piuttosto ha il suo fondamento nel
significato rappresentativo, per cui si riferisce ad una Sostanza assoluta »
(/bid., pag. 484). Hegel pertanto vide nel S. una forma speciale dell’arte e
precisamente l’arte simbolica. Al dolore o alla situazione in pericolo, che per
l’estetica del *700 costituisce la causa del S., egli sostituì
l’inesprimibilità e la maestà della Sostanza infinita. Schopenhauer si limitò
invece a riproporre la dottrina tradizionale e ritenne che il S. si ha quando
«quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contemplazione
pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere, quale si
palesa nella sua oggettività — nel corpo umano — e si oppongono ad essa o la
minacciano con la loro forza SUBLIMINALE superiore » (Die Welr, I, $ 39).
L'ultimo a riesporre il concetto del S. in questi termini è stato Santayana: «
La suggestione del terrore ci fa ritirare in noi stessi e qui interviene di
rimbalzo la coscienza della sicurezza o dell’indifferenza e noi abbiamo quell’emozione
di distacco e di liberazione nella quale consiste realmente il S. » (The Sense
of Beauty, 1896, $ 60). SUBLIMINALE (ingl. Subliminal; franc. Subliminal; ted.
Subliminal). Lo stesso che inconscio. Il termine fu reso popolare da F. Myers
(Human Personality and its Survival of Bodily Death, 1i finale o terminale...
Il mondo non si ferma quando la persona che ha avuto S. ha raggiunto il fatto
suo nè si ferma egli stesso e la specie di S. che egli ottiene, nonchè il suo
atteggiamento rispetto ad esso, è un fattore di ciò che verrà dopo +» (Human
Nature and Conduct, pag. 254). SUDDIVISIONE. V. Divisione. SUFFICIENTE, RAGION.
V. FONDAMENTO. SUFISMO (ingl. Sufism; franc. Sufisme; ted. Sufismus). Il
misticismo arabo-persiano (cosiddetto dal pelo di cammello di cui era fatto il
mantello dei SUICIDIO 851 suoi seguaci) che si sviluppò a partire dal sec. vmi
per influsso del cristianesimo e che culminò nel neoplatonismo di Algazali
(sec. x1) (cfr. J. A. ARBERRY, Sufism, 1950). SUGGESTIONE (ingl. Suggestion;
franc. Suggestion; ted. Suggestiodal corpo. Questo è l’argomento addotto contro
il S. da Plotino, il quale dice che «quando si fa violenza al corpo per
distaccarlo dall’anima non è il corpo che lascia partire l’anima, ma la
passione a decidere, cioè la noia, il dolore o la collera » (Enn., I, 9).
Questa è sostanzialmente anche la ragione addotta da Schopenhauer secondo il
quale «il S. lungi dall’essere negazione della volontà è invece un atto di
forte affermazione della volontà stessa » perchè « il suicida vuole la vita ed
è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate» (Die Welt, I, $ 69).
3° Perchè è la trasgressione di un dovere verso se stesso, in quanto, come dice
Kant, «l’uomo è obbligato alla conservazione della propria vita unicamente per
il fatto che è persona » (Mer. der Sitten, II, parte I, $ 6). 4° Perchè è un
atto di viltà. Fichte a questo proposito osservava che esso può essere
considerato ugualmente come un atto di coraggio. Se difatti al suicida manca il
coraggio di « sopportare una vita divenuta insopportabile », il S. compiuto con
fredda meditazione è l’espressione del dominio della ragione sulla natura cioè
sull’impulso all’autoconservazione. «In confronto con l’uomo virtuoso,
concludeva Fichte, il suicida è un vile; in confronto con il miserabile che si
sottomette alla vergogna e alla schiavitù per prolungare per qualche anno il
sentimento meschino della sua esistenza, è un eroe » (Sittenlehre, 1798, in
Werke, IV, pag. 268). 5° Perchè è ingiusto verso la comunità cui il suicida
appartiene. Questa è la ragione addotta da Aristotele (Et. Nic., V, 11, 1138a
9). A questo argomento Hume obiettava che le obbligazioni dell’uomo e della
società sono reciproche: sicchè la morte volontaria non scioglie solo quelle
dell’uomo verso la società ma anche quelle della società verso l’uomo (0f
Suicide, in Essays, cit., pag. 413). Dall'altro lato i filosofi hanno ritenuto
lecito o doveroso il S. in base ai seguenti motivi: 1° Perchè può essere un
dovere rinunciarealla vita quando il continuare nella vita renderebbe
impossibile adempiere il proprio dovere. Così pensavano gli Stoici, dei quali
Cicerone così espone la dottrina: « Chi ha in maggior numero le cose conformi a
natura ha il dovere di rimanere in vita; chi invece ha o si crede destinato ad
avere in maggior numuna meta e un erede, vuole la morte all’ora giusta e per la
sua meta e per il suo erede» (Also sprach Zarathustra, I, Della libera morte).
3° Perchè può essere la via d'uscita da una situazione insostenibile e il solo
modo per salvare la propria dignità e libertà. Da questo punto di vista Hume
affermava che « Il S. è in accordo con il nostro interesse e con il dovere
verso noi stessi: ciò non può essere messo in dubbio da alcuno il quale
riconosca che l’età, la malattia e la disgrazia possono rendere la vita un peso
insostenibile e renderla peggiore dell’annichilamento » (Of Suicide, in Essays,
cit., pag. 414). Nella filosofia contemporanea Jaspers ha addotto lo stesso
argomento in favore del S. (Phil., II, pag. 303 sgg.). E Sartre ha scritto: «Se
sono mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra: essa è a mia
immagine ed io la merito. La merito in primo luogo perchè potevo sottrarmici
con il S. o con la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci
presenti quando si tratta di affrontare una situazione » (L’érre et le néant,
pag. 639). SUI GENERIS. Espressione usata in frasi scolastiche come questa: «
Ogni cosa è misurata da qualcosa che è del suo genere»: per es., la lunghezza
dalla lunghezza, il numero dal numero, ecc. La frase può essere assunta come
premessa per affermare che, dal momento che Dio è la misura di tutte le
sostanze, egli è nel genere delle sostanze. Ma la dottrina scolastica su questo
punto è, al contrario, che Dio non è in alcun genere per quanto sia principio
del genere delle sostanze e di tutti gli altri generi (cfr. S. TomMAso, S. Th.,
I, q. 3, a. 5; Contra Gent., I, 25). SUMMA. Con questo termine si cominciò ad
indicare nel sec. xIl una breve trattazione sistematica di un certo complesso
di conoscenze. Abelardo scriveva nella prefazione alla sua Introduzione alla
teologia: «Ho scritto una summa della sacra erudizione, come introduzione alla
divina scrittura » (P. L., 68°, col. 979). Le S. prendevano abitualmente il
titolo dalla materia trattata (S. de vitiis et virtutibus; S. de articulis
fidei; S. sermonum; S.grammaticalis; S. logicalis; ecc.). A partire dal 1200
circa, il termine cominciò a essere preferito a quello di Sententiae nel titolo
delle esposizioni sistematiche della teologia. L’opera di Pietro da Capua
(composta verso il 1200) porta già nei manoscritti il titolo di Summa. Nelle
grandi opere sistematiche del xm secolo il termine S. è usato quasi
esclusivamente (cfr. M. GRABMANN, Geschichte der scholastischen Methode, II,
pag. 23 sgg.). SUNNITI (ingl. Sunnites; franc. Sunnite; tedesco Sunniten). La
corrente ortodossa dell’Islam la quale ammette la validità di credenze pratiche
non prescritte dal Corano ma di cui si fa risalire l'origine allo stesso
Maometto. Gli Sciiti sono invece i negatori del valore della tradizione.
SUPERADDITA, FORMA. Questa espressione venne desunta da Telesio dagli
scolastici di ispirazione scotistica per designare l’anima soprannaturale,
direttamente infusa nell'uomo da Dio, che Telesio ammise accanto all’anima
naturale e materiale, come soggetto della vita religiosa e della aspirazione
dell’uomo verso ciò che è al di là della natura. A differenza dell’anima
naturale, la forma S. non sarebbe soggetta alla corruzione (De rer. nat., V,
3). SUPERANIMA (ingl. Oversoul). Così R. W. Emerson chiamò Dio, concepito come
il principio immanente nel mondo e nell’uomo (Narure, 1836). SUI GENERIS
SUPERARE (ingl. 7o Sublate; franc. Dépasser; ted. Aufheben). Termine adoperato
da Hegel per indicare il procedimento della dialettica che nello stesso tempo
conserva e abolisce ciascuno dei suoi momenti. «La parola S., diceva Hegel, ha
nella lingua un duplice senso per cui significa da un lato conservare, ritenere
e dall’altro far cessare, metter fine. Il conservare racchiude già in sè il
negativo, che qualcosa sia tolto alla sua immediatezza e quindi da un'esistenza
aperta agli influssi estranei, al fine di ritenerlo. Così il superato è insieme
un conservato il quale ha perduto soltanto la sua immediatezza ma non perciò è
annullato » (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, nota; trad.
ital., pag. 105-06). Per quanto Hegel, nello stesso passo avvicini il
significato del termine tedesco al latino fo/lere, l’uso italiano ha sancito
l’equivalenza del termine con superare. Superamento significa di conseguenza un
progresso che ha conservato ciò che c’era di vero nei momenti precedenti e lo
ha portato alla completezza. Come esempio del concetto, si può addurre quello
che Hegel dice del superamento nel dominio della filosofia. «Ogni filosofia è
stata necessaria e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa anzi tutte sono
conservate affermativamente nella filosofia come momenti di un tutto: i
princìpi si conservano e la filosofia più recente è il risultato di tutti i
princìpi precedenti: in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò che
è stato confutato, non è il principio di una data filosofia ma solo la pretesa
che essa rappresenti la conclusione ultima, assoluta » (Geschichte der
Philosophie, I, Intr., A, 3, Db). È un termine di cui ha fatto uso ed abuso la
terminologia dell’idealismo italiano tra le due guerre. SUPERBIA (gr. xxuvérng;
lat. Superbia; inglese Pride; franc. Orgueil; ted. Hochmuth). Il vizio
corrispondente alla virtù della magnanimità (v.) e che ha come estremo opposto
la pusillanimità, nell’etica di Aristotele. Dice Aristotele: «I superbi sono
stolti perchè s’ingannano su se stessi: intraprendono imprese onorevoli
credendo d’esserne degni ma fanno così solo risultare la loro insufficienza »
(Er. Nic., IV, 3, 1125 a 27). Questa definizione è rimasta ferma nella
tradizione e molte volte ripetuta. Diceva Spinoza: « La S. è una gioia
originata dal fatto che l’uomo sente di sè più del giusto » (Zbid., III, 26,
Scol.). SUPERCOSCIENZA (franc. Supraconscience). Termine adoperato da Bergson
per indicare una « pura attività creatrice» o una « pura coscienza », quale
egli esclude che sia la vita (Évol. Créarr., 8 ediz., 1911, pag. 267, 283,
ecc.). SUPsenziale » (De divinis nominibus, II, in P. L., 122°, col. 1122); e
Scoto Eriugena il termine superessentia (De divis. nat., I, 14). E il termine
ricorre ancora nella tradizione mistica e teosofica. Maestro Eckhart parla di
Dio come di «una essenza superessenziale e un nulla S.» (Deutsche Mystiker des
XIV Jahrhunderts, ed. Pfeiffer, II, pag. 318-19). E la stessa qualifica ricorre
in Schelling (Werke, I, X, pag. 260) (v. TEOLOGIA; TRASCENDENZA). SUPERIORE
(lat. Superius; ingl. Superior; franc. Supérieur; ted. Hòher). 1. In senso
logico: più esteso, che ha maggiore estensione o denotazione. In questo senso
si dice « genere S. » o « concetto S.» o in generale «termine S.+. Quest’uso
rimonta alla logica terministica del sec. xrv (PIETRO Ispano, Summ. log., 2.08;
3.02; 12.13; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 49). 2. Ciò che
appartiene a una fase più progredita dell’evoluzione biologica: in tal senso si
dice «le specie S.» o «gli animali superiori ». 3. Ciò che appartiene alla
sfera delle funzioni spirituali o simboliche dell’uomo. In tal senso si dice «
funzioni S.» o «interessi superiori ». 4. Ciò che in un senso qualsiasi si
ritiene abbia un grado più alto di dignità o di valore, ad esempio «uomo S.» o
« forme d’arte superiori ». SUPERORGANICO (ingl. Superorganic; francese
Superorganique; ted. Ùberorganisch). Termine introdotto dal positivismo per
indicare ciò che è al di là della vita organica cioè la vita psichica o la vita
sociale e specialmente quest’ultima. Il termine è usato frequentemente da
Spencer. SUPERSTIZIONE (gr. Sera:daruovia; latino Superstitio; ingl.
Superstition; franc. Superstition; ted. Aberglaube). L’eccesso o le aberrazioni
della religione; oppure la forma di religione che non si condivide. Nel primo
senso, la S. fu definita da Cicerone: « Non solo i filosofi ma anche i nostri
antenati distinsero la S. dalla religione: quelli che per intere giornate
pregavano e immolavano vittime per ottenere che i loro figli fossero
‘superstiti” furono chiamati superstiziosi e tale nome 853 ebbe poi più vasta
estensione» (De nat. deor. II, 28, 71-72). Questa definizione fu
sostanzialmente ripetuta da S. Tommaso: « La S. è il vizio opposto per eccesso
alla religione e per il quale si presta un culto divino a chi non si deve 0 nel
modo indebito » (S. 7A., II, 2, q. 93, a. 1). Nel secondo senso definiva la S.
Hobbes affermando: «Il timore di potenze invisibili, se immaginate dallo
spirito o suggerite da racconti pubblicamente am-, è religione; se suggerite da
racconti non pubblicamente ammessi, è S.» (Leviath., I, 6). Ovviamente S. è
termine polemico: per lo studio obiettivo (antropologico o sociologico) delle
credenze non ci sono superstizioni. E quando si parla di S., lo si fa in
riferimento a un determato sistema di credenze religiose che si ritiene come
l’unico vero. Perciò ogni religione appare come S. ai seguaci di una religione
diversa; e l’unica descrizione esatta del termine è quella data da Hobbes.
SUPERUOMO (gr. srepdvipwros; ingl. Su perman; franc. Surhomme; ted.
Ùbermensch). Il termine che ricorre in Luciano (Cataplus, 16) e fu usato talora
per indicare l’uomo-Dio cioè il Cristo (cfr. T. Tasso, Lettere, V, 6) era
adoperato già dall’Ariosto (Or/. Fur., 38, 62) per indicare un’umanità fuori
del comune. Fu introdotto in Germania da Heinrich Miiller (Geistliche
Erbauungsstunden, 1664-66) e adoperato da molti scrittori del Romanticismo tedesco,
compreso Goethe (Faust, I, Notte). Ma soltanto da Nietzsche il termine ebbe un
significato filosofico e fu reso popolare. Il S. è l’incarnazione della volontà
di potenza: «L’uomo dev'essere superato. Il S. è il senso della terra... L'uomo
è una corda tesa tra la bestia e il S., una corda sull’abisso » (A/so sprach
Zara» thustra, I, 3). Il S. è l’incarnazione dei vil significato denotativo dei
termini che ricorrono nella proposizione, mentre il significato in senso
stretto è il significato connotativo (v. SigNIFICATO). La S. è in questo senso
definita come una positio pro alio, uno stare per o in luogo di qualche altra
cosa: nel senso che quando si dice, ad es., «l’uomo corre» il termine «uomo»
sta per Socrate, per Platone o per qualche altro (PIETRO IspanO, Summ. Log.,
6.03; OckHam, Summa Log. I, 63; BuripANO, Sophismata, 3; ALBERTO DI SASSONIA,
Logica, II, 1). Salvo che in alcuni particolari, la dottrina della suppositio
si presenta pressochè uniforme in tutti i logici del sec. xrv. Essi distinguevano
tre specie fondamentali di essa: la S. personale, la S. semplice e la S.
materiale. La Spersonale si ha quando il termine sta per l’oggetto significato
qualunque esso sia: o cosa esterna o parola o concetto o segno scritto o altro.
Così nelle frasi «l’uomo è un animale», «il nome è parte della proposizione »,
«la specie è un universale » i termini uomo, nome e specie hanno una S.
personale perchè stanno per i rispettivi oggetti. La S. semplice si ha quando
il termine sta in luogo, non dell’oggetto significato ma del concetto di esso.
Così quando si dice « l’uomo è una specie » il termine uomo non sta per gli
uomini ma per il concetto « uomo ». Infine la S. materiale si ha quando un
termine sta per la voce o per il segno scritto come nelle frasi «uomo è un nome»
o « sta scritto uomo » in cui l’uomo sta per la parola o per il segno scritto.
Ognuno di questi tipi di S. viene poi dai logici del x1v secolo diversamente
suddiviso e trattato nelle difficoltà e nei problemi che offre. Per dare
un’idea di tali problemi, ecco il modo in cui Ockham affronta la difficoltà
presentata dalla S. del termine «uomo» nella proposizione «l’uomo è la più alta
delle creature». Qui il termine uomo non può avere una S. semplice perchè non è
il concetto uomo ad essere la più alta delle creature; ma neppure una S.
personale perchè sostituendo a « uomo » un singolo uomo il giudizio risulta
falso. La soluzione è che la proposizione ha una S. personale ma che dev'essere
limitata dicendo che l’uomo è la più alta di tutte le creature che sono diverse
da lui: in questo caso la proposizione diviene vera dei singoli individui umani
(Summa Log., I, 66). La dottrina della S. fu abbandonata quando la logica
terministica fu abbandonata in favore della logica mentalistica sotto
l’influenza del cartesianesimo. I problemi da essa trattati vennero ereditati
dalla teoria del concetto (cfr. E. ARrNnOLD, Zur Geschichte der
Suppositionstheorie, in Symposion, II, 1954; E. A. Moopy, Truth and Consequence
in Mediaeval Logic). SURRETTIZIO (lat. Surreptitius; ingl. Surreptitious,
franc. Subreptice; ted. Erschlichen). Propriamente, nel significato latino del
termine, ciò che si possiede, si acquista o si fa, clandestinamente o senza
averne diritto. In filosofia, il terSURRETTIZIO mine viene specialmente usato
per indicare un presupposto o un'ipotesi di cui si fa uso in un ragionamento
senza esplicitamente assumerlo o dichiararlo. In questo senso, Kant chiamò
surrezioni delle sensazioni (« Subreptione der Empfindungen », Crit. R. Pura, $
6) le qualità sensibili che, sulla base delle sensazioni, si attribuiscono agli
oggetti empirici. SUSSISTERE (lat.
Subsistere; ingl. To Subsist; franc. Subsister; ted.
Subsistiren). Esistere come sostanza; o esistere indipendentemente dallo
spirito o dal soggetto pensante. Nel primo senso il termine (che nell’ordinario
uso latino significa persistere o durare) fu introdotto da Boezio (Phil. Cons.,
III, 11) e conformemente usato nella tradizione scolastica (Gn_.BERTO DE LA
PORRÉ, /n Boethi De Trinitate, P. L. 64°, 1281; S. ToMMaso, S. Th., I, q. 29,
a. 2). Ricorre nello stesso al modo d’essere degli universali e dai Neorealisti
americani a tutte le entità neutre, costituenti il mondo, che con la loro
aggregazione possono formare sia la coscienza sia le cose (The New Realism,
1912). Questo secondo significato è tuttora abbastanza diffuso nella filosofia
contemporanea. SUSSUNZIONE (lat. Subsumptio; ingl. Subsumption; franc.
Subsumption; ted. Subsumption). Propriamente, l’assunzione della premessa
minore del sillogismo; la quale fu detta da Hamilton hypolemma per riservare il
termine /emma (v.) alla premessa maggiore (Lectures on Logic, I?, pag. 283;
cfr. WOLFF, Log., $ 362). Kant parlò della «S. di un oggetto sotto un concetto
» (Cris. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I); e nello stesso senso Husserl
osservava che « la S. di un individuo, in genere di un questo qui, sotto
un'essenza, non è da confondere con la subordinazione di un’essenza ad una
specie o ad un genere superiori» (Ideen, I, $ 13). SVILUPPO (ingl. Development;
franc. Développement; ted. Entwicklung). Il movimento verso il SYNKATATHESIS
meglio. Per quanto questa nozione abbia il suo precedente nel concetto
aristotelico del movimento (v.) come passaggio dalla potenza all’atto o
esplicazione di ciò che è implicito (CICERONE, Top., 9) il suo significato
ottimistico è proprio della filosofia dell’800 ed è strettamente collegato con
il concetto di progresso (v.). Il suo stretto sinonimo è evoluzione (v.); ma
quest’ultimo termine è più frequentemente usato per indicare lo S. biologico o
uno S. cosmico che trae le sue ragioni o le sue analogie dallo S. biologico.
Senza riferimento a questo particolare aspetto, il termine fu usato da Hegel
che ne fece una delle categorie fondamentali della sua filosofia e lo illustrò
soprattutto rispetto al mondo della storia. Accanto al carattere progressivo
dello S., Hegel sottolineò un altro carattere fondamentale: lo S. presuppone
ciò di cui è S., cioè il fine verso cui muove e il principio o la causa di sè
stesso. «Lo spirito, disse Hegel, che ha come teatro, dominio e campo della sua
realizzazione, la storia del mondo, non si aggira nel gioco estrinseco del
caso, ma è piuttosto in sè il determinante assoluto... Ciò che esso vuole è
raggiungere il suo proprio concetto; ma esso stesso se lo oscura, si inorgoglilla
funzione del T. è dovuta a A. R. Radcliffe-Brown che ha scorto in esso uno
strumento per sottolineare la importanza sociale di eventi, operazioni,
divieti, norme, ecc. Il T. è in questo senso collegato a qualsiasi prescrizione
rituale (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VII). Freud ha
avvicinato il T. alla nevrosi ossessiva e ha visto tra le due cose quattro
punti di somiglianza e cioè: 1° la mancanza di motivazione dei divieti; 2° la
loro convalidazione mediante una necessità interiore; 3° la spostabilità e la
contagiosità degli oggetti proibiti; 4° la creazione di pratiche cerimoniali e
comandamenti derivanti dai divieti (Totem e T., 1913, cap. II; trad. ital.,
pag. 37). TABULA RASA (gr. rivat dypaghe). Espressione con cu(PLUTARCO, Plac.,
IV, 11; cfr. GaLeNO, Hist. Philos., 92; SESTO EMPIRICO, Adv. Math., VII, 228).
Lo stesso confronto si trova poi ripetuto frequentemente (FILONE, Leg. Alleg.,
I, 32; Boezio, Cons. Phil., V, 4; ecc.). Ma l’espressione « tavoletta non
scritta » si trova per la prima volta adoperata dal commentatore di Aristotele
Alessandro di Afrodisia (circa il 200 a. C.); e nel Medio Evo fu usata da S.
Tommaso (De An., a. 8, resp.; S. Th., I, q. 89, a. 1, ad 3°). L’immagine fu
fatta propria da Locke per esprimere la tesi dell’origine empirica di tutta la
conoscenza (Saggio, II, 1, 2) ed usata da Leibniz nella sua critica a questa
tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 1, 2). Da allora in poi l’espressione è rimasta
a indicare la tesi empiristica sull’origi25, 14-30) è quello di « una
superiorità del potere conoscitivo, che non dipende dall'insegnamento ma dalla
disposizione naturale del soggetto ». Questa è la definizione che dà del T.
TAUTOLOGIA Kant (Antr., I, $ 54): il quale distingue anche i T. in ingegno
produttivo, sagacia e originalità: quest’ultimo è il genio. Questa dottrina
kantiana è stata spesso ripetuta con poche varianti e si conserva nella stessa
psicologia moderna, la quale tuttavia accentua l’importanza dei cosiddetti T.
specifici. ‘TALMUD. Il termine che significa in ebraico «insegnamento » designa
la raccolta enciclopedica in aramaico della tradizione giudaica, compilata
durante ottocento anni (dal 300 a. C. al 500 d. C.) in Palestina e in
Babilonia. L’opera non è un semplice commentario del Vecchio Testamento ma il
sommario della filosofia, della teologia, della storia, dell'etica e del
folklore giudaico, accumulato durante otto secoli. Il 7. è composto di due
parti principali: il Mishnah compilato in Palestina e il Gemara che è un
commentario del primo. Il Gemara compilato in Palestina è chiamato insieme con
il Mishnah, T. di Gerusalemme; mentre il Gemara compilato in Babilonia è
chiamato, insieme con lo stesso Mishneh, T. di Babilonia (cfr. H. L. STRACK-P.
BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, Monaco,
1922-28). TANATISMO (ingl. Thanatism; ted. Thanatismus). Termine creato da E.
Haeckel per designare la sua dottrina della mortalità dell'anima, in opizione
ad atanatismo (v.). TAOISMO (ingl. Taoism; franc. Taoisme; tedesco Taoismus).
La dottrina di Lao-Tse (vissuto in Cina probabilmente nel vi secolo a. C.) e al
quale si attribuisce il Tao Té Ching cioè il Libro della via e della virtà. Di
fronte al carattere razionalistico, mondano e pratico dell’insegnamento di
Confucio, sta il carattere mistico, religioso e contemplativo dell’insegnamento
di Lao-Tse; nel quale sono rintracciabili tracce del panteismo metafisico delle
Upanishad. I due punti principali del T. sono: il monismo panteistico per cui
il tao che è la via per la salvezza è anche il principio unico dell’universo,
di cui ogni altra cosa è manifestazione; l’etica del mon fare cioè l’abbandono
all’azione immanente del principio cosmico e la rinuncia a interferire con esso
o a ostacolarlo. La traduzione italiana del Tao Té Ching è stata fatta da A.
Castellani con il titolo La regola celeste di Lao-Tse (Firenze, 1927) (cfr. A.
WALEY, The Way and Its Power, 1934). TASSONOMIA (ingl. Taxonomy; franc.
Taxinomie; ted. Taxinomie). La teoria della classificazione nelle scienze
naturali. Termine coniato e adoperato nel sec. xix. Sono chiamate tassonomiche
la botanica e la storia naturale. TATTO (ingl. Tact; franc. Tact; ted. Tact).
I. Uno dei cinque sensi: che Condillac chiamava «sentimento fondamentale» in
quanto esso è « il sentimento che la statua (v.) ha dell’azione reciproca delle
parti del corpo e specialmente dei movimenti della respirazione » (Traité des
sensations, II, 1). Il T. è anche, secondo Condillac, il senso da cui deriva la
nozione del mondo esterno (/bid., II, 8, 30 sgg.). 2. Sapienza di mondo o
esprit de finesse, come nelle frasi «aver T.» o «procedere con T.»1 o « parlare
con T.+, ecc. TAT TWAM ASI. Una delle norme fondamentali della filosofia della
Upanishad che significa alla lettera « questo sei tu» e prescrive a ogni uomo
di riconoscersi identico nel suo principio (o diman) con qualsiasi essere o
cosa che gli stia davanti: essendo il principio universale o Brakman identico
in tutti. La locuzione indiana ricorre specialmente nella Chandogya-Upanishad
(VI, 8, 7 sgg.). TAUTOLOGIA (ingl. Tautology; franc. Tautologie; ted.
Tautologie). Nella terminologia filosofica tradizionale, T. significava
genericamente un discorso (in particolare, una definizione) vizioso in quanto
inutile, perchè ripetente nella conseguenza, o nel predicato o nel definiens,
il concetto già contenuto nel primo membro: «M. de la Palisse un quarto d’ora
prima di morire era ancora in vita ». Solo nell’Algebra della Logica il termine
« T. » acquista un significato tecnico, in quanto si introducono con il nome di
/egge di T. i teoremi (1) ava=a, (2) ana=a[(1) l’affermazione disgiuntiva di
una medesima proposizione p con se stessa equivale alla semplice affermazione
di p; la somma di una classe « con se stessa è uguale alla semplice classe «;
(2) l’affermazione congiuntiva di una medesima proposizione p con se stessa
equivale alla semplice affermazione di p; l’interferenza di una classe « con se
stessa è uguale all’intera e semplice classe «]. Accanto a questa legge i
Principia Mathematica di Whitehead e Russell introducono un principio di T.:
pvp.> p. ll’affermazione disgiuntiva di una medesima proposizione p con se
stessa implica materialmente la stessa p: «se p O p, p*). In Wittgenstein
(Tractatus logico-philosophicus, 1922, 4.46) il concetto di T. acquista una
notevole importanza, venendo a designare una proposizione molecolare
(funzionale) il cui valore-verità è « vero » qualunque siano i valoriverità
delle proposizioni atomiche (variabili proposizionali) che la compongono; per
es., «pv — p* [« piove o non piove»). Wittgenstein, seguito a malincuore da
Russell, giungerà a stabilire che le matematiche pure (ivi compresa la Logica)
constte di norme morali o giuridiche (la legge delle XII tavole, le T. di
Mosè). Bacone chiamò T. le coordinazioni delle istanze cioè dei particolari
aspetti di un fenomeno (Nov. Org., II, 10) e distinse le T. di presenza, le T.
di assenza, le T. dei gradi o comparative e infine le T. esclusive (/bid., II,
11-13). Da Kant in poi si parla della « T. delle categorie » (v. CATEGORIA). TAVOLE
DI VERITÀ (ingl. Truth tables; franc. Tables de verité; ted.
Wahrheitsmòglichkeiten). Le T. costruite con il metodo delle matrici (v.) che
consente l’enumerazione completa delle possibilità di verità per un certo
numero di proposizioni semplici e così di riconoscere se una proposizione è
vera nel dominio del calcolo delle proposizioni. Tali T. sono costruite con i
simb«e» è valida solo nel caso che entrambe le proposizioni sono vere come
quando si dice « Piove e c'è umido».TAVOLA La disgiunzione si ha quando tra due
proposizioni si inserisce la parola «0?, rappresentata dal simbolo V, e può
avere nella lingua corrente due significati: un significato inclusivo (per il
quale «0» è in latino ve/) come quando si dice «Si può andare a Roma o per
questa o per quella strada », per il quale almeno una delle due proposizioni è
vera; e un significato esclusivo (per il quale «0» è in latino ant) come quando
si dice proponendo un’alternativa « Si va a Roma o a Parigi » nel qual caso
almeno una delle proposizioni è vera e almeno una è falsa. La T. di verità
della disgiunzione in generale è la seguente: p_l 4a | pVqa V V V V F V F V V F
F F la quale fornisce il criterio più generale per la validità di una
disgiunzione qualsiasi. Per la T. di verità del rapporto condizionale, espresso
mediante il connettivo se... allora e dal simbolo >, vedi i termini
IMPLICAZIONE e CONDIZIONALE. Sulla base di queste T. se ne possono costituire
altre più complesse, come la seguente che dà i valori di verità delle
combinazioni condizionali possibili tra le proposizioni condizionali e le
disgiuntive (cfr. TARSKy, /ntr. to Logic, $ 3): cioè per la funzione (p V g)=
(p.r), dove p, qg, r stanno per proposizioni qualsiasi:
|p>q|p.9|(.d=>p>N mg? è una proposizione falsa; unendo insieme
«(p=> g)=> (p= r)» si ottiene un’implicazione in cui l’antecedente è vero
e il conseguente è falso e che, in base alla T. delle implicazioni, è falsa.
L’uso delle T. può essere ed esteso e complicato quanto si vuole per tutti i
teoremi del calcolo delle proposizioni. Come già dalla T. dell’implicazione
materiale, derivano dalle altre T. conseguenze che TECNICA appaiono paradossali
dal punto di vista del linguaggio corrente: tra esse le seguenti: se g è vero,
allora g segue da qualsiasi p; 0, in altri termini, una proposizione vera segue
da qualsiasi altra proposizione; se p è falso, allora p implica un qualsiasi g;
o, in altri termini, una proposizione falsa implica nua qualsiasi altra
proposizione; quali che siano peg, o p implica g o q implica p; in altri
termini: almeno una di due proposizioni qualsiasi implica l’altra. Queste
conclusioni derivano dalle T. di verità, e soprattutto da quella
dell’implicazione, che costituiscono la semplificazione e generalizzazione
degli usi correnti nel linguaggio comune e nelle discipline scientifiche (al di
fuori della matematica) dove le relazioni puramente logiche tra le proposizioni
sono sottoposte ad altre condizioni più restrittive. Esse tuttavia continuano a
dar luogo tra gli stessi logici a discussioni che alcuni di essi (come Tarsky)
ritengono oziose. Come si è detto nell’articolo IMPLICAZIONE, la scuola
stoico-megarica, soprattutto per opera di Filone, ha dato per la prima volta la
T. dell’implicazione materiale. Nella logica moderna l’idea della T. è stata
ripresa da Boole (Marhematical Analysis of Logic, 1847), da Frege
(Begriffsschrift, 1879) e da Peirce (1885: cfr. Coll. Pap., 3.370 sgg.) ed è
stata diffusa da Wittgenstein (Tractatus LogicoPhilosophicus, 1921, 4.31).
TEANDRICO (ingl. Theandric; franc. Théandrique). Termine della teologia
cristiana: che si riferisce all'unione della natura umana e della natura divina
nella persona del Cristo. TEANTROPISMO (ingl. Theantrophism; francese
Théantropisme; ted. Theantropismus). 1. La dottrina dell’unione della natura
divina e dell’umana nella persona di Cristo. 2. Lo stesso che antropomorfismo
(v.). TECNICA (ingl. Techric; franc. Technique; ted. Technik). Il senso
generale del termine coincide con quello generale di arre (v.): comprende ogni
insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un’attività qualsiasi. La T.
in questo senso non si distingue nè dall’arte nè dalla scienza nè da qualsiasi
procedimento o operazione adatto a raggiungere un effetto qualsiasi; e il suo
campo si estende quanto quello di tutte le attività umane. Bisogna tuttavia
avvertire che a questo senso del termine, che è assai antico e generale, fa
eccezione il significato ad esso attribuito da Kant: che parlò di una T. della
natura per indicare la causalità di essa (Crit. del Giud.); ma negò che la
filosofia e specialmente la filosofia pratica potesse avere una T. perchè essa
non può contare su una causalità necessaria (Mer. der Sitten, Intr., $ ID. Il
859 presupposto di questo significato è tuttavia la riduzione della T. a
procedimento causale, laddove per T. è stato inteso (ed è meglio intendere) un
procedimento qualsiasi, regolato da norme e provvisto di una certa efficacia.
In questa sfera di significato generalissimo rientrano pertanto i procedimenti
più disparati che possono tuttavia dividersi, grosso modo, in due campi
diversi: 4) quello delle T. razionali che sono relativamente indipendenti da
particolari sistemi di credenze, perciò possono condurre a modificare tali
sistemi e sono esse stesse autocorreggibili; B) quello delle T. magiche e
religiose che possono essere messe in opera solo sulla base di particolari
sistemi di credenze e perciò non possono riuscire a modificarli e si presentano
esse stesse non correggibili o immodificabili. Queste T. costituiscono uno dei
due elementi fondamentali di ogni religione e possono essere designate con il
nome generico di riti (v.). Le T. razionali possono essere a loro volta
distinte in: 1° T. simboliche (conoscitive o estetiche) che sono quelle della
scienza e delle arti belle; 2° T. di comportamento cioè morali, politiche,
economiche, ecc.; 3° T. di produzione. 1° Le T. conoscitive e artistiche
possono essere chiamate T. simboliche perchè consistono essenzialmente nell’uso
dei segni. Esse si distinguono dai metodi (v.) che sono, strettamente parlando,
indicazioni generali sul carattere delle T. da seguire. Le T. simboliche
possono essere T. di spiegazione, T. di previsione, o T. di comunicazione: ma
queste distinzioni non sono mutuamente esclusive. 2° Le T. di comportamento
dell’uomo rispetto all’altro uomo coprono un campo estesissimo che comprende
zone disparate: vanno dalle T. erotiche a quelle della propaganda, dalle T.
economiche a quelle morali, dalle T. giuridiche a quelle educative, ecc. In
questo gruppo possono anche essere comprese le T. organizzative dirette a
cercare le condizioni per realizzare il rendimento massimo con il minimo sforzo
in tutti i domini dell'attività umana. Di queste T. si occupa la recronica (v.)
o prassiologia (v.). 3° Il terzo gruppo di T. è quello che concerne il
comportamento dell’uomo nei confronti della natura e che è diretto alla
produzione dei beni. La T. in questo senso ha sempre accompagnato la vita
dell’uomo su questa terra essendo l’uomo, come già notava Platone (Pror., 321
c) l’animale che la matura ha lasciato più sprovveduto ed inerme in tutta la
creazione. Un certo grado di sviluppo T. è pertanto indispensabile alla
sopravvivenza di qualsiasi gruppo umano; e la sopravvivenza e il benessere di
sempre più larghi gruppi umani sono condizionate dallo sviluppo dei mezzi 860
tecnici. Tra i filosofi, Francesco Bacone fu il primo a riconoscere, agli inizi
del sec. xvn, questa verità. Bacone concepì l’intera scienza come operante in
vista del benessere dell’uomo e diretta a produrre, in ultima analisi,
ritrovati che rendessero più facile la vita dell’uomo sulla terra. Quando nella
Nuova Atlantide volle dare l’immagine di una città ideale, non si fermò a
vagheggiare forme perfette di vita sociale o politica ma immaginò un paradiso
della T. dove fossero portati a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto
il mondo. Il sansimonismo (v.) e il positivismo (v.) dell’800 hanno condiviso
l’esaltazione baconiana della tecnica. Solo a partire dalla fine del secolo
scorso e nei primi decenni del nostro secolo, ha cominciato a delinearsi quello
che oggi si chiama il problema della T.: cioè il problema fatto nascere dalle
conseguenze che lo sviluppo della T. del mondo moderno produce nella vita
singola e associata dell’uomo. Il contrasto tra l’uomo e la T. è stato prima
della seconda guerra mondiale, il tema preferito della letteratura
profetizzante. I profeti della decadenza e della morte della civiltà
dell’Occidente (per es., O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik, 1931), i
difensori della spiritualità pura (per es., D. RoPs, Le monde sans dime, 1932)
avevano già additato nella macchina la causa diretta o indiretta della
decadenza spirituale dell’uomo. Il mondo in cui domina la macchina è, secondo
queste diagnosi, un mondo senz'anima, livellatore, mortificante: un mondo nel
quale la quantità ha preso il posto della qualità e in cui il culto dei valori
dello spirito è stato sostituito dal culto dei valori strumentali e utilitari.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale queste accuse sono state ribadite ed
ampliate. Esse sono presenti in tutta l’opera di Albert Camus (cfr., ad es., Ni
bourreaux ni victimes, 1946). Altri hanno visto il male del macchinismo nello «
sradicamento » che esso produce nell’uomo (S. WEIL, L’Enracinement, 1948).
Altri ancora coinvolgono, nella condanna della T., la « ragione » che ne
sarebbe il principio o accarezzano l’utopia di un ritorno alla produzione
artigianale (M. DE CORTE, Essai sur la fin d’une civilisation, 1949; L.
DuPLESSY, La machine ou l’homme, 1949). Dall’altra parte, a partire dall'opera
di HussERL, La crisi delle scienze europee (1954) la T. e la scienza su di cui
essa si fonda sono state spesso considerate come una degradazione o un
tradimento della Ragione autentica perchè asserviscono la ragione a scopi
utilitari mentre il suo vero compito è la conoscenza disinteressata
dell’essere, cioè la contemplazione. Questo concetto rimane la base di tutte le
critiche che sono rivolte alla società contemporanea in quanto fondata sulla T.
e ritenuta dominata dalla tecnocrazia: per esse quindi vedi quest’ultima voce.
TECNICA Ma esiste oggi una vasta letteratura che, pur senza muovere da una
pregiudiziale metafisica, ideologica o teologica contro la T., ne mette in luce
gli aspetti negativi, che possono riassumersi nei punti seguenti: 1° Lo
sfruttamento intensivo delle risorse naturali al di là del limite del loro
spontaneo ripristino e quindi il rapido e progressivo impoverimento di tali
risorse. 2° L'inquinamento dell’acqua e dell’aria, dovuto agli scarichi
industriali, al moltiplicarsi dei mezzi meccanici di trasporto e all’addensarsi
della popolazione. 3° La distruzione del paesaggio naturale e dei monumenti
storici e artistici, dovuta al moltiplicarsi degli impianti industriali e
all’estensione indiscriminata dei centri abitati. 4° L’assoggettamento del lavoro
umano alle esigenze dell'automazione, che tende a fare dell’uomo un accessorio
della macchina. 5° L’incapacità della T. di venire incontro ai bisogni
estetici, affettivi e morali dell'uomo; quindi la sua tendenza a favorire o
determinare l’isolamento degli individui e la loro incomunicabilità reciproca.
Nei confronti dei primi tre fattori negativi si può ricorrere a una
controtecnica che è essa stessa una T. (o un insieme di T.) diretta a
controbilanciare o a correggere gli effetti devastatori della T.: controtecnica
che è già fornita di mezzi potenti e che può diminuire, se non
controbilanciare, gli effetti di quella devastazione. Gli aspetti 4° e 5°
concernono invece il piano umano, morale e politico e vengono solitamente
ritenuti come costituenti il fenomeno dell’alienazione (v.). La T., sia nelle
sue forme primitive sia in quelle raffinate e complesse che ha assunto nella
società contemporanea, è uno strumento indispensabile per la sopravvivenza
dell’uomo. Il suo processo di sviluppo appare irreversibile perchè solo ad esso
rimane affidata la possibilità della sopravvivenza del numero sempre crescente
degli esseri umani e il loro accesso a un più alto tenore di vita. Anche la
differenza tra la T. e la scienza, sulla quale talvolta si continua ad insistere,
sembra ridursi o sfumare dal punto di vista dei compiti che si attribuiscono
oggi alla scienza (v.). L’unico rimedio ai reali pericoli della T. sembra oggi,
non la rinuncia alla T. stessa, ma il suo rafforzamento e il suo sviluppo in
tutti i campi: cioè da un lato la ricerca di nuovi strumenti che, oltre al
controllo della natura, ne assicurino la salvaguardia; e dall’altro la ricerca
di nuove T. di comportamento interumano che possano controllare e correggere
gli effetti maligni delle T. produttive sull’uomo. E la sola speranza
ragionevole che questo TEISMO possa accadere è fondata sul fatto che la stessa
T. produttiva esige, in sempre maggior misura, da parte, dell’uomo, quelle
capacità di iniziativa, di immaginazione creativa e di solidarietà interumana
che il sistema tecnologico sembra minacciare. TECNICISMO (ingl. Technicism;
ted. Technizismus). 1. Lo stesso che tecnica. Kant adopera il termine per
indicare la tecnica della natura cioè il meccanismo (Crit. del Giud., $ 78). 2.
L'uso di parole o frasi appartenenti a un linguaggio tecnico o una parola o
frase appartenente a tale linguaggio. TECNOCRAZIA (ingl. Technocracy; francese
Technocratie; ted. Technokratie). L'uso della tecnica come strumento di potere
da parte di dirigenti economici, capi militari, uomini politici, per la difesa
dei loro interessi, ritenuti concordanti o unificati e il controllo della
società intera. Questo è almeno il concetto di T. che si trova esposto negli
scrittori più qualificati (per es., C. W. MILLS, The Power Elite, 1956); e che
consente di definire la T. come «la filosofia autocratica delle tecniche » (G.
Simonpon, Du mode d’existence des objets techniques, 1958). Contro la T. si
appuntano perciò le critiche più radicali rivolte alla società contemporanea.
Ad essa viene addossata non solo la responsabilità di tutti i mali della
tecnica (per i quali vedi TECNICA) e di non volere o poter far nulla per
eliminarli, ma anche quella di eliminare o bloccare la libertà di scelta
dell’uomo in tutti i campi della sua attività (dal lavoro al divertimento) con
una determinazione dall’interno che gli impedisce di esercitare la sua ragione
critica e reprime il suo istinto vitale e la libera ricerca della sua felicità:
«L’apparato produttivo, ha scritto Marcuse, tende a diventare totalitario nella
misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti
socialmente necessari, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali... La
tecnologia serve a istituire nuove, più effettive e più piacevoli forme di
controllo e di coesione sociale » (One Dimensiona! Man, 1964, pag. xv). Da
questo punto di vista la T. (detta anche « The Establishment » o «Il sistema »
per antonomasia) eserciterebbe un determinismo necessitante su tutte le
attività umane e impedirebbe e bloccherebbe ogni forma di critica sociale, ogni
possibilità di trasformazione. Dall'altro lato però si ammette (come fa lo
stesso Marcuse, Ibid., pag. 238) che «una razionalità post-tecnologica » possa
trasformare la tecnica stessa in strumento di pacificazione e organo dell’arte
della vita e in tal caso la funzione della ragione, il cui uso strumentale ha
dato origine alla T., convergerebbe con la funzione dell’arte. Dall’altro lato,
si mette in dubbio il carattere monolitico e necessitante della tecnocrazia.
Gal861 braith parla di una tecnostruttura per indicare la formazione
pluralistica e composita dei gruppi che dirigono la società industriale e
ammette la possibilità di minimizzare la subordinazione delle credenze ai
bisogni del sistema industriale e di scorgere in quest’ultimo solo « una parte
e relativamente una parte in diminuzione, della vita +, che può essere
subordinata ai fini estetici che costituiscono la dimensione della vita stessa
e rendono possibile la libertà dell’individuo (7fe New Industrial State, 1967,
pag. 399). Una connotazione « non peggiorativa » della T. è anche talora
presentata correlativamente al concetto più composito che si ha oggi di classe
sociale (cfr., ad es., A. TOURAINE, La société pos-industrielle, 1969, cap. I).
TECNOLOGIA (ingl. Technology; franc. Technologie; ted. Technologie). 1. Lo
studio dei procedimenti tecnici di un determinato ramo della produzione
industriale o di più rami. 2. Lo stesso che tecnica. 3. Lo stesso che
tecnocrazia. TECTOLOGIA. Termine creato dal filosofo russo A. Bogdanov per
indicare una «scienza organizzatrice universale» cioè una scienza che insegni a
costruire il mondo a partire dagli elementi neutri dati nell’esperienza
(Tekrologija, 1922). Questa disciplina che si occupa anche, in particolare,
dell’organizzazione di tutte le attività utili dell’uomo allo scopo di
determinare le condizioni del loro massimo rendimento è stata poi chiamata, in
quest’aspetto, prassiologia (v.) da Kotarbinsky. Essa si integra con la teoria
dell’organizzazione e dell’amministrazione, con l’economia politica e con la
cibernetica (cfr. CauDE, MoLES e altri, Méthodologie vers une science de
l'action, Paris, 1964). TEISMO (ingl. Theism; franc. Théisme; tedesco
Theismus). Il termine adoperato fin dal sec. xvn per indicare genericamente la
credenza in Dio, in opposizione ad ateismo (così lo adopera ancora VOLTAIRE,
Dictionnaire philosophique, a. Théiste) fu definito da Kant nel suo significato
specifico, in opposizione a deismo (v.). Dice Kant: « Chi ammette soltanto una
teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia
naturale, teista. Il primo ammette che noi possiamo conoscere con la semplice
ragione un Essere originario di cui abbiamo un concetto solo trascendentale,
come di un Essere che ha ogni realtà ma che non si può determinare di più. Il
secondo afferma che la ragione è in grado di poter determinare di più l'oggetto
secondo l’analogia con la natura cioè di poterlo determinare come un Essere che
per intelletto e libertà contenga in sè il principio originario di tutte le
altre cose. Quello rappresenta questo Essere solo come una causa del mondo
(rimanendo indeciso se si tratti di una causa che 862 agisca per la necessità
della sua natura o per la libertà); questo lo rappresenta come un creatore del
mondo » (Crit. R. Pura, Dial. Trasc. III, sez. 7). In altri termini, il deista
può essere anche panteista e credere nella necessità del rapporto tra Dio e il
mondo, per quanto possa anche non esserlo; il teista si contrappone al
panteista. Inoltre procedendo al di là di ciò che la pura ragione lo consente
di credere, il teista afferma di Dio qualità o caratteri che sono testimoniati
non dalla ragione ma dalla rivelazione; e in questo senso, come Kant dice più
oltre, nello stesso passo, egli crede in un « Dio vivente» (cfr. anche Crit.
del Giud., $ 72). Queste notazioni kantiane hanno fissato il significato del
termine nell’uso contemporaneo, per il quale T. si contrappone non solo ad
ateismo ma anche a deismo e a panteismo ed ammette che Dio sia persona per
quanto in un senso più alto di quello che solitamente è attribuito all’uomo. Il
T. è in questo senso un aspetto essenziale dello spiritualismo (o personalismo)
contemporaneo, specialmente nella sua reazione all’idealismo romantico, che è
sempre tendenzialmente panteistico. Il T. è stato pertanto esplicitamente
difeso sia dallo spiritualismo che costituì la reazione allo hegelismo classico
(Fichte junior, Lotze, ecc.) o al positivismo (Renouvier, Boutroux, ecc.) sia
dallo spiritualismo che ha costituito la reazione al neoidealismo romantico che
è fiorito nei primi decenni del secolo in Inghilterra, America e Italia e dal
quale lo stesso spiritualismo deriva molti dei suoi temi. Cfr. per il T. anglosassone
W. E. HocKina, Meaning of God in Human Experience, 1912; A. SerH
PRINGLE-PATTISON, The Idea of God in the Light of Recent Philosophy, 1917;
CLEMENT C. J. WEBB, God and Personality, 1920; ecc. Per il T. italiano: le
opere di Carlini, Guzzo, Sciacca, ecc. TELEGNOSI (ingl. Telegnosis). Lo stesso che chiaroveggenza: la facoltà
di conoscere avvenimenti lontani senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali
(v. TELEPATIA). TELEGRAMMA, ARGOMENTO DEL (ingl. Telegram Argument; ted.
Telegrammbeispiel). Argomento o esempio addotto da F. A. Lange per illustrare
la tesi materialistica della dipendenza delle reazioni psichiche dagli stimoli
fisici e della possibilità di ridurre a meccanismo fisiologico ciò che
comunemente si chiama anima o coscienza. Il T. che annuncia a un commerciante
il fallimento di un suo corrispondente determina tutta una serie di reazioni
che sono descrivibili fisiologicamente al modo in cui è descrivibile
fisicamente cioè in termini di ondulazioni luminose lo stimolo che le ha
provocate (Geschichte des Materialismus, II, III, 2 e nota 39; trad. ital., II,
pag. 385 sgg. e 661 sgg.). Talvolta l’argomento è stato invertito TELEGNOSI e
utilizzato per mostrare la relativa indipendenza delle reazioni nei confronti
degli stimoli. Il T. «Vostro figlio è morto » differisce solo per una lettera
dal T. « Nostro figlio è morto » ma produce una reazione enormemente diversa, e
non corrispondente alla differenza fisica tra gli stimoli, in coloro che lo
ricevono (cfr. C. D. Broad, The Mind and its Place in Nature, 1925, pag. 118
sgg.). TELEOCLISI (ted. Teleoklise). Tendenza all’attività finalistica,
ritenuta propria degli organismi viventi. Termine raro. TELEOFOBIA (ted.
Teleophobie). Avversione per il finalismo. TELEOLOGIA (ingl. Teleology; franc.
Téléologie; ted. Teleologie). Il termine è stato creato da Cristiano Wolff per
indicare «quella parte della filosofia naturale che spiega i fini delle cose »
(Philosophia rationalis sive logica, 1728, Disc. Prael., $ 85). Lo stesso che
Finalismo (v.). TELEONOMIA (ingl. Teleonomy; franc. Téléonomie). Termine usato
dai biologi moderni per indicare l’adattamento funzionale degli esseri viventi
e dei loro artefatti alla conservazione e alla moltiplicazione della specie. È
stata chiamata informazione teleonomica la quantità d’informazione che
dev'essere trasmessa affinchè le strutture vitali siano realizzate e conservate
(cfr., ad es., J. MonoD, Le hasard et la nécessité, 1970, pag. 26 sgg.).
TELEOSI (ted. Teleosis). Perfezione. È la trascrizione fonetica della parola
greca. TELEPATIA (ingl. Telepathy; franc. Télépathie; ted. Telepathie). Una
forma di telegnosi e precisamente quella che consiste nel conoscere gli stati
di spirito di persone lontane o ciò che ad esse accade, senza l’aiuto dei mezzi
di conoscenza normali. Il termine fu proposto dalla Society for Psychical
Researches di Londra nel 1882 ed è stato comunemente accettato. Talvolta, come
suo sinonimo, si adopera Telestesia (cfr. D. J. WEST, Psychical Research Today,
1954, cap. VI). TEMA (lat. Thema; ingl. Theme; franc. Thème; ted. Thema).
Argomento o oggetto di indagine di discorso o di studio. Nella terminologia
filosofica contemporanea si adoperano anche i termini tematizzare,
tematizzazione per indicare la scelta o la formazione dei T., che è una fase
importante, e spesso decisiva, della ricerca. In particolare Heidegger ha
inteso per tematizzazione il manifestarsi degli enti intramondani, per il quale
essi diventano oggetti (Sein und Zeit, 69 b). TEMPERAMENTO (gr. xpàois; lat.
Temperamentum; ingl. Temper; franc. Tempérament; tedesco Temperament). La
disposizione dell'uomo ad agire in un modo o nell’altro a seconda della
particolare mescolanza degli umori che ne compongono il corpo. Il fondatore
della dottrina del T. è il padre TEMPO della medicina, Ippocrate (v secolo a.
C.) e la dottrina stessa si è tramandata ed è rimasta come dottrina medica.
Ippocrate ammetteva quattro umori fondamentali: il sangue, il flemma (la linfa,
i sieri, il muco nasale e intestinale, la saliva), la bile gialla e l’atrabile
o bile nera (considerata come la secrezione del pancreas), corrispondenti ai
quattro elementi del macrocosmo. A seconda della prevalenza di uno di questi
umori sugli altri si hanno i quattro T. fondamentali: il sanguigno, il
flemmatico, il bilioso e il malinconico o atrabiliare. (De nat. hom., 4).
Accenni a questa dottrina o a dottrine analoghe si trovano in Platone (Conv.,
188 a; Tim., 86 B), in Aristotele (Problem., 30, 1), in Seneca (De ira, II, 18,
sgg.), in Lucrezio (De nat. rer., III, 288 sgg.), in Plutarco (Quaesr. nat.,
26) ed in altri, senza connessione con i presupposti filosofici da cui questi
autori partono, come dimostra la loro concorde accettazione della dottrina
stessa. Anche nel Medio Evo la dottrina dei T. fu tramandata attraverso la
medicina, specialmente la medicina araba (Avicenna e Averroè) sino ai medici e
ai maghi del Rinascimento. Paracelso sostituì agli umori ippocratei i suoi tre
elementi (solfo, sale e mercurio) per la classificazione dei temperamenti.
Tuttavia la nozione di T. non ha subìto alcuna modificazione sino a Kant che,
riassumendola, distingueva l’aspetto fisiologico e l’aspetto psicologico del T.
stesso. « Fisiologicamente considerato, egli diceva, il T. è costituito dalla
costituzione fisica (la struttura forte o debole) e dalla complessione (dal
fluido che nel corpo è messo regolarmente in moto dalla forza vitale: nel che
si comprende il calore o il freddo che si produce nell’elaborazione di tali
umori). Psicologicamente considerato, cioè come T. dell'anima (del potere
affettivo e appetitivo) questa espressione, derivata dalla proprietà del
sangue, si riferisce all’analogia del gioco dei sentimenti e dei desideri con
le cause fisiche e motrici (di cui la principale è il sangue)» (Antr., II, 2).
Kant riprendeva poi la vecchia classificazione ippocratea dei T.; la quale ha
trovato spesso fortuna anche nella psicologia moderna (per es., cfr. WuNDT,
Physiologische Psychologie, II4, pag. 519 sgg.). Ma nella psicologia stessa la
parola, fin dalla fine del secolo scorso, è caduta in disuso ed è stata
sostituita da caraftere (v.): il quale in una delle sue accezioni significa
appunto la struttura organica originaria che condiziona le disposizioni
naturali dell’individuo. L'uso della parola carattere segna pure il trapasso della
nozione dal dominio della medicina a quello della psicologia e della filosofia.
TEMPERANZA (gr. cwppootvn; lat. Temperantia; ingl. Temperance; franc.
Tempérance; tedesco Besonnenheit). Una delle virtù etiche di Ari863 stotele e
precisamente quella che consiste nel giusto uso dei piaceri corporei.
Aristotele notava che la T. non concerne tutti i piaceri corporei (non
concerne, ad es., quelli che derivano dalla vista o dall’udito) ma solo quelli
che derivano dal mangiare, dal bere e dal sesso (Er. Nic., III, 9-12). Platone
aveva definito in modo diverso la T., intendendo per essa «l’amicizia e
l’accordo delle parti dell'anima che si ha quando la parte che comanda e quelle
che ubbidiscono convengano nell'opinione che spetti al principio razionale di
governare e così non gli si ribellano +: questa è secondo Platone la T. sia per
l’individuo che per lo Stato (Rep., IV, 442 b). Gli Stoici a loro volta
definirono la T. come «la scienza delle cose da desiderare e di quelle da
fuggire» (STOBEO, Ecl., II, 6, 102). Sulla T. aveva insistito anche l’etica di
Democrito: «La fortuna ci procura la tavola sontuosa, la T. quella a cui nulla
manca» (Fr., 210, Diels). TEMPO (gr. ypévos; lat. Tempus; ingl. Time; franc.
Temps; ted. Zeit). Si possono distinguere tre concezioni fondamentali: 1° il T.
come ordine misurabile del movimento; 2° il T. come movimento intuito; 3° il T.
come struttura delle possibilità. Alla prima concezione si connettono,
nell’antichità, il concetto ciclico del mondo e della vita dell'uomo
(metempsicosi) e, nell’epoca moderna, il concetto scientifico del tempo. Alla
seconda concezione si connette il concetto di coscienza, con la quale il T.
viene identificato. La terza concezione, nata dalla filosofia
esistenzialistica, presenta alcune innovazioni concettuali nell’analisi del
concetto di tempo. 1° La più antica e diffusa concezione del T. è quella che lo
considera come l’ordine misurabile del movimento. Già i Pitagorici definendo il
T. come «la sfera che abbraccia tutto + cioè la sfera celeste, lo collegarono
col cielo che con il suo movimento ordinato ne consente la misura perfetta
(ARISroTELE, Fis., IV, 10, 218a 33). Platone definendo il T. come «l’immagine
mobile dell’eternità» (7im., 37d) intende dire che esso riproduce nel
movimento, sotto la forma del periodo dei pianeti, del ciclo costante delle
stagioni o delle generazioni viventi e di ogni specie di mutamento, quella
immutabilità che è propria dell’essere eterno. La definizione di Aristotele «il
T. è il numero del movimento secondo il prima ed il dopo » (Fis., IV, 11; 219 b
1) è l’espressione più perfetta di questa concezione che identifica il T. con
l’ordine misurabile del movimento. Non diverso è il significato della
definizione degli Stoici, secondo la quale il T. è « l'intervallo del movimento
cosmico» (Diog. L., VII, 141). L'intervallo non è infatti che il ritmo, 864
cioè l’ordine, del movimento cosmico. E neppure molto diverso è, forse, il
significato della definizione di Epicuro: «Il T. è una proprietà cioè un
accompagnamento del movimento » (STOBEO, Ecl., I, 8, 252). Nel Medio Evo,
questa concezione del T. fu condivisa sia da realisti (ALBERTO Magno, S. Th.,
I, q. 21, a. 1; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 10, a. 1) che da nominalisti (OckHam,
/n Sent., II, q. 12) che ripetettero concordemente la definizione aristotelica.
Telesio, che indugiava a criticare questa definizione, riduceva a sua volta il
T. alla durata e all’intervallo del movimento (De rer. nat., I, 29). Hobbes
definiva il T. «l’immagine (phantasma) del movimento in quanto immaginiamo nel
movimento il prima e il dopo cioè la successione» e riteneva questa definizione
in accordo con quella aristotelica (De Corp., 7, 3). Cartesio ripeteva
semplicemente quest’ultima, definendo il T. come « numero del movimento »
(Princ. Phil., I, 57). E Locke criticava la connessione del T. con il
movimento, stabilita dalla definizione aristotelica, solo per affermare che il
T. è connesso a qualsiasi specie di ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi
apparizione periodica e costante o mutamento di idee, che accadesse entro spazi
di durata apparentemente equidistanti, e fosse costante ed universalmente
osservabile, avrebbe potuto servire a distinguere tra loro intervalli del T.
egualmente bene che quelle di cui si è fatto uso in realtà » (Saggio, II, 14,
19). Berkeley sostituiva, per definire il T., l’ordine delle idee all’ordine
del movimento; o per meglio dire l’ordine del movimento interno all’uomo
all’ordine del movimento esterno. «Se io tento, egli diceva, di costruire una
semplice idea del T., astraendo dalla successione delle idee nel mio spirito,
che fluisce uniformemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e
impigliato in difficoltà inesplicabili » (Principles of Human Knowledge, I,
98). Questa concezione del T. fu da Newton posta a fondamento della meccanica:
egli distingueva il T. assoluto e il T. relativo ma ad entrambi riconosceva
ordine e uniformità. « Il T. assoluto vero e matematico, egli diceva, in realtà
e per natura sua, senza relazione a qualcosa di esterno, fluisce uniformemente (aequabiliter)
e si chiama anche durata. Il T. relativo apparente e comune è una misura
sensibile ed esterna della durata mediante il movimento » (Naruralis
philosophiae principia, I, def. VIII). L’uniforme fluire della durata assoluta
fa riscontro, in queste definizioni di Newton, alla uniformità del movimento
che viene assunto come misura del tempo. Leibniz illustrava lo stesso concetto
nel modo seguente: « Conoscendo le regole dei movimenti non uniformi, si può
sempre rapportarli ai movimenti uniformi intelligibili e preTEMPO vedere con
questo mezzo ciò che accadrà a differenti movimenti congiunti insieme. In
questo senso il T. è la misura del movimento, cioè il movimento uniforme è la
misura del movimento non uniforme » (Nouv. Ess., II, 14, 16). E pertanto
definiva il T. come « un ordine delle successioni » (Troisième lettre à Clarke,
$ 4): una definizione che veniva accettata da Wolff (Ontol., $ 572) e da
Baumgarten (Met., $ 239). Era questa la concezione cui Kant faceva
implicitamente riferimento quando nell’Estetica trascendentale affermava
l’idealità trascendentale, insieme con la realtà empirica, del T. (v. oltre).
Ma il contributo principale di Kant all’interpretazione del concetto di T. non
è contenuto nell’Estetica trascendentale ma nell’Analitica dei princìpi e
precisamente nella trattazione della seconda analogia o «principio della serie
temporale secondo la legge della causalità ». Qui Kant opera la riduzione
dell’ordine di successione all’ordine causale. Egli dice che una cosa «può
acquistare il suo determinato posto nel T. solo a condizione che nello stato
precedente si presupponga un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè
secondo una regola ». La serie temporale non si può invertire perchè « quando
lo stato precedente è posto, l’avvenimento deve immancabilmente e
necessariamente seguire »; sicchè «è legge necessaria della nostra sensibilità
e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il T. precedente
determini necessariamente il seguente ». Questo appunto distingue la percezione
reale del T. dalla immaginazione, che potrebbe e può invertire l’ordine degli
eventi; e che fa della successione temporale « il criterio empirico unico
dell’effetto in rapporto alla causalità della causa » (Crir. R. Pura, An. dei
Princ., cap. II, sez. III, 3). Questa riduzione del T. all’ordine causale che
Kant difendeva relativamente alla concezione del T. dominante nella sua epoca,
cioè derivata dalla fisica newtoniana, è stata ripresentata ai nostri giorni
nei confronti della fisica einsteiniana. Affermando la relatività della misura
temporale, Einstein non ha in realtà innovato in alcun modo il concetto
tradizionale del T. come ordine di successione: ha solo negato che l’ordine di
successione fosse unico ed assoluto (cfr. Uber die spezielle und die allgemeine
Relarivitàtstheorie, 1921, $ 8-9). Ora nei confronti della fisica di Einstein,
H. Reichenbach ha riproposto la tesi kantiana dell’identità del T. con la
causalità. «Il T. è l’ordine delle catene causali: questo è il principale
risultato delle scoperte di Einstein », egli ha detto (A/berr Einstein:
Philosopher-Scientist, ed. by P. A. Schilpp, 1949, pag. 289 sgg.). « L'ordine
del T., l'ordine del prima e del dopo, è riducibile all’ordine causale...
L'inversione dell’ordine temporale per certi eventi, che è un risultato che
deriva dalla relatività della siTEMPO multaneità, è solo una conseguenza di
questo fatto fondamentale. Dal momento che la velocità della trasmissione è
limitata, esistono eventi tali che nessuno di essi può essere la causa o l’effetto
dell’altro. Per eventi siffatti, l’ordine del T. non è definito e ognuno di
essi può essere detto posteriore o anteriore all’altro » (/bid., 1949, pag. 289
sgg.). Gli stessi concetti Reichenbach ha illustrato nel suo libro postumo 7he
Direction of Time (1956): nel quale identifica l'ordine del T. con la causalità
e la direzione del T. con l’entropia crescente (cfr. specialmente $ 6, 16). La
riduzione del T. alla causalità può essere considerata come la più importante
(ma non perciò la più salda) proposizione filosofica avanzata nell'ambito della
concezione del T. come ordine. Assai minore importanza ha invece la
discussione, cui i filosofi hanno spesso inclinato, sulla soggettività od
oggettività del T. in questo senso. Fu Aristotele a iniziare queste discussioni
giungendo alla conclusione che se da un lato il T. come misura non può esistere
senza l’anima perchè solo l’anima può misurare, dall’altro il movimento cui la
misura si rivolge non dipende dall’anima (Fis., IV, 14, 223 a 20-29). Nel sec.
xrv Ockham, riprendendo queste considerazioni, affermava che non vi sarebbe T.
se l’anima non potesse nè misurare nè numerare (/n Sent., II, q. 12). Perfino
Hobbes chiamava il T. un’immagine (v. definizione prima citata). Meno
significativa è la riduzione del T., operata da Locke e Berkeley all’ordine
delle idee: perchè le idee, per questi filosofi, sono i soli oggetti di cui si
possa parlare. Quanto al « soggettivismo » della concezione kantiana per cui il
tempo è «intuizione pura » cioè condizione di qualsiasi percezione sensibile,
esso è frutto soltanto di un malinteso: giacchè il T. può dirsi soggettivo solo
rispetto alle cose in sè che sono al di là della considerazione dell'uomo ma è
oggettivo e reale rispetto alle cose naturali, per cui il T. ha «realtà empirica
» indubitabile (Crit. R. Pura, $ 6, 7). L’oggettivismo della concezione
kantiana è poi dimostrato dalla riduzione del T. all’ordine causale: una tesi a
cui i neo-empiristi hanno acceduto senza conoscere la sua derivazione kantiana.
2° La seconda concezione fondamentale del T. è quella che lo considera come
intuizione del movimento o «divenire intuito ». Quest’ultima definizione è di
Hegel: il quale aggiunge che «il T. è il principio medesimo dell'Io = Io, della
pura autocoscienza; ma è quel principio o il semplice concetto ancora nella sua
completa esteriorità ed astrazione » (Enc., $ 258). Hegel pertanto non
identifica il T. con la coscienza ma con qualche aspetto parziale o astratto
della coscienza stessa. Senza questa limitazione, Schelling aveva detto « il T.
non 35 è se non il senso interno che diviene oggetto per sè» (System des
transzendentalen Idealismus, sez. III, Seconda epoca, D; trad. ital., pag.
141). E di regola la concezione del T. come intuizione del divenire porta con
sè la riduzione del T. stesso alla coscienza. Così accade già nella dottrina di
Plotino. Secondo Plotino, il T. non esiste fuori dell'anima: esso «è la vita
dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da uno stato a
un altro della sua vita » (Enn., III, 7, 11): sicchè anche l’universo si può
dire che è nel T. solo in quanto è nell'anima, cioè nell’anima del mondo
(/bid., III, 7, 3). A S. Agostino si deve la migliore espressione e la
diffusione di questa dottrina nella filosofia occidentale. Il T. è identificato
da Agostino con la vita stessa dell'anima che si estende verso il passato o
l’avvenire (exfensio o distensio animi). Dice S. Agostino: «In che modo si
diminuisce e consuma il futuro che ancora non c’è? E in che modo cresce il
passato che più non è, se non perchè nell’anima ci sono tutte e tre le cose,
presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda,
sicchè ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che
ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già nell'anima
l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora
nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca di
durata perchè subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso
la quale ciò che sarà s si allontana verso il passato » (Conf., XI, 28, 1). Il
teorema fondamentale di questa concezione del T. è stato enunciato dallo stesso
S. Agostino: « Non ci sono, propriamente parlando tre T., il passato, il
presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il
presente del presente e il presente del futuro» (Ibid., XI, 20, 1). Nella
filosofia moderna, Bergson ha ripresentato questa concezione contrapponendola
al concetto scientifico del tempo. Secondo Bergson, il T. della scienza è un T.
spazializzato e che perciò non ha alcuno dei caratteri che la coscienza
riconosce propri del tempo. Esso viene infatti rappresentato come una linea ma
«la linea è immobile, mentre il T. è mobilità. La linea è già fatta, mentre il T.
è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa» (La pensée et le mouvant,
3* ediz., 1934, pag. 9). Fin dalla sua prima opera, l’Essai sur /es données
immédiates de la conscience, Bergson aveva insistito sull’esigenza di
considerare il T. vissuto, cioè la durata della coscienza, come una corrente
fluida nella quale è impossibile perfino distinguere stati perchè ogni momento
di essa trapassa nell’altro con una continuità ininterrotta come accade per i
colori dell'iride. Questo è poi sempre rimasto il concetto cardine della sua
filosofia. Il T. come durata ha, secondo Bergson due caratteri fondamentali: 1°
quello della novità assoluta ad ogni istante, per cui è un continuo processo di
creazione; 2° quello della conservazione infallibile e integrale di tutto il
passato per cui fa boule de neige e si ingrossa continuamente a misura che
avanza verso il futuro. Non molto diversa da questa è la concezione che Husserl
ha del « T. fenomenologico ». Egli dice: « Ogni effettiva esperienza vissuta è
necessariamente qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un
infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un
orizzonte temporale attualmente infinito da ogni parte. Il che significa che
appartiene a un'infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola
esperienza vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua
durata, come fa, per es., l’esperienza di una gioia. Ma la corrente delle
esperienze non può nè cominciare nè finire » (/deen, I, $ 81). Il che significa
che, come la durata bergsoniana, la corrente dell’esperienza conserva tutto ed
è una specie di eterno presente. 3° La terza concezione del T. è quella che
riduce il tempo alla struttura della possibilità. Questa è la concezione
illustrata da Heidegger nell’opera Essere e 7. (1927), che già nel titolo
annuncia l’identità dei due termini. La prima caratteristica di questa
concezione è il primato riconosciuto all’avvenire nell’interpretazione del
tempo. Le due precedenti concezioni si fondano sul primato del presente. Il T.
come ordine del movimento è una totalità tutta presente perchè ogni ordine
suppone la simultaneità delle sue parti, dal cui reciproco adattamento l'ordine
nasce. La concezione del T. come divenire intuito non fa che interpretare
l'intero T. in funzione del presente, perchè l’intuizione del divenire è sempre
un ora, un istante presente. Heidegger ha interpretato invece il T. in termini
di possibilità o di progettazione: il T. è originariamente l’ad-venire
(Zu-kunft): più precisamente, quando il T. è autentico (cioè originario e
proprio dell’esistenza) esso è «l’avvenire dell’ente a se stesso nel
mantenimento della possibilità caratteristica come tale». « Avvenire, dice
Heidegger, non significa un ora che non è ancora divenuto attuale e che lo
diverrà, ma l’infuturamento per cui l’Esserci perviene a se stesso, in base al
suo più proprio poter-essere. L’anticipazione rende l’Esserci autenticamente
avveniente sicchè l’anticipazione stessa è possibile soltanto perchè l’Esserci
è, in generale, già sempre pervenuto a se stesso » (Sein und Zeit, $ 65). Il
passato come un essere-stato è condizionato dall’avvenire perchè, come sono
autentiche possibilità quelle che sono già state, così sono già state le
possibilità cui l’uomo TEMPO può autenticamente ritornare e che può ancora far
sue (/bid., $ 65). Sia il T. autentico che è quello per cui l’Esserci progetta
la propria possibilità privilegiata (quello che è già stato, sicchè le sue
scelte sono scelte del già scelto cioè dell’impossibilità di scegliere) sia il
T. inautentico che è quello della esistenza banale, in cui il T. diventa una
successione infinita di istanti, sono entrambi il sopravvenire all’Esserci
(cioè all'uomo) di ciò che la possibilità progettata gli prospetta; e perciò è
un presentarsi, dal futuro, di ciò che è già stato nel passato (/bid., $ 80,
81). L’analisi del T. di Heidegger contiene indubbiamente un impegno metafisico
assai gravoso che è quello per il quale il T. è concepito come una specie di
circolo per cui ciò che si prospetta nell’avvenire è ciò che è già stato; e a
sua volta ciò che è già stato è ciò che si prospetta nell’avvenire. Heidegger
parla in questo senso di T. finito cioè di T. autentico; giacchè il T.
inautentico (che Heidegger chiama anche databilità o T. pubblico) è il
misconoscimento parziale della natura del T. e la concezione di esso come linea
aperta e successione infinita di istanti (Sein und Zeit., $ 79-81). Tuttavia
l’analisi di Heidegger contiene alcuni elementi di interesse filosofico
notevole perchè costituiscono una innovazione importante nell’analisi del
concetto di tempo. Tali elementi sono i seguenti: 1° il mutamento
dell’orizzonte modale, per l’interpretazione del T., dalla necessità alla
possibilità: il T. viene ricondotto non già ad una struttura necessaria, come
l’ordine causale, ma alla struttura stessa della possibilità. Questo punto può
essere utilizzato per esprimere adeguatamente la trasformazione che la nozione
di T. ha subito per opera della relatività di Einstein. Se difatti due eventi,
contemporanei per un certo sistema di riferimento, possono non esserlo per un
altro, il T. non è un ordine necessario ma la possibilità di più ordini; 2° il
primato del futuro nell’interpretazione del T. non costituisce soltanto
un'alternativa diversa ed opposta al primato del presente, su cui si fondano le
altre due interpretazioni principali, ma offre anche la possibilità di non
appiattire sul presente le altre determinazioni del T. e di intenderle nella
loro natura specifica: il futuro come futuro (e non già come «presente del
futuro ?) e il passato come passato; 3° il rapporto tra passato e futuro, che
Heidegger ha irrigidito in un circolo può essere agevolmente sciolto con
l’introduzione della stessa nozione di possibile. Il passato può essere infatti
inteso come punto di partenza o fondamento delle possibilità a venire e
l’avvenire come possibilità di conservazione o di mutamento del passato, in
TEODICEA limiti di volta in volta (e con approssimazione) determinabili; 4°
l’introduzione di nuovi concetti interpretativi espressi da termini come
progetto o progettazione, anticipazione, attesa, ecc., che si sono dimostrati
particolarmente utili nell’analisi filosofiche e sono difatti entrati nell’uso
filosofico corrente. TEMPORALE (ingl. Temporal; franc. Temporel; ted.
Zeitlich). 1. Ciò che appartiene al tempo o concerne il tempo o accade nel
tempo. Ad es., l’ordine T., uno schema T., ecc. 2. Ciò che è mondano, cioè
appartiene all’ordine del tempo, in contrapposto a ciò che è spirituale ed
appartiene all’ordine dell’eternità. La contrapposizione di T. e spirituale è
uno dei temi dominanti del cristianesimo paolino (cfr., ad es., Ad Cor. II IV,
18; Ad Hebr., XI, 25; ecc.) TEMPORANEO (ingl. 7. emporary; franc. Temporaire;
ted. Einstweilig). Di scarsa durata, provvisorio. TENDENZA (ingl. Tendency;
franc. Tendance; ted. Trieb). Si intende per T. ogni spinta all’azione,
abituale e costante; nel che la T. si distingue dall'impulso (v.) che è una
spinta all’azione improvvisa e temporanea. Kant limitava il significato del termine
all’appetito abituale di natura sensibile (Antr., $ 73). Schiller ammetteva
nell’uomo tre T. fondamentali di cui la prima, di natura sensibile, lo spinge
al mutamento; la seconda o 7. alla forma lo spinge all’immutabilità e infine la
terza 0 7. al gioco lo spinge a conciliare le due prime (Briefe liber die
aesthetische Erziehung, 12-13). A questa distinzione Fichte ne contrappose
un’altra: cioè quella tra la 7. alla conoscenza, che fa dell’uomo un «essere
rappresentante »; la T. pratica che mira alla modificazione e formazione delle
cose; e la T. estetica che mira a una rappresentazione determinata solo in
vista della rappresentazione stessa e non della cosa o della conoscenza di essa
(Werke, VIII, pag. 278-79). Più recentemente Jaspers ha distinto tre ordini di
T.: 1° quelle sensibili con correlato somatico (la fame, la sete, il sesso,
ecc.); 2° quelle vitali ma senza localizzazione somatica (la T. all’esaltazione
di sè o alla sottomissione, all’emigrazione, alla socievolezza, ecc.); 3° le T.
spirituali cioè quelle dirette alla realizzazione di valori (Allgemeine
Psychopathologie). TENSIONE (gr. révoc; ingl. Tension; francese Tension; ted.
Spannung). 1. La connessione tra due opposti che sono legati soltanto dalla
loro opposizione. Questo concetto costituiva, secondo gli antichi (cfr. FiLone,
Rer. Div. Her., 43), la grande scoperta di Eraclito. « Gli uomini non sanno,
aveva detto Eraclito, come ciò che è discorde è in accordo con sè: armonie di
T. opposte, come 867 quelle dell’arco e della lira » (Fr., 51, Diels). Anche
gli Stoici parlarono in questo senso della T. che tiene insieme l’universo
(ARNIM, Stoic. Fragm., II, 134). Mentre la dialettica (v.) è l’unità degli
opposti come loro sintesi 0 conciliazione, la T. è il legame tra gli opposti
come tali, senza conciliazione o sintesi. Le situazioni di T. sono perciò
quelle che non lasciano prevedere la conciliazione; in tal senso la parola è
usata anche nel linguaggio comune, come quando si parla della « T.
internazionale ». Nello stesso senso si parla di « T. psichica + per indicare
uno stato latente di conflitto. 2. Gli Stoici (e precisamente Cleante; cfr.
ARNIM, Stoic. Fragm., I, 128) introdussero la nozione di T. come forza tendente
a un risultato: nel qual senso la nozione è un sinonimo di tendenza o di sforzo,
e specialmente di sforzo prolungato o noso. TEOCRASIA (gr. 0eoxpacta; ingl.
Theocrasy; franc. Théocrasie; ted. Theocrasie). L'unione o mescolanza
dell’anima con Dio, nel misticismo (cfr. GiamBLICO, De vita pythagorica, 33,
240). TEOCRAZIA (ingl. Theocracy; franc. Théocratie; ted. Theokratie). 1. Il
regime politico in cui il governo è esercitato dalla casta sacerdotale. In
questo senso furono T. lo Stato ebraico, lo Stato maomettano e il calvinismo in
Ginevra. 2. La dottrina della supremazia del potere ecclesiastico, dal quale il
potere civile trarrebbe il suo diritto e la sua investitura. T. in questo senso
fu il curialismo medievale. 3. Più in generale, qualsiasi dottrina la quale
ritenga che ogni autorità derivi da Dio (v. AUTORITÀ). TEODICEA (ingl. Theodicy;
franc. Théodicée; ted. Theodizee). Termine creato da Leibniz come titolo di una
sua opera (Saggio di T. sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l'origine
del male, 1710) per indicare la dimostrazione della giustizia divina mediante
la soluzione dei due problemi fondamentali; quello del male e quello della
libertà umana. Sul primo problema, la T. di Leibniz risponde più specialmente
alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni
che in realtà poi non facevano che amplificare quanto avevano già detto gli
Epicurei in polemica con gli Stoici: «Dio o non vuol togliere i mali e non può,
0 può e non vuole, o non vuole nè può o vuole e può. Se vuole e non può, è
impotente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il che
del pari è contrario a Dio. Se non vuole nè può è invidioso e impotente perciò
non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, da che cosa deriva
l’esistenza dei mali e perchè non li toglie?» (Fr., 374, Usener). La soluzione
di Leibniz è quella tradizionale: il male non è una realtà e pertanto la sua
respon868 sabilità non risale a Dio (v. MALE). Circa il problema della libertà
Leibniz discute soprattutto le varie forme che il determinismo teologico aveva
assunto nella letteratura protestante contemporanea, per rivendicare all'uomo
la libertà nel senso tradizionale di autodeterminazione (v. LIBERTÀ). Dio
inclina senza necessitare e la libertà dell’uomo non consiste
nell’indeterminazione assoluta, cioè nell’arbitrio di indifferenza, ma
nell’assenza di necessità e di costrizione (v. LmertÀ). Da Leibniz in poi la T.
è considerata come una parte fondamentale della teologia razionale (v.
TEOLOGIA). TEOFANIA (lat. Theophania; ingl. Theophany; franc. Théophanie; ted.
Theophanie). Il termine che significa « visione di Dio» venne usato da Scoto
Eriugena (sec. 1x) per indicare il mondo come manifestazione di Dio. T. è,
secondo Eriugena, il processo che da Dio discende all'uomo con la creazione per
ritornare attraverso l’uomo a Dio con l’amore. T. è anche ogni opera della
creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa visibile in
essa e attraverso di essa (De divis. nat., I, 10; V, 23). TEOGNOSI (ted.
Theognosis). La conoscenza scientifica di Dio (cfr. C. F. Krause, Vorlesungen
liber das System der Philosophie, 1828, pag. 27). Termine molto raro. TEOGONIA
(gr. Broyovla; ingl. Theogony; francese Théogonie; ted. Theogonie). La
generazione degli dèi e del mondo: la cosmologia mitica (cfr. PLATONE, Leggi,
X, 886 c) (v. COSMOLOGIA). TEOLOGIA (gr. Geodoyla; lat. Theologia; inglese
Theology; franc. Théologie; ted. Theologie). In generale, ogni trattazione o
discorso o predica che abbia per oggetto Dio o le cose divine. In questo senso
generalissimo la parola fu intesa dal grande erudito romano Marco Terenzio
Varrone (sec. 1 a. C.), del quale S. Agostino ci ha conservato la distinzione
di tre T.: la T. mitica o favolosa; la T. naturale o fisica; la T. civile. La
T. mitica o favolosa è quella di cui si servono i poeti e che ammette molte finzioni
contrarie alla dignità e alla natura della divinità. La T. naturale è quella
dei filosofi, che ha per oggetto «ciò che gli dèi sono, il luogo in cui
risiedono, il loro genere, la loro essenza, il tempo in cui sono nati o la loro
perennità; e se essi prendono il loro principio dal fuoco, come crede Eraclito,
o dai numeri come dice Pitagora o dagli atomi come dice Epicuro +. Infine la T.
civile «è quella che nelle città i cittadini, e soprattutto i sacerdoti, devono
conoscere e praticare e che insegna quali divinità si debbano onorare
pubblicamente e quali cerimonie e quali sacrifici sia opportuno fare»
(AGOSTINO, De Civ. Dei, VI, 5). In questo senso varroniano, Vico considerava la
sua «scienza nuova» come «una TEOFANIA T. civile ragionata della provvedenza »
in quanto essa trae origine dalla «sapienza volgare dei legislatori che
fondarono le nazioni con contemplare Dio per l’attributo di provvedente + (Sc.
N., II, Corollari d’intorno agli aspetti principali di questa scienza). In
senso più specificamente storico-filosofico si possono distinguere: 1° la T.
metafisica; 2° la T. naturale; 3° la T. rivelata; 4° la T. negativa. 1°
Aristotele chiamò T. la sua « scienza prima » cioè la metafisica: che egli
intendeva, nello stesso tempo, come scienza dell’essere in quanto essere cioè
della sostanza e come scienza della sostanza eterna, immobile e separata, cioè
di Dio (Mer., VI, 1, 1026a 10). Questo concetto della T. come metafisica è
rimasto per lunghi secoli. Lo stoico Cleante includeva la T. tra le parti della
filosofia (Diogc. L., VII, 41). Per Plotino, la T. era la sola scienza degna
del nome (Enn., V, 9, 7). E da questo punto di vista spesso i neoplatonici
chiamarono teologi tutti i filosofi, anche i fisici o i materialisti, in quanto
si occupavano, come dice Proclo, dei « princìpi primissimi delle cose in quanto
per sè sussistenti » (P/ar. 7heol., I, 3.) Questo è anche il significato che
Varrone attribuiva all’espressione « T. naturale ». Quest'uso continuò nella
filosofia cristiana: nè nella patristica nè nella prima età della scolastica si
potrebbe rintracciare una delimitazione precisa tra T. e filosofia. Lo stesso
S. Tommaso, in una prima fase del suo insegnamento, accettò l’identità di T. e
di metafisica come appare dal prologo del suo commento alla Merafisica di
Aristotele. Qui egli dice che poichè la metafisica considera in primo luogo le
sostanze separate o divine, in secondo luogo l’ente in quanto tale e in terzo
luogo le cause o i princìpi primi, essa «si dice scienza divina o T. in quanto
considera le sostanze separate; metafisica in quanto considera l’ente;... e
prima filosofia in quanto considera le cause prime delle cose» (/n Mer.,
Proemium). Nel sec. xvi si cominciò a distinguere la « filosofia prima », che
si chiamò anche ontologia (v.), dalla T.; e si cominciò a distinguere anche la
T. come scienza naturale dalla T. fondata sulla rivelazione. Queste distinzioni
si trovano chiaramente stabilite nel De Augumentis Scientiarum (1623) di F.
Bacone: che chiamò 7. naturale la conoscenza che si può ottenere di Dio
«mediante il lume della natura e la contemplazione delle cose create » (De
Augm. Scient., III, 2) e chiamò 7. ispirata o sacra quella che si fonda su
princìpi direttamente ispirati da Dio (/bid., II, 1). 2° Il secondo concetto
della T. è pertanto quello di 7. naturale che si distingue dal precedente
soltanto per il fatto di comprendere una parte e non il tutto della metafisica;
e precisamente TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA quella parte che ha per oggetto le cose
divine. L'espressione baconiana « T. naturale» fu ripresa e diffusa da Wolff:
questi la definiva come «la scienza di ciò che è possibile per opera di Dio +
perciò come una parte della filosofia, la quale è in generale la scienza delle
cose possibili (Log., Disc. Prael., 57). Baumgarten insisteva sul carattere
razionale della T. così intesa: «La T. naturale è la scienza di Dio in quanto
si può conoscere senza la fede » (Mer., $ 800); e la riteneva come fondamento
della filosofia pratica, della T. e della T. rivelata (Zbid., $ 601). Fu questo
il concetto di T. che, insieme con il suo contenuto, subì la critica di Kant
nella Critica della Ragion Pura. Kant tuttavia si preoccupò pure di distinguere
le varie specie della T.; e partendo dalla distinzione base tra T. razionale e
T. rivelata, distinse, nella T. razionale, la T. trascendentale la quale «
concepisce il suo oggetto semplicemente con la ragion pura, mediante meri
concetti trascendentali (ens originarium, realissimum, ens entium)+ e la T.
naturale che si avvale di «concetti che ricava dalla natura ». A sua volta la
T. trascendentale può essere cosmoteologia se deduce l’esistenza di Dio
dall’esperienza in generale; od ontofeologia se deduce la sua esistenza con
semplici concetti senza ricorrere all’esperienza. Infine la T. naturale può
essere o T. fisica, se risale agli attributi di Dio movendo dall'ordine e dalla
costituzione del mondo; o T. morale, se considera Dio come il principio
dell’ordine e della perfezione morale (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III,
sez. VII). Alcune di queste distinzioni sono rimaste e ancora vengono adoperate
nel campo della T. ecclesiastica. 3° La 7. rivelata o sacra è quella che desume
i suoi princìpi dalla rivelazione. La prima esplicita formulazione di questo
concetto è, probabilmente, quella tomistica: S. Tommaso afferma che «la sacra
dottrina è scienza giacchè procede da princìpi noti attraverso il lume di una
scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati» (S. 7H., I, q. 1, a.
2). La «scienza di Dio e dei beati» coincide poi con «gli articoli di fede » o «Ia
rivelazione divina +» (/bid., a. 7-8). Era questa la T. che Duns Scoto
considerava come scienza puramente pratica, di fronte alla metafisica, che egli
considerava come la scienza teoretica per eccellenza: la T. infatti non avrebbe
altro scopo se non quello di persuadere l’uomo ad agire per la propria salvezza
(Op. Ox., Prol., q. 4, n. 42); e le stesse verità apparentemente teoretiche
avrebbero solo valore pratico come, per es., la proposizione « Dio è trino »
che includerebbe semplicemente la conoscenza del retto amore che l’uomo deve a
Dio (Ibid., Prol., q. 4, n. 31). La negazione del valore conoscitivo della T.
persiste, sul finire della scola869 stica, anche quando non si riconosce alla
totalità di essa il carattere pratico. Ockham, considerava la T., non come una
scienza, ma come un semplice insieme di conoscenze diverse, teoretiche e
pratiche, poggianti esclusivamente sull’autorità e aventi lo scopo di avviare
l’uomo alla salvezza (In Sent., Prol., q. 12, E-I). Questo concetto non è molto
diverso da quello che Spinoza doveva esporre più tardi nel Trattato
teologico-politico (cfr. specialmente cap. 15). 4° Il concetto della 7.
negariva è sorto e si è tramandato nell’ambito del misticismo. La distinzione
tra T. positiva o affermativa, la quale procede da Dio verso il finito mediante
la determinazione degli attributi o nomi di Dio; e la T. negativa che procede
dal finito a Dio e lo considera al di sopra di tutti i predicati o nomi coi
quali si può designarlo, si trova nei trattati dello Pseudo Dionigi l’Areopagita
(De mysf. theol., 1; De div. nom., I, 4; 4, 2; 13, 1; De eccl. hyerar., 2, 3);
ma la sua fonte è negli scritti neoplatonici che pongono Dio al di sopra di
tutte le determinazioni finite e dello stesso essere (v. TRASCENDENZA). Essa
viene ripetuta da Scoto Eriugena (De divis. nat., JI, 30), ripresa dal
misticismo speculativo tedesco del sec. x1v (cfr. ECKEHART, in PFEIFFER,
Deutsche Mystiker des 14 Jahrhunderts, II, pag. 318-19); e nel Rinascimento da
Nicolò da Cusa (De docta ignor., I, 24; 26) e da Bovillo (De nihilo, 11, 1, 4).
Si può considerare come una manifestazione di questa T., rivissuta attraverso
l’esperienza di Kierkegaard, la cosiddetta « T. della crisi » di K. Barth:
soltanto che una tale T. non consiste nel negare di Dio gli attributi finiti ma
nel considerare il rapporto tra l’uomo e Dio come la negazione di tutte le
possibilita umane (crisi) e la loro riduzione a mere impossibilità, sicchè solo
da questa negazione nasca una possibilità di salvezza, di origine, non più
umana, ma divina (Ròomerbrief). TEOLOGICHE, VIRTÙ (lat. Virtutes theologicae; ingl. Theological Virtues; franc. Vertus théologiques; ted.
Theologische Tugenden). Così furono chiamate nel Medio Evo la fede, la speranza
e la carità in quanto virtù dipendenti da doni divini e dirette al
raggiungimento di una beatitudine cui l’uomo non può giungere con le sole forze
della sua natura. Per questo carattere soprannaturale le virtù T. si
distinguono da quelle etiche (v.) e dianoetiche (v.) (cfr. S. Tommaso, S. 7h.,
II, 1, q. 62, a. 1). Per le singole virtù, confronta le relative voci.
TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA. Così Croce ha chiamato la filosofia che si occupa di
problemi mal posti e come tali irresolubili, sia poi che li dibatta come
«massimi» o «eterni», pro870 blemi, sia che li risolva con sistemi « immaginari
» sia infine che assuma di fronte ad essi un attegamento agnostico (Sulla
filosofia T. e le sue sopravvivenze, in Saggi Filosofici, 1920, V, pag. 297).
‘TEOMANZIA (ingl. Theomancy; ted. Theomantie). La divinazione ispirata dalla
divinità (vedi NTUSIASMO). ‘TEOMONISMO (ted. Theomonismus). La dottrina secondo
la quale Dio è l’unica realtà: lo stesso che acosmismo (v.) o panteismo (v.).
TEONOMIA (ingl. Theonomy; franc. Théonomie; ted. Theonomie). Governo o
legislazione di Dio. Il termine viene talora opposto ad autonomia. TEOPANTISMO
(ingl. Theopantism; francese Théopantisme; ted. Theopantismus). La dottrina che
Dio è la sola realtà: lo stesso che panteismo (v.). ‘TEOPNEUSTIA (ingl.
Theopneusty; francese Théopneustie; ted. Theopneustie). L'ispirazione divina
attraverso la quale viene comunicata la verità rivelata. ‘TEOREMA (gr. 8éwpnua;
lat. Theorem; francese Théorème; ted. Theorem). Una qualsiasi proposizione
dimostrabile. Il termine entrò fin dall'antichità nel linguaggio matematico
(cfr. ARISTOTELE, Mer., XIV, 2, 1090a 14); ma ha conservato e conserva, anche
fuori del linguaggio matematico il suo significato di proposizione non
primitiva ma derivata o derivabile da altre proposizioni. TEORETICO (gr.
0ewpnrix6c; lat. Speculativus; ingl. Theoretical; franc. Théorétique; tedesco
Theoretisch). L'aggettivo corrisponde a speculazione (v.) ed ha perciò come
questo sostantivo due significati fondamentali: 1° ciò che è puramente
conoscitivo e si oppone a pratico; 2° ciò che non è riducibile all’esperienza e
si oppone a empirico. Nel primo esempio si parla di «scienze T.»; nel secondo,
di « concetti T.3. TEORIA (gr. 0ewpia; lat. Theoria; ingl. Theory; franc.
Théorie; ted. Theorie). Il termine ha i seguenti significati principali: 1° Speculazione
o vita contemplativa. Questo è il significato che il termine ebbe in Grecia.
Aristotele identificava in questo senso la T. con la beatitudine (Er. Nic., X,
8, 1178 b 25). In questo senso, T. si oppone a pratica e in generale ad ogni
attività non disinteressata cioè che non abbia come fine la contemplazione; 2°
Una condizione ipotetica ideale nella quale abbiano pieno adempimento norme o
regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o parzialmente seguite.
Questo significato si dà alla parola T. quando si dice: «In T. dovrebbe essere
così, ma in pratica è tutt’altra cosa », Kant esaminava il problema del
rapporto tra T. e pratica in TEOMANZIA questo senso in uno scritto del 1793
(Uber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht
fiir die Praxis): nel quale si dànno le seguenti definizioni della T. e della
pratica: «Si chiama T. un complesso di regole anche pratiche quando siano
pensate come principi generali e si faccia astrazione da una quantità di
condizioni che hanno tuttavia influenza necessaria sulla loro applicazione.
Inversamente, si chiama pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua
uno scopo ed è pensato in rapporto a princìpi di condotta rappresentati
universalmente» (Op. cit., in principio). 3° La cosiddetta «scienza pura » cioè
la parte della scienza che non considera le applicazioni della scienza stessa
alla tecnica produttiva. Oppure quelle scienze o parti di scienze che
consistono nell’elaborazione concettuale o matematica dei risultati, per es.,
la «fisica teorica ». 4° Un'ipotesi o un concetto scientifico. Quest’ultimo
significato va specialmente considerato sotto questa voce perchè il problema
della T. scientifica costituisce uno dei capitoli più importanti della
metodologia delle scienze. I risultati principali delle ricerche in questo
campo possono essere ricapitolati nel modo seguente: a) La T. scientifica è
un’ipotesi o almeno contiene una o più ipotesi come sue parti integranti. La
scienza moderna ha abbandonato la ripugnanza della scienza del sec. xv e xxx
contro le ipotesi, ripugnanza che fu così bene espressa da Newton e da altri
(v. IPOTESI). Questo è accaduto perchè l’ipotesi ha cessato di essere una
congettura circa le cause ultime o nascoste dei fenomeni. Kant aveva già
condannato le «ipotesi trascendentali» che fanno appello ad una semplice idea
della ragione e si era pronunciato in favore delle ipotesi empiriche il cui
carattere è «Ja sufficienza per determinare a priori le conseguenze che sono
già date » (Crir. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 3). Claude Bernard
nel 1865 affermava, insieme, l’indispensabilità delle teorie e il loro
carattere ipotetico nel senso stretto del termine. « Lo sperimentatore, egli
diceva, pone la sua idea [o ipotesi sperimentale] come una questione, come
un’interpretazione anticipata della natura, più o meno probabile, da cui deduce
logicamente conseguenze che confronta ad ogni istante con la realtà per mezzo
dell’esperienza » (Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, I, 2).
E vedeva la fecondità delle ipotesi per la scoperta di fatti nuovi: «Le ipotesi
hanno per oggetto non solo di farci fare esperienze nuove, ma ci fanno anche
scoprire fatti nuovi che non avremmo percepito senza di esse » (Zbid., III, 1,
2). Ai principi del nostro secolo il carattere dell’ipotesi scientifica (che è
quello stesso dell’ipotesi in generale) di non poter essere TEORIA 871
direttamente provata dai fatti veniva chiaramente riconosciuto da E. Mach: «
Chiamiamo ipotesi una spiegazione provvisoria che ha lo scopo di far
comprendere più facilmente i fatti ma che sfugge ancora alla prova dei fatti»
(£rkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XIV; trad. franc., pag. 240). E Duhem così
elencava le condizioni cui un’ipotesi dovrebbe rispondere per essere scelta a
fondamento di una T. fisica: 1° l’ipotesi non dev’essere una proposizione
contraddittoria; 2° non dev'essere contraddittoria con le altre ipotesi della
stessa scienza; 3° le ipotesi devono essere tali che dal loro insieme la
deduzione matematica possa tirare conseguenze che rappresentino, con
approssimazione sufficiente, l'insieme delle leggi sperimentali (La théorie
physique, II, 7, 1, pag. 363). Poincaré insisteva a sua volta sulla necessità
delle ipotesi per qualsiasi procedura sperimentale e sulla necessità di non
moltiplicare le ipotesi stesse. Quest’ultima avvertenza non è che il vecchio
principio dell'economia (v.) o rasoio di Ockham, sempre valido nel campo delle
formulazioni concettuali (La science et l'hypothèse, 1902, cap. IX). b) Una T.
scientifica non è un’aggiunta interpretativa al corpo della scienza ma è lo
scheletro di questo corpo. In altri termini la T. condiziona sia l’osservazione
dei fenomeni sia l’uso stesso degli strumenti di osservazione. Su questo punto
è rimasto classico il libro di Duhem La teoria fisica (1906; cfr. specialmente
il cap. IV della seconda parte). È questo un punto che è stato talora sfruttato
allo scopo di mostrare il carattere relativo o imperfetto della conoscenza
scientifica. Così ha fatto, per es., E. Le Roy (Science et philosophie,
1899-1900). Ma in realtà esso invalida, non già la scienza, ma la tesi della
separazione netta tra osservazione e T. e quella della verità assoluta della
scienza. c) Una T. scientifica contiene, oltre la sua parte ipotetica, un
apparato che consente la sua verificazione o conferma. Duhem distingueva in una
T. fisica quattro operazioni fondamentali e cioè: 1° la definizione e la misura
delle grandezze fisiche; 2° la scelta delle ipotesi; 3° lo sviluppo matematico
della T.; 4° il confronto della T. con l'esperienza (La théorie physique, I, 2,
$ 1). Ovviamente le prime tre di queste operazioni costituiscono la costruzione
e lo sviluppo dell’ipotesi, mentre la quarta è diversa e costituisce la fase
della conferma. Analogamente, Norman R. Campbell ha distinto in ogni T. fisica
due gruppi di proposizioni: « uno consistente di asserzioni circa qualche
collezione di idee che sono caratteristiche della T.; l’altro consistente nelle
relazioni tra queste idee e altre idee di natura diversa ». Il primo gruppo di idee
è l’ipotesi, il secondo è il dizionario. Lo scopo del dizionario è di rendere
possibile la verifica indiretta dell’ipotesi. Dice Campbell: « Dev'essere
possibile determinare, indipendentemente dalla conoscenza della T., se certe
proposizioni che contengono le idee del dizionario sono vere o false. Il
dizionario riferisce alcune di queste proposizioni, la cui verità o falsità è
conosciuta, a certe proposizioni che comprendono le idee ipotetiche affermando
che, se il primo insieme di proposizioni è vero, allora anche il secondo è vero
e viceversa; questa relazione può essere espressa dall’asserzione che il primo
insieme implica il secondo + (Physics: the Elements, 1920, pag. 122).
Analogamente ancora G. Bergmann ha detto che una T. scientifica consiste di: 1°
assiomi; 2° teoremi; 3° prove di questi teoremi e 4° definizioni (Philosophy of
Science, 1957, pag. 35); nella quale elencazione le « prove dei teoremi»
costituiscono l’apparato di verificazione della teoria. Due osservazioni sono
molto importanti a questo proposito. La prima è che le modalità e il grado
della prova o conferma, che una T. deve possedere per essere dichiarata o
creduta «T. scientifica », non sono definibili con un criterio unitario.
Ovviamente, la verità di una T. psicologica o di una T. economica richiede
apparati di prova completamente diversi da quello di una T. fisica, perchè le
tecniche di verifica sono completamente diverse. Anche i gradi di conferma
richiesti sono diversi e spesso, fuori del campo della fisica, si chiamano « T.»
semplici congetture che non includono il minimo apparato di prova. La seconda
osservazione è che ogni apparato di prova esige la limitazione delle ipotesi
contenute nella T.: giacchè, dove queste ipotesi si possono moltiplicare ad
arbitrio, la T. può essere mantenuta anche contro qualsiasi smentita empirica e
la sua conferma diventa indifferente (come fu, ad es., nel caso della T. degli
epicicli nella cosmologia tolemaica). Ma anche con questa limitazione è spesso
difficile decidere sino a che punto l’acquisizione di qualche dato sperimentale
si concili con la T. o metta in crisi l’insieme della T. stessa. d) Una T. non
è necessariamente una spiegazione del dominio di fatti cui si riferisce, ma uno
strumento di classificazione e di previsione. Già Duhem osservava: « Una T.
vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme
alla realtà; è piuttosto una T. che rappresenta in modo soddisfacente un
insieme di leggi sperimentali » (La rhéorie physique, I, 2, 1). La verità di
una T. consiste nella sua validità; e la sua validità dipende dalla sua
capacità di adempiere alle funzioni cui è chiamata. Le funzioni di una T.
scientifica possono essere specificate come segue: 1° una T. deve costituire
uno schema 872 di unificazione sistematica per contenuti diversi. Il grado di
comprensività di una T. è uno dei fondamentali elementi di giudizio della sua
validità; 2° una T. d ve offrire un complesso di mezzi di rappresentazione
concettuale e simbolica dei dati di osservazione. Sotto questo aspetto, il
criterio cui deve soddisfare è quello dell’economia dei mezzi concettuali cioè
della sua semplicità logica; 3° una T. deve costituire un insieme di regole di
inferenza che consentano la previsione dei dati di fatto. Questo è ritenuto
oggi uno dei compiti fondamentali di una T. scientifica; e la capacità di
previsione di una T. è il criterio fondamentale per valutarlo (cfr. S. TOULMIN,
The Philosophy of Science, 1953, pag. 42; M. K. MUNITZ, Space Time and
Creation, 1957, IV, 1). TEOSI. V. DEIFICAZIONE. ‘TEOSOFIA (gr. Brocogla; ingl.
Theosophy; francese Théosophie; ted. Theosophie). Il termine veniva già usato
dai Neoplatonici per indicare la conoscenza delle cose divine dovuta a una
diretta ispirazione da Dio (PORFIRIO, De Absr., IV, 17; GIAMBLICO, De Myst.,
VII, 1; ProcLOo, Theol. Plat., V, 35). Fu ripreso nello stesso senso da Jacob
Bòhme (Sex Puncta Theosophica, 1620; Quaestiones Theosophicae, 1623) e da altri
mistici della Riforma. Kant osservava che la limitazione della ragione
«impedisce che la teologia si elevi alla T., a concetti trascendentali in cui
la ragione si smarrisce » (Crit. del Giud., $ 89). E Schelling parlava del
teosofismo di Jacobi, intendendo per teosofi i filosofi che si ritengono
direttamente ispirati da Dio (Miinchener Vorlesungen in Werke, X, pag. 165). In
seguito il termine è stato ripreso nel 1875 dai fondatori della Società
teosofica tra i quali vi era Elena Petrowna Blavatsky, autrice di due opere
/side svelata (1877) e Dottrina segreta (1888) che esponevano la nuova T.: un miscuglio
di occultismo e di credenze orientali, che si assumeva avesse a suo fondamento
una diretta ispirazione di Dio. Le vicende e le dottrine di questa società
cadono fuori della filosofia. Basti qui accennare allo scisma provocato da
Rudolf Steiner e che portò quest’ultimo alla formulazione dell’antroposofia
(v.). ‘TERMINE (gr. 6poc; lat. Terminus; inglese Term; franc. Terme; ted.
Terminus). I significati principali sono i seguenti: 1° un segno linguistico o
un insieme di segni. Questo è il significato che più da vicino interessa la
filosofia (v. oltre); 2° qualsiasi oggetto o cosa cui un discorso si riferisca.
In tal senso è sinonimo appunto di oggetto (v.) o di cosa (v.); 3° i confini di
un'estensione, per es., il T. di una linea o di una superficie; TEOSI 4° il
punto d’arrivo di un’attività o il risultato di un’operazione. In questo senso,
ad es., il T. della volontà è l’azione o dell’intelletto la conoscenza; 5° il
punto di partenza o il punto d’arrivo di un movimento. E in tal senso si parla
di terminus a quo e di terminus ad quem (v.). Nel primo significato, che
interessa la logica, si possono distinguere i seguenti significati subordinati:
a) gli elementi che entrano a comporre le premesse del sillogismo categorico
cioè il soggetto e il predicato; b) tutti i componenti semplici che entrano
nelle proposizioni. In questo senso sono T. non solo il soggetto e il predicato
ma anche i verbi, le preposizioni, le congiunzioni cioè i componenti
sincategorematici (v.). Non sono T. invece le proposizioni perchè non sono
semplici; c) tutti i componenti delle proposizioni sia semplici che complessi.
In questo senso generalissimo sono T. non solo il soggetto, il predicato, il
verbo e i componenti sincategorematici, ma anche le proposizioni in quanto
possono entrare a far parte di altre proposizioni, come quando si dice «
Socrate è uomo, è una proposizione ». Il significato a) è quello definito da
Aristotele (An. Pr., I, 1, 24b 16) e che è rimasto a lungo anche nella logica
medievale (cfr. PIETRO IsPANO, Summ. Log., 4.01). Gli altri significati sono
stati ammessi dalla logica terministica del sec. x1v e si possono leggere in
Ockham (Summa Logicae, I, 2). Data questa diversità del significato della
parola, le divisioni del concetto sono state numerose e diverse. Quella che i
logici terministi considerano come fondamentale è la divisione tra T. scritto,
T. parlato, e T. pensato, corrispondenti alle tre specie di proposizioni
distinte da Boezio. Essi distinsero inoltre i T. categorematici e
sincategorematici (v.); concreti e astratti (v.); connotativi e assoluti (v.
CONNOTAZIONE); univoci ed equivoci (v.) (cfr., su queste divisioni, OCKHAM,
Summa Logicae, I, 3 sgg.). Nella logica moderna la parola è assunta nel
significato più esteso, cioè nel senso c) (cfr. CHURCH, Introduction to
Mathematical Logic, n. 4). Nella matematica, è assunta in un analogo
significato, intendendosi per T. qualsiasi componente, semplice o complesso, di
una espressione. TERMINISMO (ingl. Terminism; franc. Terminisme; ted.
Terminismus). Sin dai princìpi del sec. xv, si indicarono con il nome di
terministi (terministae) o nominalisti (nominales) i sostenitori della tesi
nominalistica nella disputa sugli universali (v. NOMINALISMO; UNIVERSALE) che
erano, nel contempo, cultori della nuova /ogica, considerata come lo studio
delle proprietà dei termini. GioTERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL vanni Gerson
(morto il 1429) già parla della disputa tra formalisti e terministi (De
Concepribus, in Opera, 1706, IV, pag. 806). E in un manoscritto dello stesso
secolo della Biblioteca Colbert (stampato in parte da S. BaLuzi, Miscellanea,
IV, pag. 531 f) è detto: «Sono detti nominalisti i dottori che non moltiplicano
le cose significate dai termini a seconda della moltiplicazione dei termini;
realisti invece quelli che affermano che le cose si moltiplicano secondo la
molteplicità dei termini... Inoltre sono detti nominalisti coloro che usano
studio e diligenza per conoscere tutte le proprietà dei termini dalle quali
dipende la verità o la falsità delle proposizioni; le quali proprietà sono la
supposizione, la nominazione, l’estensione, la restrizione, la distribuzione e
gli esponibili: e che conoscono inoltre le antinomie (obligationes) e i veri
fondamenti degli argomenti dialettici » (riportato in PRANTL, Geschichte der
Logik, IV, pag. 187). Lo studio, di cui qui si parla, delle proprietà dei
termini, muoveva dall’indirizzo generale di questi filosofi e logici per il
quale la conoscenza e la scienza non hanno per oggetto altro che termini.
Diceva a questo proposito Ockham: « Qualsiasi scienza, sia razionale sia reale,
è scienza solo di proposizioni e di proposizioni in quanto sono conosciute, in
quanto solo le proposizioni sono conosciute. Tutti i termini di queste
proposizioni sono soltanto concetti e non già sostanze esterne» (/n Senr., I,
d. 2, + 4, M, N) (v. Logica; NOMINALISMO; UNIVERSALE). TERMINOLOGIA (ingl.
Terminology; francese Terminologie; ted. Terminologie). Un qualsiasi linguaggio
artificiale: ad es., «la T. matematica », «la T. hegeliana », ecc. TERMINUS A
QUO, AD QUEM. Espressioni usate a proposito del movimento: 7. a quo si chiama
il luogo dal quale un mobile si sforza di allontanarsi. 7. ad quem si chiama il
luogo al quale il mobile si sforza di avvicinarsi (HOBBES, De Corp., 8, $ 10;
WOLFF, Cosmol., $ 161). TERRORISMO (ingl. Terrorism; franc. Terrorisme; ted.
Terrorismus). Il termine appartiene al dominio della filosofia solo nel
significato, attribuitogli da Kant, di T. morale: che sarebbe l’interpretazione
della storia come decadenza o regresso (Der Streit der Fakultàten, 1798, 1I,
3). TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL (inglese Principle of Excluded Middle; franc. Principe du milieu ou tiers
exclu; ted. Grundsatz vom ausgeschlossenen Dritten). Fu Baumgarten il primo a dare il nome a questo
principio e a considerarlo come autonomo nei rispetti del principio di
contraddizione (Mer., 1739, $ 10) per quanto Wolff parlasse della « esclusione
del medio tra i contraddittori» come di un corollario del principio di
contraddizione (Onf., $ 53). 873 Le vicende di questo principio sono
strettamente collegate con quelle del principio di contraddizione dal quale,
sino a Baumgarten, non fu distinto. Tuttavia Aristotele lo formulò con tutta
chiarezza dicendo: « Tra gli opposti contraddittori non c’è un mezzo. Questa
infatti è la contraddizione: l’opposizione, all’una o all’altra parte della
quale è presente l’altra parte, sicchè non ha un mezzo» (Met., X, 7, 1057a 33).
Nè questa formulazione è isolata perchè (come risulta anche dal passo citato)
l’esclusione del T. è da Aristotele ritenuta ineliminabile dalla contraddizione
(cfr. C. A. ViANO, La logica di Aristotele, 1955, pag. 35 sgg.). La logica
medievale ignorò totalmente il principio, che cominciò ad essere distinto dal
principio di contraddizione solamente da Leibniz. Questi osservò che il
principio di contraddizione contiene due enunciati veri: « L’uno che il vero e
il falso non sono compatibili nella stessa proposizione o che una proposizione
non può essere vera e falsa ad un tempo; l’altro, che l’opposto o la negazione
del vero e del falso non sono compatibili o che non c’è un mezzo tra il vero e
il falso o che non è possibile che una proposizione non sia nè vera nè falsa »
(Nouv. Ess., IV, 2, 1). A partire dalla metà del sec. xv, ad opera di Wolff e
Baumgarten, il principio del T. escluso faceva il suo ingresso, insieme con
quelli di identità e di contraddizione, tra le «leggi fondamentali del pensiero
». Ma il principio del T. escluso non ha avuto la fortuna degli altri princìpi:
è stato talora revocato in dubbio. Secondo una testimonianza di Cicerone lo
revocava in dubbio Epicuro per togliere valore alla dialettica (Acad., IV, 30,
97). E mentre Hegel ripeteva contro di esso le solite critiche che indirizzava
a tutti i principi logici tradizionali (Enc., $ 119), Kant cercava di stabilire
una eccezione ad esso, nella discussione delle antinomie cosmologiche. Egli
distinse l’opposizione analitica, che è quella della contraddizione e che
esclude il medio, dall'opposizione dialettica la quale invece ammette il medio.
Se le due proposizioni: «Il mondo rispetto alla grandezza è infinito», «Il
mondo rispetto alla grandezza è finito» vengono considerate in opposizione
analitica, il mondo non può essere che o finito o infinito. Ma esse possono
essere considerate in opposizione analitica solo se si ammette che il mondo sia
una « cosa in sè » cioè solo se si ammette come valida l’idea del mondo. Kant
dichiara di negare questa validità: pertanto le due proposizioni si trovano ad
essere in opposizione dialettica e si può affermare che il mondo «non esiste nè
come un tutto in sè infinito nè come un tutto in sè finito » (Crit. R. Pura,
Dial. trasc., cap. II, sez. VII. Questo equivale a dichiarare che il principio
del T. escluso non è valido nel caso dell’opposizione 874 TERZO dialettica e a
introdurre un nuovo valore logico, accanto al vero e al falso, cioè
l’indeterminato. La logica contemporanea non si è lasciata sfuggire la
possibilità di costruire una logica che escludesse il principio del T. escluso.
Dapprima Lukasiewicz nel 1920 poi Lukasiewicz e Tarski nel 1930 hanno costruito
una logica a tre valori, corrispondenti al vero, al falso e al possibile,
simbolizzati dalle cifre 1, 0, 1/2. In questa logica il principio del T.
escluso non trova posto, nel senso che non è esprimibile con i simboli della logica
stessa e non costituisce un suo teorema (Untersuchungen liber den
Aussagenkalkiil, in Comptes rendus des Séances de la Société des Sciences et
des Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30-50, 51-77). Gli stessi autori hanno dato
le regole per costruire un sistema a un numero finito n di valori di verità
(Philosophische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des Aussagenkalkiils,
negli stessi Comptes Rendus, 1930, classe III, pag. 51-77). Questo e i
precedenti scritti citati sono ora raccolti in Polish Logic 1920-39, Oxford,
1967, pag. 15-65). Un tipo di logica polivalente era stato anche costruito da
E. L. Post (Introduction to a General Theory of Elementary Propositions, in
American Journal of Mathematics, 1921, 43, 163). A. Heyting ha costruito a sua
volta una logica intuizionistica formalizzata a tre valori, vero, falso e
indeterminato, che si applica alla teoria intuizionistica della matematica di
Brower e che implica la rinuncia alla dimostrazione per assurdo (Die formalen
Regeln der intuitionistischen Logik, in Sitzungesber. Preuss. Akad. Wiss.
[Phys.-Math. Klasse], 1930, pag. 42-56). La logica a tre valori costituisce
perciò una alternativa ai sistemi tradizionali di logica. Scriveva C. I. Lewis:
«Il principio del T. escluso non è scritto nei cieli: riflette piuttosto la
nostra ostinazione ad aderire al più semplice di tutti i modi della divisione e
il nostro interesse predominante per gli oggetti concreti, in opposizione ai
concetti astratti. Le ragioni per le quali scegliamo un sistema di logica non
sono tratte dalla logica stessa come non sono tratte dai princìpi matematici le
ragioni per scegliere le coordinate cartesiane piuttosto che quelle polari o le
coordinate di Gauss + (A/ternative Systems of Logic, in The Monist, 1932, pag.
505). H. Reichenbach ha a sua volta mostrato l’utilità della logica a tre
valori per la meccanica quantistica, data la sua natura probabilistica
(Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, $ 30) (cfr., sulla questione,
anche L. RouGIER, Traité de la connaissance, 1955, II, cap. VII. TERZO UOMO
(gr. «piroc &vipwroc). Aristotele accenna più volte a un argomento così
chiamato contro la dottrina platonica delle idee, argomento che dà per noto e
che non espone (Mer., I, 9, UOMO 990 b 17; VII, 13, 1039a 2; El. Sof., 178b 36).
Secondo Alessandro di Afrodisia (In Met., I, 9) l’argomento consisterebbe nel
dire che, poichè un uomo particolare è simile all’uomo ideale, ci deve essere
un terzo uomo di cui entrambi partecipano. Ma questo è l’argomento addotto
contro la dottrina delle idee dallo stesso Platone, che tuttavia non menziona
l’esempio dell’uomo (Parm., 132 a). Alessandro tuttavia menziona anche altre
forme dell’argomento del T. uomo: 1° una è quella usata dai Sofisti: quando
diciamo «l’uomo passeggia» non intendiamo nè l’idea dell’uomo (che è immobile)
nè un uomo particolare: dobbiamo allora intendere un uomo di una terza specie;
2° Fania, uno scolaro di Aristotele, nel suo libro contro Diodoro Crono
attribuiva al sofista Polisseno il seguente argomento. Se l’uomo esiste per
partecipazione all’idea dell’uomo, ci deve essere qualche uomo che avrà il suo
essere in rapporto all’idea: ma questo non sarà nè l'idea stessa nè l’uomo
particolare. Infine lo stesso Alessandro nota come l’argomento del T. uomo
esposto nella prima forma può essere ripetuto all’infinito perchè il rapporto
tra il T. uomo da un lato e l’idea e l’uomo particolare dall’altro possono dar
luogo al quarto e quinto uomo e via di seguito. Poichè Platone fa esporre
l’argomento da Parmenide contro quella interpretazione della dottrina delle
idee che scpara nettamente le idee stesse dalle cose, è probabile che
l’argomento fosse corrente nella stessa scuola platonica; la sua origine sembra
però megarica o sofistica (cfr. la nota di W. D. Ross a Met., I, 9, nella
edizione della Metafisica aristotelica da lui curata; nonchè del Drès al
Parmenide, nella Coll. des Univ. de France, VIII, pag. 21). TESI (gr. 6éow;
ingl. Thesis; franc. Thèse; tedesco These). Il termine deriva dai testi logici
aristotelici, nei quali ricorre con due significati principali e cioè: 1° per
designare ciò che all’inizio di una discussione l’interlocutore pone come
propria assunzione (Top., II, 1, 109a 9); 2° per designare una proposizione
assunta come principio proprio (An. Post.). Questi due significati si sono
conservati nella tradizione filosofica. Il primo ricorre già in Platone (Rep.,
I, 335a); e, secondo una tradizione riferita da Diogene Laerzio, si attribuiva
a Protagora l’aver per primo mostrato come si appoggi una T. con argomenti
(Drog. L., IX, 53). Nella terminologia dei logici medievali e dei matematici è
prevalso questo significato: la T. designa una proposizione che ci si accinge a
dimostrare. Con Kant il termine ha acquistato un nuovo valore filosofico: nelle
antinomie della Ragion pura T. è l'enunciato affermativo dell’entinomia (v.).
TETICO Nella dialettica post-kantiana, il momento della T. è l’elemento
positivo o di posizione, quindi iniziale, di un processo o sviluppo dialettico
(v. DIALETTICA, 4°). G. P. TESTABILITÀ o ATTESTABILITÀ (inglese Testability;
franc. Testabilité; ted. Testabilitàt). La possibilità di un enunciato di
essere messo a prova e quindi d’essere confermato o verificato oppure
sconfermato o falsificato. Il termine è frequentemente usato da logici e
metodologi contemporanei. L’attestabilità comprende ogni possibilità di
conferma, di verifica, di accertamento e di controllo, in quanto ognuna di tale
possibilità può mettere capo sia alla prova (v.) sia alla disprova
dell’enunciato in questione. Carnap ha tuttavia ristretto il significato del
termine a quello di verifica empirica incompleta, giacchè ha inteso per esso «
una procedura la quale conduce alla conferma, almeno in un certo grado,
dell’enunciato o della sua negazione ». Si ha la T., se si possiede
effettivamente una procedura del genere. Si ha invece la semplice
confermabilità se pur non possedendosi quella procedura, si conoscono le
condizioni nelle quali l’enunciato sarebbe confermato. Un enunciato può essere
così confermabile senza essere attestabile: come accade quando si sa che una
certa osservazione lo confermerebbe, ma non si è in grado di effettuare
l’osservazione stessa (Testability and Meaning, 1936, in Readines in the
Philosophy of Science, 1953, pag. 47). Camap ha pure distinto ciò che è
direttamente e ciò che è indirettamente attestabile. Qualcosa è direttamente
attestabile se «sono concepibili circostanze nelle quali noi consideriamo
fiduciosamente l’enunciato così fortemente confermato o disconfermato sulla
base di una o poche osservazioni, che lo accettiamo o lo rigettiamo senz'altro;
come, per es., ‘c’è una chiave sul mio tavolo ’ ». L’attestazione indiretta di
un enunciato consiste invece « nell’attestare direttamente altri enunciati i
quali stanno in una relazione logica specifica con l’enunciato in questione ».
Questi altri enunciati possono essere chiamati enunciati-prova (rest sentences)
(Truth and Confirmation, 1936, in Readings in Philosophical Analysis, 1949,
pag. 124). TESTIMONIANZA (ingl. Witnessing, Testimony; franc. Témoignage; ted.
Zeugniss). Il ricorso all’esperienza altrui o alle altrui asserzioni come
metodo di prova per le proposizioni che esprimono fatti. Già Aristotele aveva
notato che la T. può riferirsi «0 a questioni di fatto o a questioni di
caratteri personali » che sono anche questioni di fatto (Ret., I, 15, 1376 a
23). Il valore della testimonianza in questo senso si trova riconosciuto nella
Logica di Portoreale (1662). « Per giudicare della verità di un avvenimento e
determinarmi a 875 crederlo o non crederlo, non bisogna considerarlo in se
stesso, come si farebbe con una proposizione di geometria, ma bisogna
considerare tutte le circostanze che lo accompagnano, sia interne che esterne.
Chiamo interne le circostanze che appartengono al fatto stesso, ed esterne
quelle che concernono le persone per la cui T. siamo portati a crederlo »
(ARNAULD, Log., IV, 13). Locke a sua volta introduceva la T. come uno dei due
fondamenti del giudizio di probabilità (l’altro essendo «la conformità di una
cosa con la nostra conoscenza, osservazione od esperienza »). Nella T. degli
altri sono, secondo Locke, da considerare: « 1° il numero dei testimoni; 2° la
loro integrità; 3° la loro capacità; 4° l'intento dell’autore, se la T. è
tratta da un libro; 5° la coerenza tra le parti e le circostanze della relazione;
6° le T. contrarie » (Saggio, IV, 15, 4). Leibniz ammetteva il valore della T.
solo subordinatamente al carattere di verisimiglianza dell’evento testimoniato,
come argomento « non artificiale» che si differenzia da quelli «artificiali»
che sono dedotti dalle cose con il ragionamento. Tuttavia osservava che la
stessa T. può fornire un fatto che tende a formare un argomento artificiale
(Nouv. Ess., IV, 15, 4). Hamilton così riassumeva la dottrina della T.: «
L'oggetto della T. è detto il farro (factum); e la sua validità costituisce ciò
che si chiama la credibilità storica (credibilitas historica). Per valutare
questa credibilità si richiede di considerare: 1° l'attendibilità soggettiva
della T. (fides testium); 2° la probabilità oggettiva del fatto. La prima è
fondata in parte sulla sincerità e in parte sulla competenza del testimone. La
seconda dipende dalla possibilità assoluta e relativa del fatto stesso. La T. è
o immediata o mediata. È immediata quando il fatto riportato è l’oggetto di
un’esperienza personale; è mediata quando il fatto è l'oggetto di un’esperienza
altrui» (Lectures on Logic, 2* ediz., II, pag. 175-76). TEST-SENTENCE. V.
TESTABILITÀ. TETICA (ted. Therik). Secondo Kant, « ogni insieme di dottrine
dogmatiche », in opposizione ad Antitetica (v.) (Crit. R. Pura, Dialettica,
libro II, cap. 2, sez. 2). TETICO (ingl. Thetic; franc. Thétique; tedesco
Thetisch). Che afferma o pone. Fichte chiamò giudizio T. «un giudizio nel quale
qualcosa sarebbe posta non già come uguale o contraria di un’altra, ma solo
come uguale a se stessa ». Questo giudizio si distinguerebbe dal giudizio
antitetico e dal giudizio sintetico e precisamente si opporrebbe al giudizio
antitetico. Il supremo giudizio T. sarebbe «Io sono» nel quale, dice Fichte «
dell’io non si afferma nulla ma il posto del predicato è lasciato vuoto per la
possibile determinazione dell’io all’infinito ». Questo giudizio sarebbe «
l’as876 soluta posizione dell'io » (Wissenschaftslehre, 1794, 1,$3,D7.
L'aggettivo è stato poi spesso adoperato in senso analogo a quello stabilito da
Fichte. Husserl ha chiamato T. «gli atti che pongono l’essere » cioè che hanno
il carattere della credenza (/deen, I, $ 103), TETRAKTYS (gr. terpaxtic).
Secondo i Pitagorici, la somma dei primi quattro numeri, cioè il numero 10, in
quanto rappresentabile con un triangolo che ha il quattro per lato. (Carm.
Aur., 48). La figura costituisce una disposizione geometrica che esprime un
numero o un numero espresso da una disposizione geometrica. Essa aveva un
carattere sacro e i Pitagorici usavano giurare per essa. TEURGIA (gr. deovpyla;
lat. Theurgia; inglese Theurgy; franc. Théurgie; ted. Theurgie). Il potere
magico o purificatorio delle tecniche religiose cioè dei riti. Già ammessa da
Porfirio (cfr. AGOSTINO, De Civ. Dei, X, 9), essa fu posta da Giamblico al di
sopra dell’unione spirituale con Dio cioè dell’estasi. Il proprio della T, è,
secondo Giamblico, il valore autonomo che i riti posseggono, indipendentemente
da coloro che li adoperano: cioè la loro capacità di muovere o persuadere le
potenze divine (De Myst. Aegyp., II, 11). S. Agostino si fermò a criticare
lungamente la T. che pareva a lui si rivolgesse indifferentemente sia ai demoni
cattivi sia agli angeli (De Civ. Dei, X, 10 sgg.). Kant considerò la T. come «
quella illusione fantastica che consiste nel credere di avere il senso di altri
esseri soprasensibili e di poter influire su di essi» e ritenne che essa, come
la teosofia, è resa impossibile dal riconoscimento della limitazione della
ragione (Crit. del Giud., $ 89). TICHISMO. V. CasuaLisMo. TIMOCRAZIA (gr.
tiuoxparta; ingl. Timocracy; franc. Timocratie; ted. Timokratie). 1. La forma
di governo fondata sul desiderio degli onori che, secondo Platone, è una
corruzione dell’aristocrazia (Rep., VII, 545 b). 2. La forma di governo fondata
sul censo, secondo Aristotele (E. Nic., VIII, 10, 1160a 36). TIMOLOGIA.
AxioLogia. TIPICA (ingl. Typics; franc. Typique; tedesco Typik). Kant ha
chiamato «T. del giudizio pratico» ciò che nella Critica della Ragion Pratica
corrisponde allo schematismo (v.) trascendentale della Critica della Ragion
Pura. Il tipo della legge morale è la stessa legge morale in quanto « può
essere manifestata in concreto nell’oggetto dei sensi » cioè in quanto è
liberamente realizzata nel mondo sensibile (Crir. R. Prat., I, libro I, cap.
II). TIPICO (ingl. Typical; franc. Typique; ted. Typisch). In generale, ciò che
corrisponde ad un tipo cioè ad un modello o a una rappresentazione generale o
schematica o ciò che esprime o realizza i TETRAKTYS caratteri del tipo. Così,
ad es., la « bellezza T.» che Ruskin esaltava è una bellezza idealizzata
secondo un certo modello. La « rappresentazione T.+» è una rappresentazione
generalizzata e comune a una classe di cose. I « caratteri T. + sono quelli che
contrassegnano il tipo; mentre una «esperienza T.» è un’esperienza che può far
da modello a molte altre esperienze o ne riassume i caratteri comuni. Il
termine, come si vede, non ha un significato rigoroso ma implica costantemente
il riferimento a ciò che è comune e generale e che, appunto come tale, è
ritenuto fondamentale. TIPO (gr. ròrog; ingl. Type; franc. Type; tedesco
Typus). Nel senso di modello, forma o schema o insieme collegato di
caratteristiche che può essere ripetuto da un numero indefinito di esemplari,
la parola è usata già da Platone (Rep., 379 a, 380, 396 e, ecc.) e da
Aristotele (Er. Nic., II, 2, 1104 a 1; Ibid., II, 7, 1107b 14; ecc.). Galeno la
usò per indicare le forme della malattia (Op., ed. Kihn, VII, 463). E la parola
è rimasta con lo stesso significato in molti usi correnti del linguaggio
comune, scientifico e filosofico. In particolare la biologia e la psicologia
fanno un uso amplissimo del termine e lo considerano fondamentale. Dice, ad
es., Kretschmer: « Ciò che noi chiamiamo, matematicamente, punti focali di
correlazioni statistiche, chiamiamo anche, in prosa più descrittiva, T.
costituzionali... Un T. vero può essere riconosciuto dal fatto che esso conduce
a sempre maggiori connessioni di importanza biologica. Dove vi sono molte e
sempre nuove correlazioni con i fattori biologici fondamentali... abbiamo a che
fare con punti focali della più grande importanza » (Korperbau und Charakter,
1948). Nella psicologia analogamente il T. è definito come «un gruppo di tratti
correlativi + allo stesso modo in cui un tratto è definito come un gruppo di
atti comportamentistici o di tendenze di azioni correlative (H. J. EySENCK, The
Structure of Human Personality, 1953, pag. 13 sgg.). Il significato della
parola non cambia nella cosiddetta « teoria dei T. logici » di Russell e
Whitehead, nella quale designa appunto le forme o i modelli dei concetti (v.
ANTINOMIA). Peirce ha inteso per T. una parola o un segno che non è una cosa
singola o un singolo evento ma una « forma definitamente significante » che per
essere usata deve prender corpo in un gettone (Token) che dev'essere il segno
di un T. e perciò dell'oggetto che il T. significa. Un T. è, per es.,
l’articolo «il» nella lingua italiana che non può essere visto o ascoltato
perchè non è un singolo evento, ma determina i singoli eventi cioè i gettoni o
gli esempi di esso nel discorso scritto o parlato (Coll. Pap., 4.537) (v.
GETTONE; PAROLA; SEGNO). TOLLERANZA TIPOLOGIA (ingl. Typology; franc.
Typologie; ted. Typologie). Lo studio dei tipi, in una qualsiasi disciplina o
scienza; ad es., T. biologica, T. razziale, T. psicologica, ecc.TIRANNIDE(gr.
tupawilc; lat. Tyrannis; ingl. Tyranny; franc. Tyrannie; ted. Tyrannie). La
forma di governo nella quale l’arbitrio di una o più persone tiene il posto del
diritto. Il concetto di T. fu elaborato dai Greci, insieme con quello di libera
costituzione. La definizione del tiranno è già contenuta nei versi di Euripide:
« Non c’è peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono
tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la legge»
(Suppi., II, 429-32). Secondo Platone la T. è lo sbocco dell'eccessiva libertà
in cui cadono talora le democrazie. « Il popolo fuggendo il fumo, come si suol
dire, della servitù sotto un governo di uomini liberi si trova, con la T.,
caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di
quell’eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello
schiavo e a soggiacere alla più triste ed amara delle servitù, quella d’essere
servo dei servi » (Rep., VIII, 569 b-c). A sua volta Aristotele dice che la T.
raccoglie insieme i mali della democrazia e della oligarchia. Dalla oligarchia
prende il suo fine che è la ricchezza (che è l’unica condizione a cui si può
mantenere la guardia e la vita di lusso) nonchè la sfiducia nel popolo cui
toglie le armi e il danneggiamento della popolazione allontanata dalla città e
dispersa nelle campagne. Dalla democrazia prende la lotta contro i maggiorenti,
la loro rovina provocata occultamente o manifestamente e il loro esilio (Pol.,
V. 1, 1311 a 8 sgg.). Nel Medio Evo, mentre S. Tommaso ritiene che « dalla
monarchia se si trasforma in T. segue minor male che da un governo di più
ottimati quando si corrompe» (De regimine principum, I, 5); e condanna il tirannicidio,
affidando alla pazienza dei sudditi la sopportazione della T. o a un potere
superiore il potere di eliminarla (/bid., I, 6), Giovanni di Salisbury fa una
esplicita difesa del tirannicidio perchè considera il tiranno come un ribelle
contro la legge dalla quale i re, come tutti i cittadini, sono vincolati
(Policraticus, IV, 7). Queste idee furono poi spesso ripetute dai monarcomachi
e giusnaturalisti del sec. xvi e xvil. Diceva Bodin: «La più notevole
differenza tra il re e il tiranno è che il re si conforma alle leggi di natura,
il tiranno le calpesta; l’uno coltiva la pietà, la giustizia e la fede, l’altro
non ha Dio nè fede nè legge» (De la République, 1576, II, 4, 246). A sua volta
Locke affermava: « Dove la legge finisce, comincia la T., quando la legge sia
trasgredita a danno di altri, e chiunque nell’autorità ecceda il potere
conferitogli dalla legge e fa uso della forza per com877 piere nei riguardi dei
sudditi ciò che la legge non permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e,
in quanto delibera senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a
un altro qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui » (Two 7reatises of
Governementr, II, $ 202). Hobbes aveva affermato al contrario che «coloro che
sono contrari ad una monarchia la chiamano tirannia + (Leviarà., II, 19, 2). Il
concetto della T. ha accompagnato la formazione del liberalismo politico perchè
è servita come pietra di paragone o come simbolo di tutto ciò che il
liberalismo condannava. Come tale, essa ha pure costituito uno dei temi della
retorica rivoluzionaria e liberale dal sec. xvi in poi. Oggi si fa un uso assai
meno frequente del termine, non già perchè i regimi tirannici siano spariti o
sia sparito il pericolo che essi si instaurino anche là dove vige un certo
grado di libertà, ma solo perchè il termine sembra appartenere ad un tipo di
retorica caduto in disuso. Assolutismo o totalitarismo sono i termini che hanno
sostituito tirannide. Ma il concetto non è mutato; e queste stesse parole
significano ancora: un regime in cui l’arbitrio individuale tiene il posto
della legge; una servitù imposta da servi: un governo che non si può mutare nè
correggere se non con la violenza. TITANISMO. V. RoManTICISMO. TOLLERANZA
(ingl. Toleration; franc. Tolérance; ted. Toleranz). 1. La norma o il principio
della libertà religiosa. Si è ritenuta talora poco adatto a designare questo
principio un termine che significa « sopportazione »; ma in realtà la parola è
stata l'emblema di quella libertà sin dalle prime lotte che essa è costata e attraverso
le quali si è venuta affermando in forme che sono ancor oggi deboli o
incomplete. Nessun altro termine potrebbe perciò sostituirla. Fin da queste
lotte, la T. fu intesa come la coesistenza pacifica tra varie confessioni
religiose ed oggi s’intende, in senso ancora più generale, come la coesistenza
pacifica di tutti gli atteggiamenti possibili in materia religiosa. Il criterio
per riscontrare se tale esigenza si trova realizzata nelle situazioni storiche
o politiche particolari è uno solo: la sua realizzazione significa infatti che
nessuna violenza o inquisizione giuridica o poliziesca o diminuzione o perdita
di diritti o discriminazione qualsiasi, colpisca il cittadino a causa delle sue
convinzioni, positive o negative, in materia religiosa. Il principio della T. o
almeno un suo corollario immediato, la possibilità di salvarsi anche senza la
fede cristiana, compare in qualche filosofo del sec. xIv specialmente in
Ockham. Dice Ockham: « Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive
secondo i dettami della retta ragione e non 878 creda se non a ciò che la sua
ragione naturale conclude che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se
Dio così dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita
che la retta ragione + (/n Senr., III, q. 8, ©). D'altronde la T. religiosa è
già implicita nel concetto che Ockham aveva della Chiesa infallibile come della
comunità dei fedeli vissuti dai tempi dei profeti fino ad oggi (Dialogus inter
magistrum et discipulum, I, IV, in GoLpasT, Monarchia, II, pag. 402); e del
papato come di un principato ministrativus che non può togliere a nessuno i
diritti e le libertà che Dio ha dato a tutti gli uomini e che il cristianesimo
è venuto a rivendicare (De Imperatorum et Pontificum Potestate, IV, ed. Scholz,
II, pag. 458). La famosa novella di Boccaccio dei tre anelli (Decamerone, 28)
illustra ugualmente la possibilità di salvezza data egualmente a Maomettani,
Ebrei e Cristiani. Tuttavia, il principio della T. cominciò ad affacciarsi come
elemento indispensabile della vita civile dell’occidente soltanto dopo la
Riforma, nelle lotte che contrapposero l’una all’altra le varie parti della
cristianità. Probabilmente fu esplicitamente affermato per la prima volta da
quel gruppo di riformati italiani che respinsero il dogma della Trinità cioè
dai Sociniani, che furono costretti da Calvino a fuggire in Transilvania e in
Polonia dove propagarono la loro dottrina. Nel 1565 Giacomo Aconcio nel suo
Straragemata Satanae vedeva nell’intolleranza religiosa un tranello di Satana e
affermava che è essenziale alla fede solo ciò che incoraggia la speranza e la
carità. Nel 1580 Michele di Montaigne difendeva in un suo saggio, per motivi di
natura politica, la libertà di coscienza (Ess., II, 19). Verso il 1593 Jean
Bodin nel Colloquium heptaplomeres, sosteneva la necessità della pace religiosa
ottenibile con un ritorno alla religione naturale che eliminerebbe le
controversie dogmatiche. A sua volta Grozio riteneva fondamentali le credenze
della religione naturale e non obbliganti quelle della religione positiva che
sono spesso ambigue. Secondo Grozio, credere nel cristianesimo è possibile solo
con l’aiuto misterioso di Dio; e per conseguenza volerlo imporre con le armi è
contrario alla ragione (De jure belli ac pacis, 1625, II, 20, 48-49). Il poeta
Milton scriveva nel 1644 il suo discorso per la libertà di stampa intitolato
Areopagitica. Tutte queste difese del principio della T. adducono in favore di
esso argomenti politici e religiosi, più che filosofici o concettuali; più
spesso anzi gli argomenti addotti sono specificamente religiosi e hanno quindi
valore soltanto per chi condivida le credenze religiose cui esse fanno appello.
Il primo a impiantare la difesa della T. su argomenti obiettivi è stato Spinoza
che ha addotto in TOLLERANZA favore di esso l’argomento principe e, cioè che la
violenza e l'imposizione non possono promuovere la fede e che pertanto le leggi
che si propongono questo scopo sono inutili (Tractatus rheologico-politicus,
1670, cap. 20). Ma da questo punto di vista è e rimane classica l’Epistola
sulla T. (1689). In questo scritto Locke fa vedere come, esaminando
indipendentemente l’uno dall’altro il concetto dello Stato e quello della
Chiesa, il principio della T. risulti come il punto d’incontro dei loro compiti
e dei loro interessi rispettivi. Lo Stato è infatti « una società di uomini
stabilita unicamente per conservare e promuovere i beni civili »: intendendosi
per beni civili la vita, la libertà, l’integrità e il benessere corporeo, il
possesso dei beni esterni, ecc. Tra i suoi compiti pertanto non rientra la cura
delle anime e della loro salvezza eterna perchè di fronte a questo compito il
magistrato civile, da un lato è incompetente come qualsiasi altro cittadino,
dall’altro non ha alcun strumento efficace: giacchè l’unico suo strumento è la
costrizione e nessuno può essere costretto a salvarsi. Dall’altro lato, la
Chiesa è « una libera società di uomini, congiuntisi spontaneamente per servire
Dio in pubblico a quel modo che giudicano a Lui più accetto, per conseguire la
salute delle loro anime +. Come società libera e volontaria essa non può
vincolare nessuno con la forza; e le sanzioni che sono di sua competenza sono
le esortazioni, gli ammonimenti e i consigli che, soli, possono promuovere la
persuasione e la fede. Il principio della T. garantisce ugualmente l’interesse
religioso della Chiesa e l’interesse politico dello Stato, i diritti dei
cittadini e le esigenze dello sviluppo culturale e scientifico. Tuttavia,
neppure nell’Epistola di Locke il principio della T. ha un’espressione completa
perchè Locke riteneva che « coloro che negano l’esistenza di Dio, non devono
essere tollerati in alcun modo +. Soltanto il trionfo dell’Illuminismo nel sec.
xvui e del pensiero politico liberale nel sec. xix, hanno portato a riconoscere
il principio di T. nella sua forma completa, che è quella esposta sopra. Poco o
nulla però la posteriore letteratura ha aggiunto alle giustificazioni date a
questo principio dallo stesso Locke; e neppure, a questo proposito, si
distingue il Trattato sulla T. (1763) di Voltaire che è giustamente famoso per
l’influenza storica che esercitò. Il principio della T. è entrato a far parte
della coscienza civile dei popoli di tutto il mondo. Tuttavia, la sua
realizzazione nelle istituzioni che reggono la vita di molti popoli è
incompleta e soggetta a sempre nuovi pericoli. Le discussioni che talora
suscita sono prevalentemente ispirate dal desiderio di mantenere o di
riconquistare, a qualche partiTOTALITÀ colare confessione religiosa, un
privilegio di fatto che si cerca alla meglio di conciliare con l’ossequio
formale reso al principio (cfr. specialmente: F. RurFINI, La libertà religiosa,
1901; LuIcI LUZZATTI, La libertà di coscienza e di scienza, 1909; J. B. Bury, A
History of Freedom of Thought, 1913; nuova ediz., 1952; W. K. JorDaN, The
Development of Religious Toleration in England, 1932 sgg. 2. Nel linguaggio
comune, e talora in quello filosofico, la T. è intesa anche in un senso più
vasto, come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale.
Così intesa è identificata con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli
interessi nella società contemporanea; e talvolta si scorge in questo
pluralismo un mezzo per mantenere il controllo dei gruppi sociali esistenti
sull’intera società e quindi un ostacolo alla realizzazione di una forma nuova
di società. Per « T. pura» si intende talora quella estesa alle politiche, alle
condizioni e ai modi di comportamento che non dovrebbero essere tollerati,
perchè impediscono, se non distruggono, le probabilità di creare un’esistenza
senza paura e sofferenza; e Marcuse ha affermato che, se la T. indiscriminata è
giustificata nei dibattiti innocui e nelle discussioni accademiche ed è
indispensabile nella religione e nella scienza, non può essere ammessa quando
sono in giuoco la pace, la libertà e la felicità dell’esistenza, perchè in
questo caso equivarrebbe alla repressione di ogni fattore innovatore nella
realtà sociale (A Critigue of Pure Tolerance, di WoLFF, MOORE jr. e MARCUSE,
1965). Tuttavia, in questo significato più generico, la parola T. non si
distingue da libertà e i suoi problemi sono senz'altro quelli dei limiti e
delle condizioni della libertà politica. TOLLERANZA, PRINCIPIO DI. V.
ConTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; CCONVENZIONALISMO. TOMISMO (ingl. Thomism; franc.
Thomisme; ted. Thomismus). I capisaldi della filosofia di S. Tommaso, che sono
stati ritenuti e difesi dagli indirizzi medievali e moderni che si ispirano a
lui. Tali capisaldi possono essere ricapitolati così: 1° La dottrina dei rapporti
tra ragione e fede consistente nell’affidare alla ragione il compito di
dimostrare i preamboli della fede (v. PREAMBULA), di chiarire e difendere i
dogmi indimostrabili e di procedere in modo relativamente autonomo (cioè salvo
il rispetto delle verità di fede che non possono essere contraddette) nel
dominio della metafisica e della fisica; 2° La dottrina della analogicità
dell’essere (vedi ANALOGIA) che consiste nel ritenere che il termine essere
riferito alla creatura ha un significato non identico ma solo simile o
corrispondente all'essere di Dio. Questo principio, che S. Tommaso derivava da
Avicenna, serve a stabilire la distinzione tra 879 teologia e metafisica e la
dipendenza della metafisica dalla teologia; 3° La dottrina del carattere
astrattivo della conoscenza, la quale consiste in ogni caso nell’astrarre
dall’oggetto o la specie sensibile o la specie intellegibile (che corrisponde
all’essenza della cosa); 4° La dottrina che l’individuazione dipende dalla
materia segnata (v. INDIVIDUAZIONE); 5° L’illustrazione rimasta classica dei
due dogmi cristiani della Trinità e dell’Incarnazione (v. INCARNAZIONE;
RELAZIONE; TRINITÀ). Questi capisaldi distinguono nettamente il T. dallo
scotismo (v.) con cui esso si divise il campo nei secoli x1v e seguenti; e costituiscono
anche i punti di maggior interesse della ripresa del T. nella neoscolastica
contemporanea. Alla formazione storica del T. aveva contribuito oltre l’opera
di Alberto Magno, maestro di S. Tommaso, l'opera di Avicenna e quella di Mosè
Maimonide. TOPICA (gr. roruà téxm; lat. Topica; ingl. Topics; franc. Topique;
ted. Topik). La teoria dei luoghi logici e l’arte di inventarli (v. LuoGHI).
Kant ha chiamato 7. trascendentale la dottrina dei luoghi trascendentali cioè
dei posti che si assegnano ai concetti nella sensibilità o nell’intelletto
puro. Questa T. dovrebbe evitare l’anfibolia dei concetti di riflessione cioè
l’uso malsicuro di questi concetti (Crir. R. Pura, Analitica trasc., Nota
all’anfibolia). Droysen ha parlato anche di una 7. storiografica che sarebbe la
raccolta delle esposizioni di ciò che è stato storicamente indagato (Grundzijge
der Historik, 1882, $ 18). TOPOLOGIA (ingl. Topology; franc. Topologie; ted.
Topologie). Con questo nome o con quello di analysis situs s'intende, da un
secolo a questa parte, lo studio delle proprietà delle figure geometriche che
rimangono invarianti anche quando le figure stesse sono sottoposte a
trasformazioni così radicali da perdere le loro proprietà metriche e
proiettive. La T. ha il suo precursore in Eulero (1707-83); ma la sua prima
formulazione si trova nell’opera di A. F. Moebius (1790-1868) (cfr.
specialmente O. VEBLEN, Analysis situs, 2> ediz., 1931, e le voci GRUPPO;
TRASFORMAZIONE). Alcuni concetti della T. trovano applicazioni in altre
discipline. In particolare nella psicologia della forma è stato utilizzato il
concetto topologico di regione (con le sue varie determinazioni) che si presta
a esprimere lo spazio vitale di un organismo (Kurt LEWIN, Principles of
Topological Psychology, 1936, specialmente cap. XI sgg.) (vedi CAMPO;
PSICOLOGIA). TOTALITÀ (gr. rè 820y; lat. Universitas; inglese Torality; franc.
Totalité; ted. Allheit, Tota880 litàt). Un tutto completo nelle sue parti e
perfetto nel suo ordine. Questo fu il concetto che Aristotele dette della T. in
quanto distinta dal tutto le cui parti possono mutare la loro disposizione
senza modificare l’insieme (Mer., V, 26, 1024a 1). In questo senso il mondo
(cosmo) è una T., ma non così l’universo (v. MonDO). La nozione di T. ha
conservato anche nelle lingue moderne la caratteristica della completezza e
della perfetta disposizione delle parti. Secondo Kant, la «T. delle condizioni»
corrisponde, nella sintesi dell’intuizione, all’universalità del predicato
nella premessa maggiore del sillogismo. La nozione di una T. delle condizioni è
l’idea della Ragion pura. L'idea è perciò, secondo Kant, la nozione di una
perfezione, sebbene non di una perfezione reale (Crit. R. Pura, Dialettica,
libro I, sez. I-II) (v. TUTTO). TOTALITARISMO (ingl. Totalitarianism; franc.
Totalitarisme; ted. Etatismus). La dottrina o la prassi dello Stato totalitario
cioè dello Stato che pretende identificarsi con l’intera vita dei suoi
cittadini. Il termine è stato coniato per indicare la dottrina del fascismo
italiano e del nazismo tedesco. È talora anche usato a indicare ogni dottrina
assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. La parola viene usata in questo
senso da G. H. SABINE, A History of Political Theory, 1951, cap. 35; trad.
ital., pag. 708 sgg.). Spesso per estensione s’intende per T. Sl forma di
assolutismo dottrinale o politico. TOTEMISMO (ingl. Totemism; franc. Totémisme;
ted. Totemismus). La credenza nel rotem o l’organizzazione sociale fondata su
questa credenza. Il termine totem è stato desunto dal linguaggio degli Indiani
d'America e poi esteso a indicare il fenomeno (che si ripresenta in tutti i
popoli primitivi) per il quale una cosa (naturale o artificiale) diventa
l'emblema del gruppo sociale e la garanzia della sua solidarietà. Su questo
carattere del torem ha insistito soprattutto Durkheim, che ha visto in esso
l’espressione dell’unità del gruppo sociale nella sua interezza e perciò nelle
relazioni che i c/ans, in cui esso si divide, hanno l’uno con l’altro (Les
formes élementaires de la vie religieuse, 1912). Accanto a questo carattere del
T., A. R. RadcliffeBrown ha messo in luce il suo carattere ancora più
universale, consistente nel fatto che il T. costituirebbe « una
rappresentazione dell’universo come un ordine morale e sociale » e pertanto la
regolazione del rapporto tra l’uomo e la natura, oltre che quella del rapporto
tra l’uomo e l’uomo come tale, sarebbe un elemento universale della cultura
umana (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VI). A un
fenomeno linguistico formale sembra invece ridurre il T. Levi-Strauss: «Il
cosiddetto T. è solo un’espressione particolare, per mezzo di una speciale
nomenclatura formata di nomi TOTALITARISMO di animali e di piante (o come noi
diremmo, in un certo codice) la quale è il suo solo carattere distintivo, delle
correlazioni e opposizioni che possono essere formalizzate in altri modi: per
es., come accade in certe tribù del Nord e Sud America, da opposizioni del tipo
cielo-terra, guerra-pace, in su-in giù, rosso-bianco, ecc.» (Le rotémisme
ajourd’hui, 1962, pag. 127). Dall'altro lato Freud aveva presentato una
interpretazione psicanalitica del T.: « Se l’animale rotem è il padre, allora i
due principali precetti del T., quello di non uccidere il totem e quello di non
usufruire sessualmente di alcuna donna dello stesso fofem, coincidono in
sostanza con i due crimini di Edipo che uccise suo padre e prese in moglie sua
madre, e con i desideri primitivi del bambino, desideri la cui rimozione
insufficiente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le
psiconevrosi » (Totem e tabù, 1913, IV, 3; trad. ital., pag. 146). Per una
concezione analoga a questa di Freud cfr. J. G. FRAZER, Totemism and Exogamy,
1910. TOTO-PARZIALE, TOTO-TOTALE (inglese Toto-partial, Toto-total).
Espressioni adoperate da W. Hamilton per indicare rispettivamente la
proposizione in cui il soggetto è preso universalmente e il predicato
particolarmente (es.: gli uomini sono animali) e la proposizione in cui sia il
soggetto che il predicato sono presi universalmente (es.: gli animali sono
mortali) (Lecrures on Logic, II, pag. 287). TRADIZIONALISMO (ingl.
Traditionalism; franc. Traditionalisme; ted. Traditionalismus). 1. La difesa
esplicita della tradizione, che, nell’ambito dello spirito romantico, trovò in
Francia i suoi protagonisti in: Madame de Staél (1766-1817), che nella sua
opera De l’Allemagne (1813) vide nella storia umana una progressiva rivelazione
religiosa; Renato di Chateaubriand (1769-1848) che nel Génie du Christianisme
(1802) vide nel cattolicesimo il depositario dell’intera tradizione delle
umanità; e in Luigi de Bonald (1754-1840), Giuseppe de Maistre (1753-1821) e
Roberto Lamennais (1782-1854) che si fecero paladini nei loro scritti delle due
istituzioni fondamentali, in cui la tradizione si incarna e contro cui l’Illuminismo
aveva polemizzato e la Rivoluzione combattuto: la Chiesa e lo Stato. Pertanto
questi scrittori furono anche detti feocratici o ultramontanisti (v.
TEOCRAZIA). 2. In senso più generale e filosofico, per T. si può intendere il
ritorno alla tradizione che fu un aspetto importante del Romanticismo nella
prima metà del sec. xIx e che ha tra i suoi protagonisti, oltre che i grandi
romantici come Fichte Schelling ed Hegel, Maine de Biran (1766-1824), Antonio
Rosmini Serbati (1797-1855), Vincenzo Gioberti (1801-52) e lo stesso Giuseppe
Mazzini (1805-72), oltre altri scrittori minori sia dell’800 italiano sia
TRADIZIONE 881 di altre nazioni: per es., l’inglese Giacomo Martineau
(1805-1900). L’idea comune di tutti questi pensatori è che sia il pensiero
individuale sia la tradizione dell’umanità si fondano su una diretta
rivelazione di Dio, che è compito dell’uomo sviluppare con la riflessione
individuale e con l’azione collettiva. L’idea dell’essere di Rosmini è la
migliore espressione concettuale di questa nozione di rivelazione progressiva.
Applicato alla storia, tale concetto non è altro che quello del
provvidenzialismo (v.). TRADIZIONE (gr. rapàdoor; ingl. Tradition; franc.
Tradition; ted. Ùberlieferung). L'eredità culturale cioè la trasmissione da una
generazione all’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della filosofia
l’appello alla T. implica il riconoscimento della verità della T. stessa. La T.
diventa, da questo punto di vista una garanzia di verità e talvolta l’unica
garanzia possibile. In tal senso essa era intesa dallo stesso Aristotele che
più volte, nel corso della sua indagine, fa appello alla T. e la assume come
garanzia di verità: «I nostri antenati delle più remote età hanno trasmesso
alla loro posterità tradizioni in forma mitica che i corpi celesti sono
divinità e che il divino abbraccia l’intera natura. Altre T. sono state
aggiunte in forma mitica per la persuasione dei più e allo scopo di rafforzare
le leggi e di promuovere l’utilità pubblica; esse dicono che gli dèi hanno forma
di uomini o di altri animali e danno su di essi altri dettagli simili. Ma se
consideriamo solo il punto essenziale, separatamente dal resto, che le prime
sostanze sono tradizionalmente credute divinità, possiamo riconoscere che
questo è stato divinamente detto e che, per quanto le arti e le filosofie
possono avere spesso esplorato e perfezionato e di nuovo perduto, questi miti e
altri sono stati conservati sino ad oggi come antiche reliquie. È solo in
questo modo che noi possiamo rendere chiare le opinioni dei nostri antenati e
predecessori » (Mer.). La sua stessa filosofia appare così ad Aristotele come
la liberazione della T. dai suoi elementi mitici, perciò come una scoperta
della T. autentica e nello stesso tempo come fondata sulla garanzia che questa stessa
T. le offre. È questo il punto di vista che divenne prevalente nell’ultimo
periodo della filosofia greca e specialmente nell’indirizzo neoplatonico.
Plotino diceva: « Bisogna credere senza dubbio che la verità è stata scoperta
da antichi e beati filosofi; a noi conviene di esaminare quali sono coloro che
l’hanno incontrata e come possiamo noi stessi arrivare a comprenderla » (Enn.,
III, 7, 1). Fu questa l’idea dominante nel cui ambito fu possibile fabbricare,
in appoggio di una T. presunta, documenti fittizi quando quelli autentici
mancavano; e le opere di falsa attribuzione, le più famose delle quali furono
56 quelle di Ermete Trismegisto, obbediscono appunto all’esigenza di rinviare
nel passato la dottrina in cui si crede e di procurarle, sia pure in modo
truffaldino, il prestigio e la garanzia della tradizione. Da allora in poi, il
concetto della T. non è mutato, e ha conservato l’apparenza o la promessa di
questa garanzia. Il grande ritorno dell’idea di T. è il Romanticismo. J. G.
Herder nella sua Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (17831791)
aveva esaltato la T. come « la sacra catena che lega gli uomini al passato e
che conserva e trasmette tutto ciò che è stato fatto da coloro che l’hanno
preceduto ». Hegel ha esplicitamente esaltata la T. e ha insistito sul suo
carattere provvidenziale. «La T., egli ha detto, non è una statua immobile ma
vive e rampolla come un fiume impetuoso che tanto più s’ingrossa quanto più si
allontana dalla sua origine... Ciò che ogni generazione ha fatto nel campo
della scienza, della produzione spirituale è un’eredità cui ha contribuito con
i suoi risparmi tutto il mondo anteriore, è un santuario alle cui pareti gli
uomini d’ogni stirpe, grati e felici, hanno appeso ciò che li ha aiutati nella
vita, ciò che essi hanno attinto alle profondità della natura e dello spirito.
E questo ereditare è ad un tempo un ricevere e un far fruttare l’eredità »
(Geschichte der Philosophie, editore Glockner, I, pag. 29). In questo senso,
ovviamente, la T. non è che un altro nome per designare il piano provvidenziale
della storia (v. STORIA). Fu questo il punto di vista prevalente in tutto il
Romanticismo; e di esso il cosiddetto rradizionalismo (v.) non è che una
manifestazione particolare. L’antitesi di questa valutazione della T. è una
concezione la quale: 1° neghi che tutti i risultati o i prodotti migliori
dell’attività umana siano infallibilmente conservati e incrementati nel corso
dello sviluppo storico; 2° neghi che ciò che da tale sviluppo è conservato sia,
per ciò stesso, garantito nella sua verità o nel suo valore. Una concezione di
questo genere è quella che fu propria dell’Illuminismo (che perciò è spesso
definito antistoricistico da chi condivide il punto di vista della storia come
ordine provvidenziale o T.). L’Illuminismo si iscrisse in falso contro la T.,
assumendo che quel che essa tramanda è, il più delle volte, errore, pregiudizio
o superstizione e appellandosi contro la stessa T. al giudizio della ragione
critica (v. ILLUMINISMO). Le discussioni filosofiche sul significato e
l’importanza della T. sono in realtà, come si vede, discussioni sulla storia
(v.). Nel campo della sociologia invece l’analisi della T. è l’analisi di un
determinato atteggiamento o meglio di un tipo e specie di atteggiamenti e
precisamente di quello che consiste nell’acquisizione inconsapevole (cioè 882
non deliberata) di credenze e di tecniche. L’atteggiamento tradizionalistico è
quello per cui l’individuo considera i modi d'essere e di comportarsi che ha
ricevuto o va ricevendo dall’ambiente sociale come suoi propri modi d’essere,
senza rendersi conto che sono quelli del gruppo sociale. Manca nella T. la
distinzione tra presente e il passato, tra sè e gli altri: il che fa di essa
una forma di comunicazione primitiva ed impropria (ABBAGNANO, Problemi di
sociologia, 1959, XI, 3). All’atteggiamento tradizionalistico si oppone da
questo punto di vista l'atteggiamento critico per il quale l’individuo ha una
certa libertà di giudizio (che tuttavia non è mai assoluta o infallibile) nei
confronti di quelle stesse credenze e tecniche che ha assorbito dalla
tradizione. L'atteggiamento critico ha condizioni antitetiche a quelle della
T.: l’alterità tra il presente e il passato e tra sè e gli altri. TRADUCIANISMO
(ingl. Traducianism; tedesco Traducianismus). La dottrina che l’anima dei figli
derivi dall'anima dei padri come un ramo (tradux) deriva dall’albero. Questa
dottrina si trovava già presso gli Stoici (TEMISTIO, De An., II, 5; GacenO,
Op., IV, 699), fu accettata da Tertulliano (De An., 22) e da altri scrittori
della patristica e difesa più tardi dai teologi protestanti che vedevano in
essa la possibilità di spiegare la trasmissione del to originale. Leibniz
stesso inclinava verso di essa (7héod., I, $ 86). La stessa dottrina è stata
talora indicata con il nome di generazionismo. La dottrina opposta, che ogni
anima sia creata ex novo, si chiama creazionismo (v.). TRAGICO (ingl. Tragic;
franc. Tragique; tedesco 7ragisch). Il concetto del T. viene talora discusso
dai filosofi non solo in rapporto con quella particolare forma d’arte che è la
tragedia, ma anche in rapporto alla vita umana in generale o alla scena del
mondo. Il punto di partenza implicito o esplicito di tali discussioni è quasi
sempre la definizione aristotelica della tragedia secondo la quale essa è
«imitazione di vicende che suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla
purificazione di tali emozioni » (Poer., 6, 1449 b 23). Le situazioni che
suscitano « pietà e terrore » sono quelle in cui la vita o la felicità di
persone incolpevoli è posta in pericolo o in cui i conflitti non sono risolti o
sono risolti in modo da determinare « pietà e terrore » negli spettatori. Nella
tragedia greca, ha detto W. Jaeger, «la felicità, come ogni possesso, non può
restare a lungo presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è insita
nella sua natura stessa. Il convincimento di Solone che esista un ordinamento
divino del mondo aveva trovato appunto in questa nozione, pur tanto dolorosa
per l’uomo, il suo appoggio più saldo. Anche Eschilo TRADUCIANISMO è
inconcepibile senza tale convincimento, che può dirsi piuttosto una nozione che
non una credenza » (Paideia, II, cap. 1; trad. ital., I, pag. 449). Ora le
interpretazioni che nel pensiero moderno sono state date della natura del T.
sono tre: 1° T. è il conflitto continuamente risolto e superato nell’ordine
perfetto del tutto; 2° T. è il conflitto irrisolto e irrisolvibile; 3° T. è il
conflitto che può essere risolto ma la cui soluzione non è definitiva nè
perfettamente giusta o soddisfacente. 1° La prima concezione del T. è quella di
Hegel. Hegel afferma che il conflitto, in cui il T. consiste, pur costituendo
la sostanza e la vera realtà, non si conserva come tale ma trova la sua
giustificazione solo in quanto viene superato come contraddizione. « Intanto lo
scopo e il carattere T. è legittimo, dice Hegel, in quanto è necessaria la
soluzione del conflitto in cui esso consiste. Attraverso tale soluzione,
l’eterna giustizia si afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in
modo che la sostanza morale e la sua unità si ristabiliscono col tramonto delle
individualità che disturbano il suo riposo» (Vorlesungen iiber die Aesthetik,
ed. Glockner, III, pag. 530). La soluzione T. pertanto ristabilisce l’armonia e
ciò che essa distrugge è soltanto la « particolarità unilaterale » che non ha
potuto giungere ad accordarsi con l’armonia stessa (/bid., ed. Glockner, II,
pag. 530). Ovviamente, da questo punto di vista, che è quello proprio di ogni
ottimismo o provvidenzialismo di stampo romantico, la tragedia è la semplice
apparenza di una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene
perduto è la « particolarità unilaterale » che non ha il minimo valore. 2° La
seconda interpretazione del T. è quella di Schopenhauer, secondo il quale il T.
è conflitto irresolubile. La tragedia, dice Schopenhauer «è la rappresentazione
della vita nel suo aspetto terrificante. Il dolore senza nome, l’affanno
dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il
fatale precipizio dei giusti e degli innocenti ci vengono presentati da essa;
sicchè essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e
dell’essere» (Die Welr, I, $ 51). Ma l’inevitabilità e quindi la certezza d’un
fato maligno o di una ingiustizia immanente tolgono, come l’inevitabilità e la
certezza della giustizia e dell'armonia, il carattere tragico. Di fronte ad
essi infatti l’unico atteggiamento possibile è quello della rassegnazione o
della disperazione: atteggiamenti, che come quelli a loro opposti, escludono il
conflitto costitutivo del tragico. 3° La terza concezione è quella che fu
presentata da Schiller nello scritto Uber naive und sentimentalische Dichtung
(1795-96). In questo scritto il T. viene presentato come una manifestazione
della TRANSFINITO poesia sentimentale (v. INGENUITÀ) e precisamente di quella
poesia che rappresenta il conflitto tra il reale e l’ideale. La poesia
sentimentale si divide in satira ed elegia: la satira è quella in cui il poeta
prende a suo oggetto il reale, considerandolo insufficiente rispetto
all’ideale. Quando l’insufficienza del reale è rappresentata mediante il
conflitto tra il reale stesso e le nostre esigenze morali si ha, secondo
Schiller, la satira seria, cioè il T. (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 150). A
concetti analoghi si ispirava il cosiddetto « pantragismo +» del poeta Hebbel
(cfr. Werke, X, pag. 43). Assai più paradossalmente Nietzsche vedeva nel T. da
un lato il carattere terrificante dell’esistenza, dall’altro la possibilità di
accettare e trasfigurare tale carattere o attraverso l’arte o attraverso la
volontà di potenza. La prima soluzione è quella che Nietzsche attribuisce ai
Greci nella Nascita della tragedia (1872). L'uomo greco, che era in grado di
scorgere chiaramente l’orribile e l’assurdo dell’esistenza, riuscì a
trasfigurarla mediante lo spirito dionisiaco, domando e assoggettando
l’orribile che così diventa il sublime cioè l'oggetto della tragedia e
liberando dal disgusto dell'assurdo, che così diventa il comico, cioè l’oggetto
della commedia (Die Geburt der Tragòdie, $ 7). Più tardi Nietzsche scorse la
via d’uscita da ciò che c’è di terrificante nella vita nell’accettazione della
vita stessa dovuta alla volontà di potenza e considerò pertanto il T. come
l’accettazione dionisiaca di ciò che è terrificante e incerto. «La profondità
dell’artista T., egli scrisse allora, consiste in questo che il suo istinto
estetico considera le conseguenze lontane e non si arresta con vista corta alle
cose prossime; che egli afferma l'economia in grande, l’economia che giustifica
ciò che è terribile, maligno e problematico e che non si contenta solamente di
giustificarlo » (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 374). Questa concezione del T.,
per quanto di solito imperfettamente espressa o mescolata, nella sua
espressione, con le altre due, si può riconoscere dal fatto che essa fa posto
nella sua caratterizzazione alla problematicità della situazione T., cioè al
carattere per cui essa si può decidere in un modo o nell’altro senza che la sua
decisione sia definitiva o perfetta. In questo senso il carattere del T. è
stato colto da Michele de Unamuno nel Sentimento T. della vita (1913) che lo
esprime col quien sabe? di Don Chisciotte. Nello stesso senso si sono espressi
Scheler (Vom Umsturz der Werte, 1953), Jaspers ( Uber das Tragische, 1952) e
Cantoni (Tragico e senso comune, 1964). P. Romanell ha detto che a differenza
dell’epica, in cui il conflitto è tra il bene e il male, nel T. il conflitto è
tra beni diversi cioè tra valori eterogenei tra i quali la scelta è dolorosa ed
implica sempre sacrificio (Making of the Mexican Mind, 1952, pag. 22). Questo
carattere del T. è bene realiz883 zato nella tragedia greca. La tragedia di
Sofocle si fonda sul convincimento che esiste un ordinamento divino del mondo
il quale fa sì che talvolta l'innocente debba pagare il fio di una colpa
commessa da altri. Il fatto che la decisione del conflitto non possa essere
netta, che anche nella sua soluzione qualcosa vada perduto e che questo
qualcosa non è, come diceva Hegel, una « particolarità unilaterale »,
costituisce il fascino e la verità della tragedia. TRANQUILLITÀ. V. ATARASSIA.
TRANSAZIONE (ingl. Transaction; francese Transaction; ted. Transaction).
Termine introdotto in filosofia da Dewey e Bentley per indicare una relazione
che non presuppone, come entità a sè, i termini relativi. Dice Dewey: «Il
termine indica negativamente che nè il senso comune nè la scienza devono essere
considerati come entità, come alcunchè di collocato a parte, completo e
circoscritto... Positivamente indica che debbono essere contrassegnati dalle
caratteristiche e dalle proprietà che si riscontrano in qualsiasi cosa
riconosciuta come T.: per es., un affare o T. commerciale. Questa T. fa di un
partecipante un compratore e dell’altro un venditore: non esistono compratori e
venditori che in T. e a causa di T. in cui siano impegnati » (Knowing and the
Known, 1949, pagina 270). Il termine T. era stato adoperato in Italia da
Romagnosi: secondo il quale, dal « commercio fra l’interno e l’esterno »
dell’uomo nasce «una T. sullo stesso fondo dell’io pensante, la quale pone in
armonia le leggi del mondo interiore con quello esteriore per formare un solo
mondo e una sola vita » (Che cos'è la mente sana? [1827], ed. 1936, pag. 100,
138. TRANSCREAZIONE (ingl. Transcreation; franc. Transcréation). Termine
adoperato da Leibniz per indicare l’operazione particolare con cui Dio dà la
ragione all’anima sensibile o animale. Leibniz preferisce questa ipotesi a
quella che ritiene che l’anima animale si sollevi alla ragione con mezzi
puramente naturali (7héod., I, $ 91). TRANSEUNTE (ingl. Transeunt; franc.
Transeunt; ted. Transeunt). 1. Lo stesso che transitivo (v.). 2. Mutevole,
passeggero. TRANSFERT. V. PSICANALISI. TRANSFINITO (ingl. 7ransfinite; francese
Transfini; ted. Transfinit). Espressione usata da G. Cantor per indicare i
numeri che sono al di là dei numeri finiti. Per es., se è T. il numero ordinale
della classe che comprende tutti i numeri ordinali finiti, nel loro ordine
naturale (0, 1, 2,...), questo numero è denotato da un omega minuscolo (G.
CANTOR, Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers,
trad. ingl., 1915) (v. INFINITO). Conseguentemente per «induzione transfi884
nita » s’intende l’estensione dell’induzione matematica (v.) a una classe di
numeri ordinali arbitrari in modo simile a quello nel quale la stessa induzione
è applicata a una classe ben ordinata di numeri omega. TRANSITIVITÀ (ingl.
Transitivity; francese Transitivité; ted. Transitivitàt). Il carattere di una
relazione che, se intercede tra x e y e tra ye z, intercede pure tra x e z.
Tale carattere è proprio delle relazioni di identità o di eguaglianza come pure
delle relazioni minore, precede, a sinistra di, ecc. (cfr. B. RussELL,
Introduction to Mathematical Philosophy, cap. IV; trad. ital., pag. 44). Nel calcolo proposizionale, le leggi di 7. della
implicazione materiale e dell’equivalenza materiale sono le seguenti: « Se p
implica g e q implica r, allora p implica r (cioè: [p> gl[g>7r]>[p>
7)) Se p è equivalente a g e g è equivalente a 7, allora p è equivalente a r
(cioè: [p=gllg=-A=p=?#) (cfr. A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, I, $ 48, ecc.). TRANSNATURALE (franc. Transnaturel). Termine proposto da M. Blondel per
indicare la situazione dell’uomo che è posto tra la natura e la sopranatura; ed
è destinato, durante la vita mortale, a prepararsi per la vita eterna (Mistoire
et dogme, 1904, pag. 68). RANSOBBIETTIVO (ted. Transobjektiv). Termine
adoperato da N. Hartmann per indicare ciò che della realtà rimane al di là dei
limiti del conosciuto quindi al di là dell’oggetto di conoscenza (Methapysik
der Erkenntnis, 2* ediz., 1925, pag. 50). TRANSOGGETTIVO (ingl.
Transsubjective; ted. Transsubjektiv). Lo stesso che Trascendente (v.).
TRANSPATIA (ingl. Transpathy). Termine adoperato da scrittori inglesi per
indicare il contagio emotivo o la fusione emotiva in quanto è diversa dalla
simpatia (v.). TRANSRAZIONALISMO (ingl. Transrationalism; franc.
Transrationalisme; ted. Transrationalismus). Termine adoperato da A. Cournot
per indicare la disposizione naturale dell’uomo a credere nel soprannaturale o
nel misterioso o in generale a ciò che al di là della ragione (Matérialisme,
vitalisme, rationalisme, 1875, pag. 385). TRANSUSTANZIAZIONE (lat.
Transustantiatio; ingl. Transubstantiation; franc. Transsubstantiation).
L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nel ritenere che la
sostanza del pane o del vino si trasforma nella sostanza del corpo o del sangue
di Cristo e che pertanto gli accidenti di essa rimangano senza soggetto. È
l’interpretazione di quel sacramento che fu data da S. Tommaso (S. Th., III, q.
77, a. 1) e fu accettata dal Concilio di Trento. L’interpretazione alternativa,
accettata TRANSITIVITÀ dalla chiese riformate, è quella della consustanziazione
(V.). TRASCENDENTALE (lat. Transcendentalis; ingl. Transcendental; franc.
Transcendental; tedesco Transzendental). Con questo termine o con quello di
trascendente, si cominciarono a chiamare, a partire dalla fine del sec. x1m, le
proprietà che tutte le cose hanno in comune, e che perciò eccedono o
trascendono la diversità dei generi in cui le cose si distribuiscono. Il nome
si trova già adoperato da Francesco Mayrone (morto nel 1325, Formalitates,
ediz. 1479, f. 22, r. A); e alla diffusione di esso contribuì certamente
Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, I, 1). Ma i trascendentali o
trascendenti erano stati già definiti da S. Tommaso come quelle proprietà « che
si aggiungono all'ente in quanto esprimono un modo di esso che non viene
espresso dal nome dell’ente »; e lo stesso S. Tommaso ne enumerava sei: ens,
res, unum, aliquid, bonum, verum (De Ver., q. 1, a. 1); una lista che riuscì la
più diffusa e accreditata fra tutte. Questo concetto del T., con qualche
mutamento occasionale nella lista dei termini, fu ripetuto spesse volte in seguito
(CAMPANELLA, Dialectica, I, 4; Bruno, De /a causa, IV; F. BACONE, De Augm.
Scient., III, I; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 45; Spinoza, £Et., II, 40,
scol. I; BERKELEY,
Principles of Human Knowledge, $ 118; WoLFF, Ont., $ 495, 503; BAUMGARTEN,
Met., $ 72, 89; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 198). A questa tradizione si connette l’uso kantiano del
termine. Dice Kant: «Questi presunti predicati T. delle cose non sono che
esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale, e
riposano sulle categorie della quantità cioè dell’unità, della pluralità e
della totalità; solo che queste categorie, che si sarebbero dovute assumere nel
significato materiale come appartenenti alla possibilità delle cose stesse, gli
antichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come costituenti
l’esigenza logica nei confronti di ogni conoscenza; e tuttavia di questi
criteri del pensiero facevano inavvertitamente proprietà delle cose in se
stesse» (Cri. R. Pura, Analitica, $ 12). In altri termini, Kant ritiene che il
vecchio concetto del T. pecchi per due lati: 1° perchè fa del T. un semplice
concetto logicoformale; 2° perchè considera questo concetto formale come
proprietà delle cose in se stesse. All'opposto il concetto kantiano del T. consiste:
1° nel considerare il T. stesso come condizione della possibilità della cosa
cioè come concetto @ priori o categoria; 2° nel considerare la cosa, di cui il
T. è la condizione, non come «cosa in sè» ma come fenomeno. Con tutto ciò il T.
non si identifica, per Kant, con le condizioni a priori della conoscenza umana
e dei suoi oggetti (che sono i TRASCENDENTE fenomeni); ma è piuttosto da lui
inteso come la conoscenza (o la scienza, se c’è una scienza) di tali condizioni
@ priori. Dice Kant infatti: «Chiamo T. ogni conoscenza che si occupa, non
degli oggetti ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto è
possibile a priori» (Ibid., Intr., VII). E precisa: « Bisogna chiamare T. non
ogni conoscenza a priori ma solo quella per cui sappiamo che e come certe
rappresentazioni (intuizioni o concetti) sono applicate o sono possibili
esclusivamente a priori. È cioè T. la conoscenza della possibilità della
conoscenza o dell’uso di essa a priori» (Ibid, Logica, Intr., II; cfr. Prol., $
13, osserv. III). Da questo punto di vista, T. non è «ciò che è al di là di
ogni esperienza» ma piuttosto «ciò che antecede l’esperienza (a priori) pur non
essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice conoscenza
empirica + (Prol., Appendice, nota [A 204]). Tuttavia bisogna osservare che
Kant non si attenne rigorosamente a questo significato del termine e che spesso
chiamò T. ciò che è indipendente dall’esperienza o da princìpi empirici (cfr.,
ad es., Critica R. Pura, L’ideale della ragion pura, sez. 5, Scoperta e
illustrazione dell’apparenza dialettica). Comunque, in base al significato che
Kant esplicitamente accetta, si possono chiamare T. soltanto le conoscenze che
hanno per oggetto elementi a priori, non questi stessi elementi. Sicchè sono T.
l’estetica, la logica e le loro parti ma non già le intuizioni pure o le
categorie o le idee. Ma anche quest’uso non è rigoroso perchè Kant chiama T. le
idee e chiama unità T. l’io penso (Ibid., $ 16). Il termine fu ripreso da
Fichte per designare la dottrina della scienza in quanto fa vedere che tutti
gli elementi del conoscere rientrano nell’Io cioè nella coscienza: «Questa
scienza non è rrascendente, ma resta 7. nelle sue più intime profondità. Essa
spiega certo ogni coscienza con qualcosa che esiste indipendentemente da ogni
coscienza; ma anche in questa spiegazione non dimentica di conformarsi alle sue
proprie leggi; ed appena vi riflette sopra, quel termine indipendente diventa
di nuovo un prodotto della propria facoltà di pensare, quindi qualcosa di
dipendente dall’Io in quanto deve esistere per l’Io, nel concetto dell’Io »
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II; trad. ital., pagina 231). Nello stesso
senso il termine veniva inteso da Schelling per il quale, nel sapere T., «
l’atto del sapere giunge ad assorbire l’oggetto come tale » sicchè esso è «un
sapere del sapere in quanto è puramente soggettivo » (System des
transzendentalen Idealismus). Lo stesso senso idealistico il termine assume per
Schopenhauer: secondo il quale è T. « una conoscenza che determina e stabilisce
prima di ogni esperienza tutto ciò che è pos885 sibile nell’esperienza » (Uber
die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 20). Come risultato
di queste determinazioni, il concetto del T. si è venuto fissando nella
filosofia contemporanea come ciò che appartiene al soggetto o alla coscienza in
quanto è condizione dell’oggetto e cioè della realtà stessa. Si è qualificato
pertanto come T. ogni attività o elemento della coscienza da cui dipenda
l’affermazione o la posizione della realtà oggettiva. Pertanto espressioni come
« punto di vista T.» o «conoscenza T.» equivalgono alla espressione di
Schelling « idealismo T. » cioè di dottrina la quale mostra come nella
coscienza soggettiva ci siano le condizioni di ogni realtà. Questo concetto di
T. è rimasto sia nelle scuole di più stretta ispirazione kantiana sia nelle
scuole idealistiche. Gentile chiamava «Io T.» l’io assoluto o universale, che
crea pensando ogni realtà (Teoria generale dello spirito, 1920, I, $ 5). Un
senso idealistico il termine conserva anche nell’uso che ne fa Husserl, che
chiama T. l’esperienza fenomenologica o la riflessione che vi mette capo. «
Nella riflessione fenomenologica T., noi lasciamo il terreno empirico,
praticando l’epoché universale quanto alla esistenza o alla non esistenza del
mondo. Si può dire che l’esperienza così modificata, l’esperienza T. consiste
in questo: noi esaminiamo il cogito trascendentalmente ridotto e lo descriviamo
senza effettuare in più la posizione di esistenza naturale implicita nella
percezione spontanea » (Carr. Med., $ 15). All’opposto, per Heidegger T. ha
senso oggettivo perchè designa « ogni manifestazione dell’essere nel suo essere
trascendente» (Sein und Zeit, $ 7C). TRASCENDENTALISMO (ingl.
Transcendentalism; franc. Transcendentalisme; ted. Transzendentalismus). La
teoria dell’idealismo trascendentale cioè dell’idealismo romantico. Il nome è
stato introdotto nei paesi anglosassoni e specialmente in America, da Emerson
(cfr. O. B. FROTHINGHAM, Transcendentalism in New England, 1876; nuova edizione
1959). TRASCENDENTE (lat. 7ranscendens; inglese Transcendent; franc.
Transcendant; ted. Transzendent). Il termine ha due significati fondamentali,
corrispondentemente ai due significati di rascendenza (v.) e cioè: 1° ciò che è
al di là di un certo limite, assunto come misura o come punto di riferimento;
2° l’operazione dell’oltrepassamento. 1° Nel primo significato, la parola
assume valori diversissimi, a seconda di ciò che si assume come limite o
misura. Le proprietà trascendentali (v.) erano dette tali perchè T. rispetto ai
generi, dai quali esse erano considerate indipendenti. Si parla di « perfezione
T.» cioè di una perfezione che supera ogni grado praticamente ottenibile. Più
frequentemente, il termine viene adoperato in filosofia 886 per indicare ciò
che oltrepassa i limiti di una qualche facoltà umana o di tutte le facoltà e
dell’uomo stesso. Così Boezio diceva che « La ragione trascende l’immaginazione
perchè afferra la specie universale che inerisce nelle cose singolari » (Phil.
Cons., V, 4). S. Tommaso diceva che la teologia « trascende tutte le altre
scienze sia speculative che pratiche »; giacchè è più certa di esse ed inoltre
si occupa di cose «che per la loro altezza trascendono la ragione » (S. 7Th.,
I, q. 1, a. 5). Cusano, a proposito della identità del minimo assoluto e del
massimo assoluto in Dio, dice che «ciò trascende ogni nostro intelletto, che
non può combinare razionalmente le cose che sono contraddittorie nel loro
principio » (De Docta Ignor., I, 4). Più precisamente a partire da Kant, si
intende per T. una nozione che eccede i limiti dell’esperienza possibile. Sono
pertanto T., secondo Kant, le idee della Ragion pura. Dice Kant: « Diremo
immanenti i princìpi la cui applicazione si tiene in tutto e per tutto nei
limiti dell’esperienza possibile; T. invece quelli che devono sorpassare tali
limiti» (Crift. R. Pura, Dialettica, Intr., I; confronta Prol., $ 40). Diverso
dai princìpi T. è l’uso trascendentale dei princìpi immanenti: uso che si
avvale di princìpi conoscitivi legittimi ma senza tener troppo conto dei limiti
dell’esperienza (/bid., Dialettica, Intr., I; cfr. Prol., $ 40). 2° Nei
precedenti significati, la parola T. è assunta a significare ciò che è al di là
di un certo limite. Nella filosofia contemporanea essa viene spesso adoperata a
significare un’attività o un’operazione in corrispondenza col significato 2° di
trascendenza. T. in questo senso è, secondo Husserl, la percezione delle cose,
in opposizione alla percezione che la coscienza ha di se stessa (che è
percezione immanente) (/deen, I, $ 46). Hartmann chiama nello stesso senso atto
T. la conoscenza (Systematische Philosophie, $ 11). E Heidegger definisce come
T. «ciò che attua l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare »
(Vom Wesen des Grundes, II; trad. ital., pag. 29) (v. TRASCENDENZA).
‘TRASCENDENTISMO. Termine che non trova riscontro in altre lingue e che è usato
talora a designare ogni dottrina che ammetta la trascendenza dell’essere
divino. TRASCENDENZA (ingl. 7ranscendence; franc. Transcendance; ted.
Transzendenz). Il termine è stato usato in due significati diversi, cioè per
indicare: 1° lo stato o la condizione del principio divino o dell’essere che è
al di là di ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto esperienza di cose)
o dell'essere stesso; 2° l'atto di stabilire un rapporto che escluda
l’unificazione o l ’identificazione dei termini. TRASCENDENTISMO 1° Nel primo
senso, il termine si connette alla concezione neoplatonica della divinità.
Platone aveva già detto che il Bene, come principio supremo di tutto ciò che è,
paragonabile come tale al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è
d/ di là della sostanza (èntveva tic obdolac, Rep., VI, 509 b). Sulle orme di
Platone, Plotino ripete che l’Uno è « al di là della sostanza » (Enn., VI, 8,
19); ma aggiunge pure che esso è «al di là dell'essere » (eréxewa Évroc, /bid.,
V, 5, 6); e che è «al di là della mente» (tréxewva voù, /bid., III, 8, 9); in
modo che è trascendente (òrepfeByxdc) rispetto a tutte le cose pur producendole
e tenendole in essere lui stesso (/bid., V, 5, 12). Proclo dice: «AI di là di
tutti i corpi, c'è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la
natura intelligibile, al di là di tutte le sostanze intelligibili, c'è l’Uno »
(Ist. Teol., 20). Scoto Eriugena ed altri usarono il termine superessente (v.)
per indicare la T. assoluta per cui Dio è al di sopra di tutte le
determinazioni concepibili, perfino dell’essere o della sostanza. Non sempre
tuttavia la T. è spinta fino a questo punto cioè sino a situare Dio al di là
dell’essere e a farne in qualche modo un «nulla». La scolastica classica,
riconoscendo la analogicità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere
stesso: questa forma di T. è invece propria della teologia negativa o mistica
(v. TEOLOGIA, 4). Fuori della teologia, questa specie di T. è stata
riconosciuta da Jaspers, che ha contrapposto la T. all’esistenza: la T. è ciò
che è al di là di ogni possibilità dell’esistenza, è l'essere che non si
risolve mai nel possibile e con cui pertanto l’uomo non può avere altro
rapporto se non appunto quello che consiste nell’impossibilità di raggiungerlo.
In tal senso, la T. si rivela sotto forma di cifra (v.) nelle situazioni-limite
(v.) e non può essere contrassegnata neppure come « divinità » senza cadere nella
superstizione. L'unica certezza che si può acquisire nei riguardi della T. è
che « l’essere è e che è così» (Phil., III, pag. 134). Nel contempo la T.
veniva riconosciuta, dagli indirizzi realistici della filosofia contemporanea
alle cose o agli oggetti di conoscenza in generale o all’essere di tali
oggetti. Husserl negava in questo senso che una cosa potesse essere data come
immanente in qualsiasi percezione o coscienza e definiva l’essere della cosa
come essere trascendente, che è più o meno adombrato dalle apparizioni della
cosa stessa alla coscienza (/deen, I, $ 41). N. Hartmann insisteva a sua volta
sulla T. dell’essere rispetto alla conoscenza, in quanto l’essere stesso rimane
sempre al di là dell’oggetto conoscitivo immanente (Metaphysik der Erkenntniss,
23 ediz., 1925, pag. 50). Nello stesso senso la T. veniva combattuta dalle
varie forme dell’immanentismo (v.). TRASMUTAZIONE DEI VALORI 2° Nel secondo
significato, la T. è l’atto con cui si stabilisce un rapporto senza che questo
rapporto significhi unità o identità dei suoi termini bensì garantendo, con il
rapporto stesso, l’alterità di essi. Anche questo concetto ha un'origine
religiosa e neoplatonica. Plotino diceva che la contemplazione è « per colui
che è andato al di là di tutto + (tà brrepfdvii rdvra, Enz., VI, 9, 11). In un
passo famoso S. Agostino diceva: «Se troverai mutevole la tua natura, trascendi
anche te stesso +; e aggiungeva: « Ricordati che nel trascendere te stesso,
trascendi un'anima razionale e che pertanto devi mirare al punto da cui dipende
ogni luce di ragione » (De vera relig., 39). Questo senso attivo di T. è stato
pressochè obliterato nella filosofia tradizionale ed è stato ripreso solo dalla
filosofia contemporanea. Con riferimento alla T. dell’essere o della cosa
rispetto alla coscienza che l’apprende o all’atto di conoscenza che ne fa
oggetto, trascendente è stato chiamata, in senso attivo la coscienza stessa o
l'atto di conoscenza. Così Husserl parla della percezione trascendente, che è
quella che ha per oggetto la cosa e rispetto alla quale la cosa stessa è
trascendente, come diversa dalla percezione immanente che ha per oggetto le
stesse esperienze coscienti le quali sono immanenti alla percezione stessa
(/deen, I, $ 42, 46). N. Hartmann ha messo il concetto della T. a fondamento
del suo realismo. «La conoscenza, egli ha detto, non è un semplice atto di
coscienza, come il rappresentare o il pensare ma un atto trascendente. Un atto
simile s°attacca al soggetto soltanto con una sua parte, con l’altra ne sporge
fuori; con quest’ultima s’attacca all’esistente che, mediante esso, diviene
oggetto. La conoscenza è relazione tra un soggetto e un oggetto esistente. In
questa relazione, l’atto trascende la coscienza» (Systematische Philosophie, $
11). Nello stesso senso egli chiama trascendente la relazione conoscitiva
(/bid. $ 10). Ma la più importante utilizzazione del concetto in questo senso è
stata fatta da Heidegger che ha definito come trascendente il rapporto tra
l’uomo (Dasein, Esserci) e il mondo. « L’Esserci che trascende (ecco
un’espressione già di per sè tautologica) non oltrepassa nè un ostacolo
anteposto al soggetto in modo tale da costringerlo a restare dapprima in sè
stesso (immanenza) nè un fosso che lo separerebbe dall’oggetto. Da parte loro
gli oggetti (gli enti che gli sono presenti) non sono ciò verso cui
l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene oltrepassato è proprio e
unicamentel’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa essere svelato o
svelarsi all’Esserci e quindi anche proprio quell’ente che l’Esserci è, in quanto,
esistendo, è se stesso» (Vom Wesen des Grundes, 1929, II). L’atto di T. è in
altri termini quello per cui l’uomo, come ente nel mondo, si distingue dagli
altri enti od oggetti e si riconosce come 4se stesso ». Heidegger perciò
considera la T. come il significato dell’essere nel mondo. «Colui che
oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato nell’ente.
L’Esserci, in quanto si sente tale, è incluso nell’ente in modo che, ricompreso
in esso, viene da esso accordato a se stesso. La T. è un progetto del mondo
tale che colui che progetta è dominato dall’ente che trascende ed è già in
accordo con esso. Con questo essere incluso dell’Esserci, connesso con la T.,
l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto il suo fondamento » (Ibid.,
III). È caratteristica di Heidegger questo far ricadere e appiattire la T.
sugli oggetti trascesi, il progetto sulle sue condizioni di partenza, il
possibile sull’effettuale, il futuro sul passato. Heidegger chiama deiezione o
effettività (v.) questa ricaduta o appiattimento. E così fa Sartre, che esprime
lo stesso concetto di T. affermando che la coscienza (il per-sé), trascendendo
verso l'essere (l’in-sè), non fa che annullarsi per rivelare e affermare,
attraverso di sè, l’essere stesso (L’étre et le néant, II, cap. III; spec. pag.
268-69). Per una interpretazione della T. che sfugga all’appiattimento o alla
nullificazione (cfr. ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 18; Ip.,
Introduzione all’esistenzialismo, I, 6; ecc.). TRASFORMAZIONE (ingl. Transformation;
franc. Transformation; ted. Umformung, Transformation). Dewey ha visto nella T.
la categoria fondamentale del ragionamento matematico. « La T. dei contenuti
concettuali, egli ha detto, secondo regole metodiche che soddisfino determinate
condizioni logiche, è implicita tanto nella condotta del ragionamento che nella
formazione dei concetti che ne fanno parte ». Il principio logico della T. può
essere espresso dicendo che: 1° il contenuto del ragionamento consiste di
possibilità; 2° che in quanto possibilità, esso richiede la formulazione in
simboli (Logic, XX, 1; trad. ital., pag. 516). Regole di T. si chiamano
abitualmente le regole di inferenza dei sistemi logistici o dei linguaggi
formalizzati (v. SISTEMA LOGISTICO). ‘TRASFORMISMO (ingl. Transformism;
francese Transformisme; ted. Transformismus). Con questo termine si indica
l’evoluzionismo biologico cioè la dottrina che ammette la trasformazione delle
specie viventi l’una nell’altra (v. EVOLUZIONE). TRASMIGRAZIONE. V.
METEMPSICOSI. TRASMUTAZIONE DEI VALORI (francese Transmutation des valeurs;
ted. Umwertung aller Werte). La frase famosa con cui Nietzsche ha riassunto il
compito della sua filosofia. « Inversione di tutti i valori, egli ha scritto,
ecco la mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sè di tutta
l’umanità, atto che in me è diventato carne e genio. Il mio destino esige che
io sia il primo uomo onesto, che io mi senta in opposizione con le menzogne di
vari millenni » (Ecce Homo, $ 4). L’inversione dei valori consiste nel porre al
posto della tavola tradizionale dei valori, fondati sulla rinuncia alla vita, i
nuovi valori che derivano dall’accettazione entusiastica (dionisiaca) della
vita, anche nei suoi aspetti più crudeli (Genealogie der Moral, I, $ 10; Die
froeliche Wissenschaft, $ 344; ecc.) (v. VALORE). RASPARENZA (ted.
Durchsichtigkeit). Così Heidegger ha chiamato l’intuizione che l’Esserci ha di
se stesso: « Esistendo, l’Esserci vede se stesso solo in quanto è divenuto
originariamente trasparente nel suo essere nel mondo e nel suo essere con gli
altri, quali momenti costitutivi della sua esistenza » (Sein und Zeit, $ 31).
TRASPOSIZIONE (ingl. Transposition; francese Transposition; tedesco
Transposition). Così è detto un teorema del calcolo proposizionale per il quale
da «se p, allora g* si può inferire « non q, dunque non p». TRIADICO (ingl.
Triadic; franc. Triadique; ted. Triadisch). La divisione T. ha goduto spesso di
un certo privilegio in filosofia. A prescindere dalla perfezione che gli
antichi Pitagorici riconobbero al numero tre, Plotino aveva riconosciuto tre
fasi dell'emanazione e quindi tre ipostasi della divinità, l’Uno, il Logos e
l’Anima (Enn., II, 9, 1). Ma fu soprattutto Proclo a privilegiare il
procedimento T., scorgendo in ogni qualsiasi processo (o emanazione) tre fasi:
quella in cui ciò che procede rimane simile a se stesso; quella in cui si
differenzia da se stesso e infine quella in cui ritorna a se stesso (/st.
theol., 31). Su queste tre fasi dell'emanazione Hegel modellò le tre fasi della
sua dialettica che consistono rispettivamente: 1° nell’identità di un concetto
con se stesso; 2° nel contraddirsi o nell’alienarsi del concetto rispetto a se
stesso; 3° nella conciliazione e nell’unità delle due prime fasi (cfr. Enc., $
79-82). Hegel interpretò secondo questa divisione T. sia il mondo della logica,
sia il mondo della natura sia quello dello spirito (Wissenschaft der Logik, ed.
Glockner, II, pag. 340 sgg.). Per quanto Hegel facesse risalire a Kant il
merito di questa triadicità di ogni processo razionale quindi anche dell’intera
realtà (/bid., pag. 344), la giustificazione che Kant dà del fatto che le sue «
divisioni nella filosofia pura riescono quasi sempre T.» è completamente
diversa ed è desunta dalla logica. Dice Kant infatti: «Se una divisione
dev'essere fatta a priori, o sarà analitica secondo il principio di
contraddizione e allora sarà sempre in due parti (guodlibet ens est qut A aut
non A); o sarà sintetica e in tal caso dovrà essere derivata da concetti a
priori... e conterrà: 1° la condizione; 2° un condizionato; 3° il concetto che
nasce dall’unione della condizione con il condizionato, riuscendo così
necessariamente una tricotomia » (Crit. del Giud., Intr., Nota finale).
TRIADISMO o TRIALISMO (ingl. Triadism; franc. Triadisme; ted. Trialismus). La
dottrina, di origine stoica, che considera l’uomo formato da tre princìpi,
l’anima, il corpo e lo pneuma o spirito: dottrina che si trova ripetuta nelle
lettere di S. Paolo (v. PNEUMA). TRIBUNALE (ingl. Tribunal; franc. Tribunal;
ted. Gerichtshof). Il termine è stato usato da Kant per definire il compito
della filosofia critica: « La critica della Ragion pura, egli disse, si può
considerare come il vero T. per tutte le controversie di questa, perchè essa
non si immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli
oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione
in generale secondo i princìpi della sua prima istituzione» (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 2). 'TRICOTOMIA (ingl. Trichotomy; franc.
Trichotomie; ted. Trichotomie). Divisione in tre parti, elementi o classi. Il
termine viene quasi esclusivamente adoperato per la dottrina della triplice
composizione dell’anima, che si chiama anche triadismo o trialismo. La dottrina
logica della T. fu elaborata nel sec. XVII, con l’avvertenza che occorre
ridurre la T. alla dicotomia ogni volta che due membri della dicotomia abbiano
una nozione in comune. Si può dire che il triangolo è o rettangolo o
obliquangolo e, si può poi dividere di nuovo il triangolo obliquangolo in
ottusangolo e acutangolo (cfr. JunaIUS, Logica Hamburgensis, 1638, IV, 7, 13).
‘TRILEMMA (ingl. Trilemma; franc. Trilemme; ted. Trilemma). È stato indicato
con questo nome dai logici dell’800 uno schema d’inferenza che ha come premessa
maggiore una tricotomia, invece della dicotomia del dilemma (v.): «Ogni cosa è
o PoQ0M; S nonè nè M nè Q; dunque S è P». Nello stesso senso si parla di
tetralemma o di polilemma, ma si tratta di schemi di inferenza che trovano
scarsissima applicazione. TRINITÀ (ingl. Trinity; franc. Trinité; tedesco
Dreifaltigkeit). Uno dei dogmi fondamentali del cristianesimo, che afferma
l’unità della sostanza divina nella T. delle persone. La formula del dogma fu
fissata dal Concilio di Nicea nel 325; e nella sua formulazione ebbe gran parte
l’opera del vescovo Atanasio e la polemica contro la dottrina di Ario che
tendeva ad accentuare la subordinazione del Figlio rispetto al Padre e
praticamente ignorava la terza persona della Trinità. TUTTO L'illustrazione
classica di questo dogma [come di quello dell’incarnazione (v.)] fu data da S.
Tommaso mediante il concetto della relazione. La relazione da un lato
costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro si identifica
con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite
dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione
con il Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto con
il Padre; lo Spirito dall’amore cioè dal rapporto reciproco di Padre e Figlio.
Ora queste relazioni in Dio non sono accidentali (nulla c’è di accidentale in
Dio) ma reali; sussistono rea/mente nella sostanza divina. Proprio la sostanza
divina dunque, nella sua unità, implicando le relazioni, implica la diversità
delle persone (S. 7h., I, q. 27-32 e spec. q. 29, a. 4). Questa interpretazione
basta, secondo S. Tommaso a mostrare che « ciò che la fede rivela non è
impossibile ». Dal punto di vista logico essa implica una dottrina sulla natura
delle relazioni che è storicamente importante (v. RELAZIONE). Tuttavia
nell’ultima età della scolastica il dogma della T. o fu dichiarato una « verità
pratica », come fece Duns Scoto (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31), o veniva
dichiarata al di là di ogni possibilità di intendimento, come fece Ockham (/n
Sent., I, d. 30, q. 1B). Il dogma della T. è stato accettato anche dalle chiese
protestanti. Fa eccezione la tendenza rappresentata dal socinianesimo (v.) che
riprese le dottrine di tipo ariano che circolavano nei primi secoli del
cristianesimo. Tali dottrine sono state riprese dai cosiddetti unitari che
costituirono un movimento religioso diffuso soprattutto in Inghilterra e in
America a partire dalla seconda metà del sec. xVII (v. UNITARISMO).
TRINITARISMO (ingl. 7rinitarianism; francese 7rinité). La dottrina ufficiale
della Chiesa cristiana sulla natura di Dio come un'unica sostanza in tre
persone uguali e distinte (v. TRINITÀ). TRITEISMO (ingl. Tritheism; franc.
Trithéisme; ted. Tritheismus). Con questo termine si suole indicare l'eresia
trinitaria che consiste nell'ammettere tre sostanze divine relativamente
indipendenti l’una dall'altra. Quest’eresia fu sostenuta nel sec. v da Giovanni
Filopono; e nel sec. x1 da Roscellino il quale, secondo una testimonianza di S.
Anselmo, affermava che « Le tre persone della trinità sono tre realtà come tre
angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente per volontà e
potenza» (De fide trinitatis, 3). Al T. inclinava anche Gilberto de la Porrée
che chiamava deità l’unica essenza divina, dalla quale parteciperebbero le tre
persone diverse; e probabilmente sulle sue 889 orme inclinava al T. Gioacchino
Da Fiore (sec. x11). La dottrina è stata costantemente condannata dalla Chiesa.
TRIVIO. V. CULTURA, 1]. TROPI (gr. tpéro; lat. Tropes; franc. Tropes; ted.
Tropen). Così si chiamarono e tuttora si chiamano i modi o le vie indicate
dagli scettici per arrivare alla sospensione dell’assenso. Tali T. consistono
nell’enunciazione delle situazioni dalle quali risultano contrasti di opinioni
o addirittura contraddizioni. Enesidemo di Cnosso ne enumerava dieci, che sono
i seguenti: 1° la differenza fra gli animali, che stabilisce una differenza fra
le loro rappresentazioni; 2° la differenza fra gli vomini, per lo stesso
motivo; 3° la differenza fra le sensazioni; 4° la differenza fra le
circostanze, che influiscono anch'esse sulla diversità delle opinioni; 5° la
differenza delle posizioni e degli intervalli; 6° la differenza delle
mescolanze; 7° la differenza fra gli oggetti semplici e gli oggetti composti;
8° la differenza fra le relazioni, giacchè le opinioni cam-biano a seconda
delle relazioni in cui le cose entrano col soggetto giudicante; 9° la
differenza fra la frequenza o la rarità degli incontri tra il soggetto
giudicante e le cose; 10° la differenza dell’educazione, dei costumi, delle
leggi, ecc. (/p. Pirr., I, 36-163). A sua volta Agrippa aggiungeva altri cinque
tropi, come obiezioni contro la raggiungibilità della verità: 1° la discordanza
delle opinioni; 2° il processo all'infinito nel quale si cade quando si vuole
addurre una prova, giacchè questa prova ha bisogno di un’altra prova e questa
di un’altra e così via; 3° la relazione tra il soggetto e l'oggetto che fa
variare l’apparenza dell’oggetto stesso; 4° l’ipotesi cioè il ricorso ad una
assunzione priva di dimostrazione quindi insostenibile; 5° il diallele o
circolo vizioso quando si assume come principio di prova proprio ciò che si
deve provare (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 164-69). Infine Sesto Empirico
enuncia altri due tropi, che sono argomenti i quali tendono a dimostrare che
non si può comprendere una cosa nè in base a se stessa nè in base a un'altra
cosa (/p. Pirr., I, 178-79). TRUISMO (ingl. Truism; franc. Truisme). Una verità
evidente ma ovvia quindi poco importante o poco utile. Il termine e la nozione
sono propri della lingua inglese. TUTTI. V. Ogni. TUTTO (gr. rò nav; lat.
Torum; ingl. Whole; franc. Tout; ted. AIN). Un qualsiasi insieme di parti: cioè
un insieme di parti in quanto è indipendente dall’ordine o dalla disposizione
delle parti stesse. In questo, il T. si può distinguere dalla totalità che
implica un ordine delle parti che non può essere modificato senza modificare la
totalità stessa (v. MonDO; TOTALITÀ; UNIVERSO). 890 Sulla base delle
determinazioni aristoteliche (Mer., V, |[26, 1023 b 25), la logica medievale
distingueva: 1° il T. universale o essenziale, che è quello ie cui parti
costituiscono la sostanza di esso: ad es., «corpo vivente +; 2° il T. integrale
che è quello le cui parti sono quantità: quantità simili come in «acqua»? o quantità
dissimili come in «albero +; 3° il T. nella quantità, che è l’universale preso
universalmente come «ogni uomo» o «nessun uomo»; 4° il T. nel modo che è
l’universale preso senza determinazione, come «l’uomo +; 5° il T. nel luogo che
è una determinazione comprendente avverbialmente il luogo come « dovunque » o
«in nessun luogo +; 6° il T. nel tempo che è un’espressione che comprende
avverbialmente la totalità del tempo come «sempre» e « mai» (Pietro Ispano,
Summ. Logicales, 5, 14-23). Nizolio riduceva a due queste specie, con
l’argomento che due soltanto si trovano in natura e cioè il T. continuo che è
una sinTUZIORISMO gola cosa e il T. discreto che è un complesso di cose singole
(De veris principiis, I, 10); al che Leibniz aggiungeva il T. disgiuntivo, per
es., « l’animale è o uomo o bruto » (Nota al passo citato di Nizolio). Altre
distinzioni si trovano registrate da Hamilton: il T. per sè in cui le parti
sono connesse necessariamente come il corpo e l’anima sono connesse nell’uomo e
il T. per accidens in cui le parti sono connesse contingentemente. Il T. per sè
può essere a sua volta: un T. /ogico come un universale, un T. metafisico o
reale; un T. fisico o sostanziale; un T. matematico, quantitativo o integrale e
un T. collettivo o di aggregazione (Lectures on Logic, 2> ediz., I, pag. 202
sgg.). Nella logica moderna T. è un operatore e precisamente il quantificatore
universale simboleggiato con la notazione «(x)» (v. OPERATORE). Per la
differenza tra 7. e ogni, v. quest’ultimo termine. TUZIORISMO. V. ProBABILISMO.
ÙU U. Nella logica tradizionale, simbolo della proposizione modale che consiste
nella negazione del modo e nella negazione della proposizione: ad es., «non è
possibile che non p» (cfr. ARNAULD, Log., II, 8) (v. PURPUREA). UBI. Con questo
avverbio latino (dove) Duns Scoto indicò la determinazione qualitativa che il
corpo in movimento acquista a ogni istante del suo movimento. L’U. non è il
luogo (v.) perchè il luogo di un corpo non è un attributo di esso ma risiede
nei corpi che lo attorniano; è piuttosto simile al calore che è acquisito dal
corpo che si riscalda (Quod!., q.11, a. 1). La nozione fu criticata da Pietro
Aureolo (/n Senr., I, d. 17, a. 4) da Ockham (/n Sent., II, q. 9 c) e da
Gregorio da Rimini (Zn Sent., II, d. 6, qg. 1, a. 2) che invece ridussero il
movimento al corpo che si muove. Essa è ricordata ancora, con disprezzo, da
Locke (Saggio, II, 23, 21). UBICAZIONE. V. Luoco. UBIQUITÀ (lat. Ubiquitas;
ingl. Ubiquity; franc. Ubiquité; ted. Allgegenwart). Quel modo d'essere nello
spazio che gli Scolastici del sec. x1v chiamavano definitivo (definitivus) e
che consiste nell’esser tutto in tutto lo spazio e tutto in qualsiasi parte
dello spazio. Questo modo d’essere veniva distinto da quello detto
circoscrittivo (circumscriptivus) che consiste nell’essere tutto in tutto lo
spazio (occupato) e parte in ciascuna parte di esso (v., per questa
distinzione, OCKHAM, /n Sent., IV, q.4; Quodl., VII, q. 19; De Corp. Christi,
6). Il concetto dell’esistenza spaziale definitiva serviva ad intendere la
presenza del corpo di Cristo nel pane e l’onnipresenza di Dio nel mondo. Per
quest’ultima, Leibniz (che ricorda i due primi modi che chiama wubietés) parla
di una ubieré repletiva (Nouv. Ess., II, 23, 21). UCRONIA (franc. Uchkronie). È
il titolo di un romanzo di Carlo Renouvier (Uchronie, l’utopie dans l’histoire,
1876) nel quale l’autore si propone di ricostruire «la storia apocrifa dello
sviluppo della civiltà europea, quale avrebbe potuto essere e non è stata ». Lo
scopo del romanzo è di mostrare l’assenza della necessità nella storia (v.
STORIA). UGUAGLIANZA. V. EGUAGLIANZA. ULTIMO (gr. cò toyaroy; ingl. Ultimate;
franc. Ultime; ted. Letzt). Uno dei due estremi di una serie, precisamente
quello cui la serie mette capo. Poichè la stessa serie può essere considerata
come facente capo per certi scopi (o da un certo punto di vista) ad un certo
estremo e per altri scopi (o per altro punto di vista) all’altro estremo, la
parola U. è spesso ambivalente e le stesse cose sono dichiarate U. e prime.
Così accade frequentemente nella terminologia aristotelica: in cui è detto U.
il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti (is., VIII, 2,
244 b 4); ma è detto anche U. la specie che è più vicina all’individuo (Mer.,
III, 3, 998b 15). Aristotele chiama inoltre U. un soggetto come l’acqua o come
l’aria (/bid., V, 6, 1016a 23); ma chiama anche U. sostrato la sostanza (/bid.,
V, 8, 1017 b 24); e considera il principio di contraddizione come « un’opinione
U. » (/bid., IV, 3, 1005 b 33). Chiama pure U. il fine (/bid., V, 16, 1021 b
25). Tutti questi usi, o usi assai simili a questi, sono rimasti nella
tradizione filosofica. Nel Medio Evo si chiamò «fine U.» la beatitudine, in
quanto è il fine al di là del quale non si può procedere (confronta S. Tommaso,
S. 7h., II, 1, q.1, a. 4). Oggi si parla di « problemi U. » o di «ragioni U.»
nello stesso senso in cui si potrebbe parlare di problemi primi o massimi e di
ragioni prime: il che dimostra ancora una volta che il termine appartiene
piuttosto 892 alla retorica del discorso filosofico e ha scarso valore
concettuale (v. ESTREMO). ULTRAMONDANISMO. V. TRADIZIONALISMO, 1. UMANESIMO
(ingl. Humanism; franc. Humanisme; ted. Humanismus). Il termine è usato per
indicare due cose diverse e cioè: I) il movimento letterario e filosofico che
ebbe le sue origini in Italia nella seconda metà del sec. x1v e dall’Italia si
diffuse negli altri paesi d'Europa, costituendo l'origine della cultura
moderna; II) un qualsiasi movimento filosofico che assuma a suo fondamento la
natura umana o i limiti e gli interessi dell’uomo. I Nel suo primo significato,
che è quello storico, l’U. è un aspetto fondamentale del Rinascimento (v.):
precisamente l’aspetto per il quale il Rinascimento è il riconoscimento del
valore dell’uomo nella sua interezza e il tentativo di intenderlo nel suo
mondo, che è quello della natura e della storia. In questo senso l’U. si fa
iniziare con l’opera di Francesco Petrarca (1304-74). I principali umanisti
italiani sono: Coluccio Salutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1374-1444),
Lorenzo Valla (1407-57), Giannozzo Manetti (13961459), Leonbattista Alberti
(1404-72), Mario Nizolio (1498-1576). Fra gli umanisti francesi: Carlo Bovillo
(1470 o 75-1553), Pietro Ramus (1515-72), Michele di Montaigne (1533-92),
Pietro Charron (1541-1603), Francesco Sanchez (1562-1632), Giusto Lipsio
(1547-1606). Tra gli umanisti spagnoli va ricordato Ludovico Vives (1492-1540)
e tra quelli tedeschi Rodolfo Agricola (1442-85). I capisaldi fondamentali
dell’U. possono essere esposti così: 1° Il riconoscimento della roralità
dell’uomo come essere formato di anima e di corpo e destinato a vivere nel
mondo e a dominarlo. Il curriculum medievale degli studi era fatto per un
angelo o un’anima disincarnata. L'U. rivendica per l’uomo il valore del piacere
(Raimondi, Filelfo, Valla); afferma l’importanza dello studio delle leggi,
della medicina e dell’etica contro la metafisica (Salutati, Bruni, Valla); nega
la superiorità della vita contemplativa su quella attiva (Valla). Si ferma
lungamente a esaltare la dignità e la libertà dell’uomo, a riconoscere il suo
posto centrale della natura e il suo destino di dominatore della natura stessa
(Manetti, Pico della Mirandola, Ficino). 2° Il riconoscimento della storicità
dell’uomo cioè dei legami dell’uomo con il suo passato, legami che da un lato
servono a connetterlo con tale passato dall’altro a distinguerlo e a
contrapporlo ad esso. Da questo punto di vista, è parte fondamentale dell’U.
l'esigenza filologica: che non è solo il bisogno di scoprire i testi antichi e di
ripristinarli nella forma autentica, studiando e collazionando i codici, ma è
anche il bisogno di rintracciare in ULTRAMONDANISMO essi l’autentico
significato di poesia o di verità filosofica o religiosa che contengono.
L’ammirazione e lo studio dell’antichità non erano mai venuti meno nel Medio
Evo; ciò che costituisce il proprio dell’U. è l’esigenza di scoprire il volto
autentico dell’antichità, liberandola dalle incrostazioni che la tradizione
medievale vi aveva accumulato. 3° Il riconoscimento del valore umano delle
lettere classiche. Questo è l’aspetto da cui l’U. prende il suo nome. Già al
tempo di Cicerone e Varrone la parola humanitas significava l’educazione
dell’uomo come tale che i Greci chiamavano paideia; e si riconoscevano nelle
«buone arti» le discipline che formano l’uomo perchè sono proprie solo di lui e
lo differenziano dagli altri animali (AuLo GetLio, Nocf. atf., XIII, 17). Le
buone arti, quelle che ancora oggi si chiamano le discipline umanistiche, non
avevano tuttavia per PU. valore di fine ma di mezzo per la + formazione di una
coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, attraverso la consapevolezza
storico-critica della tradizione culturale » (GARIN, L’educazione umanistica in
Italia, pag. 7) (vedi CULTURA). 4° Il riconoscimento della naturalità dell’uomo
cioè del fatto che l’uomo è un essere naturale per il quale la conoscenza della
natura non è una distrazione imperdonabile o un peccato ma un elemento
indispensabile di vita e di successo. Il rifiorire dell’aristotelismo, della
magia e delle speculazioni naturalistiche (ad opera di Telesio, Bruno e
Campanella) costituisce il preludio della scienza moderna. II) Il secondo
significato della parola non sempre ha strette connessioni con il primo. Si può
dire che per esso l’U. è ogni filosofia che faccia dell’uomo, secondo il
vecchio detto di Protagora, «la misura delle cose». Proprio in questo senso, e
in riferimento al detto di Protagora, F. C. S. Schiller chiamò U. il suo
pragmatismo (Studies in Humanism, 1902). Nello stesso senso, ma per respingerlo
ha inteso l’U. Heidegger che ha visto in esso quell’indirizzo della filosofia
che fa dell’uomo la misura dell’essere e subordina l’essere all'uomo invece di
subordinare, come dovrebbe, l’uomo all’essere e di vedere nell’uomo soltanto «
il pastore dell’essere » (Ho/zwege, 1950, pag. 101-02). Riferendosi ad un senso
analogo, Sartre ha accettato la qualifica di U. per il suo esistenzialismo
(L’existentialisme est un humanisme, 1949). Più in generale si può intendere
per U. qualsiasi indirizzo filosofico che tenga conto delle possibilità e
quindi dei limiti dell’uomo e che proceda su questa base a un ridimensionamento
dei problemi filosofici. UMILTÀ UMANITÀ (lat. Humanitas; ingl. Humanity; franc.
Humanité; ted. Humanitàt, Menschheit). Il termine ha i seguenti significati
principali: 1° La forma compiuta o l’ideale o lo spirito dell’uomo. In tal
senso gli antichi adoperavano la parola humanitas, corrispondente al greco
paideia, dalla quale è venuto il nome e il concetto stesso di umanesimo (v.).
In un senso analogo Humboldt considerava come fine della storia «la
realizzazione dell’idea dell’U.» (Schriften, IV, pagina 55). 2° La sostanza o
l'essenza dell’uomo, nel significato aristotelico rimasto proprio della
metafisica classica. In tal senso S. Tommaso diceva: « U. significa i princìpi
essenziali della specie, tanto formali quanto materiali, a prescindere dai
princìpi individuali. L’U. è infatti ciò per cui un uomo è tale; e un uomo è
tale non perchè ha i princìpi individuali ma perchè ha i princìpi essenziali
della specie » (Contra Gent., IV, 81). 3° Il genere umano cioè la specie umana
come entità biologica. In tal senso si parla, ad es., della storia o delle
vicende dell’U. su questa terra o dell’evoluzione biologica dell’umanità. 4° La
sintesi ipostatizzata della storia o della tradizione dell’uomo, secondo il
concetto di Comte che intende per essa « l’insieme degli esseri passati, futuri
e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale »
(Politique positive, IV, pag. 30). In tal senso I’U. costituisce, secondo
Comte, un Grande Essere, cioè una specie di divinità che non è altro che lo
stesso mondo storico ipostatizzato. Comte volle istituire il culto di questo
grande essere (v. ESSERE, GRANDE). 5° La natura ragionevole dell’uomo, in
quanto dotata di dignità e quindi in quanto deve valere come fine a se stessa.
Questo è il significato che la parola assume nella seconda formula
dell’imperativo categorico di Kant: « Agisci in modo da trattare l’U.
(Menschheit), tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre
anche come fine, mai solo come mezzo » (Grundlegung der Metaphysik der Sitten,
ID. L’U. nella persona degli uomini è l’oggetto proprio del rispetto (v.) che,
secondo Kant, è l’unico sentimento morale (Met. der Sitten, II, $ 11). 6° La
disposizione alla comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi. In
questo senso, il termine è stato ottimamente definito da Kant: « U. (Humanitàt)
significa da un lato il sentimento universale della simpatia, dall'altro la
facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che
insieme costituiscono la sociabilità propria dell’U. (Menschheit) per cui essa
si differenzia dall’isolamento animale » (Crif. del Giud., $ 60; cfr. Antr., $
88). 893 UMANITARISMO (ingl. Humanitarianism; franc. Humanitarisme; ted.
Humanitàt). V. FiLANTROPIA. UMILTÀ (gr. tarewoppootvn; lat. Humilitas; ingl.
Humility; franc. Humilité; ted. Demut). L'atteggiamento di volontaria
abbiezione, tipico della religiosità medievale alla quale viene suggerito dalla
credenza nella natura miserabile e peccaminosa dell’uomo. In questo senso l’U.
viene illustrata ed esaltata da Bernardo di Chiaravalle: « L'U. è la virtù per
la quale l’uomo, con verissimo riconoscimento di sè, tiene a vile se stesso »
(De gradibus humilitatis et superbiae, in P. L., 182°, col. 942). In questo
senso l’U. era sconosciuta al mondo antico. Lo stesso S. Paolo, che adoperò per
primo la parola, intese per essa l’assenza dello spirito di competizione e di
vanagloria (Philipp., ID e ne vide il modello in Cristo che si è abbassato, con
l'incarnazione, sino all'uomo (Ibid, II, 3-11). Allo stesso modo Sant'Agostino
parla dell’U. prevalentemente a proposito della via humilitatis che è
l’incarnazione del Verbo per la redenzione degli uomini: e in tal senso
contrappone l’U. cristiana alla superbia dei Platonici che sapevano tante cose,
ma ignoravano l'incarnazione (Conf., VII, 9). S. Tommaso considerava l’U. come
quella parte della virtù «che tempera e frena l’animo affinchè non tenda senza
misura verso le cose più alte» e vedeva in esse il completamento della
magnanimità che «conferma l'animo contro la disperazione e lo spinge a
perseguire le cose grandi secondo la retta ragione» (S. 7h., II, 2, q. 161, a.
1). Ma è ovvio che in questo senso l’U. non è che la magnanimità stessa nel
significato aristotelico (v. MaGNANIMITÀ) e non ha nulla a che fare con l’U.
nel senso di S. Bernardo. I filosofi hanno spesso polemizzato contro l’U. nel
significato medievale o hanno cercato di ricondurla a un significato
compatibile con l’etica classica. Spinoza negava che l’U. fosse una virtù e la
riteneva una emozione passiva in quanto essa nasce dal fatto che «l’uomo
contempla la propria impotenza ». Mentre, se pensa a tale impotenza nei confronti
di un essere più perfetto questo pensiero favorisce la sua potenza d’azione ed
è perciò non U. ma virtù (Er., IV, 53). Kant distingue l’U. morale che è «il
sentimento della piccolezza del nostro valore in confronto con la legge »
dall’U. spuria che è «la pretesa di acquistare, mediante ia rinuncia a un
qualsiasi valore morale di sè, un valore morale nascosto ». La pretesa di
superare gli altri abbassando se stessi è un’ambizione opposta al dovere verso
gli altri; e servirsi di questo mezzo per ottenere il favore di altri (Dio o
uomo che sia) è ipocrisia e adulazione (Mer. der Sitten, II, $ 11). Hegel a sua
volta affermava che 1°U. » è la coscienza 894 di Dio e della sua essenza come
amore » (Philosophische Propàdeutik, $ 207; cfr. Philosophie der Religion, ed.
Glockner, II, pag. 553). Mentre, dall’altro lato, la protesta di Nietzsche che
vede nell’U. semplicemente un aspetto della « morale degli schiavi » è
ovviamente diretta contro il tipico concetto medievale dell’U. (cfr. Werke,
VII, pag. 348 sgg.). UMORE (ingl. Mood; franc. Humeur; tedesco Stimmung). Uno
stato emotivo che non ha oggetto, o il cui oggetto è indeterminabile, e che si
distingue perciò dall'emozione vera e propria. Questa distinzione è stata
proposta da W. Cerf (« U. ed emozioni nell’arte», in Rivista di Filosofia,
1954, pag. 363 sgg.) ed appare opportuna per individuare nella vasta gamma
degli stati emotivi quelli che vanno sotto il nome di umore. L’U. non ha
oggetto intenzionale nel senso che non esiste un U. di..., come esiste una paura
di..., o una gioia di..., ecc. Esso ha una causa o una ragione ma non si
riferisce a un particolare oggetto e non costituisce l’avvertimento del valore
biologico di una situazione. In tal senso, Cerf ha affermato che nell’arte non
ci sono emozioni ma soltanto umori. Sul significato esistenziale degli U. aveva
richiamato l’attenzione Heidegger: « Che gli U. possano mutare o dileguare
significa solo che l’Esserci è già sempre in uno stato emotivo ». L’U.
fondamentale è la noia, «il peso dell’essere». Ma in ogni caso l’U. è ciò che
rende manifesto « come uno è e diviene » (Sein und Zeit, $ 29). UNICO (lat.
Unicus; ingl. Unique; francese Unique; ted. Einzig). 1. Ciò che non è la specie
di un genere, intendendosi per genere una determinazione che possa essere partecipata
da più specie. In questo senso Dio solo è U. (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q. 3,
a. $). 2. Ciò che è solo nella sua specie, cioè il solo individuo appartenente
a una specie determinata. In questo senso, nella metafisica tradizionale
possono dirsi U. gli angeli dei quali è impossibile che ve ne siano due della
stessa specie in quanto sono privi della materia che distingue gli appartenenti
di una stessa specie (cfr. S. Th., I, q. 50, a. 4). In questo senso Stirner
intendeva l’unicità: «Io, l’U., sono l’uomo. La questione ‘che cosa è l’uomo?’
si trasforma nella questione ‘chi è l’uomo?’. Nel che cosa si cercava il
concetto; nel chi la questione risolta perchè la risposta è data da quello
stesso che interroga » (Der Einzige und sein Eigentum, 1845; trad. ital., pag.
270). Il che cosa è il chi, la specie è l’individuo (vedi ANARCHISMO). 3. Ciò
che non è sostituibile nel suo valore o nella sua funzione. In tal senso si
dice U. una persona o un’opera d’arte; e si dice U., in matematica, il valore
di una funzione. UMORE 4. Ciò che non si ripete o non si ripete identicamente.
In tal senso si dice U. l’evento storico come tale (v. STORIA). 5. Ciò che può
essere effettuato in un solo modo; e in tal senso diciamo U. un’operazione, per
es., la scomposizione di un numero in fattori primi. UNIFICAZIONE DELLE
SCIENZE. Vedi ENCICLOPEDIA. UNIFORME (gr. spoedic; lat. Uniformis; inglese
Uniform; franc. Uniforme; ted. Einformig). I. Ciò che appartiene alla stessa
specie o alla stessa essenza o sostanza. In questo senso il termine veniva
adoperato da Aristotele (Mer., V, 2, 1013b 31; I, 9, 991 b 23; VII, 7, 1032a
24; ecc.) e inteso da S. Tommaso (/n Sent., II, d. 48, q. 1, a. 1). In tal
senso si chiamano U. gli oggetti che hanno lo stesso genere o la stessa specie
o in generale la stessa natura. 2. Ciò che rimane costante o immutabile o
almeno relativamente costante e immutabile. In tal senso si parla della
uniformità delle leggi di natura (v. INDUZIONE). 3. Ciò che presenta analogie o
somiglianze parziali, messe in luce dall’astrazione prescissiva, ed è
suscettibile di previsione. In questo senso si parla dell’uniformità della
natura o dell’uniformità della storia o del mondo umano e sociale. Peirce ha
così illustrato l’uniformità in questo senso: « Se scegliamo molti oggetti col
principio che essi debbano appartenere ad una certa classe e troviamo che hanno
tutti un carattere comune, si troverà assai spesso che l’intera classe avrà lo
stesso carattere. O se scegliamo molti caratteri di una cosa a caso e poi
troviamo una cosa che ha tutti questi caratteri, generalmente troviamo che la
seconda cosa è assai simile alla prima » (Coll. Pap., 7.131). Come osserva lo
stesso Peirce, uniformità in questo senso si potrebbe trovare anche in un mondo
in cui tutto si verificasse a caso (/bid., 7.136). E sono queste le uniformità
di cui si avvalgono le discipline scientifiche sia quelle naturali sia quelle
sociali; come si avvale di esse il senso comune. Il dizionario di un linguaggio
qualsiasi non è che la espressione di uniformità di questa sorta. La
ripetibilità è il carattere fondamentale dell’uniformità in questo senso. 4.
Ciò che è conforme a un ordine, cioè a una regola o una legge qualsiasi. In tal
senso si dicono U. i fenomeni naturali che obbediscono a leggi. Ma in realtà
questa specie di uniformità non è che la precedente perchè una legge
scientifica non è che un’uniformità nel senso 3. Questo fu un punto messo in
luce da J. Stuart Mill (System of Logic, III, IV, 1) (v. REGOLARITÀ). UNIONE
(ingl. Union; franc. Union; ted. Verbindung). Qualsiasi forma di relazione che
consenta UNITÀ di considerare (a qualsiasi titolo) l'insieme dei termini come
un tutto. Questa è la definizione che della parola dette Leibniz (De arte
combinatoria, 1666, Op., ed. Erdmann, pag. 8). Un tutto non è necessariamente
un’unità o una totalità (vedi TUTTO) e può avere gradi diversissimi di coesione
tra le sue parti. Sicchè anche i gradi dell’U. possono essere diversissimi.
Kant divise ogni U. in composizione (compositio) e in connessione (nexus). La
prima è una sintesi mon necessaria cioè tale che non connette necessariamente i
suoi termini. Kant ritiene che sia propria delle matematiche e la divide in
aggregazione, che riguarda le quantità estensive e coalizione che riguarda le
quantità intensive. La connessione invece è una sintesi necessaria, per es.,
quella dell’accidente con la sostanza e dell’effetto con la causa. Essa può
sussistere anche fra termini eterogenei e può essere o fisica, che è la
connessione dei fenomeni tra di loro, o metafisica che è l’U. dei fenomeni
nella facoltà conoscitiva a priori (Crit. R. Pura, Analitica, libro II, cap. 2,
sez. 3, nota [B 202)). Questa diversità di significato si riscontra nell’uso
corrente del termine come in quello filosofico e teologico. La teologia parla
di una «U. ipostatica » cioè sostanziale o necessaria tra la natura umana e la
natura divina nella persona del Cristo (v. INCARNAZIONE); ma parla anche
dell’U. mistica dell'anima con Dio, che non è nè sostanziale nè necessaria. La
filosofia parla dell’U. tra materia e forma e di sostanza e accidente, che sono
necessarie; e parla pure dell’U. dell’anima e del corpo che non è necessaria
(cfr. LEIBNIZ, Op., ed. Erdmann, pag. 127). Nel linguaggio comune sono passati
alcuni di questi usi; e in più si parla, ad es., di «U. carnale »; o di U. nel
senso di concordia o di solidarietà; o di associazione per la difesa di
interessi comuni (U. operaia, ecc.). UNITÀ (gr. uovéc; lat. Unitas; ingl.
Unity; franc. Unité; ted. Einheit). 1. In senso proprio, ciò che è
mecessariamente uno, cioè indivisibile o nel senso che è privo di parti o nel
senso che le sue parti sono inseparabili dalla totalità e inseparabili l’una
dall’altra. Questo fu il concetto elaborato da Aristotele, che distinse ciò che
è uno dî per sè o essenzialmente da ciò che è uno per accidente (Met., V, 6,
1015 b 16); definì l’U. (uovéc) come qualcosa di indivisibile o assolutamente o
quantitativamente (/bid., 1016 b 24) e distinse quattro specie fondamentali di
U.: 4) l’U. di una totalità continua qual'è, per es., un organismo; b) l’U. di
una forma o sostanza; c) l’U. numerica; d) l’U. definitoria cioè l’U. di cose
che hanno la stessa definizione (/bid., X, 1, 1052a 15-1052b 15; cfr. V, 6,
1016a 1-1016a 35). Queste determinazioni aristoteliche non sono perfettamente
coe895 renti perchè, mentre definiscono l’U. come indivisibilità, includono tra
le forme dell’U. la continuità, che Aristotele stesso definisce come la
divisibilità in parti a loro volta divisibili (v. ConTINUO). Il loro
significato è tuttavia abbastanza chiaro. L’U., cioè l’uno per sè, è da un lato
l’identità della forma o sostanza con se stessa, dall’altro l’identità degli
oggetti che hanno la stessa definizione (identità degli indiscernibili),
dall'altro ancora è l’elemento o il principio del numero. Per ciò che riguarda
il numero, questo concetto dell’U. è durato a lungo (v. NuMERO). Ma delle altre
due forme di U. distinte da Aristotele, è soprattutto l’U. formale o
sostanziale quella che è stata di regola assunta come concetto o ideale dell’U.
nella tradizione filosofica. I neoplatonici illustrarono ed esaltarono l’U.
come condizione necessaria di ogni essere, trascurando la distinzione
aristotelica tra l’U. che è necessaria e l’uno che non lo è. L’U. è sempre
necessaria secondo Plotino: «Separati dall'uno, gli esseri non ci sono più.
L'esercito, il coro, il gregge non esisterebbero se non fossero un esercito, un
coro, un gregge. La casa e la nave non sono se non hanno unità; giacchè la casa
è una casa e la nave è una nave e se perdessero l’unità non sarebbero nè casa
nè nave. Le grandezze continue neanch’esse ci sarebbero se non avessero
l’unità. Si divida una grandezza: perdendo l’U., il suo essere si trasforma. Lo
stesso accade per i corpi delle piante e degli animali che, se perdono l’U. e
si dividono in molte parti, perdono l'essere che possedevano e non sono più
quel che erano; si mutano in altri esseri che, in quanto sono, sono ciascuno un
essere» (Enn., VI, 9, 1). Queste considerazioni sono rimaste decisive per la
storia ulteriore del concetto di unità. Ripetute da Proclo (/nst. Theol.) e da
Dionigi l’Areopagita (De div. nom., XIII, C-D) passarono nella filosofia
medievale (cfr. S. Tommaso, S. Th., 1, q. 11, a. 1); e furono riprese da Nicolò
da Cusa (De doct. ignor., I, 5) che identificò l’assoluta U. col massimo
assoluto ed entrambe le cose con Dio ed ispirò le corrispondenti speculazioni
di Bruno sull’argomento. Nell’U. consiste la sostanza delle cose (De /a causa,
principio et uno, V, in Op., ed. Guzzo e Amerio, pag. 409). Locke presenta la
prima istanza polemica contro il concetto dell’U. sostanziale. Egli sostiene
che «l’U. di sostanza» non serve a fare intendere le varie specie di identità,
per es., l’identità della sostanza dell’uomo, della persona, ecc., e che tali
identità devono essere chiarite o spiegate indipendentemente l’una dall’altra
(Saggio, II, 27, 8). Ma Leibniz già ritornava alla difesa dell’identità
sostanziale «l’unica vera e reale U.» (Nouv. Ess., II, 27, 4). E Wolff
ridefiniva nel senso tradizionale 896 l’U., intendendo per essa « l’inseparabilità
di quelle cose mediante le quali un ente è determinato» (Ont., $ 328); la
determinazione dell’ente essendo nient'altro, secondo Wolff, che la ragione o
la forma dell’ente (/bid., $ 116). Il ruolo determinante che Kant affida alla
sintesi (v.) in tutti i gradi e le forme della conoscenza e in generale
dell'attività umana ubbidisce allo stesso favore accordato alla nozione di
unità. Questa è in generale per Kant sinonimo di sintesi o di connessione
necessaria. Il suo carattere proprio è, in altri termini, l’inseparabilità di
ciò che viene unificato o sintetizzato. A fondamento di tutti i gradi o le
forme di U., che costituiscono le forme e i gradi del conoscere, Kant pone
«l'U. oggettiva della percezione» la quale si manifesta con l’uso della copula
é in senso oggettivo. Questa copula designa secondo Kant «I’U. necessaria » del
soggetto con il predicato e la relazione di questa U. necessaria con
l’appercezione originaria. Questo non vuol dire che le rappresentazioni legate
insieme della copula sono « necessariamente subordinate l’una all’altra +; ma
vuol dire che esse sono « subordinate l’una all’altra mediante l’U. necessaria
dell’appercezione» (Critica R. Pura, $ 19). Come si vede, l’uso kantiano del
concetto di U. è, rigorosamente, quello tradizionale: Kant trasferisce all'io
penso o « U. necessaria dell’appercezione » il fondamento dell’U. necessaria
degli oggetti; ma la nozione stessa « U. necessaria » è quella aristotelica. Nè
da questa nozione si distacca il concetto che ebbe Hegel dell’U.: di cui
lamentava che essa potesse intendersi come « riflessione soggettiva » e
riteneva invece che dovesse intendersi nel senso di « inseparazione e
inseparabilità ». Ma questo è appunto il concetto aristotelico dell’U.
(Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, n. 2). L’uso del termine
che Hegel fece lungo tutta la sua opera per indicare il terzo momento della
dialettica, quello dell’U. o identità degli opposti, è perfettamente conforme a
questo concetto. Nell’uso filosofico corrente, il termine non sempre conserva
il suo significato proprio di indivisibilità o inseparabilità cioè di
connessione necessaria. Tuttavia questo significato è presente quando si parla
dell'U. di Dio o del mondo o della natura o della storia; e perfino quando si
parla di U. ideali o normative, come « l’U. dell’umanità » o «l’U. della
famiglia », ecc. 2. In correlazione con il significato precedente, i filosofi
hanno talora chiamato U. gli elementi costitutivi o i princìpi generali
dell’essere. Sappiamo che i Pitagorici ritenevano in questo senso che «I°U. è
il principio di tutte le cose » (Dioc. L., VIII, 25; StoBEO, Ec/., I, 2, 58).
Nello stesso senso il neoplatonismo parlava di Monadi o di Enadi UNITARISMO
(ProcLo, /nst. Theol., 64) e Leibniz chiamò Monadi (v.) le sostanze spirituali
che egli considerò come elementi del mondo. Il termine, in questi usi, conserva
il significato di sostanza indivisibile. 3. In senso generico ed improprio lo
stesso che uno (v.). UNITARISMO (ingl. Unitarianism; franc. Unitarisme; ted.
Unitarismus, Unitismus). 1. L'indirizzo religioso che insiste sull’unità di
Dio, in opposizione alla formula trinitaria del cristianesimo. Per quanto si
riconnetta a vecchie eresie religiose, 1’U. moderno ha trovato la sua prima
forma nel socinianesimo (v.) e in seguito ha costituito l’indirizzo religioso
più tollerante e liberale del mondo moderno. Questo indirizzo si è quasi
esclusivamente sviluppato in Inghilterra e in America. In Inghilterra fu
costituita nel 1825 l'Associazione Unitarista dalla quale deriva il nome che
l’indirizzo ha assunto, anche fuori dell’associazione stessa o in numerose
altre associazioni in Inghilterra e in America. Confronta W. E. CHANNING, Works, 1886; Unitarian
Christianity and Other Essays, ed. I. H. Bartlett, 1957; A. A. BowMAan, The
Absurdity of Christianity and Other Essays, ed. C. W. Hendel, 1958. 2. Specialmente in tedesco il
termine equivale a panteîsmo (v.). Dice Fichte: « Se si dovesse domandare il
carattere della dottrina della scienza rispetto all’unitismo (?v xal màv) e al
dualismo, la risposta è: essa è unitismo nel suo aspetto ideale giacchè sa che
a fondamento di tutto il sapere sta l’eterno Uno che è al di là di ogni sapere;
ed è dualismo nell’aspetto reale, in quanto pone il sapere come reale»
(Wissenschaftslehre, 1801, $ 32, in Werke, II, pag. 89). UNIVERSALE (gr. xa06Xo0u; lat.
Universalis; ingl. Universal; franc.
Universel; ted. Allgemein). Il termine ha avuto due significati principali: 1°
uno oggettivo, per il quale esso indica una determinazione qualsiasi che può
appartenere o può essere attribuita a più cose; 2° l’altro soggettivo, per il
quale indica la possibilità di un giudizio (sia che concerna il vero e il
falso, sia che concerna il bello o il brutto, il bene e il male, ecc.) di
valore per tutti gli esseri ragionevoli. 1° Il primo significato è quello
classico, per il quale Aristotele dice che Socrate è stato lo scopritore
dell’universale (Mer., XIII, 4, 1078 b 28). In questo senso, l’U. può essere
considerato nel duplice aspetto ontologico e logico. Ontologicamente l’U. è la
forma o l’idea o l’essenza che può essere partecipata da più cose e che dà alle
cose stesse la loro natura o i loro caratteri comuni. L’U. ontologico è la
forma o specie di Platone (cfr., ad es., Parm., 132 a) o la forma o la sostanza
di Aristotele: il quale pertanto affermava che la scienza c’è solo dell’U. (De
an., II, 5, 417 b 23). UNIVERSALE Logicamente l’U. è secondo Aristotele « ciò
che può essere per sua natura predicato di più cose? (De Int., 7, 17a 39): una
definizione la quale è stata pressochè universalmente accettata nella storia
della filosofia. Fu all’U. in questo senso che i logici medievali riconobbero
il carattere di segno (v.) e la funzione della supposizione (v.). Era questo
l’U. che M. Nizolio interpretava come un tutto collettivo o multitudo rerum
singularium, sicchè la proposizione «l’uomo è animale» avrebbe significato
«tutti gli uomini sono animali » (De veris principiis, I, 6); al che Leibniz
opponeva che esso è invece un tutto distributivo, sicchè quella proposizione
significa che questo o quell’uomo, quale che sia, è animale (Op., ed. Erdmann,
pag. 70). Leibniz riproduceva così sostanzialmente su questo punto la dottrina
nominalistica della EDO dell'U. (OcKHAM, Summa Log., I, 70). È chiaro che I’U.
in questo senso non è che un altro nome per indicare il concetto, il segno o il
significato: sicchè i problemi ad esso connessi devono essere considerati sotto
queste voci. Dall'altro lato, lo status ontologico dell’U. dava luogo alla
cosiddetta disputa sugli U. che ha occupato buona parte della filosofia
medievale e in qualche modo ha continuato e continua nella filosofia moderna
(v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Come si è detto, l’U. nel significato
ontologico è la forma o la sostanza delle cose: un concetto che non è soltanto
aristotelico e medievale. Anche Locke osservava che il fondamento della
universalità delle proposizioni può essere soltanto la sostanza, con la
connessione necessaria, che essa implica, tra le sue determinazioni, e che dove
manca la conoscenza della sostanza l’universalità non è rigorosa (Saggio, IV,
6, 7). Analogamente Kant osservava che l’universalità empirica non è mai
rigorosa o vera e che l’universalità autentica bisogna che sia fondata sulle
forme 4 priori della conoscenza: cioè su quelle forme che entrano a costituire
le cose stesse come fenomeni (Crir. R. Pura, Intr., II). Hegel a sua volta
insisteva sull’unità dell’U. e del particolare, che è l’U. concreto o Idea o
Concetto reale. AW’U. astratto, che è contrapposto al particolare e
all’individuo, egli pertanto contrapponeva l’U. concreto che è l’essenza o la
natura positiva del particolare (Wissenschaft der Logik, II, libro III, sez. I,
cap. I, A; trad. ital., III, pag. 42 sgg.). E scorgeva il compito della
filosofia per l’appunto nella conoscenza dell’U. concreto: « Compito della
filosofia è di dimostrare, contro l’intelletto, che il vero, l’Idea non
consiste in vuote generalità ma in un U. che in se stesso è il particolare, il
determinato » (Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 58). Nello
stesso senso, Croce scriveva: « Se il concetto è U. trascendente 87 897
rispetto alla singola rappresentazione, presa nella sua astratta singolarità, è
d’altra parte immanente in tutte le rappresentazioni e perciò anche nella
singola » e pertanto identificava il concetto stesso con la ragione o Idea
(Logica, 1920, pag. 28). La «concretezza dell’U.» di cui parlano gli scrittori
idealisti non è che lo sfarus ontologico che all’U. era stato riconosciuto
dalla metafisica tradizionale. AIl’U. ontologico si ricollegano pure alcuni
altri usi del termine universale. Così, la «storia U.» è la storia che ha per
oggetto la forma o l'ordine complessivo del mondo umano (v. StoRIA). La
«gravitazione U. + è una forza o un principio che regge la totalità del mondo e
così via. In usi simili del termine il suo significato oggettivo è unito con la
sua portata ontologica. 2° Nel secondo significato, U. è ciò che è o dev'essere
valido per tutti. Il concetto dell’U. in questo senso è nato dal dominio
dell’analisi dei sentimenti e specialmente dei sentimenti estetici (v. Gusto).
Già Hume si era proposto di cercare una regola del gusto, cioè una regola «
mediante la quale possano venire accordati i vari sentimenti degli uomini»
(Essays, I, pag. 268 sgg.). Ma è stato Kant colui che, oltre ad adoperare
questo tipo di universalità nel dominio dell'estetica, l’ha esteso al dominio
morale e lo ha chiarito nei suoi caratteri specifici, definendolo come validità
comune o universalità soggettiva. Per ciò che riguarda la sfera estetica, Kant
vedeva nel giudizio di gusto semplicemente «la necessità oggettiva dell'accordo
del sentimento di ognuno con il nostro stesso sentimento + e in tal senso
definiva il bello come « un piacere necessario » cioè un piacere che tutti
devono provare allo stesso modo (Crit. del Giud., $ 22). Nel dominio
dell'etica, Kant affermava che una legge pratica è tale solo se «è valida per
la volontà di ogni essere razionale » (Crit. R. Prat., $ 1); e faceva
dell’universalità soggettiva, cioè della possibilità di una massima di valere
come legge per tutti gli esseri razionali, il criterio per giudicare se una
massima è o non è una legge morale (Grundlegung der Meraphysik der Sitten, II).
Ma egli si soffermava anche ad illustrare la differenza fra questa universalità
soggettiva e l’universalità oggettiva. Diceva: «Ogni giudizio oggettivamente U.
è anche sempre soggettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto
ciò che è compreso in un dato concetto, vale anche per ognuno che si
rappresenti un oggetto secondo quel concetto». Tuttavia, non è sempre vero
l’inverso, cioè non ogni giudizio che ha universalità soggettiva o validità
comune è anche oggettivamente U.; e questo è il caso dell’universalità estetica
che possiede l’universalità soggettiva ma non quella oggettiva (Crir. de/
Giud., 898 $ 8). Da Kant in poi l’universalità soggettiva è diventata un luogo
comune della filosofia; come è diventato un luogo comune la nozione di validità
(v.). Forse più esattamente questa specie di U. viene oggi indicato con il
termine di intersoggettivo (v.). Il riferimento all’intersoggettività
costituisce il significato del termine in molte espressioni correnti come «
lingua U.» o «educazione U.» o « consenso U.», «amore U.», ecc. In altre
espressioni, il termine può avere sia il significato soggettivo sia il
significato oggettivo logico: per es., «genio U.» che si può intendere come il
genio che tutti debbono riconoscere o riconoscono come tale; o come il genio
che è tale nei confronti di qualsiasi ramo dello scibile. UNIVERSALI, DISPUTA
DEGLI (inglese Controversy about Universals; franc. Querelle des universaux;
ted. Universalienstreit). S’intende con questo termine la disputa sullo status
ontologico degli U. (generi e specie) che s’iniziò nella Scolastica del sec.
xI, rimanendo caratteristica di tutta la filosofia medievale, e continuando
poi, con forme appena mutate, nella filosofia moderna. La disputa fu impostata
secondo un passo della /sagoge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di
Aristotele e i relativi commenti di Boezio. Il passo di Porfirio è il seguente:
« Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano
posti soltanto nell’intelletto, nè, nel caso che sussistano, se siano corporei
o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed
esprimenti i loro caratteri comuni » (Zsag., 1). Delle alternative indicate da
Porfirio in questo passo, una sola non trova riscontro nella storia della
disputa: quella secondo la quale gli U. sarebbero realtà corporee. In compenso,
un'alternativa che Porfirio non aveva previsto si è verificata storicamente,
almeno a quanto dicono: cioè che l’U. non esiste neppure nell’intelletto e sia
soltanto un nome, un flatus vocis. È questa la soluzione attribuita a
Roscellino da S. Anselmo (De fide Trinitatis, 2) e da Giovanni di Salisbury
(Metal., II, 13; Policrat., VII, 12). Le soluzioni che nella Scolastica e dopo
la Scolastica sono state date di questi problemi sono molte numerose; e spesso
si distinguono l’una dall’altra solo per un capello. Realismo (v.) e
nominalismo (v.) sono le soluzioni fondamentali; ma già Ockham enumerava nella
confutazione sistematica che volle dare del realismo, sei forme fondamentali di
esso (/n Sent., I, d. 2, q. 4-8; Quodl., V, q. 10-14; Summa Log., I, 15-17;
cfr. ABBAGNANO, G. di Ockham, II, $ 8-11). Ma la cosa fondamentale per
intendere sia l’origine storica della disputa sia la portata permanente che
essa può avere, è che le sue due soluzioni fondamentali, realismo e
nominalismo, UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI corrispondono ai due indirizzi
fondamentali della logica antica e medievale, quello platonico-aristotelico e
quello stoico. Questi due indirizzi corrispondono a quelle che nello stesso
Medio Evo furono chiamate la logica antica e la logica moderna e più tardi
formalismo e terminismo (v. TERMINIsmo). Il primo di questi indirizzi insisteva
sulle dottrine logiche tradizionali, il secondo sulla dottrina della
supposizione (v.) e sui ragionamenti antinomici. La trattazioni logiche
medievali giustappongono i due tronchi dottrinari; ma l’inconciliabilità e
l’antagonismo di questi si manifesta appunto sulla disputa degli U. che
pertanto denunzia la presenza attiva, nella Scolastica, di una tradizione
logica anti-aristotelica, che è appunto quella stoica, attinta attraverso le opere
di Boezio e di Cicerone. Realismo e nominalismo costituiscono pertanto le due
soluzioni tipiche e storicamente originarie del problema. Per il realismo cioè
per la tradizione logica platonico-aristotelica, l’U. è, oltre che conceptus
mentis, l’essenza necessaria o la sostanza delle cose. Per il nominalismo, cioè
per la tradizione stoicizzante, l’U. è un segno delle cose stesse. Il realismo
e il nominalismo medievale costituiscono pertanto le due alternative che la
dottrina del concetto ha sempre incontrato nella sua storia (v. CONCETTO). Più
specificamente, per quel che riguarda il realismo, si possono distinguere tre
forme fondamentali di esso che potremo chiamare rispettivamente quella
platonizzante, quella aristotelica e quella semi-aristotelica. La forma
platonizzante del realismo è attribuita da Abelardo al suo maestro Guglielmo di
Champeaux (sec. x1): l’U. sarebbe la sostanza e gli individui costituirebbero
accidenti di questa sostanza (ABELARDO, (Euvres, ed. Cousin, pag. 513). La
soluzione aristotelica è quella che si trova più comunemente difesa nella
Scolastica ed è espressa da S. Tommaso dicendo che 1’U. è in re come forma o
sostanza delle cose, post rem come concetto nell’intelletto e anse rem nella
mente divina come Idea o modello delle cose create (/m Senr., II, d. 3, q. 2,
a. 2). Questi tre U. non fanno che uno cioè si identificano con l’essenza,
sostanza o forma della cosa, che esiste ab aeterno nell’intelletto divino e che
l'intelletto umano astrae dalla cosa stessa (S. 7h.). Infine, soluzione
semi-aristotelica può chiamarsi quella di Duns Scoto, secondo il quale il vero
e proprio U. esiste solo nell’intelletto, ma esiste nelle cose una natura
comune distinta non numericamente ma solo formalmente dall’individualità delle
cose (Op. Ox., II, d. 3, q. 6, n. 15). Il carattere proprio di questa soluzione
sta nel principio della distinzione formale (v. DISTINZIONE) UNIVOCO ED
EQUIVOCO che è una delle caratteristiche della filosofia di Duns Scoto.
Dall’altro lato il nominalismo presenta una maggiore uniformità. Se si
prescinde dall’accennata tesi di Roscellino (della quale per altro non esistono
documenti convincenti) il nominalismo, da Abelardo a Ockham, ha sostenuto
sempre le stesse tesi fondamentali, la riduzione dell’U. alla funzione logica
della predicabilità, dividendosi solo sulla realtà psichica attribuita o meno
all'U. stesso. Ockham si dimostra indifferente nei confronti di quest’ultimo
problema: nega, ovviamente, che l'U. sia una species (v.), ma ritiene
indifferente che lo si identifichi con l'atto dell'intelletto o che addirittura
si neghi che abbia una realtà qualsiasi nell'anima (/n Sent., I, d. 2, q. 8,
E). Il suo carattere fondamentale è la sua funzione di segno, cioè la
supposizione (v.). Questi rimasero i capisaldi della logica terministica dopo
di Ockham; e una nozione analoga dell’U. è quella che compare nella dottrina
del concetto che veniva difesa nell'empirismo inglese a partire dal sec. xvIr e
cioè da Locke, Berkeley e Hume (v. CONCETTO, 2). UNIVERSALISMO (ingl.
Universalism; francese Universalisme; ted. Universalismus). x. In senso
teologico la dottrina che Dio vuol salvare tutti gli uomini e che pertanto non
esiste una qualsiasi predestinazione alla dannazione. È la dottrina sostenuta
fra gli altri da Leibniz che parla in questo senso del contrasto tra «
universalisti » e « particolaristi » (7héod., I, $ 80). 2. In senso etico, ogni
dottrina anti-individualistica cioè ogni dottrina che afferma la subordinazione
dell’individuo a una comunità qualsiasi (stato, popolo, nazione, umanità,
ecc.). UNIVERSALIZZAZIONE. V. GENERALIZZAZIONE. UNIVERSO (gr. tè rav; lat.
Universum; inglese Universe; franc. Univers; ted. Universum). 1. Un qualsiasi
tutto: per es., « U. del discorso » o «U. delle stelle fisse» o «U. visibile ».
2. Il tutto della natura fisica, a prescindere dal suo ordine. Questo è il
significato che al termine dettero Aristotele (Mer., V, 26, 1024a 1) e gli
Stoici (StoBEO, Ecl., I, 21, pag. 442 sgg.). 3. Lo stesso che mondo. Questo uso
prevale presso i moderni (v. MonDo; TOTALITÀ; TUTTO). UNIVERSO DEL DISCORSO (ingl. Uni
verse of Discourse; franc. Univers du discours). L'espressione fu introdotta da De Morgan (Forma!
Logic, 1847, pag. 37) e diffusa da Boole (Laws of Thought, 1854, III, $ 4) per
indicare in generale « l’estensione del campo dentro il quale si trovano tutti
gli oggetti del nostro discorso ». Più precisamente, in seguito, si designò con
questo termine, nell’algebra della logica, una classe 899 non vuota dalla
quale, e solo dalla quale, siano tratti tutti gli elementi con i quali siano
costituite tutte le classi su cui si opera il calcolo. Va da sè che in tal modo
l’U. del discorso è la somma logica di tutte le classi che si possono formare
con tali elementi. Viene indicato con il simbolo « V» oppure «1». Nell’interpretazione
proposizionale esso sarà costituito dalla disgiunzione (somma logica) di tutte
le proposizioni sulle quali opera il calcolo, oppure dalla congiunzione
(prodotto logico) di tutte le proposizioni vere. Nella Logica delle relazioni,
l’U. del discorso è, ancora, formato da tutti gli elementi che possono entrare
nelle relazioni considerate: in tal caso deve contenere almeno due elementi se
si prendono in considerazione solo relazioni diadiche, almeno tre se si
prendono in considerazione anche relazioni triadiche... almeno n se si prendono
in considerazione relazioni n-adiche. La relazione-U. è la relazione «a v 5»
che vige tra tutte le coppie possibili di elementi dell’universo. Nella Logica
odierna questo concetto ha perduto di importanza: qualora venga usato, lo è nel
senso sopra definito. In pratica però si usa spesso l’espressione « U. del
discorso » per designare l’insieme di elementi (termini e proposizioni) che
costituiscono il campo di una data disciplina. G. P. UNIVOCO ED EQUIVOCO (gr.
suvevupoc, sudvupog; lat. Univocus, Aequivocus; ingl. Univocal, Equivocal;
franc. Univoque, Équivoque; ted. Eindeutig, Aequivok). Questi due termini hanno
avuto definizioni diverse a seconda che sono stati riferiti all'oggetto o al
concetto (o nome). 1. Aristotele li riferì all'oggetto e intese per univoci (o
sinonimi) gli oggetti che hanno in comune sia il nome sia la definizione del
nome: così, ad es., sia l’uomo che il bue si dicono animali. Chiamò invece
equivoci (od omonimi) gli oggetti che hanno in comune il nome mentre le
definizioni richiamate dal nome sono diverse: in questo senso si chiama animale
sia l’uomo sia un disegno (Car., I, 1a 1-11). Queste definizioni ricorrono
frequentemente nella scolastica (per es., Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01) e si
mantengono anche in logici più recenti (ad es., Jungius, Logica Hamburgensis,
1, 2, 4-9). 2. La logica terministica ritenne «improprio» il riferimento dei
due termini agli oggetti e ritenne che essi si dovessero riferire propriamente
soltanto ai segni e cioè ai concetti o nomi. Da questo punto di vista, le
definizioni di Ockham sono le seguenti. «U. è o la voce o il segno
convenzionale che corrisponde a un solo concetto o, più strettamente, è ciò che
si può predicare di per sè di più cose o è il pronome dimostrativo di una cosa.
Eguivoco dall’altro lato è il nome che, significando più cose, 900 non è
subordinato a un unico concetto ma è unico segno di più concetti o intenzioni
dell’anima. L’U. può derivare o dal caso, come accade quando il nome Socrate
viene imposto a più uomini, o da una deliberazione quando si impone un certo
nome a certe cose e lo si subordina a un solo concetto e poi per la
similitudine di questo concetto con altri si estende ad altri il nome stesso»
(Summa Log., I, 13). Le definizioni terministiche dei due termini sono quelle
che si danno anche oggi dei termini stessi. Le discussioni medievali sulla
natura dell’univocità avevano nel Medio Evo un’immediata risonanza teologica,
per la disputa tra i sostenitori dell’univocità e quelli dell’analogicità dell’essere
(v. ANALOGIA). UNO (gr. ele; lat. Unus; ingl. One; franc. Un; ted. Ein). 1.
L'elemento di un insieme o di una classe qualsiasi: come quando si dice «l’uomo
è un animale ». A questo proposito, si dice che una relazione è molti ad U. se
per ogni x del suo campo vi è un solo y che abbia la relazione stessa ad x. Si
dice che essa è U. a molti se per ogni y dominante inverso del suo campo vi è
un unico x che abbia la relazione stessa ad y. Si dice infine che la relazione
è U. a U. se essa e il suo inverso sono uno a molti e molti a uno. In questo
caso si parla anche di una corrispondenza di U. a U. (A. CHURCH, Introduction
to Mathematical Logic, n. 556, 564). 2. Ciò che è unico, come quando si dice «
Dio è U.» (v. UNICO). 3. L’unità nel senso proprio del termine (vedi UNITÀ). 4.
Il numero U. cioè il primo termine nella serie naturale dei numeri o in
generale il primo termine di una serie qualsiasi. 5. L’U. ipostatico o
teologico cioè Dio o il Bene come primo termine del processo dell’emanazione e
ultimo termine del processo del ritorno. In questo senso già Eraclito diceva
«da tutte le cose l’U. e dall’U. tutte le cose» (Fr., 10 Diels; cfr. EMPEDOCLE,
Fr., 17, 1). Ma furono soprattutto i Neoplatonici a adoperare il termine per
designare la divinità o il bene in quanto è trascendente rispetto all’essere e
all’intelligenza e quindi al di là d’ogni molteplicità. « Bisogna, diceva
Plotino, che prima di tutte le cose ci sia qualcosa di semplice e di diverso da
tutte quelle che vengono dopo di essa; essa è in se stessa, non si mescola con
quelle che la seguono ma può essere in qualche modo presente alle altre: ed è
veramente 1°U. non qualcosa che sia una, ma semplicemente l’U.» (Enn., V, 4,
1). L’unità del primo principio deve intendersi così rigorosamente che il nome
stesso di « U. » appare a Plotino improprio. « Questo nome U. non contiene
forse altro che l’esclusione del molteplice. I Pitagorici UNO lo designavano
simbolicamente come Apollo per indicare tra loro la negazione dei molti... Si
può adoperare questa parola per cominciare la ricerca con una parola che
designi la massima semplicità; ma infine bisogna negare questo stesso attributo
che non merita più degli altri di designare quella natura che non può essere
attinta dall’udito nè compresa da colui che la nomina ma soltanto da colui che
la contempla» (2bid., V, 5, 6). Queste speculazioni sull'U. sono state
frequentemente riprese dalla teologia negativa e dal panteismo. Esse sono di
solito accompagnate, in Plotino e negli altri, dall’esaltazione della funzione
dell’unità in tutto il dominio del conoscere e dell’essere (v. UNITÀ). Così
accadde nelle speculazioni platoniche del Rinascimento. Così accadde anche nel
Romanticismo, dal quale l’U.-Tutto, fu assunto come il principio del mondo
coincidente con il mondo stesso: come appare in modo più esplicito nella
filosofia della natura di Schelling (Werke, I, III, pag. 276). Hegel a sua
volta, che vedeva la concretezza nell’unità (v.), scorgeva nell’U. l’astrazione
o l’immediatezza e insisteva sulla relazione dell’U. stesso con i molti che
illustrava fantasticamente con le nozioni, arbitrariamente manipolate,
dell’attrazione e della repulsione (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap.
III, B; trad. ital., pag. 181 seguenti). Il concetto di U. in questo senso viene
spesso utilizzato sia dalle dottrine teistiche sia dalle dottrine panteistiche.
Tra coloro che ne hanno fatto un uso più esteso e rigoroso, si deve ricordare
Piero Martinetti (La libertà, 1928, pag. 490; Ragione e fede, 1942, pag. 402),
per quanto nella speculazione di Martinetti si senta l’effetto della
separazione radicale tra Dio come U. assoluto e realtà empirica e molteplice,
su cui aveva insistito Africano Spir (Denken und Wirklichkeit, 1873). UOMO (gr.
&vpwros; lat. Homo; ingl. Man; franc. Homme; ted. Mensch). Le definizioni
dell’U. possono essere raggruppate sotto i titoli seguenti: 1° definizioni che
si avvalgono del raffronto tra ’U. e Dio; 2° definizioni che esprimono una
caratteristica o una capacità propria dell’U.; 3° definizioni che esprimono,
come propria dell’U., la sua capacità di autoprogettarsi. 1° Le definizioni del
primo gruppo sono di natura religiosa o teologica, ma possono anche trovarsi in
dottrine che di religioso e teologico non hanno nulla. Ogni definizione del
genere si rifà al detto della Genesi «E Dio disse: facciamo l’U. a immagine e
somiglianza nostra» (Gen., I, 26). Questo detto ha servito spesso di punto di
partenza per le speculazioni sull’anima e special» mente sulle partizioni
dell’anima (v. ANIMA): in realtà esso è un’esplicita definizione dell’U. e come
tale fu assunto dai teologi della Riforma. D'altronde UOMO 901 già Aristotele,
parlando della vita contemplativa, aveva parlato di un «elemento divino»
dell’U. che di quanto eccelle, nel composto che costituisce I°U., di tanto
rende l’U. virtuoso e beato (Et. Nic.). Ma questo tipo di definizione dell’U.
si è, nella tradizione filosofica, costantemente ispirato alla Bibbia. Sull’U.
come immagine di Dio insistettero Calvino (/nstitutio, I, 15, 8) e Zuiglio
(Deutsche Schriften, I, 56); e lo stesso concetto attraverso le ricche
amplificazioni di Jacob Boehme (cfr., per es., Aurora oder die Morgenròthe im
Aufgange, VI, 1) passò nella filosofia romantica tedesca. Spinoza diceva che
«l’essenza dell’U. è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio »
(Er., II, 10, Corol.). Nelle lezioni sulla Destinazione del dotto nel 1794
Fichte additava come compito dell’U. quello di adeguarsi all’unità e
all’immutabilità dell'Io assoluto, secondo la massima «agisci in modo da poter
considerare la massima della tua volontà come legge eterna per te» (Uber die
Bestimmung des Gelehrten, 1794, 1); ma l’Io assoluto è il principio o la
sostanza dell’U., e la sua unità e immutabilità non è che l’unità e
l’immutabilità di Dio: sicchè il miglior modo di esprimere la dottrina di
Fichte in proposito è che l’U., nel suo principio ideale, è Dio e deve
sforzarsi di diventar tale. Analogamente, per Hegel l’U. è essenzialmente
Spirito e lo Spirito è Dio. «L’U., dice Hegel, per quanto considerato per se
stesso finito, è anche immagine di Dio e sorgente dell’infinità in se stesso:
giacchè è scopo a se stesso, ed ha in se stesso il valore infinito e la
destinazione all’eternità » (Philosophie der Geschichte, editore Glockner, pag.
427). Il cristianesimo è definito da Hegel appunto come la posizione della «
unità dell’U. e di Dio +» (/bid., pag. 416). In queste definizioni dell’U. il
rapporto dell’U. con Dio è assunto in modo positivo. Ma lo stesso rapporto può
essere assunto in modo negativo o invertito, rimanendo sostanzialmente lo
stesso. Feuerbach, ad es., ritiene che I’U. si riveli e si definisca a se
stesso nel suo concetto di Dio. « L’essere assoluto, il Dio dell’U., è l’essere
stesso dell’U. », egli dice (Wesen des Christentum, $ 1). Ciò che l’U. pensa di
Dio, è la definizione dell’U.: 4 Pensi tu l’infinito? Ebbene tu pensi e affermi
l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’infinito? Tu senti e affermi
l’infinità della potenza del sentimento » (/bid.). Le tesi dell’esistenza o
dell'inesistenza di Dio non influisce su queste definizioni dell’U., che
rimangono ancorate al raffronto tra l’U. e Dio. Così Nietzsche, dopo aver fatto
proclamare da Zaratustra che «Dio è morto», gli fa annunziare il Super U., come
ciò che è al di là dell’U. stesso. «La grandezza dell’U. sta in questo, che
egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo amare è il fatto che egli è
un passaggio e un tramonto» (Also sprach Zarathustra, Prol., $ 4). In un senso
analogo a quello di Feuerbach e Nietzsche, ma con in più il concetto dello
scacco cui l’U. è destinato, Sartre ha detto: « Se l’U. possiede una
comprensione preontologica dell'essere di Dio, non sono nè i grandi spettacoli
della natura, nè la potenza della società che gliela hanno conferita: ma Dio,
valore e scopo supremo della trascendenza, rappresenta il limite permanente a
partire dal quale I’U. si fa annunciare ciò che egli è. Essere U., è tendere a
Dio; o, se si preferisce, l’U. è fondamentalmente desiderio d’essere Dio »
(L’étre et le néant, pag. 653-54). 2° Le definizioni che esprimono una
caratteristica o una capacità ritenuta propria dell’U. sono numerose e di esse
la prima e più famosa è quella secondo la quale I’U. è « animale ragionevole ».
Questa definizione esprime bene il punto di vista dell’Illuminismo greco e lo
spirito della filosofia platonica e aristotelica. Ma essa non si trova
esplicitamente in Platone, il quale avrebbe detto soltanto che l’U. è animale
«capace di scienza » (Def., 415a): una determinazione che Aristotele ripete
considerandola come il proprio dell’U. (7op., V, 4, 133a 20). Ma nella politica
Aristotele afferma che «l’U. è l’unico animale che abbia la ragione » e che la
ragione serve a indicargli l’utile e il dannoso, perciò anche il giusto e
l’ingiusto (Po/., I, 2, 1253a 9; cfr. VII, 13, 1332 b, 5). Accettata dagli
Stoici, (SEsTo EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 26; StoBgo, Ecl., II, 132) questa
definizione è rimasta classica e ad essa si rifanno abitualmente gli scrittori
medievali (cfr., ad es., S. TomMaso, S. 7h., II, 1, q.71, a. 2; II, 2, q.34, a.
5). È questa la sola definizione entrata nella comune cultura; ed anche i
filosofi si rifanno ad essa per variarla opportunamente in conformità del senso
specifico che essi dànno alla parola ragione. Ad es., la definizione di Rosmini
«I’U. è un soggetto animale dotato dell’intuizione dell’essere ideale
indeterminato» (Antropologia, $ 23) esprime la stessa cosa della definizione
tradizionale perchè, secondo Rosmini, la « percezione dell’essere ideale
indeterminato » è la ragione (Nuovo Saggio, $ 396). La definizione di De
Bonald, che fu per un certo tempo famosa, « l’U. è un’intelligenza servita da
organi » (Cuvres, 1864, I, pag. 41; III, pag. 149) non è altro anch’essa che
una parafrasi della definizione tradizionale in quanto in essa il « servizio
degli organi» è l’equivalente della « animalità ». E l’ancora più famosa
definizione di Pascal « L’U. non è che un giunco, il più debole della natura,
ma è un giunco pensante» (Pensées, 347) può anch’essa essere considerata come
una variante della definizione tradizionale: una variante nella 902 quale la
connotazione della fragilità naturale dell’U. ha preso il posto della
«animalità». Dall’altro lato Cartesio aveva fatto a meno della animalità e
aveva ridotto l’U. al pensiero, come coscienza immediata: «Io non sono,
precisamente parlando, che una cosa che pensa cioè uno spirito, un intelletto o
una ragione » (Med., II). Ma l’animalità, nella definizione tradizionale,
serviva da un lato a spiegare l’ovvia limitazione dell’attività pensante
dell’U., dall’altro a riconoscere nell’U. un essere terrestre o mondano, che ha
bisogno di organi. Nel senso cartesiano Husserl ha detto: «Se l’U. è un essere
razionale (animal rationale) lo è solo nella misura in cui tutta la sua umanità
è un'umanità razionale, nella misura in cui è latentemente orientato verso la
ragione oppure apertamente orientato verso l’entelechia che si è rivelata a se
stessa e guida ormai coscientemente, per una necessità essenziale, il divenire
umano » (Die Xrisis der europdischen Wissenschaften und die transzendentale
Phanomenologie, 1954, $ 6). L’ultima e più aggiornata versione della vecchia
definizione è quella dell’U. come animale simbolico cioè come animale che parla
(CASSIRER, Essay on Man, cap. II; trad. ital., pag. 49). Questa caratteristica
era in verità presente allo stesso termine greco che significa ragione: logos
infatti è il discorso razionale o la ragione che si fa discorso. Nella
filosofia contemporanea, la definizione serve ad esprimere il potere
condizionante del linguaggio cioè del comportamento segnico, in tutte le
attività dell'uomo. Questo potere difficilmente potrebbe essere esagerato; e la
definizione in esame è a giusto titolo tra le più diffuse e accettate nella
filosofia contemporanea. Essa tuttavia non può essere intesa a prescindere da
quella caratteristica della autoprogettabilità che il terzo gruppo di
definizioni riconosce all’uomo. Una seconda e più specifica determinazione, che
è stata spesso assunta come definizione dell’U., è la natura politica cioè
socievole dell’U. stesso. Già menzionata da Platone (Def., 415a) questa
determinazione è strettamente legata, da Aristotele, con la natura razionale
dell’uomo. « Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha
bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma è o una
belva o un Dio» (Pol. I, 2, 1253 a 27). Ovviamente, per Aristotele, razionalità
e politicità dell’U. sono strettamente connesse; e tali rimangono per tutti
coloro che in seguito faranno capo a questa definizione. Hobbes che combatteva
questa definizione la intendeva come se essa significasse: « L’U. è adatto sin
dalla nascita a vivere socialmente » e affermava che in questo senso essa è
falsa, perchè l’U. diventa adatto ad associarsi solo per educazione (De Cive,
I, 2, UOMO e nota). Ma il significato più ovvio della definizione in esame è
che l’U. non può fare a meno di vivere in società e in questo senso neppure
Hobbes dubita della fondamentale esattezza di essa. Questa definizione,
tuttavia, non è stata proposta per determinare la natura dell’U. nella sua
totalità. Con la pretesa di esprimere la totalità dell’U., si presenta invece
la definizione di Bergson: « Se potessimo spogliarci del nostro orgoglio, se
per definire la nostra specie ci attenessimo strettamente a quelle che la
storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’U. e
dell’intelligenza, non diremmo forse Momo sapiens ma Homo faber. In definitiva,
l'intelligenza, considerata in ciò che sembra il suo compito originale, è la
facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili per fare
utensili, e di variarne indefinitamente la fabbricazione » (Évol. Créatr., 83
ediz., 1911, pag. 151). In realtà però lo stesso Bergson ammette, attorno
all'intelligenza, un « alone d’istinto » e ritiene possibile il ritorno
dell’intelligenza all’istinto mediante l’intuizione: il che dovrebbe voler dire
che l’U. non è soltanto homo faber. 3° Il terzo gruppo di definizioni comprende
quelle che interpretano l’uomo come possibilità di auto-progettazione. Quasi
tutte le definizioni del secondo gruppo, pur facendo leva su un’unica
determinazione dell’U., ritenuta come propria o fondamentale, la considerano,
esplicitamente o implicitamente, come una possibilità, cioè una capacità o
disposizione. Leibniz, difendendo la definizione dell’U. come animale
ragionevole, osservava che il fatto che gli idioti mancano di ragione non è
un'obiezione contro di essa: basta che essi, sia pure con la sola loro figura
fisica, ne mostrino un indice (Nouv. Ess., III, 6, 22). Ma in realtà già in
Aristotele è abbastanza chiaro che la ragione è una possibilità o capacità di
giudizio, non una determinazione necessitante; e che solo a questo titolo
costituisce la definizione dell’uomo. Forse, il carattere indeterminato dell’U.
veniva adombrato nel detto di Democrito: «I'U. è quello che tutti sappiamo »
(Fr., 165, Diels). Ma esso è chiaramente espresso nelle speculazioni dei
neoplatonici dell’antichità e del Rinascimento sulla « natura media » o
«centrale» dell’uomo. Già Plotino affermava a questo proposito: «Il posto
dell’U. è nel mezzo tra gli Dei e le bestie ed egli inclina talvolta verso gli
uni talvolta verso le altre; certi uomini sono simili agli dèi, altri alle
bestie e i più tengono il mezzo » (Enn., III, 2, 8). Questo pensiero veniva
illustrato nel sec. ix da Scoto Eriugena: « Non immeritamente, egli diceva,
l’U. è stato chiamato l’officina di tutte le creature: difatti tutte le
creature si cont.ngono in lui. Egli intende come l’angelo, ragiona come l’U.,
sente come l’animale irragioUOVO nevole, vive come il germe, consiste di anima
e corpo e non è privo di nessuna cosa creata » (De divis. nat., III, 37).
Questi pensieri venivano ripetuti nel Rinascimento da Nicolò Cusano (De visione
dei, 6; Excitationes, Vi De ludo globi, II) e da Marsilio Ficino (Theol. Plat.,
III, 2) che entrambi li trasferiscono all'anima dell’U.j Ficino chiama l'anima
copula del mondo. Ma soprattutto si trovano espressi in modo classico
nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola: « Non ti ho dato, o
Adamo, fa dire Pico a Dio, nè un posto determinato, nè un aspetto proprio, nè
alcuna prerogativa tua, perchè quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative
che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e
conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me
prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo
arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perchè di
là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto nè celeste nè
terreno, nè mortale nè immortale, perchè, di te stesso quasi libero e sovrano
artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu
potrai degenerare nelle cose inferiori; tu potrai, secondo il tuo volere,
rigenerarti nelle cose superiori che sono divine » (De hom. dign., f.131r).
Certamente, l’illimitata capacità di autoprogettazione dell’U. non è stata mai
più esaltata con tanta eloquenza e con tanto fiducioso ottimismo come in questa
pagina di Pico. Tuttavia, il concetto illuministico dell’U. come ragione
progettante, limitata e impedita, bensì, ma efficace può ritenersi una
filiazione del concetto rinascimentale dell'uomo. Diceva Kant: «La ragione in
una creatura è il potere di estendere, oltre gli istinti naturali, le regole e
i fini dell’uso di tutte le sue attività; essa non conosce limiti ai suoi
disegni. Però la ragione non agisce istintivamente, ma procede per tentativi,
con l'esercizio e imparando, per elevarsi a poco a poco e passare da un grado
di conoscenza ad un altro» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in
weltbilrgerlicher Absicht, 1784, tesi II. Kant ritiene pertanto che soltanto
attraverso la storia della specie umana sulla terra l'uomo realizzi la sua
natura: che è la libertà di autoprogettarsi con la sua ragione e specialmente
di progettare per sè una società civile fondata totalmente sul diritto. Queste
idee esprimevano bene il punto di vista dell'illuminismo, al quale Kant stesso
le riferiva. Ancora più chiaramente, Kant descriveva così il carattere della
specie umana: « Per potere attribuire all'U. il suo posto nel sistema della
natura vivente e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che egli ha
quel carattere che egli stesso si fa in quanto sa perfezionarsi secondo i fini
da se stesso derivati: onde, come animale fornito della capacità di ragionare
(animal rationabile), può farsi da sè animale ragionevole (animal rationale) »
(Antr., II, e). L’esistenzialismo e lo strumentalismo americano hanno, nella
filosofia contemporanea, ereditato questo concetto dell’uomo. Da un lato, essi
sottolineano che I’U. è ciò che egli stesso può o vuole farsi; che perciò egli
è costantemente problema a se stesso e soluzione di questo problema; che
continuamente egli progetta il suo modo d'essere o di vivere e che questo
progetto entra a costituire in qualche grado e misura il suo modo d’essere o di
vivere effettivo. Dall'altro lato, entrambe le correnti riconoscono le
limitazioni di questa progettabilità: limitazioni che agiscono specialmente nel
fatto che ogni progetto trova già, in qualche misura, come dari (cioè come
relativamente immodificabili) gli elementi di cui si avvale; che tutto ciò che
esso può progettare nel futuro è già stato in qualche modo o forma nel passato;
e che pertanto il passato condiziona entro certi limiti (riconosciuti più o
meno estesi) il futuro dell’uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto
che il progetto è il modo d’essere fondamentale dell’U. (Sein und Zeit, $ 31);
e in cui Sartre ha parlato di un progetto fondamentale del mondo (L’érre er le
néant, pag. 540). Nello stesso senso, John Dewey ha parlato della mutabilità
della natura umana e dei suoi stessi cosiddetti istinti o impulsi fondamentali
(Human Nature and Conduct, pag. 95 sgg.; 106 sgg.). Heidegger ha insistito pure
sulla limitazione della progettabilità in quanto ogni progetto ricadrebbe e si
appiattirebbe su ciò che è già stato e in ciò consisterebbe l’effertività (o
fattualità) dell’U. (v. PROGETTO). Sartre ha insistito sulla libertà assoluta della
progettabilità e ha considerato puramente arbitraria o gratuita la scelta di un
progetto qualsiasi (L’érre er le néant, pag. 721). Dall’altro lato, Dewey ha
ripreso il concetto illuministico della razionalità (che è nello stesso tempo
condizionamento e libertà) dei progetti umani; e sugli stessi caratteri
dell’auto-progettazione ha insistito l’esistenzialismo positivo (cfr.
ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, I, 7; II, 3; ecc.). D'altronde questa
concezione sembra oggi condivisa dagli stessi biologi. Dice, per es., G. G.
Simpson: «L’U. può scegliere di sviluppare le sue capacità come più alto
animale e tentare di sollevarsi ancora di più; o può scegliere altrimenti. La
scelta è sua responsabilità, e sua soltanto. Non c’è un automatismo che lo porterà
in alto senza scelta o sforzo e non c'è una tendenza unilaterale nella giusta
direzione. L'evoluzione non ha alcuno scopo; D’U. deve dare lo scopo a se
stesso + (The Meaning of Evolution, 6 ediz., 1952, pag. 310). UOVO (gr. ®6y;
ingl. Egg; franc. (Euf; ted. Ei). Il primo principio del mondo, secondo la
teogonia orfica (Orphicorum fragmenta, 53, 54 Ke). La considerazione del mondo
come un gigantesco animale è alla base di questo mito, che ha parecchi
precedenti orientali. Su di questi e sul mito stesso cfr. A. OLIVIERI, Civiltà
greca nell’Italia meridionale, 1931, pag. 3-32. URDOXA o URGLAUBE. Husserl ha
chiamato con questo termine (che significa credenza originaria) la certezza
propria della credenza cioè il riferimento certo della credenza a un oggetto esistente
(/deen, I, $ 104) (v. CREDENZA). URPHAENOMENON. Termine adoperato da Goethe,
che così ne illustrava il concetto: « Nell’esperienza per lo più cogliamo
soltanto casi che, con una certa attenzione, possono essere condotti sotto
rubriche empiriche generali. Queste a loro volta si subordinano a rubriche
scientifiche che rimandano oltre, sicchè veniamo a conoscere meglio alcune
condizioni indispensabili di ciò che appare. Di qui in poi tutto si sistema
gradualmente sotto regole e leggi superiori, che si manifestano, non
all’intelletto mediante parole e ipotesi, ma all’intuizione attraverso
fenomeni. Sono questi i fenomeni che chiamiamo originari; perchè niente
nell’apparenza è al di sopra di loro ed essi ci permettono, come prima siamo
saliti, di discendere gradualmente sino al caso più comune dell’esperienza
quotidiana » (Farbenlehre, 1808, $ 175). USIOLOGIA (ingl. Usiology; franc.
Usiologie; ted. Usiologie). Dottrina delle essenze. Termine raro. USO (ingl.
Use; franc. Usage; ted. Gebrauch). L’atto o il modo di adoperare mezzi,
strumenti o utensili. Il termine è usato in filosofia soprattutto a proposito
di strumenti o mezzi intellettuali, o della ragione stessa. Kant parlò di un U.
/ogico della ragione che è quello mediante il quale si effettuano inferenze
mediate cioè sillogistiche; e di un U. puro che è quello mediante la quale la
ragione si fa essa stessa « una speciale fonte di concetti e di giudizi».
Quest'ultimo è I’U. dialettico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dialettica,
Intr., II, B-C). Kant distinse pure l’U. teoretico e l’U. pratico della ragione
stessa (Crit. R. Pura, Pref. alla 2* ediz.). Ed infine distinse l’U. empirico
dei concetti, che significa il loro riferimento a oggetti dell'esperienza
possibile, dall’U. trascendentale che invece significa il loro riferimento a
oggetti che sono al di là di tale esperienza (v. TRASCENDENTALE). Della nozione
di U. si è servito Wittgenstein per definire il significato dei termini
linguistici: « Per una estesa classe di casi — sebbene non per tutti — nei
quali adoperiamo la parola ‘ signifi cato * essa può essere definita così: il
significato di una parola è il suo U. nel linguaggio » (PhiloURDOXA O URGLAUBE
sophical Investigations, $ 43) (v. LINGUAGGIO; SrGNIFICATO). I logici
contemporanei distinguono l’U. di una parola dalla sua menzione. Nella frase
«l’uomo è un animale razionale » la parola «uomo» è usata ma non menzionata.
Invece nella frase «la traduzione italiana della parola inglese man ha quattro
lettere» la parola uomo è menzionata ma non usata. Infine nella frase «la
parola uomo ha quattro lettere », la parola uomo è nello stesso tempo usata e
menzionata. Quest'ultimo U. è quello che gli Scolastici chiamavano della
supposizione materiale (v. SuPPOSIZIONE) e che Carnap ha chiamato U. autononimo
(CARNAP, Logical Syntax of Language, $ 64; QuINE, Methods of Logic, $ 7;
CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 80). UTENSILE (ingl. Tool; franc.
Ustensile; tedesco Zuhandene). Un mezzo potenziale, che diventa attuale quando
si congiunge all’occhio, al braccio, alla mano, in qualche operazione
specifica. Questa è la definizione data da Dewey (Human Nature and Conduct,
pag. 25). U. è stato spesso considerato il modo d’essere proprio della cosa
(v.) come tale. È questa una dottrina che è stata avanzata da Heidegger (Sein
und Zeit, $ 15) ed accettata da Ortega y Gasset, che ha considerato come U.
anche l’intelligenza, la scienza e la cultura (Schema delle crisi, 1933, pag.
43); e da Sartre, che ha detto: «Il rapporto originale delle cose tra loro è il
rapporto d’utensilità... la cosa non è dapprima cosa per essere in seguito U.,
nè dapprima U. per svelarsi di seguito come cosa: è cosa-U.» (L’étre et le néant, pag. 250).
UTILE (ingl. Useful; franc. Utile; ted. Niitzlich).
1. Ciò che è mezzo o strumento per un fine qualsiasi. In questo senso
definivano l'utilità Alberto Magno (S. 7h., I, g. 8, a. 3), Geulincx (Ethica,
III, 6) e Baumgarten (Mer., $ 336). L’utilità è in questo senso un carattere
delle cose. 2. Più specificamente, a partire da Hobbes, è stato chiamato U. ciò
che giova alla conservazione dell’uomo o in generale appaga i suoi bisogni o
soddisfa i suoi interessi. Hobbes affermava a questo proposito che ciascun uomo
è, per diritto naturale, arbitro circa ciò che gli è U. e che «la misura del
diritto è l’utilità » (De Cive, 1642, I, 9-10). Sulle tracce di Hobbes, Spinoza
identificava il comportamento razionale dell’uomo con la ricerca dell’U.: «La
ragione, non richiedendo nulla contro la natura, richiede di per sè, innanzi
tutto che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio U. che veramente sia tale
». Tra le molte cose U. e desiderabili le più importanti sono quelle che
convengono alla natura umana c perciò la più importante di tutte è la
conservazione dell’uomo nella propria persona e nell'altrui. « Gli uomini che
sono governati dalla ragione, ossia gli uomini che cercano il proprio U.
secondo la guida della ragione, non desiderano per sè nulla che non desiderino
anche per gli altri uomini giusti, fidati e onesti » (Er., IV, 18, schol.).
L’utilità in questo senso divenne da un lato fondamento di quella dottrina
morale che è l’uzilitarismo (v.) dall'altro il concetto fondamentale
dell’economia politica (v.). Nel primo indirizzo, già Hume si domandava 4
perchè l’utilità piace» e vedeva la risposta a questa domanda nella naturale
simpatia dell’uomo verso l’altr'uomo (/ng. Conc. Morals, V). La coincidenza
dell’utilità individuale con quella sociale era così già postulata e divenne
uno dei temi dell’utilitarismo. Bentham definiva l’utilità come « quella proprietà
di un oggetto per la quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere,
bene o felicità (Introduction to the Principles of Morals, 1789, I, 1). Nel
campo dell’economia politica, per U. fu inteso abitualmente «tutto ciò che
appaga un bisogno +; e l'avvertenza che non sempre ciò che appaga un bisogno
dal punto di vista economico (cioè viene desiderato come tale) lo appaga dal
punto di vista biologico, consigliò Pareto a introdurre la nozione di ofelimità
(v.) che è l’U. nel contesto economico (Traité d’économie politique). UTILITÀ
MARGINALE. V. EcoNnoMIA PoLITICA. UTILITARISMO (ingl. Utilitarianism; francese
Utilitarisme; ted. Utilitarismus). Per quanto la dottrina che identifica il
bene con l’utile si possa far risalire ad Epicuro (v. ETIcA) l’U., come
dottrina storicamente determinata è un indirizzo del pensiero etico, politico
ed economico inglese dei secoli xvin e xrx. Stuart Mill affermò di essere stato
il primo ad usare la parola utilitarista (utilitarian) e d’averla desunta da
un’espressione usata da Galt negli Annals of Paris (1812): ed a lui infatti è
dovuta la fortuna del nome. Esso però era stato usato occasionalmente da
Bentham, e per la prima volta nel 1781. I capisaldi dell’U. possono essere
riassunti nel modo seguente: 1° L’U. è in primo luogo il tentativo di
trasformare l’etica in una scienza positiva della condotta umana, scienza che
Bentham voleva rendere «esatta come la matematica » (/ntroduction to the
Principles of Morals, in Works, I, pag. v). Questo tratto fa dell’U. un aspetto
fondamentale del movimento positivistico; e dall’altro lato assicura alIl°U.
stesso un posto importante nella storia dell’etica (v. ETICA). 2°
Conseguentemente, 1’U. sostituisce alla considerazione del fine, desunto dalla
natura metafisica dell'uomo, la considerazione dei moventi che, in linea di
fatto, determinano l’uomo ad agire. In ciò esso si riconnette alla tradizione
edonistica che scorge nel piacere l’unico movente cui l’uomo o in generale
l’essere vivente, obbedisca (v. EpoNISMO). Sotto quest’aspetto, come sotto
quello precedente, l’U. veniva soprattutto illustrato da Geremia Bentham
(1748-1832). 3° Il riconoscimento del carattere superindividuale o
intersoggettivo del piacere come movente, onde il fine di ogni attività umana
diventa «la massima felicità divisa nel maggior numero possibile di persone »:
una formula che enunciata per la prima volta da Cesare Beccaria (Dei diritti e
delle pene, 1764, $ 3) fu accettata da Bentham e da tutti gli utilitaristi
inglesi. L'accettazione di questa formula suppone la coincidenza dell’utilità
privata con l’utilità pubblica: una coincidenza che fu ammessa da tutto
l’indirizzo del liberalismo moderno (v. LiserALISMO). Prevalentemente a
giustificare tale coincidenza fu diretta l’opera di Giacomo Mill e di Stuart Mill.
Giacomo Mill l’affidava alla legge dell’associazione psicologica: la felicità
altrui viene desiderata perchè è strettamente associata con la propria
(Analysis of the Phenomena of the Human Mind). Mill affidava questa stessa
connessione al sentimento dell’unità umana, che Comte aveva messo in luce con
la sua religione dell’umanità (Urilitarianism, 2* ediz., 1871, pag. 61).4° La
stretta associazione dell’U. con le dottrine della nascente scienza economica.
Due dei fondatori di questa scienza, Tommaso Roberto Malthus e Davide Ricardo sono
utilitaristi e condivisero dell’U. lo spirito positivo e riformatore. 5° Lo
spirito riformatore, nel campo politico e sociale, degli utilitaristi che si
preoccuparono di far servire la loro dottrina morale come fondamento di riforme
che avrebbero dovuto, nei vari campi, aumentare il benessere e la felicità
degli uomini. Sotto questo aspetto l’U. fu anche detto radicalismo. Cfr. S.
LesLie [sic], The English Utilitarians; E. ALBEE, A History of English
Utilitarianism. UTOPIA (lat. Utopia; ingl. Utopia; francese Utopie; ted.
Utopie). Tommaso Moro intitolava così una specie di romanzo filosofico (De
optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, 1516) nel quale narrava le
condizioni di vita in un'isola sconosciuta detta appunto U.: condizioni di vita
che sarebbero state caratterizzate dall’abolizione della proprietà privata e
dell’intolleranza religiosa. In seguito il termine è stato esteso a designare
non solo ogni tentativo analogo, anteriore o posteriore che fosse, come la
Repubblica di Platone o la Cirtà del sole di Campanella, ma' anche in generale
ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile
realizzazione. Come genere letterario, l’U. cade fuori della considerazione
filosofica: basti qui osservare che essa è stata ed è tutt'ora, in questa
forma, molto diffusa e che una delle sue incarnazioni sono i romanzi di
fantascienza. Problema filosofico è la valutazione dell’U., sia questa espressa
in forma romanzesca sia espressa in forma di mito o di ideologia, ecc.; e su
questa valutazione i filosofi non sono d’accordo. Comte affidava all’U. il
compito di migliorare le istituzioni politiche e di sviluppare le idee
scientifiche (Politique positive). Marx ed Engels, al contrario, condannavano
come « utopistiche » le forme che il socialismo aveva assunto per opera di
Saint Simon, Fourier e Proudhon, contrapponendo ad esse il socialismo «
scientifico » che prevede la trasformazione immancabile del sistema
capitalistico in sistema comunista ma esclude qualsiasi previsione sulla forma
che assumerà la società futura e qualsiasi programma per essa (v. SociaLIsMo).
Sorel nello stesso senso contrapponeva all’U. « opera di teorici che, dopo aver
osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello al quale si possano
paragonare le società esistenti per misurare il bene e il male che racchiudono»
il mito che invece è l’espressione di un gruppo sociale che si prepara alla
rivoluzione (Réflexions sur la violence, 4* edizione, pag. 46). Mannheim ha
invece considerato l’U. come destinata a realizzarsi, in contrapposto
all'ideologia (v.) che non riuscirebbe mai a realizzarsi. L'U. sarebbe in
questo senso alla base di ogni rinnovamento sociale (/deologie und Utopie,
1929, II, 1; cfr. R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1957, 3*
ediz., cap. XIII). In generale si può dire che Il’U. rappresenta una correzione
o un’integrazione ideale di una situazione politica o sociale o religiosa
esistente. Questa correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed accade,
allo stato di semplice aspirazione o sogno generico, risolvendosi in una specie
di evasione dalla realtà vissuta. Ma può anche accadere che l’U. diventi una
forza di trasformazione della realtà in atto e assuma abbastanza corpo e
consistenza per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare i mezzi
dell’innovazione. Di regola la parola viene intesa più in riferimento alla
prima possibilità che alla seconda. E al primo significato si riattacca la
cosiddetta « teoria critica della società » svolta da Horkheimer, Adorno e
Marcuse (e specialmente da quest’ultimo) che si è concentrata soprattutto sulla
critica dissolutrice della società contemporanea. «La teoria critica della
società, ha scritto Marcuse, non possiede concetti che possano gettare un ponte
tra il presente e il futuro, non offre promesse e non mostra successi, rimane
negativa» (One Dimensional Man). Ed ancora: « Se oggi abbastanza determinato,
sicchè vi sono casi nei quali sembra impossibile decidere se essa è applicabile
o meno. Così la parola lontano è V. perchè ci sono casi nei quali è impossibile
decidere se si può parlare di lontananza o meno; mentre non è V. l’espressione
« distante trenta chilometri ». Peirce ha dato del termine la definizione
seguente: « Una proposizione è V. quando sono possibili stati di cose, riguardo
ai quali chi parla, anche contemplandoli, sarebbe intrinsecamente incerto se
siano affermati o negati dalla proposizione. Con intrinsecamente incerto
intendiamo parlare di ciò che è dubbio, non per l’ignoranza di chi interpreta,
ma per l’indeterminazione del linguaggio di chi parla» (in BALDWIN, Dictionary
of Philosophy, Il, pag. 748). La vaghezza non va identificata nè con
l’ambiguità nè con la generalità. B. Russell ha tuttavia insistito sulla
difficoltà di distinguere ciò che è V. da ciò che è generale, inclinando per
una interpretazione soggettiva dell’incertezza inerente a ciò che è V.
(Analysis of Mind, 1921, pag. 184). Max Black ha dato un'analisi esauriente
della nozione di V. suscitando una feconda discussione in proposito {Vagueness
in Language and Philosophy, 1952, cap.II; nella traduzione italiana del libro
Vagueness è reso con /ndeterminatezza). VAISESIKA. Uno dei-principali sistemi
filosofici dell’India antica, la cui fondazione è attribuita a un bramano detto
Kanada, che sostenne una specie di atomismo, considerando la materia formata di
elementi indivisibili e caratterizzata da sei determinazioni fondamentali: la
sostanza, la qualità, il movimento, la generalità, la particolarità e
l’inerenza. Il sistema ammette pure l’esistenza delle anime, dimostrata per
inferenza dall’impossibilità di attribuire al corpo eventi come la conoscenza,
il piacere, l’amore, ecc.; e l’esistenza di Dio considerato come la causa e il
regolatore del Karman (Tucci, Storia della filosofia indiana). VALENZA (ingl.
Valency; franc. Valence; ted. Wertheit). Il corrispondente oggettivo o
noematico del valore, secondo Husserl. Dice Husserl: «Da un lato parliamo della
semplice cosa che è valevole, ha il carattere di valore, ha la V.; dall’altro
parliamo degli stessi valori concreti o della oggettività di valore» (/deen, I,
$ 95). Peirce aveva stabilito un’analogia tra le proprietà delle proposizioni e
la V. chimica (Coll. Pap.). VALIDITÀ (ingl. Validity; franc. Validité; ted.
Giltigkeit). 1. L’universalità soggettiva (v. UNIVERSALITÀ, 2): nel qual senso
è valido ciò che è (o dev'essere) riconosciuto da tutti vero, buono, bello,
ecc. 2. La conformità a regole di procedura sta-bilite o riconosciute. In tal
senso si dice valida un’inferenza, se conforme alle regole della logica, o una
legge se è conforme alle regole costituzionali; o una sentenza se è conforme
alle leggi, o un ordine se è dato dalla persona cui spetta darlo e nelle forme
stabilite dalle regole. La V. in questo senso dev'essere tenuta distinta dai
valori di verità, di giustizia, ecc. Difatti un’inferenza valida, cioè
effettuata in conformità delle regole logiche non è un’iniaggio è valido per
effettuare un certo percorso; o una certa organizzazione è valida per certe
funzioni, ecc. 4. Più particolarmente e limitatamente al dominio della logica,
Carnap ha proposto di chiamare valido l’enunciato (o la classe degli enunciati)
che è la conseguenza di una classe nulla di enunciati; e contro-valido
l’enunciato di cui ogni enunciato può essere conseguenza. I due termini in
questo senso stanno rispettivamente per analitico e contradditorio (The Logical
Syntax of Language, $ 48). Analogamente Quine ha proposto di chiamare valido
uno schema logico che rimane vero quale che sia l’interpretazione che si da ai
suoi simboli. Per es., lo schema p > pè uno schema valido; mentre lo schema
p. 7 è coerente ma non è valido perchè è vero solo quando p è interpretato come
vero e qg come falso (Methods of Logic). V. in questo senso non significa altro
che analiticità o verità logica. VALORE (gr. &Ela; lat. Aestimabile;
inglese Value; franc. Valeur; ted. Wert). In generale, ciò che dev'essere
oggetto di preferenza o di scelta. Fin dall’antichità la parola fu usata a
indicare l’utilità o il prezzo dei beni materiali e la dignità o il merito
delle persone; ma quest’uso non ha alcun significato filosofico perchè non ha
dato origine a problemi filosofici. L'uso filosofico del termine comincia
soltanto quando il suo significato viene generalizzato per indicare qualsiasi
oggetto di preferenza o o di scelta; e ciò accadde per la prima volta con gli
Stoici i quali introdussero il termine nel dominio dell’etica e chiamarono V.
gli oggetti delle scelte morali. Ciò accadde perchè essi intendevano il bene in
senso soggettivo (v. BENE, 2) e potettero così considerare i beni e i loro
rapporti gerarchici come oggetti di preferenza o di scelta. Per V., in
generale, essi intesero «ogni contributo a una vita conforme a ragione » (Dro.
L., VII, 105); 0, come dice Cicerone, « ciò che è conforme alla natura o ciò
che è degno di scelta (selectione dignum)» (De Fin., III, 6, 20). Per ciò che è
conforme a VALORE natura, intendevano ciò che dev’essere scelto in tutti i casi
cioè la virtù; per ciò che è degno di scelta, intendevano i beni da preferirsi
come l’ingegno, l’arte, il progresso, fra le cose spirituali; la ricchezza, la
fama, la salute, la forza, la bellezza fra le cose corporee; la ricchezza, la
fama, la nobiltà fra le cose esterne (Diog. L.). La divisione tra V.
obbligatori e V. preferenziali sarà più tardi espressa come quella tra V.
intrinseci o finali e valori estrinseci o strumentali. La ripresa della nozione
nel mondo moderno si ha soltanto con la ripresa della nozione soggettiva del
bene: il che accade con Hobbes. «Il V. di un uomo, egli dice, è, come quello di
tutte le altre cose, il suo prezzo, ciò che potrebbe esser pagato per l’uso
della sua facoltà: quindi non è assoluto, ma dipende dal bisogno e dal giudizio
di un altro. Un abile condottiero di soldati è di gran prezzo in tempo di
guerra presente o imminente, ma non in pace» (Leviath., I, $ 10). Tuttavia la
nozione di V. soppiantò la nozione di bene nelle discussioni morali solo nel
sec. xrx; ed anche in questa occasione ciò avvenne per una estensione del
significato economico del termine, che intanto era stato assunto a fondamento
della scienza economica (v. EcoNOMIA POLITICA). Kant aveva identificato il bene
con il V. in generale: «Ognuno, egli diceva, chiama bene ciò che apprezza ed
approva cioè ciò in cui c’è un V. oggettivo» e aggiungeva che il bene in questo
senso è tale per tutti gli esseri ragionevoli (Crit. del Giud.). Egli tuttavia
limitava la parola V. a designare il bene obiettivo, escludendone il piacevole
e il bello. L'estensione del termine a indicare non solo il bene ma anche il
vero ed il bello fu dovuta ai kantiani e in primo luogo all'indirizzo
psicologistico del kantismo. Polemizzando contro lo stesso Kant, Beneke
affermava che la moralità non può determinare una legge universale della
condotta, ma può e deve determinare l'ordine dei V. che devono essere preferiti
nelle scelte individuali; i V. stessi poi sono determinati dal sentimento
(Grundlinien der Sittenlehre, 1837, I, pag. 231 sgg.); Grundlinien des
Naturrechtes). Questo orientamento dell’etica verso i V., in filosofi che si
ispiravano a Kant, è dovuto indubbiamente all’indirizzo psicologistico, che ha
come suo corollario la nozione soggettivistica del bene. Ma fu soprattutto
Windelband a parlare, nei saggi che furono poi raccolti in Preludi (1884), di
un « V. di verità » e di un «V. di bellezza » oltre che di un « V. di bene ».
Alla diffusione del concetto e del termine di V. contribuì potentemente
Nietzsche con le sue opere fondamentali Jenseits von Gut und Bòse (1886) e Zur
Genealogie der Moral. Approssimativamente da questi anni, il concetto di V.
diventa uno dei concetti fondamentali della filosofia e le discussioni intorno
ad esso esauriscono quasi totalmente il campo dei problemi morali. Ed a partire
dalla stessa data tende a riprodursi, nel campo della teoria dei V., una
divisione analoga a quella che aveva caratterizzata la teoria del bene: la
divisione tra un concetto metafisico o assolutistico e un concetto empiristico
o soggettivistico del V. stesso. Il primo attribuisce al V. uno status
metafisico, che è completamente indipendente dai rapporti del V. con l’uomo. Il
secondo considera il modo d’essere del V. in stretto rapporto con l’uomo o con
le attività o il mondo umano. La prima concezione è animata dall’intento di
sottrarre il V., o meglio determinati valori e i modi di vita che su di essi si
fondano, al dubbio, alla critica e alla negazione: un intento che appare
puerile, se si pensa che il V. più saldamente ancorato nelle coscienze degli
uomini e che suscita le maggiori passioni è anche il V. più mutevole e
relativo, tale che talvolta i filosofi pudicamente si rifiutano di considerarlo
autentico: il V.-denaro. La prima concezione deve, da un lato, insistere sulla
connessione del V.con l’uomo e dall’altro, sull’indipendenza del V. stesso. La
prima determinazione è difatti costitutiva del V. e segna la sua caratteristica
differenziale nei confronti del bene tradizionalmente inteso. La seconda
determinazione mira a garantire al V. la sua assolutezza. Il concetto kantiano
dell’a priori sembrava possedere entrambe queste determinazioni: perciò da
Windelband e Rickert il concetto di V. fu elaborato in relazione con quello di
a priori. Per Windelband, il V. è il dover essere di una norma che può anche
non avere realizzazione in linea di fatto, ma che è la sola che può dare
verità, bontà e bellezza alle cose giudicabili (Pràludien, 4* ediz., 1911, II,
pagina 69 sgg.). I V. in questo senso non sono cose o super-cose, non hanno
realtà o essere, ma il loro modo d'essere è il dover essere (sollen). Rickert
ripete questo punto di vista e ribadisce che l’essere dei V. non consiste nella
loro realtà ma nel loro dover essere. Tuttavia i V. si trasformano, nella
trattazione di Rickert, in realtà trascendenti. Rickert distingue sei domini
del V.: la logica, l'estetica, la mistica (che è il dominio della santità
impersonale), l'etica, l’erotica (che è il dominio della felicità), e la
filosofia religiosa. A ciascuno di questi domini corrisponde un bene (scienza,
arte, uno-tutto, comunità libera, comunità d’amore, mondo divino), una
relazione al soggetto (giudizio, intuizione, adorazione, azione autonoma,
unificazione, devozione) e infine una determinata intuizione del mondo
(intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eudemonismo, teismo ©
politeismo) (System der Philosophie 1921). La 909 mediazione tra la realtà e i
V. è poi chiarita da Rickert con il concetto del senso (Sinn): il senso è il
riferimento della realtà, o di una parte della realtà, al mondo dei V. e
attraverso di esso i V. si calano nella storia e sono realizzati dall’uomo
(System der Philosophie, I, pag. 319 sgg.). Teorie dei V. molto simili a questa
venivano elaborate dal tedesco americano Ugo Miinsterberg in una Philosophie
der Werte, del 1908, dall’americano W. M. Urban (Valuations: its Nature and
Laws, 1919; The Intellegible World, 1920), dall’italiano Guido della Valle
(Teoria generale e formale del V., 1916) e da numerosi altri scrittori. Tutte
queste dottrine si lasciano sfuggire il problema che è alla radice della loro
impostazione o presentano di esso soluzioni illusorie. Da un lato, infatti,
riconoscono che il V. è in qualche modo presente all'uomo o alle attività umane
o al mondo umano di cui costituisce la norma o il dover essere; dall’altro,
esigono che esso sia indipendente da ogni riconoscimento o vicenda umana e che
possegga uno status indifferente rispetto al mondo umano. Al V. si tendono ad
attribuire, in queste teorie, i caratteri dell'essere perfetto: l’unità,
l’universalità, l'eternità, di fronte alla molteplicità, particolarità e
mutevolezza delle manifestazioni empiriche di cui dovrebbero costituire la
regola. Ma dall’altro lato, come regole di tali manifestazioni, essi debbono
avere con esse un rapporto essenziale, senza il quale non potrebbero servire nè
a giudicarle nè a dirigerle. Il concetto kantiano dell’a priori trascendentale
non si era rivelato efficace come modello per una soluzione di questo problema.
Un altro tipo di soluzione fu cercato affidando l’intuizione del V. a una
esperienza sui generis, di natura sentimentale. Il sentimento è, secondo
Scheler, «una forma di esperienza i cui oggetti sono completamente
inaccessibili all’intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l’orecchio e
l’udito nei riguardi dei colori »; questa forma di esperienza ci presenta autentici
oggetti disposti in un ordine eterno gerarchico, che sono i V. (Der Formalismus
in der Ethik, 3* ediz., 1927, pag. 262). In altri termini, il V. è l’oggetto
intenzionale del sentimento come la realtà è l’oggetto intenzionale del
conoscere; e questo oggetto è appreso nel suo rapporto gerarchico con gli altri
oggetti della stessa specie. L'’intuizione sentimentale del V. è anche un atto
di scelta preferenziale: scelta preferenziale che segue la gerarchia oggettiva
dei valori, costituita da quattro gruppi fondamentali: V. del gradevole e dello
sgradevole, corrispondenti alla funzione del godere e del soffrire; V. vitali,
corrispondenti ai modi del sentimento vitale (salute, malattia, ecc.), V.
spirituali cioè estetici e conoscitivi; e V. religiosi. Questa soluzione di
Scheler faceva tuttavia risorgere, nel dominio dell’intuizione fondamentale,
quella stessa antinomia che caratterizzava l’interpretazione neocriticista o
trascendentale del valore. E questa antinomia veniva addirittura assunta come
caratterizzazione del V. nella dottrina di Nicolai Hartmann. Hartmann da un
lato afferma che i V. sono tali solo rispetto all’essere del soggetto e
riconosce pertanto la relazionalità (non relatività) di essi (Erhik, 3° ediz.,
1949, pag. 141). Dall’altro afferma che i V. hanno un «essere in sè»
indipendente dalle opinioni del soggetto e costituiscono autentici oggetti che,
sebbene non siano reali come gli oggetti delle scienze naturali, hanno un modo
d’essere altrettanto immutabile ad assoluto (/bid., pag. 153). Con terminologia
diversa perchè di natura teologica ma analoga, gli stessi due aspetti
antinomici del V. sono stati espressi da R. Le Senne dicendo che il V. è un
Dio-con-noi: come Dio è unico e trascendente, come con-noi è in rapporto con
l’uomo e capace di guidarlo (Obstacle et valeur, 1934, pag. 220 sgg.). 2° La
fortuna del termine V. nel mondo moderno è dovuta in buona parte all’opera di
Nietzsche e allo scandalo che egli suscitò con la pretesa di invertire i valori
tradizionali. Nietzsche dichiarava di puntare le sue speranze « verso spiriti
forti e abbastanza indipendenti da dare impulso a giudizi di V. opposti, da
riformare e invertire i valori eterni: verso precursori o uomini dell'avvenire
che nel presente formino il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad
aprire nuovi sentieri, ecc.» (Jenseits von Gut und Bòse, $ 203). L’inversione
dei V. tradizionali, ironizzati come « V. eterni », fu ritenuta da Nietzsche il
compito della sua filosofia (Ecce Homo, $ 4). E questa inversione consisteva
sostanzialmente nel sostituire ai V. della morale cristiana fondata sul
risentimento (v.) quindi sulla rinuncia e sull’ascetismo, i V. vitali che
nascono dall’affermazione della vita cioè dalla sua accettazione dionisiaca
(Genealogie der Moral, I, $ 10). Questa concezione di Nietzsche è stata
considerata come un relativismo dei V. e come tale è stata il termine polemico
di riferimento di tutte le dottrine assolutistiche. In realtà vi sono scarse
tracce, in Nietzsche, di una relatività dei V.: il suo intento è piuttosto
quello di ripristinare la tavola autentica dei V., che è quella dei V. vitali,
al posto dei V. fittizi che la morale del risentimento ha fatto propri. La tesi
autentica di Nietzsche è quella dello stretto rapporto dell'essere del V. con
l’uomo sicchè non c'è V. che non sia una possibilità o un modo d’essere
dell’uomo stesso. È questa la tesi caratteristica dell’interpretazione che
abbiamo detto empiristica o soggettivistica del valore. Meinong fu il primo a
ripresentare esplicitamente questa tesi riducendo il V. di un oggetto alla sua
« forza di motivazione » «Uber Werthaltung und Wert» in Archiv fiîr
systematische Philosophie, 1895, pag. 341). Ehrenfels osservando che in base a
questa definizione possederebbero V. solo gli oggetti esistenti, definiva il V.
come semplice «desiderabilità» (System der Werttheorie, I, 1897, pag. 53).
Questa definizione di Ehrenfels è importante giacchè introduce per la prima
volta esplicitamente, nella nozione di valore, la connotazione della
possibilità. V. non è la cosa desiderata, ma l’oggetto desiderabile: non è cosa
nel senso che non è necessariamente un oggetto reale, non è desiderato perchè
semplicemente può esserlo. Non diverso significato ha la definizione del V. che
alcuni anni più tardi dava R. B. Perry, dicendo che « ogni oggetto, qualunque
sia, acquista V. quando è investito da un interesse qualsiasi » (General Theory
of Value, 1926, 2% ediz., 1950, pag. 116): l’interesse infatti, a differenza
del desiderio, è soltanto una possibilità. Proprio sul dominio di questa
concezione del V. nasceva il relativismo dei valori e nasceva nel seno dello
storicismo cioè della considerazione del rapporto tra i V. e la storia. Per la
prima volta, il relativismo dei V. è stato difeso da Dilthey. « La storia,
diceva Dilthey, è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di V.,
degli ideali, degli scopi in base ai quali si determina il significato di
uomini e di avvenimenti» (Gesammelte Schriften, VII, pag. 290). I V. e le norme
pertanto nascono e muoiono nella storia e non sussistono al di fuori o al di
sopra del corso di essa (/bid., pag. 290). Ancora più esplicitamente il
relativismo dei V. nei confronti della storia fu affermato da Simmel. Partendo
dal riconoscimento della relatività del V. economico, Simmel giunse al
riconoscimento della relatività di ogni V.: il V. non è mai un’entità oggettiva
ma la sua oggettività deriva soltanto dalla correlazione tra soggetto e
oggetto. Non sussistono pertanto V. assoluti; e sono V. solo quelli che in
condizioni determinate gli uomini riconoscono come tali. La sfera dei V. si
distingue da quella della realtà, non in base a un proprio staerus ontologico,
ma per una qualificazione categoriale, che può investire qualsiasi oggetto
(Philosophie des Geldes, 1900, I, $ 1). Lo storicismo tedesco tuttavia non fu
unanime nel riconoscere questa relatività; la considerò sempre come un pericolo
ma talvolta volle evitarla. Fu Troeltsch il primo a formulare chiaramente
l’antitesi tra relatività storica e assolutezza dei V. e nello stesso tempo a cercare
di recuperare questa assolutezza nell’ambito stesso dello storicismo. La
soluzione che egli dette all’antitesi è la coincidenza tra i due termini
antinomici: ogni punto della storia è in rapporto diretto con la sfera dei V.
assoluti VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE e contiene in sè tali V., senza
relativizzarli alla propria mutevolezza (Der Historismus und seine Probleme,
1922, Gesammelte Schriften, III, pag. 211). Allo stesso modo Meinecke affermava
che della storia è costitutiva la relazione con l'Assoluto ma che questa
relazione va dall’infinito al finito e non viceversa: sicchè mentre la storia
trova il suo fondamento nei V. che realizza, il modo d’essere di questi V. è
irreducibile alla relatività storica e conserva la sua validità incondizionata
(Die Enrstehung des Historismus, 1936, II, pag. 645). della storia stessa. Max
Weber, pur insistendo sulla pluralità dei V. e delle sfere di V. vedeva nella
storia, non un’incessante creazione dei V. ognuno relativo a un fuggevole
momento di essa, nè un rapporto fuggevole con V. assoluti, ma una lotta tra V.
diversi offerti alla scelta dell’uomo (Gesammelte Politische Schriften, pag.
63; cfr. Pietro Rossi, Lo Stforicismo tedesco contemporaneo, pag. 367 sgg.). Lo
stesso riconoscimento delle molteplicità dei V. e dell’importanza della scelta,
che continuamente tale molteplicità esige da parte dell’uomo, si trova in Dewey
che, appunto per questo, ha definito la filosofia come « critica dei V. »: «La
confusione che tutte le teorie del V. hanno fatto, dice Dewey, tra una
determinata posizione nel rapporto causale o successivo e il V. vero e proprio,
è un’indiretta testimonianza del fatto che ogni valutazione intelligente è
anche critica, cioè giudizio, della cosa che ha V. immediato. Ogni teoria del
V. è necessariamente un ingresso nel campo della critica» (Experience and
Nature, 1926, pag. 397). Ma la critica dei V. in questo senso non è altro che
la disciplina intelligente delle scelte umane. Tale disciplina implica in primo
luogo la considerazione del rapporto che c’è tra mezzi e fini, sicchè non si
può giudicare sui fini se non giudicando nello stesso tempo sui mezzi che
servono a conseguirli (Theory of Valuation, 1939, pag. 53). Dall’altro lato
difficilmente la critica dei V. potrebbe essere efficacemente istituita senza
tener conto di un altro aspetto dei V. sul quale ha specialmente insistito R.
Frondizi: la connessione tra V. e situazione. « L’organizzazione economica e
giuridica, ha detto Frondizi, i costumi, la tradizione, le credenze religiose e
molte altre forme di vita che trascendono l’etica, contribui scono a
configurare determinati valori che invece sono affermati come esistenti in un
modo estraneo alla vita dell’uomo. Sebbene il V. non possa derivarsi
esclusivamente da elementi di fatto, non può neppure prescindere da ogni
connessione con la realtà. Una simile separazione condanna chi la eseguisce a
mantenersi sul piano disincarnato delle essenze » (Qué son los valores?, 1958,
pag. 127). Gli studi contemporanei, impiantati su questo presupposto negativo,
hanno messo in luce i punti seguenti: 1° Il V. non è semplicemente la
preferenza o l’oggetto della preferenza stessa ma è piuttosto il preferibile,
il desiderabile, l’oggetto di un’anticipazione o di un’attesa normativa
(confronta DEWEY, The Field of Value, in Value: a Cooperative Inquiry, ed. Ray Lepley, 1949, pag. 68;
CLYDE KLUCKONN e altri, in Toward a General Theory of Action, ed. Parsons e Schils, 1951, pag. 422). 2° Dall'altro lato
esso non è un mero ideale da cui le preferenze o le scelte effettive possano
completamente o quasi completamente prescindere, ma è piuttosto la guida o la
norma (non sempre seguita) delle scelte stesse e in ogni caso il loro criterio
di giudizio (cfr. C. MoRrRIs, Varieties of Human Value, 1956, cap. I). 3°
Conseguentemente la migliore definizione di esso è quella che lo considera come
una possibilità di scelta cioè come una disciplina intelligente delle scelte,
che può condurre ad eliminarne alcune o a dichiararle irrazionali o dannose, e
può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, prescrivendone la ripetizione
ogni volta che certe condizioni si verifichino. In altri termini, una teoria
del V., come critica dei V., tende a determinare le autentiche possibilità di
scelta cioè quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare come possibili
nelle stesse circostanze, costituiscono la pretesa del V. alla universalità e
alla permanenza. VANITÀ (ingl. Vanity; franc. Vanité; tedesco Eitelkeit). 1.
Nullità. In questo senso la parola è adoperata frequentemente dalla Bibbia (cfr.
Ecclesiaste, I, 2: «V. delle V., disse l’Ecclesiaste; V. delle V. e tutto è
V.»). 2. Ambizione meschina, vanagloria, egocentrismo (v.). VARIABILE. V.
COsTAnTE. VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE (ingl. Method of Concomi912 tant
Variations; franc. Méthode des variations concomitantes; ted. Methode der einander begleitenden Veranderungen).
Così J. Stuart Mill chiamò uno dei metodi induttivi già illustrati da Herschel
(A Discourse on the Study of Natural Philosophy, $ 145) e che si esprime con la
seguente regola: « Qualunque fenomeno che varii in qualsiasi maniera ogni volta
che un altro fenomeno varia in qualche particolare maniera, è una causa o un
effetto di questo fenomeno o è connesso con esso mediante qualche fatto di
causazione » (Logic, III, VIII, $ 6). Le altre regole dell’induzione sono il
metodo della concordanza, il metodo della differenza e il metodo dei residui,
sui quali vedi le rispettive voci. VEDANTA (ingl. Vedanta; franc. Vedénta; ted.
Vedéînta). Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, che è stato
codificato nei Brahmasutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana (forse m
secolo d. C.). Il principio del sistema è il Brahman o Atmann, riconosciuto
come unica realtà: il mondo è considerato come apparenza ingannevole, maya. Nell’ambito
di questo sistema, Sankara supponeva che l’io individuale è identico con il
Brahman o Atmann, mentre Ramanuja elaborava un sistema teistico distinguendo
dal Brahman sia il mondo creato sia le anime individuali (Das GuPTA, A History
of Indian Philosophy, 1932-55, III; G. Tucci, Storia della filosofia indiana,
1957, pag. 136 sgg.). VEDUTA. V. INTUIZIONE. VEICOLO SEGNICO (ingl. Sign
Vehicle). Uno dei quattro componenti del procedimento segnico (assieme al
designato, all'interpretante e all’interprete) secondo Morris; e precisamente
l’oggetto o cosa che funziona da segno (Foundations of the Theory of Signs,
1938, $ 2) (vedi SEGNO). VELLEITÀ (ingl. Velleity; franc. Velléité; tedesco
Velleitàt). Sforzo impotente o mal riuscito. Il termine ricorre in Locke che
indica con esso «la gradazione più bassa del desiderio, quella che è più vicina
a non esistere affatto» (Saggio, II, 20, 6). Con senso analogo, il termine
ricorre in Leibniz che intende per esso «una specie assai imperfetta di volontà
condizionale» cioè di una volontà che si impegnerebbe, se potesse, ma non può
(Théod., III, 404). Questa notazione è assai più vicina al significato moderno
del termine. Ed è d’altronde il significato più antico. S. Tommaso intendeva
per V. una volontà antecedente, che può essere o rimanere sospesa, come la
volontà del giudice che vorrebbe che il reco vivesse, in quanto è uomo, ma che
tuttavia desidera che sia impiccato (S. TA., I, q. 19, a. 6, ad. 1°). VENDETTA.
V. TAGLIONE. VEDANTA VERACITÀ (ingl. Truthfulness; franc. Véracité; ted.
Wahrhaftigkeit). 1. Carattere di un discorso che esprime la convinzione di chi
lo pronuncia e che pertanto non può essere fonte di inganni in chi ascolta.
Locke chiamava la V. in questo senso «verità morale» e la distingueva dalla
verità « metafisica » che è la conformità delle idee alle cose (Saggio, IV, 5,
11). Ma Leibniz adoperava a questo proposito la parola V. (Nour. Ess., IV, 5,
11). 2. Talvolta si intende per V. la sincerità, che è una qualità, non del
discorso, ma della persona che tiene abitualmente discorsi veraci. In questo
senso Cartesio aveva parlato della « V. divina », affermando che Dio non può
ingannarci nel senso che non può essere causa di errori (Medit.). VERBALISMO (verbalism,
verbalisme). Un’espressione verbale di scarso o impreciso significato; o la
tendenza a valersi di tali espressioni. Un’espressione verbale. VERBO. V.
Logos. VERBO (gr. &îua; lat. Verbum; ingl. Verb; franc. Verbe; ted.
Zeitwort). Come parte del discorso, il V. fu definito da Aristotele come «il
nome che ha nel suo significato, una determinazione temporale, le cui parti non
significano nulla separatamente e che è il segno delle cose che sono predicate
di un’altra cosa (De Int.). Questa definizione è conservata dalla logica
medievale (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log.). Nella linguistica moderna, la
distinzione tra nome e verbo è diventata assai meno importante giacchè, per
quanto comune a molti linguaggi, essa manca in certi altri (BLOOMFIELD,
Language). VERIDICO (veridical, véridique, wahrhaftig). Veridico è lo stesso
che verace o vero (v. VERACITÀ). Veridico è ciò che contiene una parte o un
accenno di verità. Per es., «sogno veridico», « allucinazione veridica», ecc.
VERIFICA, VERIFICABILITÀ. V. VERIFICAZIONE. VERIFICAZIONE (verification, vérification,
verifikation. VERIFICAZIONE è, in generale, ogni procedimento che consenta di
stabilire la verità o la falsità di un enunciato qualsiasi. Poichè i gradi e
gli strumenti della verificazione possono essere innumerevoli, il termine ha
una portata generalissima e indica la messa in opera di qualsiasi procedimento
di attestazione o di prova (v.). Il termine può anche essere usato per indicare
il controllo di una situazione qualsiasi in base a regole o a strumenti adatti;
e in tal senso si parla di verificare i conti o i gradi di un angolo o
l’autenticità di certi documenti, ecc.: procedure che in italiano si
VERITÀchiamano più semplicemente verifiche (termine che no va riscontro nelle
altre lingue). In questo senso generale, il termine viene adoperato anche senza
riferimento all’esperienza o ai fatti; e si può parlare di V. di un’espressione
matematica o di un enunciato analitico della logica come della V. di un
enunciato fattuale o di un'ipotesi scientifica. Dall'altro lato, la nozione di
V. viene talora estesa nel senso di includere in essa non solo il procedimento
che consente di stabilire la verità o falsità di un enunciato, ma anche quello
che consente di stabilire la verità, la falsità o l’indeterminazione dell’enunciato
stesso: cioè in riferimento a una logica a tre valori piuttosto che a due
(confronta REICHENBACH, «The Principle of Anomaly in Quantum Mechanics», 1948,
in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 519-20). 2. In senso ristretto
e specifico, la V. concerne gli enunciati fattuali ed è un procedimento che fa
appello all’esperienza o ai fatti. Proprio in questo senso la V. è stata
assunta dall’empirismo logico (v.) come criterio del significato delle
proposizioni: criterio che il Circolo di Vienna (v.) interpretava nella forma
più rigorosa, dichiarando privi di senso tutti gli enunciati che non si
prestassero ad un’assoluta verifica empirica. Questo punto di vista veniva
espresso con tutto rigore da Carnap nella sua opera Der /ogische Aufbau der
Welt (1928). La possibilità di una verifica assoluta fu però negata,
nell’ambito dello stesso Circolo di Vienna da K. Popper (Logik der Forschung) e
in seguito da Lewis (« Experience and Meaning» in Philosophical Review, 1934) e
da Nagel (in Journal of Philosophy, 1934). Sicchè Carnap stesso modificava il
suo punto di vista e in un saggio del 1936 (« Testability and Meaning », ora in
Readings in the Phil. of Science, 1953, pagine 47-92) parlava, invece che di
V., di conferma (confirmation) degli enunciati. Dove una V. completa non è
possibile (e non è possibile quasi mai nel dominio della scienza) il principio
della verificabilità esprime l’esigenza di una conferma gradualmente crescente
(Ibid, pag. 49). Da questo punto di vista l’accettazione o il rifiuto di un enunciato
fattuale contiene sempre una componente convenzionale, che consiste nella
pratica decisione che si deve prendere per considerare il grado di conferma di
un enunciato come sufficiente per l'accettazione dell’enunciato stesso. Questo
punto di vista è oggi estesamente accettato. 3. Per ciò che concerne la
procedura della V. fattuale, poco è stato finora detto dai filosofi.
Reichenbach ha diviso questo procedimento in due fasi che sono: 1°
l’introduzione di una classe fondamentale O di enunciati osservazionali cioè di
significati primitivi o diretti, che non sono sotto 58 — ABHAGNANO, Dizionario
di filosofia.indagine durante il corso dell’analisi; 2° un insieme di relazioni
derivative (o regole di trasformazione) D che consentono di connettere alcuni termini
con le basi O. Dopo aver definito, per un’indagine specifica, sia la base O che
le relazioni derivative D, il termine « verificato » può essere definito come
«l’esser derivato dalla base O in termini delle relazioni D+. A questa
descrizione Reichenbach aggiunge una determinazione importante: la condizione
del significato non è la V. attuale ma la V. possibile (senza la quale gli
enunciati storici per es., non avrebbero significato); perciò la nozione di
verifica suppone quella di possibilità e Reichenbach distingue a questo
proposito la possibilità /ogica, la possibilità fisica e la possibilità tecnica
e distingue corrispondentemente tre specie di significati « Verifiability
Theory of Meaning», in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences).
La teoria della V. si lega così strettamente alla nozione della possibilità
(v.). VERISIMILE (gr.
elx6c; lat. Verisimilis; inglese Likely; franc. Vraisemblable; ted. Wahrscheinlich). 1. Ciò che è
simile al vero, senza avere la pretesa di essere vero (nel senso, ad es., di
rappresentare un fatto o un insieme di fatti). Pertanto un racconto, ad es., un
romanzo o una tragedia, può essere V. senza essere minimamente probabile, senza
che ci sia alcuna probabilità che i fatti che narra si siano verificati o si
verifichino. In tal senso, il concetto del V. è stato adoperato costantemente
nel dominio dell’estetica da Aristotele in poi. « Narrare cose effettivamente
accadute, diceva Aristotele, non è compito del poeta ma piuttosto quello di
rappresentare ciò che potrebbe accadere cioè le cose possibili secondo
verisimiglianza o necessità + (Poer., 9, 1451 a 36). In questo senso il V. è il
carattere di enunciati, teorie o espressioni che non contraddicono alle regole
della possibilità logica o a quelle delle possibilità tecniche o umane. Una
vicenda umana immaginata è V. se essa viene giudicata conforme al comune
comportamento degli uomini o trova spiegazioni o appigli in tale comportamento.
2. Lo stesso che persuasivo (v.) o probabile (v.). Popper ha tuttavia distinto
la verisimiglianza (Verisimilitude) dalla probabilità, perchè mentre
quest’ultima rappresenta l’idea di un avvicinamento alla certezza logica o alla
verità tautologica attraverso una diminuzione graduale del contenuto
informativo, la verisimiglianza rappresenta l’idea dell’avvicinamento alla
verità comprensiva e così combina verità e contenuto, mentre la probabilità
combina verità e mancanza di contenuto (Conjectures and Refutations, 1965, pag.
237). VERITÀ (gr. &xH0ew; lat. Veritas; ingl. Truth; franc. Vérité; ted.
Wahrheit). La validità o l’efficacia dei procedimenti conoscitivi. Per V.
s'intende infatti in generale la qualità per cui una procedura conoscitiva
qualsiasi risulta efficace o ha successo. Questa caratterizzazione si può
applicare ugualmente sia alle concezioni che vedono nella conoscenza un
processo mentale sia a quelle che vedono in essa un processo linguistico o
segnico. Essa ha pure il vantaggio di prescindere dalla distinzione tra
definizione della V. e criterio della verità. Questa distinzione non viene
effettuata sempre, e neppure è frequente; quando viene effettuata, non è altro
che l’assunzione di due definizioni della V. stessa. Per es., nell’ambito della
teoria della corrispondenza, quando si distingue da essa il criterio della V.,
lo si definisce come evidenza ricorrendo al concetto di V. come rivelazione. E
la dottrina della V. come conformità a una regola, presentata da Kant come
criterio formale, accanto al concetto della V. come corrispondenza, diventa poi
una definizione della V. stessa. Si possono distinguere cinque concetti
fondamentali della V.: 1° la V. come corrispondenza; 2° la V. come rivelazione;
3° la V. come conformità a una regola; 4° la V. come coerenza; 5° la V. come
utilità. Queste concezioni hanno avuto un’importanza assai diversa nella storia
della filosofia: le prime due, e specialmente la prima, sono incomparabilmente
le più diffuse. Esse non sono neppure alternative tra loro: cioè accade che più
d’una di esse si ritrova nello stesso filosofo, per quanto adoperata a diverso
proposito. Sono tuttavia disparate e irriducibili l’una all’altra, perciò vanno
tenute distinte. 1° Il concetto della V. come corrispondenza è il più antico e
diffuso. Presupposto da molte delle scuole presocratiche, veniva per la prima
volta esplicitamente formulato da Platone con la definizione del discorso vero
che dà nel Cratilo: « Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso
quello che le dice come non sono» (Crar., 385 b; cfr. Sof., 262 e; Fil., 37c).
A sua volta Aristotele diceva: « Negare quello che è e affermare quello che non
è, è il falso, mentre affermare quello che è e negare quello che non è, è il
vero 1 (Mer., IV, 7, 1011 b 26 sgg.; cfr. V, 29, 1024b 25). Aristotele
enunciava anche i due teoremi fondamentali di questa concezione della verità.
Il primo è che la V. è nel pensiero o nel linguaggio, non nell’essere o nella
cosa (Mer., VI, 4, 1027 b 25). Il secondo è che la misura della V. è l’essere o
la cosa, non il pensiero o il discorso: sicchè una cosa non è bianca perchè si
asserisce con V. che è tale; ma si asserisce con V. che è tale, perchè essa è
bianca (Mer., IX, 10, 1051 b 5). Nelle precedenti dottrine la definizione della
V. e il criterio di V. coincidono. In altre dottrine, pur mantenendosi immutata
la definizione di V., il criterio di V. viene ritenuto diverso; così accade
nello stoicismo e nell’epicureismo. Stoici ed Epicurei continuano ad ammettere
che la V. è la corrispondenza della conoscenza alla cosa (SESTO Emp., Adv.
Math., VIII, 38; IH, 9) ma ritengono che il criterio della V. sia diverso,
perchè gli Stoici lo vedono nella rappresentazione caralettica (v.) che è la
manifestazione dell’oggetto all'uomo e gli Epicurei lo vedono nella sensazione,
che è, per loro, il manifestarsi stesso della cosa (Diog. L., X, 31). In tali
casi, la distinzione tra la V. e il criterio equivale al riconoscimento di due
concetti, ritenuti compatibili (o non incompatibili) della verità. La
coesistenza di due concetti di V. d’altronde è tutt'altro che rara. Spesso la
teoria della corrispondenza si accompagna con quella della V. come
manifestazione o rivelazione. S. Agostino da un lato definisce il vero come «
ciò che è così, come appare » (Solil., II, 5); dall’altro considera come V.
«ciò che rivela quel che è, o che manifesta se stesso » e in tal senso
identifica la V. con il Verbum o Logos che è la prima immediata e perfetta
manifestazione dell’Essere, cioè di Dio (De Vera Rel., 36). A sua volta S.
Tommaso, riprendendo una definizione data da Isacco Ben Salomon nel secolo rx,
definisce la V. come « l’adeguazione del» l'intelletto e della cosa» (S. 7h.,
I, g. 16, a. 2; Contra Gent., I, 59; De Ver., q. 1, a. 1). Ma mentre conserva
rispetto all’uomo il teorema aristotelico che le cose, e non l’intelletto, sono
la misura della V., inverte questo teorema rispetto a Dio. « L’intelletto
divino, egli dice, è misurante, non misurato; la cosa naturale è misurante e
misurata; ma il nostro intelletto è misurato, non misurante, rispetto alle cose
naturali e misurante solo rispetto a quelle artificiali» (De Ver., q.1, a. 2).
Esiste quindi anche una V. delle cose che è ciò per cui le cose somigliano al
loro principio che è Dio; e in questo senso Dio stesso è la prima e somma V.
(S. 7h., I, q. 16, a. 5). Questi concetti ricorrono frequentemente nella filosofia
medievale. Il concetto della V. come corrispondenza viene ampiamente
utilizzato. Pietro Ispano (Summ. Log., 3.34) Herveus Natalis (Quod!., III, 1),
Antonio Andrea (Super artem veterem, ed. 1508, f. 45r A) conservano la dottrina
della V. come conformità dell’intelletto alla cosa pur polemizzando sul modo
d°’essere della cosa o più precisamente degli oggetti cui l’intelletto deve
conformarsi. In generale, nella Scolastica della seconda metà del *200 e in
quella del ’300, si specifica che la « cosa » cui l’intelletto deve conformarsi
è la « res intellecta » cioè la cosa come è appresa dall’intelletto, non
esterna all’intelletto stesso (cfr. anche DURANDO DI SAINTPOURGAIN, /n Sent.,
I, d. 19, q. 5). Il concetto dell’adeguazione o della conformità tuttavia
perde, a partire dal sec. xIv, la sua portata metafisica e teologica per
assumere un significato strettamente logico o, come oggi si direbbe, semantico.
L’identificazione polemica, difesa da Ockham, di « V.» e « proposizione vera »
equivale appunto alla negazione del valore metafisico della parola V. (Summa
Log., I, 43; Quodl., V, q. 24). I platonici di Cambridge mantengono, per ovvi
motivi, il carattere metafisico e teologico della nozione della corrispondenza,
parlando di una conformità della cosa con se stessa o con la propria essenza
contenuta nell'intelletto divino (cfr. HERBERT DI CHERBURY, De veritate, 1656,
pag. 4 sgg.); ma Hobbes insiste sul punto di vista nominalistico della V. come
semplice attributo delle proposizioni (De Corp., 3, $ 7) e così fa Locke
(Saggio); e perfino Leibniz che rigetta la nozione metafisica della V. quale
«attributo dell’essere » e si limita a vedere nella V. «la corrispondenza delle
proposizioni, che sono nello spirito, con le cose di cui si tratta » (Nouv.
Ess., IV, 5, 11). Wolff metteva insieme il concetto della V. come «concordanza
del nostro giudizio con l'oggetto, cioè con la cosa rappresentata » (Log., $
505), che egli chiamava definizione nominale della V., e la nozione logica
della V. come « determinabilità del predicato mediante la nozione del soggetto»
che egli chiamava definizione reale (Ibid, $ 513). Baumgarten ritornava alla
nozione di V. metafisica come « ordine del molteplice nell’unità» (Mer., $ 89);
mentre Kant dichiarava di presupporre semplicemente la « definizione nominale
della V.» come « accordo della conoscenza con il suo oggetto » e si poneva il
problema di trovare un crirerio per la V. stessa. Escluso che fosse possibile
un criterio generale cioè valido per tutte le conoscenze, egli si fermava sul criterio
formale della V. che è la conformità della conoscenza a proprie regole (Crir.
R. Pura, Logica, Intr., III; v. oltre). Questo concetto della V. come
corrispondenza non è mai venuto meno neppure nella filosofia più recente dalla
quale è talvolta assunto come semplice presupposto, talvolta esplicitamente
difeso. Ciò è accaduto specialmente nelle correnti realistiche (cfr., per es.,
BoLzano, Wissenschaftslehre, I, $ 25; A. MEINONG, Ùber Annahmen, pag. 125
sgg.). Appunto nello spirito del realismo, N. Hartmann ha difeso la concezione
della V. come «coincidenza con un oggetto che deve venire inteso come tale»
(Systematische Philosophie, $ 9). L’intero mondo della conoscenza è inteso da
Hartmann come «la riflessione dell'essere su se stesso» (Meraphysik der Erkenntnis,
1921, cap. 27, b). La dottrina della corrispondenza è quella cui ricorrono
anche i logici contemporanei, che cercano di formularla in modo da renderla
indipendente da qualsiasi ipotesi metafisica. Da questo punto di vista la
migliore formulazione è stata data alla teoria da Alfred Tarski, che si è
esplicitamente rifatto, oltre che alla definizione aristotelica sopra
riportata, anche a definizioni analoghe o dipendenti da essa, come quella
secondo la quale «un enunciato è vero se designa uno stato di cose esistente»
(B. RusseLL, An /nquiry into Meaning and Truth, 1940, pag. 362 sgg.). Tarski è
partito da un’equivalenza di questo genere: « L’enunciato “la neve è bianca” è
vero se, e solo se, la neve è bianca» per generalizzarla nella formula « X è
vero se, e solo se p ». Utilizzando la nozione semantica di soddisfazione
intesa come la relazione tra oggetti arbitrari e certe espressioni chiamate «
funzioni enunciative» del tipo «x è bianco» «x è più grande di y», ecc., Tarski
ha dato la seguente definizione della V.: « Un enunciato è vero se è
soddisfatto da tutti gli oggetti e falso altrimenti ». Tarski ha sottolineato
il fatto che la nozione semantica della V. (come egli l’ha chiamata e come
abitualmente si chiama) non implica nulla circa le condizioni sotto la quale un
enunciato come «la neve è bianca » può essere asserito. Indica solo che, ogni
qualvolta che asseriamo o rigettiamo questo enunciato, dobbiamo essere pronti
ad asserire o rigettare l’enunciato correlativo « L'enunciato ‘la neve è bianca”
è vero ». In tal modo egli ritiene che la concezione semantica della V. possa
conciliarsi con qualsiasi atteggiamento epistemologico essendo neutro riguardo
a qualsiasi concezione realistica o idealistica, empiristica o metafisica della
conoscenza (« The Semantic Conception of Truth », 1944, in Readings in
Philosophical Analisys, 1949, pag. 52-84; la concezione di Tarski fu esposta
per la prima volta in uno scritto polacco del 1933 tradotto in tedesco negli
Srudia Philosophica del 1935, pag. 261-405). Carnap accettava questa concezione
della verità ma insistendo sulla sua differenza fondamentale dai concetti di
credenza, verificazione, conferma ecc. (Introduction to Semantics $ 7). M.
Black metteva in luce l’insignificanza filosofica di essa (Language and
Philosophy, IV, $ 8). 2° La seconda concezione fondamentale della V. è quella
che la considera come rivelazione o manifestazione. Essa ha due forme
fondamentali, una empiristica, l’altra metafisica o teologica. La forma
empiristica consiste nell’ammettere che la V. è ciò che immediatamente si
rivela all’uomo, ed è perciò sensazione, intuizione o fenomeno. La forma
metafisica o teologica è quella secondo la quale la V. si rivela in modi di
conoscere eccezionali o privilegiati, attraverso i quali si rende evidente
l’essenza delle cose o il loro essere o il loro stesso principio (cioè Dio). La
caratteristica fondamentale di questa concezione è il rilievo dato
all’evidenza, assunta insieme come definizione e criterio della verità. Ma
l'evidenza, ovviamente, non è che rivelazione o manifestazione. Nel senso
empiristico, la V. veniva intesa come rivelazione dai Cirenaici, che vedevano
nelle sensazioni l’evidenza stessa delle cose (SESTO EMP., Adv. Math., VII,
199-200), dagli Epicurei che consideravano la sensazione come il criterio della
V. (Droga. L., X, 31-32) e dagli Stoici che lo vedevano nella rappresentazione
caralettica (v.) (Dioa. L., VII, 54). La nozione della conoscenza intuitiva è
in Ockham la nozione di una manifestazione immediata delle cose, nei loro caratteri
e nelle loro relazioni, all’uomo (/n Sent., Prol., q. 1, Z). Nello stesso
spirito, Telesio diceva che le cose « rettamente osservate, manifestano da sè
la grandezza che ognuna ha, nonchè la loro capacità, le loro forze, la loro
natura» e vedeva nella sensazione una tale immediata rivelazione delle cose
stesse (De rer. nat., I, Proem.). In generale tutte le dottrine che affidano
alla sensibilità la conoscenza delle cose tendono a scorgere nella sensibilità
stessa la rivelazione della loro natura e identificano con tale rivelazione o
la verità stessa o il criterio della verità. Dall’altro lato, dalla stessa
interpretazione metafisica o teologica della V. come corrispondenza, nasce il
concetto di V. come manifestazione dell'essere o del principio supremo. Plotino
diceva: «La V. vera non è in accordo con un’altra cosa ma in accordo con se
stessa: essa non enuncia nulla fuori di sè, ma enuncia ciò che essa stessa è »
(Enn., V, 5, 2). In questo senso la V. è ipostatizzata: non è il carattere
formale di certi procedimenti conoscitivi ma un principio metafisico o
teologico che ha la stessa sostanzialità e la stessa dignità del principio che
si manifesta in essa, cioè di Dio. Questo concetto è il tema di numerose
speculazioni nella filosofia patristica e scolastica. S. Agostino afferma che
ci deve essere una natura che è così vicina all’Unità suprema da riprodurla in
tutto e da essere uno con essa; e che questa natura è la V. o Verbo di Dio (De
Vera Rel., 36). E che la V. sia, in primo luogo, lo stesso intelletto o Verbo
di Dio è dottrina comune nella Scolastica (AnseLMO, De Veritate, 14; S.
ToMMAasOo, De Veritate, q. l, a. 4). Più tardi lo stesso concetto di V. come
rivelazione condusse a riconoscere, sulla base del criterio dell'evidenza,
l’esistenza di V. eterne. Cartesio vide nel cogito (v.) l’evidenza originaria,
quella per la quale si rivela al soggetto pensante la sua stessa esistenza; e
ritenne che dovesse essere considerato come vero tutto ciò che si manifesta in
modo evidente. Nell'ambito di ciò che si manifesta in tal modo, Cartesio pose
le V. eterne, stabilite e garan tite dall’immutabilità di un decreto di Dio
(Méd., IV; Princ. Phil., I, 49). Le V. eterne, sono, secondo Cartesio,
garantite e rivelate direttamente da Dio, perciò sono eterne (Réponses, VI, 4).
E tali le considera anche Malebranche per quanto, a differenza di Cartesio,
ritiene che esse siano, non già poste ma semplicemente riconosciute e fatte
valere da Dio (Recherche de la verité, X éclaircissement). Ma il concetto della
V. come rivelazione fu soprattutto caro al Romanticismo che, in suo aspetto
essenziale, si potrebbe designare come filosofia della rivelazione (v.
RoManTticISMO). Hegel diceva: « L’Idea è la V.: perchè la V. è il rispondere
dell’oggettività al concetto. Non nel senso che le cose esterne rispondano alle
mie rappresentazioni: queste sono in tal caso solo rappresentazioni esatte che
io ho come individuo. Ma nel senso che tutto il reale, in quanto è vero, è
l’Idea; e ha la sua V. solo per mezzo dell’Idea e nelle forme dell’Idea »
(Enc.). In altri termini, l’Idea è «l’oggettività del concetto » cioè la
razionalità del reale, ma in quanto si manifesta alla coscienza nella sua
necessità, cioè come sapere o scienza (System der Philosophie, ed. Glockner, I,
pagina 423; Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, II, pag. 275): e il sapere e
la scienza sono l'automanifestazione dell’Idea cioè la sua autentica e completa
rivelazione. A metà strada tra la forma empiristica e la forma teologica di
questa concezione della V., sta quella che essa ha ricevuto per opera della
fenomenologia e dell’esistenzialismo. La fenomenologia è, nel suo stesso
concetto, il metodo per rendere possibile alle essenze di manifestarsi o
rilevarsi come tali. L’epoché (v.) fenomenologica, mettendo in parentesi l’atteggiamento
naturalistico, che consiste nell’affermare la realtà delle cose nel mondo,
tende a rendere possibile alle cose stesse di manifestare la loro essenza. Da
questo punto di vista la V. è la stessa evidenza con cui gli oggetti
fenomenologici si presentano, quando l’epoché è stata effettuata (/deen, I, $
136). V. ed evidenza, secondo Husserl, appartengono pertanto non solo agli
oggetti teoretici ma a tutti gli oggetti della considerazione fenomenologica,
siano anche valori, sentimenti, ecc. (/bid., $ 139). A sua volta Heidegger ha
insistito sul carattere di rivelazione o di scoprimento della V., appellandosi
anche all’etimologia della parola greca. Perciò da un lato egli ha insistito
sulla stretta connessione del modo d'essere della V. col modo d'essere dell’uomo
cioè con l’esserci: in quanto solo all'uomo la V. può rivelarsi e si rivela
(Sein und Zeit, $ 44). Dall’altro ha insistito sulla tesi che il /uogo della V.
non è il giudizio e che la V. non è una rivelazione dicarattere predicativo, ma
consiste nell’essere scoperto dell’essere delle cose o di queste cose stesse e
nell'essere scoprente dell’uomo (/bid., $ 44b; cfr. Vom Wesen des Grundes, I,
trad. ital., pag. 20). Heidegger ha tuttavia insistito anche sul fatto che ogni
scoprimento dell’essere, in quanto scoprimento parziale, è anche un coprimento
di esso; un tema che ricorre soprattutto nei suoi scritti del secondo periodo.
« L'essere si sottrae, mentre si rivela, all’ente. In tal modo, l’essere,
illuminando l’ente, lo svia nello stesso tempo verso l’errore » (Holzwege, pag.
310). 3° La terza concezione della V. è quella che la considera come la
conformità con una regola o con un concetto. Questa nozione fu per la prima
volta enunciata da Platone. « Prendendo a fondamento, egli diceva, il concetto
che io giudico il più saldo, tutto ciò che mi sembra in accordo con esso lo
pongo come vero, sia che si tratti di cause sia che si tratti di altre cose
esistenti; quello che non mi sembra in accordo con esso, lo pongo come non
vero» (Fed., 100a). Sporadicamente, questa concezione ritorna nella storia
della filosofia. S. Agostino affermava che «c’è, sopra la nostra mente, una
legge che si chiama V.» e che noi possiamo giudicare tutte le cose in
conformità di questa legge, che tuttavia sfugge a qualsiasi giudizio (De Vera
Rel., 30-31). Nella letteratura che si ispira a S. Agostino questo tema ritorna
frequentemente; ma la più importante espressione di questo concetto della V. è
dovuta a Kant. Kant veramente si avvale della nozione, non per la definizione
della V. (giacchè, come si è detto, dichiara di presupporre la definizione
nominale della V. che è quella della corrispondenza) ma come criterio della V.
stessa. Il criterio può concernere, secondo Kant, solo la forma della V., cioè
del pensiero in generale; e consiste nella conformità con «le leggi generali
necessarie dell’intelletto ». «Ciò che contraddice queste leggi, afferma Kant,
è falso perchè l'intelletto in tal caso contrasta con le sue stesse leggi,
perciò con se stesso ». Tuttavia questo criterio formale non basta a stabilire
la verità materiale, od oggettiva, della conoscenza; chè anzi il tentativo di
trasformare questo canone di valutazione formale in organo di conoscenza
effettiva non è che l’uso dialettico, cioè illusorio, della ragione (Crit. R. Pura,
Logica, Intr., m; Logik, Intr., vm). Questo criterio fu raccolto e accentuato
dai neo-kantiani soprattutto da quelli della scuola del Baden. Windelband
riteneva che l’oggetto della conoscenza, ciò che misura e determina la V. della
conoscenza stessa, non è una realtà esterna (che come tale sarebbe
irraggiungibile e inconoscibile) ma la regola intrinseca della conoscenza
stessa (Prdludien, 1884, 4* ediz., 1911, passim). Rickert identificava
l’oggerto della cono917 scenza con la norma a cui la conoscenza deve adeguarsi
per essere vera (Der Gegenstand der Erkenntnis, 1892). In questi neo-kantiani
la conformità alla regola, che Kant aveva posto semplicemente come criterio
formale della V., diventa l’unica definizione della V. stessa. 4° La nozione
della V. come coerenza compare nel movimento idealistico inglese della seconda
metà del sec. xIx e viene condivisa da tutti gli appartenenti a questo
movimento in Inghilterra e in America. Essa venne espressa per la prima volta
nella Logica o morfologia della conoscenza (1888) di B. Bosanquet; ma la sua
diffusione fu dovuta all’opera di Bradley, Apparenza e realtà. La critica del
Bradley al mondo dell’esperienza umana partiva dal principio che ciò che è
contradditorio, non può essere reale; e conduceva pertanto Bradley ad ammettere
che la V. o realtà è coerenza perfetta. La coerenza però, attribuita alla
realtà ultima cioè alla Coscienza infinita o assoluta, non è semplice assenza
di contraddizione; è abolizione di ogni molteplicità relativa e forma di
armonia che non si lascia intendere nei termini del pensiero umano (Appearance
and Reality, 2 ed., 1902, pag. 143 sgg.). I gradi di verità raggiungibili dal
pensiero umano si possono giudicare © graduare, secondo Bradley, in base al
grado di coerenza che essi posseggono, per quanto tale coerenza sia sempre
approssimativa e imperfetta (Ibid., pag. 362). Questi concetti ritornano in una
numerosa serie di pensatori dello stesso indirizzo (v. IpraLIsMo) senza che la
nozione della coerenza ne venga modificata o chiarita (v. (COERENZA). I
precedenti di questa dottrina si trovano più che in Hegel (al quale tuttavia
gli idealisti inglesi più frequentemente si riferivano) in Spinoza. Essa
infatti non è che la trascrizione di quella che Spinoza chiamava « il terzo
genere di conoscenza + o « amore intellettuale di Dio »: cioè della conoscenza
dell’ordine totale e necessario delle cose, che Spinoza identificava con Dio
stesso (Er., V, 25). 5° La definizione della V. come utilità è propria di
alcune forme della filosofia dell’azione e specialmente del pragmatismo. Ma il
primo a formularla è stato Nietzsche: « Vero, non significa in generale se non
ciò che è adatto alla conservazione dell’umanità. Ciò che mi fa perire quando
ci credo non è vero per me, è una relazione arbitraria e illegittima del mio
essere con le cose esterne» (Wille zur Macht, ed. Kréner, $ 78, 507). Fu il
pragmatismo a diffondere questa nozione, che fu difesa in primo luogo da W.
James. Questi tuttavia identificò utilità e V. solo nei limiti delle credenze
non verificabili empiricamente o non dimostrabili, quali erano, secondo lui, le
credenze morali e religiose (The Will to Believe, 1897). L'equazione tra
utilità e V. fu estesa a tutta la sfera della conoscenza da F. C. S. Schiller
(Humanism, 1903 e scritti seguenti). Da questo punto di vista una proposizione,
a qualsiasi campo appartenga, è vera solo per la sua effettiva utilità cioè
perchè è utile a estendere la conoscenza stessa o a estendere mediante la
conoscenza il dominio dell’uomo sulla natura o alla solidarietà e all’ordine
del mondo umano. Un criterio simile veniva presentato da H. Vaihinger nella sua
Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob, 1911) e popolarizzato da M. De
Unamuno nella sua Vita di Don Chisciotte e Sancio (v. PRAGMATISMO). Forse si
può scorgere una forma diversa di questa stessa concezione nella tesi di Dewey
della strumentalità di ogni procedura conoscitiva, e della conoscenza nel suo
insieme, ai fini del perfezionamento della vita umana nel mondo. Non si trova
tuttavia in Dewey la definizione della V. come utilità ma soltanto
l’affermazione del carattere strumentale quindi valido, ma non vero, delle
proposizioni (Logic) (vedi VALIDITÀ). VERITÀ DOPPIA. V. DOPPIA VERITÀ. VERO
(gr. dandé; lat. Verum; ingl. True; franc. Vrai; ted. Wahr). Gli Stoici
distinguevano il V. dalla verità perchè il V. è un enunciato quindi è
incorporeo, mentre la verità, come scienza che contiene tutti i V., è un modo
d'essere della parte egemonica dell’uomo e quindi corporea. Inoltre il V. è
semplice mentre la verità consta di molti V. e la verità appartiene alla
scienza quindi al sapiente mentre il V. può essere anche dello stolto (Sesto
EMPIRICO, /p. Pirr., II, 81-83; Adv. Dogm., I, 38-42). Nella scolastica il V.
fu inteso come uno dei #rascendentali (v.) cioè dei caratteri che appartengono
alle cose come tali, indipendentemente dai loro generi e per esso fu intesa
l’intelligibilità della cosa (S. Tommaso, S. 7h., q. 16, a. 3, ad. 3°). VERUM
IPSUM FACTUM. Formula di cui si servl G. B. Vico per esprimere il principio che
l’uomo può conoscere solo ciò che egli stesso ha fatto, perchè la conoscenza di
una cosa è la conoscenza della sua genesi (De antiquissima italorum sapientia).
Ma questo concetto era desunto da Hobbes che lo aveva esposto nel De Homine.
Hobbes stesso aveva ridotto il dominio della conoscenza umana da unlato alle
matematiche, i cui oggetti sono interamente prodotti dall’uomo, dall’altro alla
politica e all’etica che anch'esse trattano di oggetti (leggi, convenzioni,
princìpi) creati dall'uomo (De Hom. 10). Analogamente Vico dapprima restrinse
il dominio della conoscenza umana alle matematiche (nel De Antiquissima) poi lo
estese al mondo della storia, nella Scienza Nuova (1725). Un precedente di
questa dottrina si può trovare VERITÀ DOPPIA nel De Possest (1460) di Cusano,
dove si dice che l’uomo può conoscere gli enti matematici « nozionali » perchè
procedono dalla sua ragione e hanno in essa il loro principio, mentre solo Dio
può conoscere gli enti reali che hanno in lui la sua causa
(Philosophisch-Theologische Schriften, ed. Gabriel, II, pag. 318-20). VETTORE
(ingl. Vector; franc. Vecteur; tedesco Vector). In matematica, una grandezza
determinata in quantità, direzione e senso. Esso viene abitualmente
rappresentato con una freccia. Whitehead ha utilizzato il termine per indicare
il riferimento all’esterno dell’esperienza sensibile (Process and Reality,
1929, pag. 249). VIOLENZA (gr. Bla; lat. Violentia; ingl. Violence; franc.
Violence; ted. Gewaltsamkeit). 1. Azione contraria all’ordine o alla
disposizione della natura. In tal senso Aristotele distingueva il movimento
secondo natura e il movimento per V.: il primo è quello che porta gli elementi
al loro luogo naturale; il secondo è quello che li allontana (De Cael., I, 8,
276, a 22) (v. FISICA). 2. Azione contraria all’ordine morale giuridico o
politico. In tal senso si dice «commettere» o « subire V.». L’esaltazione della
V. in questo senso è stata talora fatta per motivi politici. Così Sorel ha
contrapposto la V. diretta a creare una società nuova alla forza che è propria
della società e dello stato borghese. « Il socialismo deve alla V. gli alti
valori morali con i quali porge la salvezza al mondo moderno » (Réflexions sur
la violence; 1906, traduzione ital, pag. 133). VIRTÙ (dpeth, virtus, virtue, vertu,
tugend). Virtù designa una qualsiasi capacità o eccellenza, a qualsiasi cosa o
essere appartenga. I significati specifici di virtù possono essere ridotti a
tre: capacità o potenza in generale; capacità o potenza propria dell’UOMO (vir);
capacità o potenza propria dell’uomo, di natura morale. Nel primo SENSO che è
quello della definizione generale, la virtù indica una capacità o potenza
qualsiasi, per es., di una pianta o di un animale o di una pietra. MACHIAVELLI
(vedasi) parla della virtù dell’arte della guerra (Principe); e Berkeley delle virtù
dell’acqua di catrame (sottotitolo della Siris). Nel secondo SENSO, la virtù è
una capacità o potenza propria dell’uomo. Così, ad es., si chiama VIRTUOSO chi
possiede un’abilità qualsiasi, per es., nel canto o nel suonare uno strumento o
nell’uso del grimaldello. A questo senso della virtù vuole ritornare Nietzsche.
Io riconosco la virtù in questo, egli ha detto: che essa non si impone; che
essa non suppone dappertutto la virtù ma precisamente un’altra cosa; che essa
non soffre per l’assenza della virtù ma considera questa assenza come un
rapporto di distanza grazie al quale c’è qualcosa di venerabile nella virtù.;
che essa non fa propaganda; che essa non permette a nessuno di fare il giudice
perchè è sempre una virtù di per se stessa; che essa fa precisamente tutto ciò
che è proibito (la virtù come io la comprendo è il vero veritum in tutta la
legislatura del gregge); che essa è virtù nel senso del Rinascimento, virtù
libera dalla moralità (Wille zur Macht). Nel terzo SENSO, virtù designa una
capacità dell'uomo nel dominio morale. Deve trattarsi di una capacità uniforme
o continuativa, come nota Hegel (Fil. del Dir.) giacchè un atto morale non fa
virtù. Questa condizione tuttavia non è sempre rispettata e Locke, per es.,
parla di virtù e di vizio nel senso di atti morali isolati (Saggio). Le
definizioni della virtù in questo senso rientrano nelle seguenti rubriche: la
capacità di adempiere a un compito o ad una funzione; l’abito o la disposizione
razionale; la capacità del calcolo utilitario; un sentimento o tendenza
spontanea; lo sforzo. La virtù come capacità d’attendere a un compito
determinato è il concetto platonico della virtù. Come la funzione di un organo,
per es., degli occhi è quella di vedere e la possibilità di vedere è la virù
propria degli occhi, così l’anima ha le sue proprie funzioni e la sua capacità
di adempiere ad esse è la virtù propria dell’anima (Rep.). La diversità delle
V. è perciò secondo Platone determinata dalla diversità delle funzioni cui
l'anima deve adempiere o cui deve adempiere l’uomo nello Stato. Le quattro V.
fondamentali o cardinali (v.) sono per l’appunto determinate dalle funzioni
fondamentali dell’anima e della comunità. b) La concezione della V. come abito
(v.) o disposizione razionale costante è quella propria di Aristotele e degli
Stoici ed è la più diffusa nell’etica classica. Secondo Aristotele, la V. è
l’abito che rende l’uomo buono e gli consente di far bene il suo compito
proprio (Ef. Nic., II, 6, 1106 a 22); ed è un abito razionale (/bid., II, 2,
1103 b 32) nonchè, come tutti gli abiti, uniforme o costante. Gli Stoici, a
loro volta definivano la V. come « una disposizione dell’anima coerente e
concorde, che rende degni di lode coloro in cui si trova ed è di per se stessa
lodevole anche indipendentemente dalla sua utilità » (Cic., Tusc., IV, 15, 34;
STOBEO, Ecl., II, 7, 60). Queste definizioni sono state ripetute innumerevoli
volte nella filosofia antica e medievale ed anche nel pensiero moderno. Esse si
trovano, ad es., in Abelardo (Theol. Christ.), Alberto Magno (S. 7A., II, q.
102, a. 3), AQUINO (vedasi) (S. 7A., II, 1, q. 55), Leibniz (il quale distingue
le V. come abitudini dalle corrispondenti azioni, 919 Nouv. Ess., II, 28, 7), e
Cristiano Wolff. (Phil Practica, I, $ 321). c) Il terzo concetto della V., è
quello che la considera come la capacità del calcolo utilitario. Fu Epicuro il
primo ad esporre questa nozione, considerando come V. suprema, dalla quale
tutte le altre derivano, la saggezza che giudica sui piaceri che occorre
scegliere e su quelli che sono da fuggire e distrugge le opinioni che sono la
causa delle perturbazioni dell'anima (Dio. L.). Nel Rinascimento, questa
concezione veniva difesa da Telesio che vedeva nella V. la facoltà di stabilire
la misura giusta delle passioni e delle azioni affinchè non venga da esse alcun
danno all’uomo (De rer. nar.). E più tardi una concezione analoga veniva
ripresa da Hume (/ng. Conc. Morals, I), e in generale dall’utilitarismo inglese
e specialmente da Bentham che definiva la V. come «l’attitudine a produrre la
felicità» (Deontology, X). Per quanto questo concetto della V. sia solitamente
proprio dell’empirismo, Spinoza lo condivise: « Agire assolutamente secondo V.,
egli scrisse, non è altro per noi che agire, vivere, conservare il proprio
essere (tre cose che significano lo stesso) secondo la guida della ragione, sul
fondamento della ricerca dell’utile» (Er., IV, 24). d) Il concetto della V.
come sentimento o tendenza, cioè come spontaneità, fu proprio degli analisti
inglesi a cominciare da Shaftesbury. «In una creatura sensibile, egli dice, ciò
che non è fatto attraverso un’affezione, non produce né bene né male nella
natura di quella creatura; la quale può essere detta buona solo quando il bene
o il male del sistema con il quale essa è in relazione è l’oggetto immediato di
qualche emozione o affezione che la muove» (Characteristics of Men, Treatise
IV, Book I, part. 2, sect. D. Su questa base Hutchinson postulò un senso morale
a fondamento della V. (System of Moral Philosophy, I, 4): e Adamo Smith definì
questo senso morale come simpatia (Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1).
Ma fu soprattutto l’illuminismo francese a diffondere questo concetto della V.,
Rousseau parlava della pietà come di una «V. naturale » che è «una disposizione
conveniente a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come gli uomini» e che
precede ogni riflessione (De l’inégalité parmi les hommes, I); e Voltaire
riteneva nello stesso senso che la V. non è altro che «il far bene al prossimo
» (Dictionnaire philosophique, art. Vertu). L'etica del positivismo si
riattacca a questa concezione facendo della V. la manifestazione dell’istinto
altruistico (COMTE, Catéchisme positiviste; SPENCER, Data of Ethics). Nella
filosofia contemporanea una concezione analoga si può scorgere nella dottrina
di Bergson della cosiddetta «morale aperta» che è la manifestazione dello
slancio vitale (Deux sources de la morale, 1932, cap. I). e) Infine la dottrina
della V. come sforzo è stata enunciata da Rousseau e fatta propria da Kant.
Diceva Rousseau: « Non c’è felicità senza coraggio nè V. senza lotta: la parola
V. deriva dalla parola forza; la forza è la base di ogni virtù. La V.
appartiene soltanto agli esseri deboli di natura, ma forti di volontà: per
questo appunto rendiamo onore all’uomo giusto e per questo, pur attribuendo a
Dio la bontà, non lo diciamo virtuoso, perchè le sue buone opere sono da Lui
compiute senza sforzo alcuno» (Émile, V). In questo spirito Kant ha definito la
V. come « l’intenzione morale in lotta» che non avrebbe senso nel caso in cui
all’uomo fosse accessibile la santità cioè la coincidenza perfetta della
volontà come legge (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. III). Come Cicerone (vedi
Coraggio) e Rousseau, egli ha connesso strettamente la nozione di V. con quella
di coraggio: «La qualità speciale e il proposito elevato con cui si resiste a
un forte ma ingiusto avversario si chiama coraggio (fortitudo) e quando si
tratta dell'avversario che l’intenzione trova in noi, si chiama V. (virtus,
fortitudo moralis). Dunque la parte della dottrina generale dei doveri che
sottomette a leggi, non la libertà esterna, ma la libertà interna è una
dortrina della V.» (Met. der Sitten). In polemica con Kant, Schiller cercò di
ricondurre la dottrina kantiana a quella della V. come spontaneità o
sentimento. « Non ho un buon concetto dell’uomo, scrisse Schiller, che si può
così poco fidare della voce dell’istinto che ogni volta deve farlo tacere
davanti alla legge della morale, e piuttosto rispetto e stimo colui che si
abbandona con una certa sicurezza all’istinto sognatori della sensazione » che
sono quelli che credono di avere la visione di spiriti disincarnati, e i
«sognatori della ragione » cioè i metafisici che anch'essi vivono in un mondo
di sogni o di visioni private. VISIONE (ingl. Vision; franc. Vision; tedesco
Anschauung, Traàumerei). 1. Nel senso propriamente filosofico, lo stesso che
intuizione (v.). 2. L’operazione propria del senso della vista. 3. Allucinazioni,
sogni, immagini credute reali di fantasmi o di spiriti disincarnati. VITA (gr.
oh, Bloc; lat. Vita; ingl. Life; francese Vie; ted. Leben). La caratteristica
di certi fenomeni di prodursi o regolarsi da sè; o la totalità di tali
fenomeni. Questa caratterizzazione si da qui soltanto come quella sulla quale
più ampio è l’accordo tra filosofi e tra scienziati, e a titolo puramente
descrittivo, senza che il riconoscimento di una caratteristica propria dei
fenomeni della V. implichi il riconoscimento di un principio o di una causa a
sè di tali fenomeni. Vedremo anzi come a certi livelli della V. la distinzione
stessa tra ciò che è V. e ciò che non lo è diventa oltre modo difficile o perde
di senso. La disputa tra vitalismo e antivitalismo non concerne il problema
della caratterizzazione della V.: concerne invece quello circa l'origine e lo
sviluppo della V. stessa; e su tale problema, v. VITALISMO. Fin dall’antichità
i fenomeni della V. sono stati caratterizzati in base alla loro capacità di
autoproduzione: cioè in base alla spontaneità per cui gli esseri viventi si
muovono, si nutriscono, crescono, si riproducono e muoiono, in modo almeno
apparentemente e relativamente indipendente dalle cose esterne. Platone
identificava l’anima e la V. (Fed., 105c) perchè riteneva propria dell’anima la
capacità di « muoversi da sè» (Fedro, 245 c). Aristotele intendeva per V. «la
nutrizione, la crescita e la distruzione che si originano da sè stessi » (De
An., II, 1, 412 a 13); e per conseguenza riteneva la V. propria degli esseri
animali in quanto «hanno in se stessi una potenza o un principio tale per cui
subiscono aumento o diminuzione nelle VITA direzioni opposte» (/bid., II, 413 a
27). In base allo stesso concetto della V., Plotino affermava che «ogni V. è
pensiero» e che il pensiero « vive per se stesso » (Enn., III, 8, 8). E S.
Tommaso aîffermava che V. significa «la sostanza a cui conviene per sua natura
muover se stessa o condurre se stessa, in qualsiasi modo, all’operazione » (S.
7h.); e che pertanto l’anima è il principio della V. (/bid., I, q. 75, a. 1).
Quando con Cartesio e Hobbes si affacciò la concezione meccanica della V. e si
cominciò a paragonare l’uomo, e in generale l’organismo vivente, a una macchina
ben congegnata, il concetto della V. non mutò, giacchè l'ipotesi meccanistica
era suggerita ai filosofi proprio dalla credenza che « gli automi possono
muoversi da sè » (DESCARTES, Traité de l’homme, pag. 1; HoBBEs, Leviarh., I,
Intr.). Ciò che veniva negato in questo caso era l'identità tra anima e V.: si
riteneva cioè possibile che la stessa materia corporea, in certe forme di
organizzazione, fosse in grado di muoversi o di svilupparsi da sè. La disputa
tra vitalismo e meccanicismo (v. VITALISMO) verte proprio su questo: il
meccanicismo afferma che la V. è dovuta a una certa organizzazione
fisico-chimica della materia corporea; il vitalismo ritiene che questa
organizzazione non basta e che la V. dipende da un principio di natura
spirituale, che è, ad es., l’archeus (v.) di Helmont, la natura plastica (v.)
di Cudworth, il dominante (v.) di Reinke, l’entelechia (v.) di Driesch, lo
slancio vitale (v.) di Bergson. Leibniz obiettava sia al meccanicismo sia al
vitalismo che essi contraddicono al « grande principio della fisica » secondo
il quale « un corpo non si muove se non spinto da un corpo vicino e in
movimento »; e riteneva che la sola teoria della V. d’accordo con quel
principio fosse quella dell'armonia prestabilita, secondo la quale la V. stessa
consiste nella concordanza dell’azione delle sostanze, prestabilita da Dio (Sur
le principe de vie, 1705, in Op., ed. Erdmann, pag. 429 sgg.). Il concetto
della V. come auto-regolazione sembra essere semplicemente presupposto da
quella disputa, come dall’osservazione di Leibniz. E lo presuppone Kant quando
afferma che «la ag. 250); o in altri termini con «l’intero che si sviluppa, che
risolve il suo sviluppo e che si mantiene semplice in questo movimento»
(Phdnom. des Geistes, I, IV, 1). Dall’altro lato Claude Bernard scriveva: «Le
macchine viventi sono create e costruite in modo che, perfezionandosi, esse
divengano sempre più libere nell'ambiente cosmico generale... La macchina
vivente conserva il suo movimento perchè il meccanismo interno dell’organismo
ripara, mediante azioni e forze sempre rinascenti, le perdite provocate
dall’esercizio delle funzioni. Le macchine create dall’intelligenza dell’uomo,
per quanto infinitamente più grossolane, non sono costruite altrimenti» (Zntr.
à l’étude de la médecine expérimentale, II, I, 8). Infine, occorre appena
notare che lo slancio vitale in cui Bergson ha riconosciuto la sorgente della
V. non è altro che coscienza, e coscienza creatrice, cioè che trae da se stessa
tutto ciò che produce. « Lo slancio di V. di cui parliamo, dice Bergson,
consiste in una esigenza di creazione. Non può creare assolutamente, perchè
incontra davanti a sè la materia cioè il movimento che è l’inverso del suo. Ma
esso s’impadronisce di questa materia, che è la necessità stessa, e tende a
introdurvi la più grande somma possibile di indeterminazione e di libertà»
(Évol. créatr., 8® edizione). Lo stesso significato pare che abbia
l’espressione di Whitehead che la vita è « autofruizione individuale e
assoluta» (Nature and Life, 1934, II. D'altronde sembra che la scienza stessa
ricorra a una caratterizzazione non diversa dei fenomeni vitali, per quanto
eviti di ipostatizzare in entità o principi tale caratterizzazione. I fenomeni
che la scienza considera come propri della V. cioè il metabolismo, la
plasticità, la reattività, la riproduzione, sono appunto uelli in cui il
carattere di autoregolazione è evidente. Quando J. B. S. Haldane ha detto che «
qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche » può chiamarsi
vivente (« The Origin of Life » in Rationalist Annual, 1928, pag. 148153), non
fa che esprimere con altre parole il vecchio concetto dell’autoregolazione. Al
quale fanno appello anche, sia pure in modo indiretto o con espressioni diverse
(come quelle di « totalità », « ciclicità », « autonomia », « selettività »,
ecc.) anche gli scienziati di più schietta ispirazione materialistica. Ma
nonostante la quasi unanimità che esso raccoglie, difficilmente il concetto di
autoregolazione può essere considerato in tutti i casi come una
caratterizzazione esclusiva dei fenomeni vitali. Da 922 un lato infatti, a certi
estremi della scala biologica (ad es., per i virus) non è possibile, in base ad
esso, decidere se si tratta di corpi viventi o non viventi. Non è mancato chi,
a questo proposito, ha ritenuto addirittura privo di senso l’uso della parola
V. in riferimento ai sistemi posti nella zona limite tra la V. e la materia
inorganica (PIRIE, The Meaninglessness of the Terms «Life» and « Living» in J.
NEEDHAM, e D. R. GREEN, Perspectives in Biochemistry). Dall’altro lato la
releonomia (v.) ritenuta propria degli organismi viventi e interpretata come
attività orientata, coerente e costruttiva, non impedisce alla biologia moderna
fondata soprattutto sulla genetica e sulla biochimica, di considerare gli
esseri viventi come macchine chimiche, dotate di unità funzionale e che si
costruiscono da sè. Tali macchine esigono l’intervento di un sistema
cibernetico che governi e controlli l’attività chimica nei punti strategici; e
per quanto si sia ben lontani oggi dall’aver chiarito la struttura dei sistemi
costituenti gli organismi superiori, l’indirizzo della scienza moderna nelle
ricerche biologiche rimane quello segnato dalla cibernetica e dalla biochimica
(cfr., ad es., MonNoD, Le hasard et la nécessité). VITA, FILOSOFIE DELLA (ingl.
Philosophies of Life; franc. Philosophies de la vie; tedesco
Lebensphilosophien). Con questa
espressione, che è stata usata specialmente in Germania, vengono designate
quelle filosofie che hanno in comune la caratteristica di considerare la
filosofia come V., piuttosto che riflessione sulla vita. È un’espressione
polemica che consente di accomunare filosofie disparate come quelle di
Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, James, Bergson, ecc.; e polemicamente
questa espressione fu adoperata nel titolo di un libro di RICKERT, La filosofia
della vita (Die Philosophie des Lebens). VITALISMO (ingl. Vitalism; franc.
Vitalisme; ted. Vitalismus). Termine ottocentesco per indicare ogni dottrina
che consideri i fenomeni vitali come irreducibili ai fenomeni fisico-chimici.
Questa irreducibilità può significare varie cose perchè vari sono i problemi le
cui soluzioni dividono i partigiani e gli avversari del V.: 1° In primo luogo
esso significa che i fenomeni vitali non possono essere interamente spiggari
con cause meccaniche; 2° in secondo luogo, significa che un organismo vivente
non potrà mai essere prodotto artificialmente dall'uomo in un laboratorio di
biochimica; 3° in terzo luogo, significa che la vita sulla terra, o in generale
nell’universo, non ha avuto un’origine naturale o storica, dovuta all’organizzarsi
o all’evolversi della sostanza dell’universo, ma è frutto di un disegno
provvidenziale o di una creazione divina. VITA, FILOSOFIE DELLA 1° Dal primo
punto di vista si possono chiamare vitaliste tutte le concezioni classiche che,
identificando la vita con l’anima, la sottraggono ad ogni influenza delle forze
materiali. Ma in senso più preciso, V. è la dottrina difesa dai filosofi e
scienziati tra la metà del sec. xvm e la metà del sec. x1x, che pone, a
fondamento dei fenomeni vitali una forza vitale indipendente dai meccanismi
fisico-chimici. La caratteristica propria del V. è quelia di dichiarare inutile
la stessa indagine scientifica dei fenomeni vitali in quanto essa non
riuscirebbe mai a cogliere la forza che costituisce l’essenza della vita. Il V.
in questa forma fu reso impossibile dalle scoperte della biochimica che, a
cominciare dal 1828 (data in cui fu effettuata la fabbricazione sintetica
dell’urea) dimostrò la possibilità di produrre nei laboratori le sostanze
organiche. Il neo-vitalismo, prendendo atto di questa possibilità, riconosce
l’utilità dell'indagine fisicochimica dei fenomeni vitali, ma continua ad
ammettere l’irreducibilità di questi fenomeni alle forze fisico-chimiche
riconoscendo che ad essi presiede un elemento specifico variamente denominato
[il dominante (v.) di Reinke, l’entelechia (v.) di Driesch, lo slancio vitale
(v.) di Bergson]. La difficoltà principale di quest’aspetto del V. è
l’inopportunità di ammettere una causa sconosciuta e inaccessibile, che è poco
più di un nome e che per di più fa apparire insignificante o fuori posto
l’osservazione sciedella vita stessa. L’interesse della scienza, è, da questo
punto di vista, quello di un beninteso materialismo metodologico, il quale
ammette: 1° che i fenomeni vitali hanno caratteri propri, diversi da quelli
fisico-chimici e tuttavia non tali da stabilire un abisso tra l’uno e l’altro
ordine di fenomeni e da rendere impossibile ogni passaggio dall’uno all’altro;
2° che si possa e si debba condurre avanti l’analisi scientifica dei fenomeni
vitali come l’unica adatta a dar ragione di tali fenomeni. Questo è il punto di
VIZIO vista assunto da un numeroso gruppo di biologi contemporanei (cfr., su di
essi: G. G. Simpson, The Meaning of Evolution, cap. X). 3° Circa il problema
dell’origine della vita sulla terra o in generale dell’universo, la vecchia
credenza nella generazione spontanea ammetteva senz’altro, come un fatto non
miracoloso ma normale, l’originarsi della vita dalla materia inorganica. Questa
vecchia credenza già confutata dalle esperienze di Redi e di Spallanzani fu definitavamente eliminata
dalla scienza per opera di Pasteur. Dall'altro lato, l'ipotesi dalla panspermia
(v.) che ammette l’emigrazione di semi vitali nell’universo, mentre non è una
risposta al problema dell'origine della vita, appare in contrasto con le
condizioni che si suppongono esistere negli spazi intrastellari e soprattutto
con l’azione battericida dei raggi ultravioletti. In questa situazione, non
esistono che due soluzioni alternative. La prima è quella secondo la che li
contrappose ai valori rinunciatari della morale tradizionale (vedi
TRASMUTAZIONE). VITA, TERZA (franc. Troisième vie). Così Maine de Biran chiamò
la vita religiosa o mistica dell’uomo in quanto distinta dalla vita
semplicemente umana che è la libertà dagli affetti e dalle passioni e dalla
vita animale caratterizzata dalle sensazioni e dagli istinti (Nouveaux essais
d’Anthropologie, 1823-24, in (Euvres, ed. Naville, III, pagina 519). La terza
V. è quella che nel /V Evangelo è detta la « V. secondo lo spirito ».
VITTORIOSO, ARGOMENTO (gr. è xupiebwy A6yoc). Un argomento famoso con cui
Diodoro Crono, uno dei seguaci della scuola socratica di Megara (iv-v secolo a.
C.) mostrava l’identità del possibile e del necessario. L'argomento era formulato
così: « Da ciò che è possibile, non può seguire qualcosa di impossibile. Ora è
impossibile che ciò che è passato sia altro da ciò che è stato. Ma se, in un
momento anteriore, fosse stato possibile qualcosa di diverso da ciò che è
stato, dal possibile sarebbe venuto fuori l'impossibile: dunque, ciò che è
diverso da ciò che è stato non era possibile ad alcun momento. Ed è per
conseguenza impossibile che possa accadere qualcosa che non accada realmente»
(EPITTETO, Diss., II, 19, 1; confronta CICERONE, De fato, 6 sgg.). Limitando la
possibilità a ciò che è realmente accaduto, Diodoro affermava la necessità di
tutto ciò che accade: cioè l’impossibilità che ciò che accade possa accadere
diversamente da come accade (v. NECESsaRIO; PossisiLe). Nella filosofia contemporanea
l’argomento è fatto proprio da N. Hartmann, con esplicito riferimento a Diodoro
Crono (Méglichkeit und Wirklichkeit). VIVACITÀ (ingl. Vivacity). La
caratteristica fondamentale che distingue le impressioni dalle idee, secondo
Hume: impressioni e idee si somigliano ma le prime hanno dalla loro parte
maggiore « forza e V.» sicchè inclinano alla credenza (Treatise). VIZIO (vitium,
Vice, Vice; Laster). Il contrario della virtù, nei vari significati di questo
termine. In riferimento al concetto aristotelico-stoico della virtù come abito
razionale della condotta, il vizio è un abito o una disposizione irrazionale.
Precisamente sono vizi, in questo caso, gl’estremi opposti di cui la virtù è la
medietà: per es., l'astinenza e l’intemperanza nei confronti della moderazione,
la codardia e la temerarietà nei confronti del coraggio, ecc. In questo senso ‘vizio’
non si applica che alle virtù etiche. In riferimento alle virtù dia-noetiche o
intellettive, ‘vizio’ significa semplicemente la mancanza di esse: mancanza
che, secondo il LIZIO, è vergognosa solo come mancata partecipazione alle cose
eccellenti di cui partecipano tutti gl’altri o quasi tutti o almeno quelli che
sono simili a noi, cioè della nostra città, famiglia o classe sociale (Rer.). Pertanto
il senso più generale di ‘vizio’ è la mancanza o il difetto di qualche
caratteristica che un oggetto può pertanto anche essere un vicolo cieco
(blindalley vocarion). VOLGARE (vulgaris; ingl. Vulgar; francese Vulgaire; ted.
Gemein). In senso NON peggiorativo – Grice, “vulgar connectives” --, ‘volgare’ è
usata da Tertulliano che mette in valore la testimonianza contenuta nelle
espressioni che IL POPOLO (‘the lay’) adopera: le quali: dice Tertulliano, sono
‘volgari’ ‘perchè comuni, comuni perchè naturali, naturali perchè divine, De
testimonio animæ. Vico dice che le tradizioni V. devono avere avuto pubblici
motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi
spazi di tempi, Sc. Nuova). VOLONTA (gr. Botamow; voluntas; inglese Will;
franc. volonté; ted. Wille). Il termine ‘volontà’ è stato usato in due
significati fondamentali.Come il principio razionale dell’azione. Come il
principio dell’azione in generale. Entrambi questi significati sono propri
tuttavia della filosofia tradizionale, perchè sono collegati con la nozione di
facoltà o poteri originari dell'anima che si combinerebbero assieme per
produrre le manifestazioni dell’uomo (v. FACOLTÀ). Ma la filosofia non interpreta
ora in questo modo la condotta dell’uomo. Le nozioni di COMPORTAMENTO (v.) e di
forma (v.) nonchè l’indirizzo funzionalistico della psicologia (v.) non
consentono di parlare di princìpi dell'attività umana e pertanto la
classificazione intelletto-V. o quella intelletto-sentimento-V. PERDONO il loro
significato letterale. Talvolta il termine ‘volonta’ vieoè facoltà d’agire
secondo la rappresentazione di regole (Grundlegung der Metaphysik der Sitten –
CITED BY H. P. GRICE – volvntas). Fichte non intende una cosa molto diversa
affermando che la volonta è la facoltà di compiere il passaggio dall’indeterminatezza
alla determinatezza con coscienza, una facoltà che la ragione teoretica
costringe a pensare che esiste (Sifrenlehre). In senso analogo, Hegel afferma
che la volonta è universale nel senso in cui universale significa razionalità
(Fil. del Dir.). La distinzione di CROCE (si veda) tra la forma economica
utilitaria e la forma etica o morale dell’attività pratica corrisponde alla
distinzione tradizionale tra mero DESIDERIO e volontà propriamente detta. La
forma economica – il desiderio -è, secondo CROCE (si veda), volizione del
particolare cioè dell’UTILE (futile), la forma morale volizione dell'universale;
cioè, appetizione RAZIONALE (Filosofia della PRATICA). Alla nozione di V. come
appetito razionale si può anche ricondurre la tendenza della psicologia moderna
a distinguere la V. stessa dagli impulsi e a considerarla come condizionata da
una manipolazione di simboli. Dice, ad es., G. Murphy: «La V. è il nome con cui
si indica un complesso processo intimo che influenza il nostro comportamento in
modo da renderci meno facilmente preda della pura forza bruta degli impulsi.
Discorriamo con noi stessi, introduciamo modi diversi di esprimere la nostra
situazione, ci immaginiamo le conseguenze dei vari tipi di risposta e cerchiamo
di valutare quanto ognuno di essi ci piacerà » (Introduction to Psychology,
1950, cap. IX, trad. ital., pag. 163). Ciò che la psicologia moderna chiama
«elaborazione di simboli » è quello stesso che nella terminologia tradizionale
si chiamava « processo razionale ». Infine la stessa nozione di V. è implicita
nelle espressioni V. pura, V. buona, V. generale, V. di credere. La V. pura è,
secondo Kant, la V. determinata, non da particolari motivi empirici, ma
soltanto da princìpi a priori cioè da leggi razionali (Grund/egung der
Metaphysik der Sitten, pref.). La V. buona, anche secondo Kant, è la V. di
agire esclusivamente in conformità del dovere e è in tal senso esaltata da Kant
come ciò di cui nulla c’è di meglio al mondo o anche fuori del mondo (Ibidem
I). La V. generale è concepita dagli ro lato la V. è stata talora identificata
con il principio dell’azione in generale cioè con l’appetizione. Il primo ad
esporre questo concetto generalizzato della V. è S. Agostino, il quale affermò
che «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli atti
nient’altro sono che volontà » (De Civ. Dei, ). S. Anselmo ripeteva questa
nozione (De Libero Arbitrio, 14, 19) che nell’età moderna veniva accettata da
Cartesio. Cartesio, come S. Agostino, chiamò 925 V. tutte le azioni dell'anima,
in opposizione con le passioni: « Quelle che io chiamo azioni sono tutte le
nostre V. perchè noi sperimentiamo che esse vengono direttamente dal nostro
animo e sembrano dipendere solo da esso, mentre le affezioni sono tutte le
percezioni o conoscenze chLocke definiva la V. come « il potere di cominciare o
non cominciare, continuare o interrompere certe azioni del nostro spirito o
certi moti del nostro corpo, semplicemente con un pensiero o la preferenza
dello spirito stesso » (Saggio). E Hume dichiarava: « Per V. non intendo altro
se non l’impressione interna, che sentiamo o di cui siamo consci, quando
consapevolmente diamo origine a un nuovo movimento del nostro corpo o a una
nuova percezione del nostro spirito » (Treatise, II, III, 1). Hume negava pure
ogni influenza della ragione sulla V. così intesa, riducendo le cosiddette
volizioni razionali alle emozioni tranquille connesse o con istinti originari
della natura umana come la benevolenza e il risentimento, l’amore della vita,
l). Secondo queste interpretazioni infatti sarebbero atti volontari quelli in
cui l’impulso determinante è costituito da un atteggiamento di riguardo o di
esaltazione dell’Io di fronte a se stesso. Infine nel senso più generale la V.
è intesa nelle espressioni V. di vivere e V. di potenza. La V. di vivere che,
secondo Schopenhauer è il noumeno del mondo, non ha nulla di razionale: «è un
cieco, irresistibile impeto, che noi già vediamo apparire nella natura
inorganica e vegetale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria
vita ». Pertanto « ciò che la V. sempre vuole è la vita, appunto perchè questa
non è che il manifestarsi della V. stessa nella rappresentazione: ed è semplice
pleonasmo dire V. di vivere invece di V.» (Die Welt). Analogamente la V. di
potenza è, secondo Nietzsche, un impulso fondamentale che non ha nulla di
razionale: « La vita, in quanto caso particolare, aspira al massimo possibile
sentimento di potenza. Essa è essenzialmente l’aspirazione a un soprappiù di
potenza. Aspirare non è altro che aspirare alla potenza. Questa V. rimane ciò
che v'è di più intimo e di più profondo: la meccanica è una semplice semiotica
delle conseguenze (Wille zur Macht). VOLONTARIO (voluntary; volontaire; frei-willig):
Volontario è che appartiene alla volontà, o concerne la volontà. Volontario è lo
stesso che libero (v. LIBERTÀ). VOLONTARISMO, voluntarism, volontarisme, voluntarismus).
Il termine volontarismo, che è usato per la prima volta da Ténnies e diffuso da
Wundt (EUCKEN, Geistige Stròomungen der Gegenwart), è stato adoperato a
indicare due indirizzi dottrinali differenti: quello che afferma il primato
della volontà sull’intelletto; e quello che vede nella volontà la sostanza del
mondo. Il primo indirizzo è gnoseologico ed etico. Il termine è stato in questo
SENSO applicato a caratterizzare alcune correnti della filosofia medievale.
Gand afferma la superiorità della volontà sull’intelletto perchè VOLONTARIO
l’abito, l’attività e l’oggetto della volontà sono superiori a quelli
dell’intelletto. Infatti l’abito della volontà è l’amore, quello
dell’intelletto è la sapienza; e L’AMORE è superiore alla sapienza – Grice,
judging in terms of willing. L’attività del volere s’identifica con l’oggetto
di esso che è il fine, mentre l’attività dell’intellietto rimane sempre
distinta e separata dal suo oggetto. Infine, l’oggetto del volere è il bene che
è il fine assoluto, mentre l’oggetto dell’intelletto è il vero, che è uno dei
beni, quindi subordinato al fine ultimo (Quodi.). Scoto afferma a sua volta il
primato della volontà ma su un altro fondamento. In quanto cioè non la bontà
dell’oggetto causa necessariamente l’assenso della volontà, ma la volontà sceglie
liberamente il bene e liberamente lotta per il bene maggiore (Op. Ox.). A
questa dottrina si collega l’altra secondo la quale il bene e il male
consistono nel comando divino. Dio non può volere qualcosa che non sia giusto
perchè da numerosi psicologi. Il volontarismo
metafisico è quello iniziato da Schopenhauer, che vede nella volontà la
sostanza o il noumeno del mondo. mentre considera il mondo naturale come la
manifestazione o rivelazione della volontà. Come apparenza o fenomeno, il mondo
è rappresentazione; come sostanza o noumeno, il mondo è volontà. La volontà è
l’essenza del corpo umano, nel quale è colta direttamente e in se stessa, come
di ogni altro corpo e s’identifica con qualsiasi forza del mondo (Die Welt).
Come tale la volontà determina lo stesso mondo della rappresentazione che viene
definito da Schopenhauer come oggettività della volontà e asservisce a sè
questo mondo facendolo apparire nelle forme dello spazio, del tempo e della
causalità che sono le forme del fenomeno. Queste idee trovano spesso
accoglimento parziale nei filosofi. Basti qui ricordare i Nuovi VUOTO saggi
d’antropologia di Biran e la Filosofia dell'inconscio di Hartmann. VOLUTTÀA. V.
PIACERE. VORTICE (8îvoc, vortex; vortex, vortex, wirbel). Il vortice è un concetto
fondamentale della fisica. Anassagora considera il vortice come il mezzo di cui
si avvale l’intelletto divino per ordinare il mondo (CLEMENTE, Strom.).
Democrito considera il vortice come la causa della generazione di tutte le cose
e lo identifica con la necessità (Dioc. L.). Epicuro riprende lo stesso
concetto che nell'età moderna viene ancora utilizzato da Cartesio (Phil.
Princ.). VUOTO (xevéy, vacuum, vide, leere). L’esistenza del vuoto è uno dei
teoremi fondamentali della concezione dello SPAZIO (vedasi) come il contenente
degli oggetti. Leibniz parla di un vuoto di forme, vacuum formarum, che ci
sarebbe se non ci fossero sostanze capaci di tutti i gradi di percezione cioè
sia inferiori, sia superiori agl’uomini (Op., ed. Erdmann). WELTANSCHAUUNG. V.
INTUIZIONE DEL MONDO. X X. r. Come simbolo dell’incognita, la lettera x viene
talora adoperata in filosofia. L’adoperano Grice, e Kant nella prima edizione della Critica della
Ragion Pura e nell’Opus Postumum: «L'oggett(ted. Yle sensuelle). Husserl indica
con questo termine i contenuti sensibili (colori, suoni o anche piaceri,
dolori, impulsi, ecc.) che, in sè privi di riferimento intenzionale, acquistano
tale riferimento nell’esperienza vissuta. Sicchè essi sono distinti dalla loro
forma intenionale e nello stesso tempo uniti con essa (Ideen) (v. ILETICO).
YOGA. Lo yoga è uno dei principali sistemi filosofici indiani, che consiste essenzialmente
in una tecnica dell’ascetismo. Il testo fondamentale di questo sistema sono i
Yogasutra di Patanyali. Lo Y. le cui dottrine coincidono sostanzialmente con
quelle del sistema Samkhya, ma con un’accentuazione teistica, consiste
essenzialmente nella descrizione d’esercizi graduali per ottenere la perfetta
liberazione dell'anima. I gradi fondamentali sono otto: restrizione morale;
cultura dell’anima con lo studio dei testi sacri; positure convenienti alla
meditazione; controllo del respiro; controllo dei sensi; concentrazione;
attenzione continuata; raccoglimento assoluto (samadhi) nel quale scompare la
dualità tra chi contempla e l'oggetto contemplato. Dallo Y. si distingue lo
Hathayoga © Y. violento che suggerisce gli esercizi intesi ad allentare il
vincolo tra l’anima e il corpo (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana,
pagina 98 sgg.). Z ZELOTIPIA (lat. Zelotypia). È, secondo Baumgarten, l’amore
che vuole che l’amore dell’amato sia proporzionato al proprio (Mer., $ 905).
ZEN. La corrente buddistica, fondata da Bodhidharma in Cina nel 527 d. C.,
introdotta in Giappone da Ei-Sai nel 1191 e qui sviluppatasi con caratteri
propri. Il suo insegnamento fondamentale è l’eliminazione del contrasto,
proprio del buddismo, tra il mondo dell’apparenza (samsara) e il nirvana; e il
suo compito è quello d’insegnare a scorgere (e realizzare) il nirvana nelle più
semplici e modeste manifestazioni della vita quotidiana. Così un maestro dello
Z. enumera i dieci passi successivi che costituiscono il lavoro dell’intera
vita di un seguace dello Z.: un seguace dello Z. deve credere che vi è un
insegnamento (lo Z.) trasmesso fuori della dottrina buddistica generale; deve
avere una conoscenza definita di questo insegnamento; deve capire perchè sia
l’essere senziente sia l’essere non senziente può predicare il dharma (cioè la
legge del mondo); dev’essere capace di vedere la sostanza come se contemplasse
qualcosa di vivido e di chiaro proprio nella palma della sua mano; il suo passo
deve essere sempre deciso e fermo; 5° deve avere « l’occhio del dharma +; 6°
deve camminare sul « sentiero degli uccelli » e sulla «strada dell’al di là »
(o «strada del miracolo 1); 7° deve saper adempiere sia a un ruolo positivo sia
un ruolo negativo nel dramma dello Z.; 8° deve distruggere tutti gli
insegnamenti eretici e ingannevoli e additare quelli giusti; 9° deve acquistare
grande forza e flessibilità; 10° deve entrare nell’azione e praticare
differenti modi di vita. Lo Z. ha suscitato negli ultimi anni interesse
notevole nei paesi occidentali e specialmente in America dove è stato talora
anche considerato in rapporto con vari aspetti della cultura occidentale
(confronta la bibliografia contenuta nella traduzione italiana di WATTS, The
Spirit of Z.. Per i dieci gradi dell’iniziazione dello Z., confronta CÒang
CHEN-CHI, The Practice of Z.). ZERO (zéro, null). Lo zero è stato introdotto
come numero solo nella matematica. PEANO (vedasi) l'include tra le nozioni
primitive del suo sistema logico (v. ARIMMETICA). Russell define lo zero come
la classe il cui solo membro è la classe nulla (Introduction to Mathematical
Philosophy). Grice: the class
of philosophy tutors who have no other class. In SENSO – od, meglio, uso -metaforico, talvolta, si
dice punto zero per indicare il punto di incontro o di equilibrio di
possibilità diverse. Dice Kierkegaard. Ciò che io sono è un nulla; questo
procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al
punto zero., tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra
qualche cosa e il nulla, come un semplice forse (Werke). ZETETICO (tnonawx66; zététique,
zetetisch). Zetetico è investigativo o inquisitivo. Il termine zetetico è
dapprima applicato da Trasillo a designare un gruppo di dialoghi platonici
(Diog. L.; LIZIO, Pol.). In seguito zetetico
è assunto come la denominazione dell’atteggiamento scettico. L'indirizzo
scettico si chiama zetetico dall’azione del cercare e dell’indagare; sospensivo
per la disposizione d’animo che conserva dopo l’indagine rispetto all’oggetto
indagato; e dubitativo per il suo dubitare e investigare intorno a ogni cosa
(Sesto EMP., /p. Pirr.). Zetetica è stata talora chiamata quella forma
dell'analisi matematica che mira alla determinazione delle grandezze incognite.
ZOOLATRIA (zoolatrie, zoolatrie). La zoolatria è il culto prestato agl’animali
in quanto creduti manifestazioni o incarnazioni della divinità. La zoolatria è
propria di molte religioni: di quella egiziana, di quella frigia e di quella
siriaca (cfr. F. CuMONT, Les religions orientales dans le paganisme romain)
(vedi TOTEM). ZOROASTRISMO (Zoroastrianism, Zoroastrisme, Zoroastrismus). La
religione persiana, conosciuta anche come mazdaismo o parsismo, stabilita da
Zaratustra e che ha il suo principale documento nello Zendavesta.
L'insegnamento principale di questa religione è il dualismo tra due principi
opposti detti rispettivamente Ormuz (Ahura Mazdah) e Ariman (Angra Manyu) per
cui essa si presenta in primo luogo come una soluzione del problema del MALE
(vedasi). ZUINGLISMO (Zwinglianism, Zwinglianisme, Zwinglianismus). La dottrina
del riformatore Zuinglio che condivide con l’umanesimo l’idea di una sapienza religiosa
originaria dalla quale deriverebbero sia i testi delle Sacre Scritture sia
quelli dei filosofi pagani. Zuinglio ritenne perciò che la rivelazione è
universale e che il divino è la forza che regge il mondo e si rivela in tutte
le cose. Caratteristiche della dottrina di Zuinglio sono anche la dottrina
della predestinazione (vedasi) e l’interpretazione dei sacramenti, compresa
l’Eucarestia, come pure cerimonie simboliche. Su questo punto cadde il dissenso
tra Lutero e Zuinglio. Diversamente da Lutero, Zuinglio nega anche il valore assoluto
dell’autorità politica. Nicola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia
latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario
filosofico. Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Villa Speranza, Liguria, Italia.


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