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Tuesday, July 5, 2011

Storia d'Italia

Luigi Speranza

Per storia d'Italia si intende, per convenzione, la storia della regione geografica italiana e dei popoli che l'hanno abitata, dotata - al di là delle molteplici differenze culturali e delle successive trasformazioni politiche - di una specifica identità che l'ha condotta nei secoli a essere riconosciuta come un unico soggetto storico.

In un'accezione più ristretta, per storia d'Italia si intende invece la storia dello stato unitario, ossia la storia del Regno d'Italia e della Repubblica Italiana, nonché degli eventi che condussero alla sua formazione, ossia la storia dell'espansione del Regno di Sardegna, tradizionalmente conosciuta come Risorgimento.
Per approfondire, vedi la voce Italia preistorica e protostorica.

Il popolamento del territorio italiano risale alla preistoria, epoca di cui sono state ritrovate importanti testimonianze archeologiche. L'Italia è stata abitata almeno a partire dal Paleolitico. Tra i più interessanti siti archeologici italiani risalenti al Paleolitico, si ricorda quello di Monte Poggiolo, presso Forlì, di Isernia La Pineta presso Isernia, uno dei più antichi siti dove l'uomo ha usato il fuoco citato sulla rivista Science, e la Grotta dell'Addaura, presso Palermo, nella quale si trova un vasto e ricco complesso d'incisioni, databili fra l'Epigravettiano finale e il Mesolitico, raffiguranti uomini ed animali. Tra i popoli insediatisi nel Neolitico, quando l'uomo da cacciatore divenne anche pastore e agricoltore, si ricordano i Camuni (in Val Camonica).

Cartina con i maggiori centri etruschi ed "espansione" della civiltà etrusca nel corso dei secoli

Etruschi e genti italiche Per approfondire, vedi la voce Popoli dell'Italia antica.

Le informazioni sulle genti abitanti la Penisola in epoca preromana sono, in taluni casi, incomplete e soggette a revisione continua. Popolazioni di ceppo indoeuropeo, trasferitesi in Italia dall'Europa Orientale e Centrale in varie ondate migratorie (Veneti, Osco-umbri, Latini, ecc.), si sovrapposero ad etnie pre-indoeuropee già presenti nell'attuale territorio italiano, o assorbendole, oppure stabilendo una forma di convivenza pacifica con esse. Presumibilmente, queste migrazioni ebbero inizio in età del bronzo medio (e cioè attorno alla metà del II millennio a.C.) e si protrassero fino al IV secolo a.C. con la discesa dei Celti nella pianura padana. Fra i popoli di età preromana, meritano una particolare menzione gli Etruschi che, a partire dall'VIII secolo a.C., iniziarono a sviluppare una civiltà raffinata ed evoluta che influenzò notevolmente Roma e il mondo latino. Le origini di questo popolo non indoeuropeo, stabilitosi sul versante tirrenico dell'Italia centrale, sono incerte. Secondo alcune fonti, la loro provenienza andrebbe ricercata in Asia Minore, secondo altre, avrebbero costituito un'etnia autoctona. Certo è che, già attorno alla metà del VI secolo a.C., riuscirono a creare una forte ed evoluta federazione di città-stato che andava dalla Pianura Padana alla Campania e che comprendeva anche Roma ed il suo territorio.

In Italia settentrionale, accanto ai Celti (comunemente chiamati Galli) e ai Leponzi, anch'essi Celti, vi erano i Liguri (originariamente non indoeuropei poi fusisi con i Celti[1]) stanziati in Liguria e parte del Piemonte mentre nell'Italia nord-orientale vivevano i Veneti (paleoveneti) di probabile origine illirica[2] o provenienti dall'Asia Minore ma molto più probabilmente, secondo la moderna ricerca[3], centro-europei[4]. Nell'Italia più propriamente peninsulare accanto agli Etruschi, convivevano tutta una serie di popoli, in massima parte di origine indoeuropea, fra cui: Umbri in Umbria; Latini, Sabini, Falisci, Volsci ed Equi nel Lazio; Piceni nelle Marche ed in Abruzzo Settentrionale; Sanniti nell'Abruzzo Meridionale, Molise e Campania; Apuli, Messapi e Iapigi in Puglia; Lucani e Bruttii nell'estremo Sud; Siculi, Elimi e Sicani (non indoeuropei, probabilmente autoctoni) in Sicilia. La Sardegna era abitata, fin dal II millennio a.C., dai Sardi, risultato di un probabile connubio tra le preesistenti popolazioni megalitiche presenti nell'Isola ed il misterioso popolo dei Shardana. Alcune di queste popolazioni, stanziate nell'Italia meridionale e nelle isole, si troveranno a convivere, dall'VIII fino al III secolo a.C., con le colonie greche e fenicie (puniche) successivamente assorbite dallo stato romano. Fra le popolazioni citate, oltre ai già citati Etruschi, ebbero un ruolo importante in epoca preromana e romana i Sanniti, che riuscirono a costituire un'importante federazione in una vasta area dell'Italia appenninica e che contrastarono a lungo l'espansione romana verso l'Italia meridionale. Nell'area laziale, invece, un posto a sé stante meritano i Latini protagonisti, insieme ai Sabini, della primitiva espansione dell'Urbe e forgiatori, insieme agli Etruschi ed ai popoli italici più progrediti (Umbri, Falisci, ecc.), della futura civiltà romana.

Storia antica

Dislocazione di alcuni insediamenti Cartaginesi e Greci nel 580 a.C.[modifica] Fenici e Cartaginesi Per approfondire, vedi le voci Espansione cartaginese in Italia, Storia della Sardegna fenicia e cartaginese, Storia della Sicilia fenicia e Trattati Roma-Cartagine.

I primi stanziamenti fenici in Italia sono datati attorno all'VIII secolo a.C. quando, dopo un iniziale fase di precolonizzazione del Mediterraneo occidentale e di fondazione di città come Utica e Cartagine, si insediarono sulle coste della Sardegna e nella Sicilia occidentale. Nacquero Mozia (da cui più tardi Lilibeo), Palermo, Solunto in Sicilia e Sulci, Nora, Tharros, Bithia, Kalaris in Sardegna[5].
Mentre in Sicilia lo stanziamento fenicio non incontrò grandi reazioni da parte degli autoctoni (a Monte Erice, per esempio, un tempio fu dedicato ad Astarte, dea-madre dell'area cananea, che veniva frequentato dai Fenici e dagli Elimi[6]), in Sardegna per la strenua resistenza opposta dai Sardo nuragici, non riuscirono a controllare territori molto ampi lontano dalle loro città. La visione dei Fenici colonizzatori è stata ridimensionata dalle scoperte archeologiche di fine XX secolo che evidenziano come in realtà i mercanti levantini frequentavano approdi già abitati dagli autoctoni con i quali avevano un pacifico rapporto di reciproci scambi commerciali. Il notevole flusso di merci favorì l'ampliarsi di questi approdi che vennero dotati di migliori strutture portuali e di un'edilizia mutuata proprio dai Fenici i quali, tramite matrimoni misti, si integrarono perfettamente con gli autoctoni apportando nuove conoscenze e nuovi stili di vita[7].
Solo con l'arrivo dei Punici, a metà del VI secolo a.C., con la spedizione del semileggendario Malco, iniziò il tentativo di conquista vera e propria delle isole maggiori. Cartagine, a tre secoli dalla fondazione, era diventata potenza egemone dell'Africa settentrionale fermando in Libia la colonizzazione greca vincendo Cirene. In Sicilia invece la colonizzazione greca aveva relegato la presenza punica nell'estrema punta occidentale dell'isola. I Cartaginesi allora, spinti da interessi di carattere demografico e economico, tentarono di conquistare l'intera Sicilia, cacciando da essa i Greci. Ciò avrebbe consentito il totale controllo dei due passaggi dal Mediterraneo Orientale a quello Occidentale. Le guerre greco-puniche (550 a.C.-275 a.C.) non portarono a grandi risultati, allargando a fasi alterne la sfera di influenza cartaginese o greca in Sicilia senza che nessuno dei due popoli riuscisse a prevalere nettamente sull'altro. Lo scontro tra le due civiltà si concluse con lo scoppio della prima guerra punica che tolse ai Cartaginesi le aree siciliane e pose una pesante ipoteca su Siracusa, unico regno siceliota importante. Cartagine riuscì comunque a bloccare quasi completamente l'espansione greca nel Mediterraneo occidentale. In Sardegna invece i Cartaginesi conquistarono la parte meridionale dell'isola, pur incontrando maggiori difficoltà a causa della resistenza opposta dalle popolazioni autoctone. Nel corso del tempo i Cartaginesi chiusero le coste dell'isola in un vero e proprio cerchio di fortezze e colonie[8]. La conquista della Sardegna permise il controllo della produzione mineraria e agricola in relazione alle necessità puniche e non solo autoctone. L'agricoltura sarda si basava principalmente sulla produzione di grano tanto che già nel 480 a.C. Amilcare, impegnato nella battaglia di Imera, fece venire dalla Sardegna i rifornimenti di grano per le sue truppe, che si trovavano in Sicilia. Lo pseudo-aristotelico De mirabilibus auscultationibus riporta che Cartagine proibiva la coltivazione di piante da frutto per incentivare la monocultura del grano[9]. Anche l'artigianato sardo subì profonde influenze puniche.
Cartagine entrò anche nella storia d'Italia peninsulare alleandosi con gli Etruschi per combattere i pirati greci di Alalia, in Corsica. Le Lamine di Pyrgi testimoniano quanto fosse sentito l'influsso cartaginese sulle coste toscane e laziali. Nel 509 a.C., infine, la neonata Repubblica romana e i cartaginesi siglarono il primo dei Trattati Roma-Cartagine, che segnò l'inizio di relazioni diplomatiche stabili fra le due città. Successivamente vennero conclusi altri trattati, in cui vennero concesse ulteriori concessioni all'Urbe fino alla caduta definitiva di Cartagine.

Tetradracma di Siracusa

Testa di Aretusa Auriga alla guida di una quadriga
Argento ca. 415-405 a.C.

Civiltà greca Per approfondire, vedi le voci Magna Grecia e Sicilia greca.

Tra l'VIII ed il VII secolo a.C., coloni provenienti dalla Grecia iniziarono a stabilirsi sulle coste dell'Italia meridionale e in Sicilia. Le prime colonie ad essere costituite furono quelle ioniche e peloponnesiache: gli Eubei e i Rodii fondarono Cuma, Reggio Calabria, Napoli, Naxos e Messina, i Corinzi Siracusa (i cui abitanti a loro volta fonderanno l'odierna Ancona), i Megaresi Leontinoi, gli Spartani Taranto, mentre coloni provenienti dall'Acaia furono all'origine della nascita di Sibari e di Crotone. Altre importanti colonie furono Metaponto, fondata anch'essa da coloni Achei, Heraclea e Locri Epizefiri.
Con la colonizzazione greca i popoli italici entrarono in contatto con una civiltà raffinata, caratterizzata da espressioni artistiche e culturali elevate che diedero origine nel Sud Italia e in Sicilia alla fioritura di filosofi, letterati, artisti e scienzati sia di origine greca (Pitagora) che autoctona (Teocrito, Parmenide, Archimede, ecc.). I Greci furono anche portatori di istituzioni politiche sconosciute all'epoca che prefiguravano forme di democrazia diretta. Tra le principali città greche in Italia vi fu Napoli, il cui porto, specialmente a partire dal 420 a.C., in concomitanza col calo dell'influenza ateniese, si impose tra i più importanti del Mediterraneo[10]. Anche Siracusa, fra il V ed il IV secolo a.C. conobbe un notevole sviluppo demografico ed economico. I contrasti fra le colonie greche e le popolazioni autoctone furono frequenti, nonostante i Greci cercassero di instaurare rapporti pacifici favorendo, in molti casi, un loro lento assorbimento. La ricchezza e lo splendore delle colonie furono tali da far identificare l'Italia meridionale peninsulare dagli storici romani con l'appellativo di Magna Grecia. Nel III secolo a.C. tutte le colonie italiote della Magna Grecia e quelle siciliane furono assorbite nello Stato romano. Per molte di esse iniziò un fatale declino.


La scultura rappresenta la Lupa capitolina che allatta i gemelli Romolo e Remo che furono aggiunti, probabilmente da Antonio del Pollaiolo, nel tardo XV secolo.[modifica] Roma (753 a.C. - 476 d.C.) Per approfondire, vedi le voci Storia romana e Fondazione di Roma.

Secondo la tradizione, la città di Roma fu fondata il 21 aprile del 753 a.C. da Romolo sul colle palatino. In realtà, già in precedenza erano sorti villaggi in quella posizione, fondamentale per la via di commercio del sale, ma solo alla metà dell'VIII secolo a.C. questi si unirono in una sola città. La zona era dotata, inoltre, di un buon potenziale agricolo, e la presenza dell'isola Tiberina rendeva facile l'attraversamento del vicino fiume Tevere.

Età regia (753 - 509 a.C.) Per approfondire, vedi la voce Età regia di Roma.

Romolo instaurò nella città il regime monarchico: fino al 509 a.C., Roma fu retta, secondo la tradizione, da sette re,[11] che apportarono notevoli contributi allo sviluppo della società. Ognuno dei primi quattro, infatti, operò in un diverso ambito dell'amministrazione statale: il fondatore eponimo Romolo diede il via alla prima guerra di espansione contro i Sabini, originatasi dall'episodio del ratto delle Sabine, e associò al trono il re nemico Tito Tazio, allargando per primo le basi del neonato stato romano. Suddivise poi la popolazione in tre tribù e pose le basi per la ripartizione tra patrizi e plebei. Il suo successore Numa Pompilio istituì i primi collegi sacerdotali, come quello delle Vestali, e riformò il calendario. Il terzo re, Tullo Ostilio, riprese le ostilità contro i popoli vicini e sconfisse la città di Alba Longa, mentre il successore Anco Marzio costruì il primo ponte di legno sul Tevere, fortificò il Gianicolo e fondò il porto di Ostia.
Ai primi quattro re, di origine latina, fecero seguito altri tre di origine etrusca: verso la fine del VII secolo a.C., infatti, gli Etruschi, all'apogeo della loro potenza, estesero la loro influenza anche su Roma, che stava divenendo sempre più grande e la cui importanza a livello economico iniziava a farsi considerevole. Era dunque fondamentale per gli Etruschi assicurarsi il controllo su una zona che assicurava il passaggio delle rotte commerciali; comunque non si ebbe mai un reale controllo militare etrusco su Roma. Il primo re etrusco, Tarquinio Prisco, combatté contro i popoli confinanti, ordinò la realizzazione di numerose opere pubbliche, tra cui il Circo Massimo, la Cloaca Massima e il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio e apportò, infine, anche alcuni cambiamenti in campo culturale. Il suo successore, Servio Tullio, fu, secondo la leggenda, l'ideatore dell'ordinamento centuriato, sostituendolo alla precedente ripartizione della popolazione e combatté anch'egli contro alcune delle principali città etrusche e latine limitrofe a Roma. Ultimo monarca a governare Roma fu Tarquinio il Superbo, espulso dall'Urbe nel 510 a.C., secondo la leggenda con l'accusa di aver violentato la giovane Lucrezia; il patriziato romano, comunque, non era più disposto a sottostare al potere centralizzato del re, ma desiderava acquisire un'influenza, in campo politico, pari a quella che già rivestiva negli altri ambiti della vita civile.

Età repubblicana (509-27 a.C.) Per approfondire, vedi la voce Repubblica Romana.


Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo ed il fallimento (determinato, secondo la leggenda, dalle eroiche azioni di Muzio Scevola, Orazio Coclite e Clelia) del suo tentativo di recuperare il trono con l'aiuto degli Etruschi condotti dal lucumone di Chiusi, Porsenna, fu instaurata, ad opera di Lucio Giunio Bruto, organizzatore della rivolta antimonarchica, la Repubblica. Essa prevedeva la spartizione tra più cariche dei poteri precedentemente appartenuti a un uomo solo, il re: il potere legislativo fu assegnato alle assemblee dei comizi centuriati e del senato, e furono create numerose magistrature, consolato, censura, pretura, questura, edilità, che gestissero i vari ambiti dell'amministrazione. Tutte le cariche, tra le quali il consolato e il pretorato erano cum imperio, erano collegiali, in modo tale che si evitasse l'affermazione di singoli uomini che potessero accentrare il potere nelle loro mani.
Roma si trovò subito a lottare contro le popolazioni latine delle zone limitrofe, sconfiggendole nel 499 a.C. (o, secondo altre fonti, nel 496 a.C.) nella battaglia del Lago Regillo, e federandole a sé nella Lega Latina mediante la firma del foedus Cassianum, nel 493 a.C.[12] Combatté poi contro gli Equi e i Volsci, e, una volta sconfitti, si scontrò con la città etrusca di Veio, espugnata da Marco Furio Camillo nel 396 a.C..
I primi anni di vita della Repubblica Romana furono notevolmente travagliati anche nell'ambito della politica interna, in quanto le gravi disuguaglianze sociali che avevano portato alla caduta del regno non erano state cancellate. I plebei avviarono così una serie di proteste contro la classe dominante dei patrizi: nel 494 a.C., infine, si ritirarono in secessione sul colle Aventino. La situazione si risolse con l'istituzione della magistratura del tribunato della plebe e con il riconoscimento del valore legale delle assemblee popolari. Importanti acquisizioni furono anche la redazione, nel 450 a.C. da parte dei decemviri, delle leggi delle XII tavole, che garantivano una maggiore equità in ambito giudiziario, e l'approvazione della lex Canuleia, nel 445 a.C..
Nel 386 a.C. l'esercito romano fu sconfitto dai Galli guidati da Brenno, che sottoposero l'Urbe ad un rovinoso saccheggio.[13][14] Vent'anni dopo, nel 367 a.C., furono promulgate le leges Liciniae Sextiae, che ampliarono ulteriormente i diritti della plebe.
Ormai potenza egemone nell'Italia centrale, Roma cominciò a meditare un'espansione verso Sud; per premunirsi, inoltre, da eventuali defezioni degli alleati latini, stipulò nel 354 a.C. un'alleanza con i Sanniti, contro i quali, tuttavia, combatté dal 343 al 341 a.C. in difesa della città di Capua, senza però ottenere alcun sostanziale mutamento dello status quo. Tra il 340 e il 338 a.C., inoltre, Roma dovette combattere una nuova e sanguinosa guerra latina, che vinse solo con grandissimi sforzi. Nel 327 a.C., poi, si riaprì il conflitto con i Sanniti: i Romani, seppur sconfitti a Forche Caudine e a Lautulae, riuscirono a riportare una complessiva vittoria nel 304 a.C. Contro i Sanniti Roma combatté, infine, una terza guerra tra il 298 e il 290 a.C., al termine della quale ogni resistenza poteva dirsi annientata.
Consolidata la propria egemonia sull'Italia centro-meridionale, Roma arrivò a scontrarsi con le città della Magna Grecia e con la potente Taranto: con il pretesto di soccorrere la città di Turi, minacciata, Roma violò intenzionalmente un patto stipulato con Taranto nel 303 a.C., scatenando la guerra. Taranto invocò allora l'aiuto del re d'Epiro Pirro, che, giunto in Italia nel 280 a.C. con un esercito composto anche da numerosi elefanti, riuscì a sconfiggere i Romani a Heraclea e ad Ascoli, seppure a costo di gravissime perdite; dopo un tentativo fallito di consolidare il suo potere sul Sud Italia invadendo la Sicilia (dove fu respinto dalle colonie greche alleatesi con Cartagine), l'epirota marciò dunque contro i Romani che, riorganizzatisi, erano tornati a minacciare Taranto, ma fu duramente sconfitto a Maleventum nel 275 a.C. e costretto a tornare oltre l'Adriatico. Taranto, dunque, fu nuovamente assediata e costretta alla resa nel 272 a.C.: Roma era così potenza egemone nell'Italia peninsulare, a sud dell'Appennino Ligure e Tosco-Emiliano.


Annibale Barca[modifica] Le Guerre Puniche e i conflitti in Oriente Per approfondire, vedi le voci Guerre Puniche, Guerre macedoniche e Guerra contro Antioco III e lega etolica.

La conquista dell'Italia portò Roma a scontrarsi con l'altra grande potenza del Mediterraneo Occidentale: Cartagine. Le guerre che si scatenarono furono di inaudita ferocia e di notevole durata, ma videro infine il trionfo totale di Roma. Nel 264 a.C. Roma inviò un piccolo contingente in soccorso di Messina, con l'intento di assicurarsi il controllo dello stretto, fondamentale per il transito delle navi: i Cartaginesi, che ambivano anch'essi al controllo dell'isola, decisero di reagire con la guerra. Dopo una prima fase di scontri terrestri, in cui riuscì ad ottenere alcune vittorie, Roma decise di sfidare i Cartaginesi sul mare, e, approntata una flotta di navi dotate di corvi, sconfisse i nemici nella Battaglia di Milazzo (260 a.C.).
Nel tentativo di infliggere una sconfitta decisiva a Cartagine, il console Marco Atilio Regolo, sconfitta la flotta nemica a Capo Ecnomo (256 a.C.), sbarcò in Africa dove però fu vinto e ucciso. Nel 241 a.C., Roma, approntata una nuova flotta guidata da Gaio Lutazio Catulo, sconfisse nuovamente i Cartaginesi nella Battaglia delle Isole Egadi: sottratto ai nemici il predominio sul mare i Romani poterono concludere anche le operazioni terrestri, sottomettendo la Sicilia e costringendo Cartagine alla resa.[15] Allontanato provvisoriamente il pericolo cartaginese, Roma consolidò il proprio dominio riducendo la Sicilia in condizione di provincia e annettendo la Sardegna e la Corsica; sconfisse inoltre i pirati illirici che, tacitamente supportati dalla regina Teuta, infestavano le coste adriatiche e, qualche anno più tardi, passò all'offensiva anche in pianura padana contro i Celti, riportando una grande vittoria nella battaglia di Clastidium (222 a.C.), che fu seguita dalla deduzione delle colonie di Piacenza e Cremona.
Nel frattempo, preoccupato dalle mire espansionistiche puniche in Spagna, il Senato stipulò un nuovo patto con Cartagine; quando tuttavia nel 218 a.C. il generale punico Annibale Barca attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, si decise di dichiarare nuovamente guerra a Cartagine. Annibale, allora, valicò le Alpi con un potente esercito comprendente anche elefanti e attaccò Roma da Nord, sconfiggendo le legioni presso il Ticino, la Trebbia e il Trasimeno. Dopo una fase di stallo, durante la quale Roma poté riorganizzarsi, grazie alla politica attuata dal dictator Quinto Fabio Massimo, soprannominato Cunctator (temporeggiatore), le legioni romane al comando dei consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone subirono una pesante sconfitta contro Annibale a Canne (216 a.C.). Mentre numerose città si alleavano con i Cartaginesi e anche la Macedonia di Filippo V scendeva in guerra contro Roma, Annibale si attardò nel Sud Italia (ozi di Capua), mentre i Romani, seppure provati, poterono lentamente ricostituire le proprie forze: il console Publio Cornelio Scipione ottenne diverse vittorie sui Cartaginesi in Spagna, mentre in Italia i consoli Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone sconfissero e uccisero il fratello di Annibale, Asdrubale, presso il Metauro, mentre si apprestava a portare rinforzi alle forze puniche in Italia. Roma riuscì ben presto a recuperare le città italiche che l'avevano tradita per allearsi con Annibale, il quale, stremato da un decennio di guerra e vistosi negare i rinforzi dalla madrepatria, fu costretto a fare ritorno in Africa nel 203 a.C., dopo che Scipione, conquistata la Penisola Iberica e ristabilita la situazione in Italia, era sbarcato nel territorio nemico per tentare di ottenere una vittoria definitiva. I due generali si scontrarono nel 202 a.C. a Zama, e l'esercito romano ottenne una sofferta ma decisiva vittoria, che costrinse Cartagine a capitolare e ad accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma.
In Italia settentrionale, intanto, i Celti o Galli, sollevatisi contro Roma durante la seconda guerra punica, non avevano deposto le armi neppure dopo la sconfitta di Zama, impadronendosi di Piacenza (200 a.C.) e costringendo Roma a intervenire in forze. Nel 196 a.C. Scipione Nasica vinse gli Insubri, nel 191 a.C. furono piegati i Boi, che controllavano una vasta zona tra Piacenza e Rimini. Superato il fiume Po, la penetrazione romana proseguì pacificamente: le popolazioni locali, Cenomani e Veneti, realizzarono che Roma era l'unica in grado di proteggerli dagli assalti delle altre tribù confinanti. Attorno al 191 a.C. la Gallia Cisalpina fu ridotta a provincia. Nel 177 a.C. venne sottomessa anche l'Istria. Nel 175 a.C., infine, vennero soggiogati anche i Liguri Cisalpini. Ormai potenza egemone del Mediterraneo occidentale, Roma volse le sue mire espansionistiche a danno degli stati ellenistici dell'Oriente: nel 200 a.C., gli abitanti di Rodi e Pergamo inviarono a Roma, sentendosi minacciati dalla Macedonia di Filippo V, una richiesta di aiuto, e l'Urbe, inviato a sua volta un ultimatum a Filippo, decise di intervenire. Nel 197 a.C. il console Tito Quinzio Flaminino inflisse alle truppe macedoni una sconfitta definitiva presso Cinocefale, ed un anno più tardi proclamò ufficialmente la liberazione della Grecia dall'egemonia macedone.
I Greci, tuttavia, consci di dover respingere i Romani per non essere annessi al loro stato, preferirono allearsi con il sovrano seleucide Antioco III, a cui Roma, nel 191 a.C., dichiarò guerra, vincendolo presso le Termopili (191 a.C.) e presso Magnesia (188 a.C.) e costringendolo a firmare una pace con cui cedeva a Roma alcune terre in Asia Minore. Nel 171 a.C., il figlio di Filippo di Macedonia, Perseo, si sollevò nuovamente in armi contro i Romani, dando inizio alla terza guerra macedonica, che vide, dopo alterne vicende, il trionfo delle armi romane condotte da Lucio Emilio Paolo Macedonico[16] a Pidna (168 a.C.) e la suddivisione del territorio macedone in quattro repubbliche subalterne e tributarie a Roma. Cartagine, intanto, fortemente provata dalle dure condizioni di pace della seconda guerra punica, era sottoposta ai continui attacchi del re numida Massinissa, alleato dei Romani, che approfittava della situazione per estendere sempre di più i propri possedimenti ai danni della stessa Cartagine. A Roma, dunque, giunsero ambasciatori dalla città africana, ma l'Urbe rifiutò di intervenire per mantenere la pace; nel 150 a.C. Cartagine fu dunque costretta a violare gli accordi di pace e a reagire con la forza a Massinissa. Il senato, quindi, sobillato da Catone il Censore, decise di attaccare Cartagine, e nel 147 a.C. si risolse ad inviare in Africa il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, che, dopo un lungo assedio, nel 146 a.C. espugnò e rase al suolo la città.
Contemporaneamente, nel 150 a.C. un tale Andrisco, sostenendo di essere figlio di Perseo, guidò una nuova rivolta di Greci e Macedoni contro Roma, che tuttavia, dopo alcuni iniziali successi, fu duramente repressa. Nel 146 a.C., infine, i Romani rasero al suolo Corinto. Con la sconfitta dei nemici contro cui combatteva da anni su entrambi i fronti, Roma era diventata padrona del Mediterraneo. Le nuove conquiste, tuttavia, portarono anche notevoli cambiamenti nella società romana: i contatti con la cultura ellenistica, temuta e osteggiata dallo stesso Catone, modificarono profondamente gli usi che fino ad allora si rifacevano al mos maiorum, trasformando radicalmente la società dell'Urbe.

[modifica] I GracchiI problemi connessi ad un'espansione così grande e repentina che la Repubblica dovette affrontare furono enormi e di vario genere: le istituzioni romane erano fino ad allora concepite per amministrare un piccolo stato; adesso le province si stendevano dall'Hispania, all'Africa, alla Grecia, all'Asia. Le continue guerre in patria e all'estero, inoltre, immisero sul mercato una quantità enorme di schiavi, i quali vennero usualmente impiegati nelle aziende agricole dei patrizi romani, con ripercussioni tremende nel tessuto sociale romano. Infatti la piccola proprietà terriera andò rapidamente in crisi a causa della maggior competitività dei latifondi schiavistici (che ovviamente producevano praticamente a costo zero), ciò provocò da una parte la concentrazione dei terreni coltivabili in poche mani e una grande quantità di merci a buon mercato, dall'altra generò la nascita del cosiddetto sottoproletariato urbano: tutte quelle famiglie costrette a lasciare le campagne si rifugiarono nell'urbe, dove non avevano un lavoro, una casa e di che sfamarsi dando origine a pericolose tensioni sociali abilmente sfruttate dai politici più scaltri.
A tentare una riforma che ponesse un rimedio alla crisi fu, per primo, Tiberio Sempronio Gracco, che emanò una legge che limitava l'occupazione delle terre dello stato a 125 ettari e riassegnava le terre eccedenti ai contadini in rovina: una famiglia nobile poteva avere 500 iugeri di terreno, più 250 per ogni figlio, ma non più di 1000; i terreni confiscati furono distribuiti in modo che ogni famiglia della plebe contadina avesse 30 iugeri (7,5 ettari). Colpendo in questo modo gli interessi delle classi aristocratiche, finì assassinato ma il Senato romano non revocò le sue leggi, che comunque diedero qualche iniziale risultato. La riforma fu poi continuata dal fratello, Gaio Sempronio Gracco, che finì suicida braccato dagli stessi sicari del fratello.

[modifica] L'influenza della conquista della Grecia sui costumi dei RomaniAnche la struttura originale della famiglia, delle relazioni sociali e della cultura romana subirono profondi sconvolgimenti: il contatto con la civiltà greca e l'arrivo nella città di moltissimi schiavi ellenici (in molti casi più colti e istruiti dei loro stessi padroni) generò nel popolo romano, specialmente tra la classe dirigente, sentimenti e passioni ambivalenti: da una parte si desiderava rinnovare i costumi rurali romani - mos maiorum - introducendo usanze e conoscenze provenienti dall'Oriente. Questo comportamento fece sì effettivamente che il livello culturale dei Romani, almeno dei patrizi, crescesse significativamente - basti pensare all'introduzione della filosofia, della retorica, della letteratura e della scienza greca - ma indubbiamente generò altresì una decadenza dei valori morali, testimoniata dalla diffusione di costumi e abitudini moralmente discutibili.
Tutto ciò naturalmente provocò una strenua opposizione da parte degli ambienti più conservatori, i quali si scagliarono contro le culture extra-romane, tacciate di corruzione dei costumi, di indecenza, di immoralità, di sacrilegio nei confronti della religione romana. Il leader dei conservatori era Catone il Censore, il quale lottò accanitamente contro l'ellenizzazione del modo di vivere romano a favore del ripristino del mos maiorum, quell'insieme di costumi e usanze tipiche della Roma arcaica che, secondo Catone, avevano permesso al popolo romano di piegare il mondo al proprio volere.

[modifica] L'estensione della cittadinanza: la guerra sociale Per approfondire, vedi la voce Guerra sociale.

Già dal tempo dei Gracchi a Roma si avanzavano proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati ma senza successo. La speranza degli alleati italici era che a Roma prevalesse il partito di coloro che volevano concedere agli alleati italici la cittadinanza romana. Ma quando nel 91 a.C. il tribuno Marco Livio Druso, che stava preparando una proposta per concedere la cittadinanza agli alleati fu ucciso, ai più apparve chiaro che Roma non avrebbe concesso spontaneamente la cittadinanza. Fu l'inizio della guerra che dal 91 a.C. all'88 a.C. vide combattersi gli eserciti Romani e quelli italici. Gli ultimi a cedere le armi ai Romani, capeggiati tra gli altri da Silla e Gneo Pompeo Strabone, padre del futuro Pompeo Magno, furono i Sanniti. Gli italici si videro comunque riconosciuta la cittadinanza romana. Va comunque detto che allora l'Italia comprendeva solo la parte peninsulare; la parte transpadana formava la provincia della Gallia Cisalpina i cui abitanti non erano ancora cittadini romani. Nel dicembre del 49 a.C. Cesare concesse la cittadinanza romana agli abitanti della provincia e nel 42 a.C. venne abolita la provincia, facendo della Gallia Cisalpina parte integrante dell'Italia romana.


Moneta raffigurante Augusto e Marco Vipsanio Agrippa, vincitori della battaglia di Azio[modifica] Le rivendicazioni degli schiavi: le guerre servili Per approfondire, vedi le voci Schiavitù nell'antica Roma e Terza guerra servile.

Il fenomeno della schiavitù nell'antica Roma, con la conseguente disponibilità di una forza lavoro a basso costo sotto forma di schiavi, era un elemento importante per l'economia della Repubblica romana. Agli schiavi era perlopiù riservato, durante il periodo repubblicano, un trattamento particolarmente duro: secondo la legge, uno schiavo non era una persona, ma una proprietà privata della quale il padrone poteva abusare, danneggiare o uccidere senza conseguenze legali.[17] L'uccisione di uno schiavo era, tuttavia, un evento abbastanza raro, in quanto eliminava forza lavoro produttiva. Gli schiavi che vivevano in condizioni di vita più disagiate erano i lavoratori nei campi e nelle miniere, soggetti ad una vita di lavoro duro.[18] L'elevata concentrazione e il trattamento oppressivo della popolazione degli schiavi portò allo scoppio di varie ribellioni, dette guerre servili. Nel 135 a.C. e nel 104 a.C. scoppiarono rispettivamente la prima e la seconda guerra servile in Sicilia, rivolte scatenate da schiavi in cerca della libertà. Sebbene necessitassero di anni di interventi militari diretti per essere sedate, erano sommosse provinciali che non minacciarono mai la penisola italiana né tanto meno la città di Roma direttamente. Tutto ciò cambiò in occasione della terza guerra servile.

Essa fu una grave rivolta degli schiavi, condotta dallo schiavo e gladiatore Spartaco e scoppiata a Capua nel 73 a.C.. Roma sottovalutò la minaccia e nei primi tempi numerose legioni subirono non pronosticate sconfitte contro gli schiavi ribelli, il cui numero era rapidamente cresciuto fino a 70.000. Una volta che venne stabilito un comando unificato sotto Marco Licinio Crasso, al comando di sei legioni, la ribellione venne schiacciata nel 71 a.C. Circa 10.000 schiavi fuggirono dal campo di battaglia, mentre 6.000 di essi vennero crocifissi lungo la Via Appia, da Capua a Roma. La rivolta scosse il popolo romano, che «a causa della grande paura sembrò iniziare a trattare i propri schiavi meno duramente di prima».[19] I ricchi possessori di latifundia iniziarono a ridurre il numero di schiavi impiegati nell'agricoltura, scegliendo di impiegare come mezzadri alcuni degli ex-piccoli proprietari terrieri spossessati.[20] Con lo stabilizzarsi delle frontiere e la fine delle grandi guerre di conquista dopo il principato di Traiano (98-117), si interruppero le guerre di conquista contro nemici esterni, e con esse cessò l'arrivo in massa di schiavi catturati come prigionieri. Si incrementò, al contrario, l'impiego di lavoratori liberi in campo agricolo. Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare. Durante il principato di Claudio (41-54), fu promulgata una costituzione che puniva l'assassinio di uno schiavo anziano o ammalato, e che dava la libertà agli schiavi abbandonati dai loro padroni.[21] Durante il regno di Antonino Pio (138-161), i diritti degli schiavi furono ulteriormente ampliati, e i padroni furono ritenuti direttamente responsabili dell'uccisione dei loro schiavi, mentre gli schiavi che dimostravano di essere stati maltrattati potevano forzare legalmente la propria vendita; fu contemporaneamente istituita un'autorità teoricamente indipendente cui gli schiavi si potevano appellare.[22]


Mario, un generale romano che riformò drasticamente l'esercito romano[modifica] La crisi della Repubblica: da Mario ad Augusto Per approfondire, vedi le voci Caio Mario, Guerre contro Giugurta, Guerra civile tra Mario e Silla, Guerra civile romana (49 a.C.) e Guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio.

Negli anni successivi la politica romana fu caratterizzata sempre più dal radicalizzarsi della lotta tra il partito degli ottimati e quello dei popolari, che avevano visioni politiche completamente opposte: i primi avevano come principale esponente Lucio Cornelio Silla, valente generale, mentre i secondi erano capeggiati da Gaio Mario. Quest'ultimo si era distinto in varie imprese militari: più volte console, condusse la vittoriosa guerra contro Giugurta (108 a.C.-105 a.C.) e riuscì a respingere la minaccia germanica dei Cimbri e dei Teutoni, che avevano inflitto fino ad allora pesanti sconfitte a Roma incutendo profondo timore ai Romani, con due vittorie a Aquae Sextiae e a Vercelli. Sia contro Giugurta che contro i Germani, Mario ebbe come legato un giovane nobile, di cui apprezzava le capacità militari: Silla.


Presunto ritratto di SillaLo scontro tra Ottimati e Popolari, fino a che Gaio Mario rimase in vita, si risolse sempre nella lotta per l'ottenimento del consolato per i candidati della propria parte politica. Morto Mario, Silla, al ritorno dalla vittoriosa guerra in oriente contro Mitridate VI re del Ponto, ritenne che il momento fosse propizio per un colpo di stato e con l'esercito in armi marciò contro Roma, dove a Porta Collina ottenne la vittoria decisiva nella guerra civile contro i mariani (82 a.C.). Per consolidare la vittoria, Silla si fece eleggere dittatore a vita e iniziò una vasta e sistematica persecuzione nei confronti dell'opposizione (le liste di proscrizione sillane) da cui il giovane Cesare, nipote di Mario, riuscì a stento a sottrarsi. Fino a che morì, nel 78 a.C., l'unica seria opposizione contro Silla, fu quella condotta da Sertorio dalla Spagna. Nel 70 a.C. la costituzione sillana venne abolita da Pompeo e Crasso, della quale erano stati dieci anni prima fautori convinti.

Il mondo romano si avviava a divenire troppo vasto e complesso per le istituzioni della Repubblica; la debolezza di queste ultime, ed in particolare del senato divenne già evidente nelle circostanze del primo triumvirato, un accordo informale con cui i tre più potenti uomini di Roma, Cesare, Crasso e Pompeo, si spartivano le sfere d'influenza e si garantivano reciproco appoggio. Dei tre, la figura di Cesare era la più emblematica dei nuovi rapporti di potere che stavano emergendo: nipote di Mario, egli aveva anche per questo aderito sin da giovane alla fazione dei populares e costruì il suo potere con le conquiste militari ed il rapporto di fedeltà personale che lo legava al suo esercito. Fu per questo che quando, dopo la morte di Crasso (53 a.C.), le ambizioni personali di Cesare e Pompeo si scontrarono, il senato preferì schierarsi con quest'ultimo, in quanto più vicino agli Optimates e più rispettoso verso i privilegi senatoriali (per quanto non sfuggisse ai più attenti, come Cicerone, che qualunque dei due contendenti avesse prevalso il potere del senato sarebbe stato irrimediabilmente compromesso).
Lo scontro, sempre latente, si mantenne sempre entro i limiti delle tradizionali forme di governo romane, fino al 49 a.C., quando il senato intimò a Cesare di rimettere il suo comando delle legioni che aveva condotto alla conquista delle Gallie, e di tornare a Roma da privato cittadino. Il 10 gennaio, abbandonando gli ultimi dubbi (Alea iacta est), Cesare attraversò con le sue truppe il Rubicone dando inizio alla guerra civile contro la fazione opposta. La guerra civile fu combattuta vittoriosamente da Cesare su tre fronti: il fronte greco, dove Cesare sconfisse Pompeo nella battaglia di Farsalo, il fronte africano, dove Cesare riusci ad avere la meglio sugli Optimates guidati da Catone Uticense con la decisiva battaglia di Utica (49 a.C.), ed il fronte spagnolo, dove la battaglia decisiva avvenne a Munda sull'esercito nemico guidato dai figli di Pompeo, Gneo e Sesto. Cesare, avuta la meglio sulla fazione avversa, assunse il titolo di dictator, assommando a se molti poteri e prerogative, quasi un preludio della figura dell'imperatore, che però non assunse mai, ucciso alle idi di marzo nel 44 a.C. La morte del dittatore, contrariamente alle dichiarate intenzioni dei congiurati, non portò alla restaurazione della Repubblica, ma ad nuovo periodo di guerre civili. Questa volta però i due contendenti, Augusto e Marco Antonio, non erano i campioni di due fazioni rivali, ma rappresentanti di due gruppi che combattevano per il predominio sulla parte avversa, senza avere alcuna velleità di restaurare la Repubblica, ormai superata come istituzione storica. La guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio terminò con la Battaglia di Azio nel 31 a.C., che decretò il trionfo di Ottaviano e diede inizio de facto al periodo imperiale della storia romana. Augusto mantenne in vita (formalmente) la Repubblica, di fatto trasformandola in una monarchia, pur nell'apparenza del Principato. Ufficialmente ebbe fine dopo il 235 d.C. In particolare, nel 284, l'imperatore Diocleziano, iniziò una nuova fase, il Dominato, cambiando radicalmente le antiche istituzioni romane.

[modifica] Età imperiale (27 a.C.-476 d.C.) Per approfondire, vedi la voce Impero romano.


Augusto, fondatore dell'impero romano.[modifica] L'Italia sotto Augusto: le undici regioni augustee Per approfondire, vedi le voci Augusto e Regioni dell'Italia augustea.

Ottaviano Augusto mantenne le antiche istituzioni repubblicane, seppur svuotandole di ogni potere effettivo. Sebbene la repubblica continuasse formalmente a esistere, in realtà era diventata un principato retta dal princeps o imperatore, che era l'assoluto padrone dell'Impero. Con i nuovi poteri che gli erano stati conferiti, Augusto organizzò l'amministrazione dell'Impero con molta padronanza. Stabilì moneta e tassazione standardizzata; creò una struttura di servizio civile formata da cavalieri e da uomini liberi (mentre in precedenza erano prevalentemente schiavi) e previde benefici per i soldati al momento del congedo. Suddivise le province in senatorie (controllate da proconsoli di nomina senatoria) ed in imperiali (governate da legati imperiali). Fu un maestro nell'arte della propaganda, favorendo il consenso dei cittadini alle sue riforme. La pacificazione delle guerre civili fu celebrata come una nuova età dell'oro dagli scrittori e poeti contemporanei, come Orazio, Livio e soprattutto Virgilio.


L'impero romano raggiunse la sua massima estensione nel 116La celebrazione di giochi ed eventi speciali rafforzavano la sua popolarità. Augusto inoltre per primo creò un corpo di vigili, ed una forza di polizia per la città di Roma, che fu suddivisa amministrativamente in 14 regioni. Ottaviano completò la conquista dell'Italia, sottomettendo in un arco di tempo compreso tra il 25 a.C. e il 6 a.C. le popolazioni alpine tra cui Salassi, Reti e Vindelici. Per aver completato la sottomissione di tutte le 46 popolazioni della penisola italiana, i Romani eressero in onore dell'Augusto un monumento sulle falde meridionali delle Alpi, presso Monaco. Nel 7 d.C. divise l'Italia in undici regioni. L'Italia fu privilegiata da Augusto e i suoi successori che costruirono una fitta rete stradale e abbellirono le città dotandole di numerose strutture pubbliche (foro, templi, anfiteatro, teatro, terme...), fenomeno noto come evergetismo augusteo. L'economia italiana era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita che permise l'esportazione dei beni verso le province. L'incremento demografico fu rilevato da Augusto tramite tre censimenti: i cittadini maschi furono 4.063.000 nel 28 a.C., 4.233.000 nell'8 a.C. e 4.937.000 nel 14 d.C. Se si considerano anche le donne e i bambini la popolazione totale nell'Italia del I secolo d.C. può essere stimata sui 10 milioni di abitanti circa, di cui almeno 3 milioni erano schiavi[23]. In politica estera tentò di espandere l'impero. Oltre ad aver conquistato le regioni alpine dell'Italia (vedi sopra), fece anche alcune campagne in Etiopia[24], in Arabia Felix[24] e in Germania[24] ma ebbero poco successo, per la strenua resistenza dei barbari e per il clima avverso. Alla morte di Augusto il suo testamento venne fatto leggere in senato: l'Augusto raccomandava ai suoi successori di non intraprendere nessuna conquista, in quanto un ulteriore espansione avrebbe provocato solo problemi logistici ad un impero già troppo vasto.[24] I successori di Augusto rispettarono questa sua massima, e nei due secoli d'oro dell'impero furono solo due le conquiste durature di rilievo per l'Impero: la Britannia, conquista iniziata nel 43 dall'Imperatore Claudio e portata avanti dal generale Agricola sotto Domiziano, e la Dacia, conquistata da Traiano.


L'anfiteatro Flavio, simbolo di Roma e del potere imperiale ancora ai nostri giorni.[modifica] Dinastia Giulio-Claudia (14-68)La prima dinastia fu quella Giulio-Claudia, che fu al potere dal 14 al 68; nel corso di mezzo secolo si succedettero Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. I primi anni del regno di Tiberio furono pacifici e relativamente tranquilli. Egli consolidò il potere di Roma e assicurò la ricchezza e la prosperità dello stato romano. Dopo la morte di Germanico e di Druso, i suoi eredi, l'imperatore, convinto di aver perso i favori del popolo e di essere circondato da cospiratori, si ritirò nella propria villa di Capri (26), lasciando il potere nelle mani del comandante della guardia pretoriana, Seiano, che avviò le persecuzioni contro coloro accusati di tradimento. Alla sua morte (37) il trono venne affidato a Gaio (soprannominato Caligola, per la sua abitudine di portare particolari sandali chiamati caligae), il figlio di Germanico. Caligola iniziò il regno ponendo fine alle persecuzioni e bruciando gli archivi dello zio. Tuttavia cadde presto malato: gli storici successivi riportano una serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo a partire dalla fine del 37. Nel 41, Caligola cadde vittima di una congiura ordita dal comandante dei pretoriani Cassio Cherea. L'unico membro rimasto della famiglia imperiale era un altro nipote di Tiberio, Claudio. Questi, pur essendo considerato dalla famiglia stupido, fu invece capace di amministrare con responsabile capacità: riorganizzò la burocrazia e conquistò la Britannia. Sul fronte familiare, Claudio ebbe meno successo: la moglie Messalina fu messa a morte per adulterio; successivamente sposò la nipote Agrippina, che probabilmente lo uccise nel 54. La morte di Claudio spianò la strada al figlio di Agrippina, Nerone. Questi inizialmente affidò il governo alla madre e ai suoi tutori, in particolare a Seneca. Tuttavia, maturando, il suo desiderio di potere aumentò: fece giustiziare la madre ed i tutori e regnò da despota. L'incapacità di Nerone di gestire le numerose ribellioni scoppiate nell'Impero durante il suo principato e la sua sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti e nel 68 Nerone si suicidò.


[modifica] Dinastia dei Flavi (69-96)Alla morte di Nerone l'ingerenza dell'esercito nella nomina dell'imperatore fu la causa di una guerra per la successione: nel 68, noto come anno dei quattro imperatori, il trono fu conteso da quattro candidati, ognuno eletto imperatore dalla rispettiva legione: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano. La guerra civile si concluse con la vittoria di Vespasiano, che fondò la dinastia Flavia. Questo imperatore riuscì a liberare Roma dai problemi finanziari creati dagli eccessi di Nerone e dalle guerre civili. Aumentando le tasse in modo drammatico, egli riuscì a raggiungere un'eccedenza di bilancio ed a realizzare numerose opere pubbliche, come il Colosseo e un Foro il cui centro era il Tempio della Pace. Il regno del suo successore, il figlio Tito, durò soli due anni e fu segnato da due tragedie: nel 79 l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano, e nell'80 un incendio distrusse gran parte di Roma. Tito morì nell'81 a 41 anni, forse assassinato dal fratello Domiziano impaziente di succedergli. Fu con Domiziano che i rapporti già tesi tra la dinastia flavia e il senato si deteriorarono a causa della divinizzazione dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche e del divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria. Nella parte finale del suo regno perseguitò filosofi e, nel 95, i Cristiani. Morì l'anno seguente, vittima di una congiura.


Evoluzione geografica dell'Italia nel periodo romano.[modifica] Dinastia degli Antonini: gli imperatori adottivi (96-192)Con Nerva (96-98), successore di Domiziano, venne cambiato il sistema di successione degli imperatori con l'introduzione del cosiddetto principato adottivo: questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del senato. Questo faceva sì che i senatori venissero responsabilizzati. Con questo criterio vennero scelti Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo (quest'ultimo in realtà era figlio di Marco Aurelio). Tramite la politica di pace instaurata e la prosperità derivatane il governo imperiale attirò consensi unanimi, tanto che Nerva ed i suoi successori sono anche noti come i cinque buoni imperatori. In questo periodo, grazie alle conquiste ad opera di Traiano di Dacia, Armenia, Mesopotamia e Assiria, l'Impero raggiunse la sua massima estensione (117). Le conquiste orientali di Traiano furono però effimere, dato che vennero abbandonate dal successore Adriano (118); parte dei territori perduti vennero poi riconquistati nelle successive guerre romano-partiche. Lo sviluppo economico e la coesione politica ed ideale, raggiunta anche per l'adesione delle classi colte ellenistiche, che contraddistinsero il secondo secolo, non devono, comunque, trarre in inganno, in quanto da lì a poco l'impero cominciò a mostrare i primi sintomi della decadenza.
Quanto all'Italia, il suo posto nell'impero, nel secondo secolo, cominciò a perdere la sua preponderanza, a causa della romanizzazione delle province, e in parte dell'integrazione delle loro élite in seno agli ordini equestri e senatoriali. Il secondo secolo vide l'impero governato da imperatori provenienti dalle province e discendenti da antichi coloni italici: Traiano, Adriano e Marco Aurelio originari della Spagna, Antonino Pio della Gallia Narbonese. Fin dai primi anni del secolo, Traiano cercò di regolamentare la presenza dei senatori in Italia, obbligandoli a possedere un terzo delle loro terre in Italia; secondo Plinio il Giovane (VI, 19) certi senatori provinciali abitavano in Italia difatti come se fossero in vacanza, senza curarsi della penisola. La misura ebbe solamente un effetto limitato, di rialzare momentaneamente i prezzi delle proprietà, che stavano decadendo, e fu reiterata da Marco Aurelio ma in un'inferiore misura, un quarto delle terre.
Altri fattori che assicuravano la sua preminenza sull'impero subirono una flessione, cominciata nel I secolo, che durò tutto il secolo. Le legioni oramai stanziate stabilmente sul limes romano, nelle province lontane, regionalizzarono poco a poco il loro reclutamento, soprattutto a partire da Adriano. Per molto tempo queste osservazioni hanno fatto ritenere vari studiosi che l'Italia romana nel II secolo fosse in declino, toccata da una grave crisi economica, spopolamento e infine incapace di reggere la concorrenza delle province. Altri hanno interpretato tuttavia le numerose importazioni di materie prime che venivano delle province non come il segno di un declino dell'Italia ma piuttosto come la conseguenza della misura sproporzionata del mercato romano-italico, foraggiato dalle imposte e dalle retribuzioni ai funzionari, o del fatto che certi trasporti marittimi a lunga distanza fossero più economici dei trasporti terrestri a media distanza. L'Italia da sola non poteva produrre abbastanza da nutrire Roma col suo milione di abitanti, tanto più che la coltivazione del grano era poco remunerativa rispetto all'olivo e alla vite, le importazioni massicce non bilanciate dalle esportazioni rendono conto di un declino.
Un passo in avanti verso la parificazione dell'Italia con le province venne compiuto da Adriano, quando assegnò l'Italia a quattro consolari portanti il titolo di legati propretori, titolo utilizzato per i governatori di provincia. Il moto di protesta sollevato nel senato, rappresentante dei vari municipi d'Italia, lesi nella loro autonomia fino ad allora garantita, fece sì che la misura fosse annullata dal suo successore. La soluzione di Adriano rispondeva tuttavia ad una reale esigenza: le regioni dell'Italia avevano bisogno di un'amministrazione più gerarchizzata, in particolare nel campo della giustizia civile. Tanto che Marco Aurelio creò egli stesso nel 165 i giuridici ( iuridici ) che esercitavano nei distretti. A ben guardare il secondo secolo fu per l'Italia un secolo di transizione, di indietreggiamento della sua preminenza, ma non il declino che la storiografia ha letto fino agli anni settanta, appoggiandosi tra altri sulle tesi di M. Rostovtseff. Il vero declino sarebbe arrivato dopo. I prodromi della crisi che investì l'impero romano nel III secolo iniziarono a farsi sentire soprattutto con la successione al trono di Commodo (180-192). Il figlio di Marco Aurelio incrinò l'equilibrio istituzionale raggiunto e con il suo atteggiamento dispotico favorì il malcontento delle province e dell'aristocrazia. Questo malcontento generale fu la causa del suo assassinio nel 192. Con lui cessava l'era degli Antonini.


I quattro tetrarchi.[modifica] La crisi del III secolo (192-284)Tra la fine del II e l'inizio del III secolo l'Italia romana, in coincidenza con l'inizio del declino dell'impero, perse man mano i suoi privilegi di territorio non provinciale fino a venire parificata alle province. Intanto l'assassinio di Commodo diede il via ad una breve guerra civile tra tre pretendenti al trono (tutti nominati all'esercito), che vide la vittoria di Settimio Severo, che diede inizio alla dinastia dei Severi.[25] Nel corso del suo regno, Settimio Severo (193-211) aumentò i poteri all'esercito e per questo viene visto da alcuni storici come uno degli artefici della rovina dell'impero.[25]
Alla sua morte (211) gli succedettero i figli Caracalla e Geta; l'ultimo dei due venne però fatto uccidere dal primo.[26] Nel 212 Caracalla concesse la cittadinanza, finora concessa salvo alcune eccezioni solo agli italici, a tutti gli abitanti dell'Impero, segnando un ulteriore passo in avanti verso la parificazione con le province. Il suo regno e quello dei suoi successori (Eliogabalo e Alessandro Severo) fu caratterizzato da lotte intestine[26], che nel 235 portarono, con l'uccisione di Alessandro Severo ad opera del suo esercito, all'estinzione della dinastia dei Severi e all'inizio dell'anarchia militare.

Il periodo cosiddetto dell'anarchia militare durò dal 235 al 284 e fu caratterizzato dagli assalti dei barbari che premevano sul limes, che costrinsero i Romani ad abbandonare la Dacia e gli Agri Decumati (in Germania), e dalla crescente importanza dell'esercito, che spesso era fonte di disordini interni, con numerose rivolte e nomine di usurpatori: molti imperatori nel corso del III secolo morirono di morte violenta, per mano dell'esercito.

[modifica] Basso Impero (284-395)La crisi del III secolo venne in qualche modo frenata dall'imperatore Diocleziano istituendo la tetrarchia, un regime collegiale di due Augusti e due Cesari che amministravano raggruppamenti distinti di province dell'Impero, accresciute in numero e riunite in diocesi; i Cesari alla morte o all'abdicazione degli Augusti sarebbero diventati a loro volta Augusti, designando altri due Cesari. In questa circostanza l'Italia venne parificata alle altre province diventando una diocesi a sua volta suddivisa in province, corrispondenti grossomodo alle regioni augustee. Diocleziano, inoltre, per contrastare meglio le invasioni, decise di togliere a Roma il rango di capitale preferendole città molto più vicine ai confini minacciati (Milano, Nicomedia, Treviri, Sirmio).

La riforma tetrarchica di Diocleziano non risolse però nei fatti il problema della successione, dato che alla sua abdicazione (305) scoppiò una guerra civile tra i vari Cesari e Augusti, che terminò solo nel 324 con la vittoria di Costantino I. Quest'ultimo (imperatore dal 306 al 337) continuò la politica di Diocleziano, spostando la capitale orientale dell'impero da Nicomedia a Bisanzio, da lui ridenominata Costantinopoli (330). Sempre Costantino pose fine con l'Editto di Milano (313) alle persecuzioni contro i cristiani; il cristianesimo da qui in poi assunse sempre maggiore importanza per l'impero e, dopo un tentativo da parte dell'imperatore Giuliano (360-363) di restaurare il paganesimo, sotto il regno di Teodosio I (379-395) il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'Impero (380). L'Italia, pur perdendo sempre più importanza, rimaneva comunque una delle regioni più importanti dell'Occidente romano, perlomeno dal punto di vista religioso (il Papa risiedeva a Roma). La Chiesa acquisì man mano un'importanza sempre più incisiva fino a influire sulle sorti stesse dell'Impero (si pensi a Papa Leone che persuase l'unno Attila a ritirarsi dall'Italia). Nel 395, alla morte di Teodosio, l'Impero si trovò definitivamente suddiviso in un Impero d'Occidente (capitale Milano, poi Ravenna) e in un Impero d'Oriente (capitale Costantinopoli).


Deposizione di Romolo Augusto.[modifica] L'Impero romano d'Occidente (395-476) Per approfondire, vedi le voci Caduta dell'Impero romano d'Occidente e Caduta dell'Impero romano d'Occidente (storiografia).

Mentre l'Impero romano d'Oriente riuscì a sopravvivere per un altro millennio, la parte occidentale crollò in poco meno di un secolo. I motivi del crollo furono molteplici: invasioni barbariche, crescente debolezza interna dell'Impero (incapace di opporsi alle invasioni), la divisione dell'Impero in due parti, la crescente debolezza dell'esercito romano, l'influsso del cristianesimo, che con il suo pacifismo attenuò lo spirito guerriero dei Romani e con la lotta alle eresie li divise, l'integrazione dei barbari nell'Impero ecc.[27] Nel corso del V secolo, a partire dal 406, numerose popolazioni barbariche sfondarono il limes dell'Impero e dilagarono nelle province galliche e ispaniche, costringendo i Romani a riconoscerli come foederati (cioè truppe mercenarie dell'esercito romano che avevano il permesso di stanziarsi in alcune province dell'Impero in cambio del loro servizio). I foederati tuttavia si svincolarono sempre di più dall'autorità centrale, andando a costituire dei veri e propri regni romano-barbarici, solo nominalmente facenti parte dell'Impero. Neanche l'Italia era al sicuro dai Barbari: il sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti di Alarico I venne vista dai contemporanei come il segno imminente della fine del mondo. A peggiorare le cose contribuì inoltre la disunione tra i Romani: il comes d'Africa Bonifacio, nominato nemico pubblico da Galla Placidia, per difendersi invitò i Vandali in Africa, che nel giro di un decennio la strapparono all'Impero (429-439), grazie anche all'appoggio delle tribù berbere e della setta eretica dei Donatisti. I Vandali costruirono una flotta e in breve tempo occuparono la Sicilia, la Sardegna e le Isole Baleari, riuscendo anche nell'impresa di saccheggiare Roma (455).
In breve, a parte una parte della Gallia e della Dalmazia, l'Impero si era ridotto alla penisola italica. Tuttavia anche là l'influenza dei barbari si fece sentire e minò la già traballante autorità degli Imperatori: nell'ultimo ventennio di vita dell'Impero esso era governato da imperatori fantoccio manovrati da dietro le quinte da generali di origini barbariche (Ricimero (461-472), Gundobaldo (472-474), Flavio Oreste (475-476)), ormai i veri padroni di Roma. L'ultimo di questi generali, Oreste, dopo aver detronizzato l'Imperatore legittimo Giulio Nepote, pose sul trono il figlioletto Romolo Augusto; un anno dopo tuttavia il rifiuto da parte di Oreste di cedere alle truppe mercenarie barbariche un terzo dell'Italia causò la rivolta di quest'ultime, che, capeggiate da Odoacre, deposero l'ultimo imperatore Romolo Augusto, causando la caduta formale dell'Impero. Infatti Odoacre decise di non nominarsi Imperatore romano ma semplicemente Re d'Italia. Si noti il fatto che, per ironia della sorte, l'ultimo imperatore d'Occidente si chiamasse Romolo Augusto, cioè i nomi del fondatore della Città Eterna e del primo Imperatore romano.

[modifica] L'Alto Medioevo Per approfondire, vedi la voce Italia medievale.


Giustiniano riuscì a riannettere l'Italia all'Impero romano grazie alle gesta militari di Belisario e Narsete.[modifica] Eruli, Goti e Bizantini (476-568) Per approfondire, vedi la voce Guerra gotica (535-553).

Deposto Romolo Augusto, Odoacre governò l'Italia per 17 anni come rex gentium – una formula del tutto nuova – teoricamente alle dipendenze di Zenone, imperatore d'Oriente. Si servì del personale amministrativo romano, lasciando libertà di culto ai cristiani e combatté con successo i Vandali strappando loro la Sicilia. Ma nel 489 Zenone allontanò gli Ostrogoti dal basso Danubio inviandoli in Italia affinché rovesciassero Odoacre e si sostituissero agli Eruli nel governo dell'Italia. Dopo cinque anni di guerra, il re goto Teodorico riuscì ad uccidere Odoacre e a impadronirsi del trono. Teodorico, che aveva vissuto a lungo a Bisanzio, garantì pace e prosperità all'Italia, affidando le magistrature civili ai Romani e l'esercito ai Goti; l'autorità dei magistrati romani era però limitata da funzionari goti detti comites. Nonostante fosse ariano, si mostrò tollerante con i Cattolici, anche se negli ultimi anni di regno reagì alla decisione dell'Imperatore Giustino di bandire dall'Impero l'arianesimo lanciando una serie di persecuzioni che ebbero tra le sue vittime il filosofo Severino Boezio, condannato a morte. Gli succedette Atalarico (526-534).
Nel 535 il nuovo e ambizioso imperatore d'Oriente Giustiniano (527-565) prese di mira la penisola nel suo tentativo di ricomporre l'unità dell'impero romano. Da lì iniziò la lunga guerra gotica, che si protrasse per oltre vent'anni, portando ulteriore devastazione dopo le invasioni barbariche. Durante questa guerra i Bizantini, alla testa dei generali Belisario e Narsete, conquistarono la Dalmazia e l'Italia, nonostante la strenua resistenza del re goto Totila (541-552). L'Italia dopo la guerra era devastata: Roma dopo quattro assedi consecutivi era ridotta a non più di 30.000 abitanti e la situazione già grave fu peggiorata da una pestilenza. La Prammatica Sanzione promulgata da Giustiniano nel 554 (che tra le altre cose prometteva fondi per la ricostruzione) non riuscì a far tornare l'Italia una terra prospera e soli quattordici anni dopo una nuova invasione di un popolo germanico toccò l'Italia intera: i Longobardi.


L'Italia tra il 568 e il 774[modifica] I Longobardi, il Ducato romano e i Bizantini (568-774) Per approfondire, vedi le voci Esarcato d'Italia, Regno longobardo e Ducato romano.

Nel 568 l'Italia settentrionale venne invasa dai Longobardi, una tribù germanica stanziata in Pannonia, ma che abbandonò la terra sotto la pressione degli Avari. In pochi anni i Longobardi sottomisero tutto il nord Italia (tranne le zone costiere del Veneto e della Liguria), conquistando anche la Toscana e buona parte del centro-sud (che costituì i ducati semi-indipendenti di Spoleto e Benevento). I Longobardi erano ariani e nei primi tempi esercitarono un brutale diritto di conquista sui Romanici sottomessi, apportando devastazioni non inferiori alla guerra gotica.[28] La penisola era frazionata in due zone di influenza: longobarda (regno longobardo suddiviso in Langobardia Maior e Langobardia Minor) e bizantina (esarcato d'Italia, costituito intorno al 584), con il Ducato romano formalmente in mano bizantina ma governato con una certa autonomia (comunque non totale) dal Papa.
I primi due re, Alboino (? -572) e Clefi (572-574) morirono assassinati. Seguirono dieci anni di anarchia, con il regno longobardo senza un re e frammentato in 35 ducati indipendenti fra loro.[29] Tentò di approfittarne l'Imperatore bizantino Maurizio, alleato con i Franchi.[30] I Longobardi tuttavia, vista la minaccia dei Franchi, decisero di porre fine all'anarchia eleggendo re Autari (584-590), che riuscì a respingere le incursioni franche. I successori di Autari, Agilulfo (590-616) e Rotari (636-652), espansero ulteriormente il regno strappando ai Bizantini l'Emilia, la Liguria e il Veneto interno. In breve dovettero cercare anch'essi una forma di dominio più organizzata: arrivarono le leggi scritte (Editto di Rotari, 643), dei funzionari regi con compiti di giustizia e supervisione (gastaldi), e, nel 603, l'inizio della conversione al cattolicesimo per opera della regina Teodolinda dopo che un primo tentativo di conversione per opera del papa Gregorio Magno non aveva avuto successo.
Nel frattempo i papi entrarono in contrasto con Bisanzio per la questione del monotelismo, una formula teologica compromissoria ideata dagli Imperatori per accontentare sia i cattolici che i monofisiti. Con un editto del 648 (Typos) Costante II impose il monotelismo e fece deportare il papa Martino I in quanto questi non l'accettava.[31] Nel 680, per opera dell'Imperatore Costantino IV, il monotelismo venne condannato come eresia e i rapporti tra pontefici e imperatori migliorarono. Nel 726, tuttavia, iniziò l'iconoclastia, la lotta alle immagini, da parte dell'imperatore Leone III,[32]. Di fronte all'opposizione del papa, Leone ordinò il suo assassinio ma il crimine fallì per l'opposizione delle truppe fedeli al Papa che si rivoltarono. Intanto il re longobardo Liutprando (713-744), approfittando dei dissensi tra Bisanzio e la Chiesa Romana, fece nuove conquiste che furono aumentate dal suo successore Astolfo (749-756) che allontanò i Bizantini da Ravenna (751) e si accinse ad unificare l'Italia conquistando il Lazio.[33] Ma il papa Stefano II (752-757) chiamò in suo soccorso il re dei Franchi Pipino il Breve, che sconfisse Astolfo e donò le terre di Ravenna (l'esarcato) al papa. Nacque così lo Stato della Chiesa[34] e il potere temporale dei Papi, che venne legittimato tramite la falsa Donazione di Costantino. Nel 771 papa Stefano III invocò l'intervento del nuovo re dei Franchi, Carlo Magno, contro Desiderio. La guerra tra Franchi e Longobardi si concluse nel 774 con la vittoria di Carlo, che assunse il titolo di Rex Francorum et Langobardorum ("Re dei Franchi e dei Longobardi") e unificò la parte dell'Italia che aveva conquistato (sostanzialmente la Langobardia Maior) al suo Regno dei Franchi.


Carlo Magno in un dipinto di Albrecht Dürer.[modifica] L’Italia divisa tra Carolingi, Bizantini e Arabi (774-1002) Per approfondire, vedi le voci Impero carolingio, Regnum Italiae e Catapanato d'Italia.

Dopo la definitiva sconfitta dei Longobardi, il papa riacquistò una piena autonomia, garantita da Carlo stesso, mentre a sud, nella Langobardia Minor, sopravvisse in piena indipendenza il longobardo Ducato di Benevento, presto elevato al rango di principato. Nel 781 Carlo affidò l'Italia, sotto la sua tutela, al figlio Pipino. Il giovane sovrano avviò varie campagne di espansione verso nord, ma morì nell'810. Il Papato, ormai distaccato dall'Impero d’Oriente, decise di incoronare Carlo Magno, suo benefattore, «Imperatore dei Romani» (800), considerando vacante il trono di Costantinopoli perché retto da una donna, Irene. Nacque così l'Impero carolingio.
Nello stesso periodo vari domini dell’Impero bizantino iniziarono ad acquisire sempre maggiore autonomia: Venezia,[35] la Sardegna e i ducati campani si emanciparono man mano da Bisanzio, eleggendo governatori locali e senza svolte violente.[36] Nel IX secolo gli Arabi iniziarono a sferrare varie incursioni nel Mediterraneo occidentale, conquistando gradualmente (tra 827 e 902) la Sicilia e attaccando più volte i territori bizantini nell’Italia meridionale.[37] Tuttavia, sotto la dinastia macedone (867-1056), il catapanato bizantino riuscì a recuperare terreno in Puglia, Basilicata e Calabria, raggiungendo il massimo della sua potenza sotto il governo di Basilio Boianne. Per quanto riguarda il regno d'Italia all'interno dell’Impero carolingio, il titolo di re d'Italia venne detenuto inizialmente dai sacri romani imperatori (Lotario I, Ludovico II, Carlo il Calvo, Carlo III il Grosso), ma con la dissoluzione dell'Impero (887) i territori del Regnum Italiae finirono in una sorta di anarchia feudale: tra l'888 e il 924 il titolo di re, al quale tuttavia non corrispondevano reali poteri, fu conteso fra numerosi feudatari locali, sia di origine italiana sia provenienti da regioni limitrofe: Berengario del Friuli, Guido da Spoleto, Lamberto da Spoleto, Arnolfo di Carinzia, Ludovico III il Cieco e Rodolfo II di Borgogna. Anche il papato fu coinvolto in queste lotte, mostrando spesso un atteggiamento poco coerente.
Un momento di maggior solidità del Regnum si ebbe con il governo di Ugo di Provenza (926-946), il quale, per risolvere il problema della successione, associò subito al trono suo figlio Lotario II. Questi però scomparve già nel 950, per cui gli successe il marchese d'Ivrea Berengario II, che, temendo intrighi, fece perseguire la vedova di Lotario II, Adelaide. Ella allora si rivolse all'imperatore tedesco Ottone I, chiedendogli di intervenire contro l'"usurpatore" Berengario. Ottone colse il pretesto e scese in Italia, dove sconfisse Berengario, entrò nella capitale Pavia, sposò Adelaide e si cinse della corona italiana nel 951, legandola a quella di Germania. Ottone I ristabilì la supremazia sul Papa, la cui elezione per essere valida doveva ricevere la ratifica imperiale, e tentò di strappare l'Italia meridionale ai Bizantini, riuscendo solo ad ottenere un matrimonio tra suo figlio e la principessa bizantina Teofano. Il successore Ottone II non riuscì a controllare l'elezione papale e perì di malaria dopo aver subito una sconfitta contro gli Arabi in Calabria. Gli succedette Ottone III che, per restaurare l'Impero, pose la sede imperiale a Roma ma, a causa dell'opposizione della nobiltà romana, fu da essa scacciato. Perì nel 1002.

[modifica] Basso Medioevo (1000-1492)
L'Italia nell'anno 1000[modifica] La Chiesa riformata, la lotta per le investiture, la prima crociata (1000-1100) Per approfondire, vedi le voci Riforma gregoriana, Lotta per le investiture e Prima crociata.

Nell'XI secolo l'ufficio del papa era in piena decadenza, conteso fra le sanguinarie famiglie romane e i tentativi moderati dell'imperatore Enrico III, il quale tra il 1046 al 1057 pose sotto il suo controllo il papato nominando quattro papi, tutti tedeschi. Ma si rivelò altrettanto difficile governare le città italiane: Pavia si ribellò per ben due volte (1004 e 1024) a Enrico II (1002-1024), l'ultimo esponente della casa dei sassoni. Il suo successore, Corrado II di Franconia (1027-1039), ricevette la richiesta di aiuto dell'arcivescovo di Milano Ariberto d'Intimiano, contro cui si erano rivoltati i valvassori della Lombardia (che dipendevano da Ariberto). Corrado però, per contrastare la grande feudalità, concesse anche ai feudatari minori quello che il Capitolare di Quierzy aveva concesso ai maggiori: l'ereditarietà (Constitutio de feudis, 1037).
In questo periodo si levò alta la protesta contro la corruzione e l'abiezione del papato. Se da una parte ci furono movimenti religiosi di stampo pauperistico ed eremita - come quello di San Romualdo - dall'altra ebbe molta fortuna il nuovo monachesimo cluniacense, che si nutriva solo delle donazioni dei feudatari, ma che proponeva uomini di grande autorità morale, di spessa cultura e abili capacità politiche e amministrative. Più tardi nacquero l'ordine dei monaci certosini e quello dei cistercensi, che puntavano l'attenzione alla vita solitaria e contemplativa, e che si diffusero a macchia d'olio. I riformatori (tra cui il movimento popolare dei Patari) desideravano una Chiesa non corrotta e più simile a quella delle origini e biasimavano in particolare la simonia (compravendita delle cariche) e il nicolaismo (Concubinato), che erano molto diffuse tra il clero. Nel 1058 divenne papa Niccolò II, che condannò con un concilio del 1059 nicolaisti e simoniaci, riuscendo anche a sottrarre il papato dal controllo dell'Imperatore. La lotta contro la corruzione continuò sotto i pontefici Alessandro II, Gregorio VII e Innocenzo III.
La posizione ambigua dei vescovi-conti, vassalli dell'imperatore che avevano anche cariche religiose, portò il papato e l'impero a scontrarsi su chi li avrebbe dovuti nominare (lotta per le investiture). Il Papato reclamava per sè il diritto di nominarli, in quanto vescovi, mentre l'impero reclamava lo stesso diritto, in quanto vassalli. Nel 1122 si arrivò al compromesso di Worms, fra il papa Callisto II ed Enrico V, in cui ognuna delle due parti rinunciava ad un pezzo del suo potere. Nel frattempo Papa Urbano II (1088-1099), di fronte anche alle richieste di aiuto dell'Imperatore bizantino Alessio I Comneno (il cui Impero era minacciato dai Turchi, che avevano conquistato tutta l'Anatolia bizantina), stimolò i cavalieri occidentali affinché liberassero la Terra Santa dagli Infedeli islamici. I cavalieri crociati, dopo aver conquistato e consegnato all'Imperatore di Bisanzio parte dell'Anatolia, crearono vari regni crociati in Siria e in Palestina e infine conquistarono Gerusalemme (1099).

[modifica] I Comuni, il Regno di Sicilia (1100-1250) Per approfondire, vedi le voci Comune medievale, Regno di Sicilia e Storia della Sardegna dei Giudicati.

A causa dell'assenza del potere imperiale, già a metà del XI secolo le famiglie più potenti delle città italiane del nord e del centro estromisero i conti e i vescovi dall'esercizio del potere. Esse si riunivano in associazioni - communes - che governavano su ogni aspetto della vita pubblica cittadina usurpando prerogative dell'Imperatore. Il potere esecutivo era detenuto da magistrati detti consoli, scelti tra l'aristocrazia, il ceto più preminente. Ad essi si affiancavano delle assemblee ("consigli"). Per porre fine alle continue lotte interne, fu però necessario introdurre una nuova carica esecutiva, il podestà, scelto tra i forestieri affinché fosse un arbitro imparziale. Da ricordare fra queste città le repubbliche marinare, dedite ai commerci: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia.
La crescente emancipazione dei comuni fu agevolata dalla debolezza dell'Impero, provocata dalle lotte per il trono imperiale tra le dinastie dei Welfen e Hohenstaufen, noti in Italia come Guelfi e Ghibellini. Questi ultimi erano fautori della totale indipendenza del potere imperiale dal papa, mentre i guelfi erano più possibilisti. Le lotte per il potere terminarono solo con l'ascesa dell'Imperatore Federico I Barbarossa (1155-1190), il quale combatté energicamente contro papato, feudatari e comuni per ripristinare su di essi la propria autorità: in ambito ecclesiastico oppose a Papa Alessandro III (1159-1181) un antipapa (e il Pontefice reagì scomunicandolo) mentre per contrastare l'autonomia dei comuni li attaccò, distruggendo Milano nel 1162. I comuni reagirono formando una Lega Lombarda, e grazie alla loro unione sconfissero l'Imperatore a Legnano (1176) costringendolo con la pace di Costanza (1183) a riconoscere l'autonomia dei comuni.
Contemporaneamente al sud si andava formando il Regno di Sicilia. I Normanni, popolo di avventurieri provenienti dalla Normandia, arrivarono nel XI secolo nel sud Italia. Nel 1059 papa Niccolò II riconobbe i territori normanni e nominò Roberto il Guiscardo duca di Puglia e di Sicilia, nonostante l'isola fosse allora ancora sotto il controllo degli Arabi. Tra il 1061 e il 1091 Ruggero d'Altavilla, fratello di Roberto, strappò la Sicilia agli Arabi. Nel 1071, infine, gli ultimi baluardi bizantini, Brindisi e Bari, caddero in mano normanna. Nel 1113 Ruggero II riuscì a riunire nelle sue mani tutti i possedimenti normanni creando uno stato fortemente accentrato simile per molti versi ai moderni stati nazionali. Nel 1130 nacque il Regno di Sicilia, per volontà dell'antipapa Anacleto II espressa al concilio di Melfi. Il potere dei Normanni nell'Italia meridionale ebbe termine tra il 1194 (morte di Tancredi di Lecce) e il 1198, quando Enrico VI di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero (morto nel 1197), in virtù del suo matrimonio con Costanza d'Altavilla (morta nel 1198), unì alla corona imperiale quella di re di Sicilia. Il regno subì una svolta accentratrice sotto la direzione di Federico II (1211-1250), il quale fu scomunicato tre volte, partecipò alla sesta crociata (da lui stessa indetta e a lungo rimandata), conquistò Gerusalemme senza spargimenti di sangue ma attraverso trattative con il sultano d'Egitto al-Malik al-Kamil, e infine tentò nuovamente di estendere la sua egemonia sui comuni dell'Italia del nord, in una lunga guerra senza successo. In questo periodo si affacciano nel panorama religioso varie eresie, che infine vengono controllate dall'istituzione del tribunale dell'Inquisizione.
Nello stesso tempo in Sardegna nascono e muoiono regni, comuni e signorie, ciascuno con una differente storia e cultura, ma tutti ben inseriti nel contesto internazionale del Medioevo, con regnanti che parteciparono alle crociate, che presero parte alla lotta tra impero e papato e che furono fautori del monachesimo.

[modifica] La rinascita culturale nei Comuni « Dall'XI secolo i comuni italici erano giunti al fiore del benessere economico e civile [...] e quando, dopo la morte dell'imperatore Federico II e il tramonto della casa di Svevia, ebbe termine la terribile lotta fra Impero e Papato per l'egemonia politica universale, quando l'Italia si sentì libera dal dominio tedesco, il suo sentimento nazionale divampò in un grande incendio spirituale, politico-sociale, artistico. Questa fu la fonte spirituale del Rinascimento. L'antico pensiero di Roma, mai scomparso, vi fece affluire nuova e maggiore forza. Cola di Rienzo, ispirato all'idea politica di Dante, ma oltrepassandola, proclamò, profeta di un lontano avvenire, la grande esigenza nazionale della Rinascita di Roma. E su questa base l'esigenza dell'unità d'Italia. »
(Konrad Burdach, Dal Medioevo alla Riforma, tratto dalla Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VI, pp. 213-214.)

Sul piano culturale, sullo sfondo della rivalità tra Guelfi e Ghibellini, si era andato sempre più ridestando un sentimento nazionale di avversione alle ingerenze tedesche, animato dal ricordo dell'antica grandezza di Roma, e sostenuto dal fatto che i Comuni, la cui vita civile ruotava attorno all'edificio della Cattedrale, trovavano nell'identità spirituale rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza.[38]


Durante il XIII e il XIV secolo questa rinascita culturale, sorta parallelamente a una generale ripresa economica, portò alla formazione della lingua italiana volgare. Tra coloro che contribuirono a una tale rinascita ricordiamo Iacopone da Todi che scrisse delle famose Laude, e soprattutto Francesco Petrarca, che affiancò a varie opere scritte in latino alcune importanti composizioni in volgare italiano tra cui il Canzoniere. Petrarca in particolare fu promotore di una riscoperta del classicismo che sarà proseguita dagli intellettuali rinascimentali.
In quegli anni si sviluppò a Firenze una nuova corrente culturale: il Dolce Stil Novo, che rappresentava per certi versi la continuazione e l'evoluzione del vecchio Amor cortese dei romanzi cavallereschi. I principali esponenti di tale corrente furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, e soprattutto Dante Alighieri che rivoluzionò in modo profondo la letteratura italiana con opere come la Vita Nova e la Divina Commedia, universalmente riconosciuta come uno dei capolavori letterari di ogni tempo e ancora oggi studiata approfonditamente nelle scuole italiane. Da ricordare anche il contributo del fiorentino Giovanni Boccaccio, autore del Decameron, uno dei capolavori della letteratura italiana. In questa opera racconta di alcuni giovani che per fuggire alla peste si rifugiano nelle campagne vicino Firenze, e delle cento storie, molto spesso a carattere faceto, da raccontare per passare il tempo. Anche il Decameron, al pari delle altre sopra indicate, contribuì alla nascita di un volgare italiano, o più propriamente, di un dialetto fiorentino che sarebbe poi diventato la base dell'attuale lingua italiana. Forte è anche la fioritura dell'arte, con artisti come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Arnolfo di Cambio e Jacopo della Quercia. Anche qui Firenze (affiancata comunque dalle altre città toscane) si dimostra un centro culturale attivo oltre che un centro politico importante.

[modifica] L'affermazione delle signorie nel nord Italia (1259-1328) Per approfondire, vedi la voce Signoria cittadina.

Le Signorie furono l'evoluzione istituzionale di molti comuni urbani dell'Italia centro-settentrionale attorno alla metà del XIII secolo. Esse si svilupparono a partire dal conferimento della carica di podestà o di capitano del popolo ai capi delle famiglie preminenti, con poteri eccezionali e durata spesso vitalizia. In tal modo si rispondeva all'esigenza di un governo stabile e forte che ponesse termine all'endemica instabilità istituzionale ed ai violenti conflitti politici e sociali, soprattutto tra magnati e popolari.[39] I signori più forti e ricchi riuscirono quindi ad ottenere la facoltà di designare il proprio successore, dando così inizio a dinastie signorili attraverso la legittimazione dell'imperatore, che concedeva il titolo di Duca (spesso dietro forti compensi da parte dei Signori). Rimanevano tuttavia funzionanti le istituzioni comunali, sebbene spesso si limitassero a ratificare le decisioni del Signore.


Le più importanti furono quelle dei De Medici, Gonzaga e Sforza. Ma anche quelle dei Della Torre, Visconti, Montefeltro, Estensi, Della Scala e Malatesta ebbero, in momenti diversi, notevole importanza.
Inizialmente le Signorie non erano istituzioni legittime ma si presentarono come "cripto-Signorie", cioè delle "Signorie nascoste", in quanto si aggiunsero alle istituzioni comunali senza mostrarsi apertamente e senza mostrare cambiata l'istituzione vigente. Con questa Signoria ancora in ombra (ma già forte) salirono al potere molti avventurieri, ma soprattutto famiglie di antica nobiltà feudale, che, dopo aver governato per una o due generazioni, decisero di legittimare il loro potere e di renderlo ereditario. Così ottennero nel XIV secolo il titolo di vicario imperiale e tra il XIV e il XV secolo i titoli di duca e marchese. L'assegnazione di questi titoli è indice della stabilizzazione dei poteri signorili e della debolezza crescente degli Imperatori tedeschi, che già dalla seconda metà del XIV secolo non riuscivano a controllare le regioni settentrionali, rendendo così possibile l'affermazione delle Signorie, che successivamente si evolsero in Principati con dinastie ereditarie; ciò avvenne quando i Signori, riconoscendo l'imperatore e pagando una quantità di denaro, vennero legittimati e riconosciuti come autorità da sudditi e principi.

[modifica] Il declino del Papato e dell'Impero (1302-1414)L'importanza dell'impero nel mondo politico medioevale, e in particolare in quello italiano, era notevolmente calata dopo la sconfitta di Federico Barbarossa alla battaglia di Legnano nel 1176 e quella di Manfredi nel 1266 a Benevento, che avevano segnato la fine del potere politico dell'impero rispettivamente nel Nord e nel Sud Italia.
Enrico VII di Lussemburgo tentò dopo la sua ascesa al soglio imperiale nel 1308 di restaurare l'antico potere imperiale in Italia trovando però la fiera opposizione del libero comune di Firenze, di papa Clemente V e di Roberto d'Angiò. La sua discesa in Italia con la conseguente incoronazione come Imperatore del Sacro Romano Impero (titolo vacante dalla morte di Federico II, durante il cosiddetto grande interregno) rimarrà quindi un gesto puramente simbolico. Nel 1313 muore mentre si trova ancora in territorio italiano deludendo così coloro che avevano sperato in una unificazione del suolo italiano sotto la sua bandiera. Anche il Papato, l'altra grande istituzione medioevale, attraversa un periodo di crisi. Entrambe queste istituzioni si vedono costrette ad accettare la crescente influenza degli Stati nazionali, supportati dalla sempre più potente classe borghese, e la crisi del sistema feudale. Bonifacio VIII asceso al soglio pontificio nel 1296, cercò di restaurare il potere papale scontrandosi però con Filippo IV il Bello, re di Francia. Filippo scese in Italia e, con un gesto impensabile qualche secolo prima, imprigionò il papa ad Anagni (1303) dove sembra che abbia ricevuto addirittura uno schiaffo (Schiaffo di Anagni). Nel 1305, Clemente V spostò la sede papale ad Avignone dove restò per i successivi settanta anni. I papi avignonesi restarono succubi dei re di Francia e non mancarono di destare scandalo tra i loro contemporanei. Nel 1377 avvenne lo Scisma d'occidente in seguito al ritorno a Roma di papa Gregorio XI: alla sua morte infatti i cardinali romani elessero al soglio pontifico Urbano VI mentre i cardinali francesi Clemente VII. Lo scisma si complicò ulteriormente dopo il Concilio di Pisa (1409) che, nel tentativo di unificare di nuovo la cristianità, elesse un altro papa. L'Europa rimase divisa tra i seguaci dei due (poi tre) "papi" fino alla definitiva fine dello scisma avvenuta col Concilio di Costanza (1414).
Lo scisma aveva mostrato la debolezza di un'istituzione che era stata un punto di riferimento fondamentale nei secoli passati. Così mentre dal punto di vista culturale il papa perdeva un'egemonia quasi millenaria dal punto di vista politico la Cattività avignonese e lo Scisma favorirono il distacco definitivo del Ducato di Urbino, già iniziato sotto Guido da Montefeltro, e la nascita per breve tempo di una repubblica romana tra il 1347 e il 1354 guidata da Cola di Rienzo. Questi dopo essersi impadronito del potere tentò di organizzare una repubblica simile a quella romana ma alla fine della sua carriera sconfinò nel delirio e venne linciato dai suoi stessi concittadini che lo avevano sostenuto.


Alfonso I di Napoli[modifica] Il meridione tra Angioini e Aragonesi (1250-1442) Per approfondire, vedi le voci Regno di Napoli, Regno di Sicilia e Regno di Sardegna.

Il papa, approfittando della morte di Federico II, cercò di insediare al trono del Regno di Napoli Carlo I d'Angiò, fratello del re di Francia. Carlo trovò però l'opposizione di Manfredi, figlio di Federico II, che inizialmente ottenne una serie di successi, tanto che il partito ghibellino si affermò in molti comuni italiani, primo tra tutti Firenze: le milizie guelfe della città furono sconfitte a Montaperti (1260) dai Senesi, Ghibellini, aiutati dalle truppe dello stesso Manfredi. Costui fu tuttavia sconfitto pesantemente a Benevento da Carlo d'Angiò provocando un improvviso crollo del partito ghibellino in tutta Italia.
La dominazione angioina impose tasse esose e mise ai posti di comando numerosi baroni francesi, alienandosi presto le simpatie del popolo, che nel 1282 diede inizio a Palermo a una sanguinosa rivolta (Vespri siciliani). I rivoltosi chiamarono in loro aiuto Pietro III d'Aragona, che aveva sposato la figlia di Manfredi. Ebbe così inizio la cosiddetta Guerra del Vespro che si concluse soltanto nel 1302 con la Pace di Caltabellotta, in seguito alla quale la Sicilia sarebbe passata a un ramo cadetto della Casa d'Aragona. Il Regno di Napoli restò invece sotto la dominazione degli Angioini, che stanziarono a Napoli la sede del potere regio e conservarono nel nuovo regno l'assetto amministrativo di origine sveva, con giustizierati e universitates. Le ultime regalie del napoletano furono però perse, quali il diritto del sovrano di nominare degli amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti[40]. Con Roberto d'Angiò a Napoli fiorirono le scienze umanistiche, con l'istituzione di una scuola di teologi scolastici e la commissione di traduzioni dal greco, da Aristotele a Galeno, per la biblioteca di Napoli. Furono anche gli anni in cui fiorì la cultura greca di Calabria, grazie alla quale il neoplatonismo e la cultura ellenistica entrarono nella tradizione italiana, dal Petrarca a Pico della Mirandola.
Morto Roberto, seguirono anni di instabilità politica a causa di una guerra di successione fra Giovanna I di Napoli e Carlo di Durazzo, cui seguì il breve regno di Luigi II d'Angiò, subito detronizzato da Ladislao I, figlio di Giovanna. Sotto il regno di questi, il regno ritrovò stabilità e anzi riuscì ad espandersi su buona parte dell'Italia centrale ai danni dello Stato Pontificio e dei comuni toscani. Nel 1414 però Ladislao morì e il regno tornò presto nei confini originari. Gli succedette Giovanna II, l'ultima sovrana angioina nel napoletano, che non avendo avuto eredi diretti, adottò un aragonese come figlio, Alfonso V d'Aragona, diseredandolo poi del regno, in favore di Renato d'Angiò. Alla morte di costei Alfonso rivendicò il diritto di successione dichiarando guerra a Napoli. Col sostegno del ducato di Milano Alfonso si impadronì in breve tempo del trono di Napoli, che governò con il nome di Alfonso I di Napoli e col titolo di Rex Utriusquae Siciliae. Costui, come poi suo figlio Ferrante, contribuì ampiamente all'ammodernamento del territorio dominato sul modello economico aragonese, tramite il sostegno giuridico della transumanza, i fori boari, il contrasto dei privilegi feudali e l'adozione del napoletano come lingua di stato.

[modifica] Le lotte tra gli stati italiani (1412-1454)Nella prima metà del XV secolo si ebbe un lungo periodo di guerre che interessò l'intera penisola e fu segnato dai ripetuti tentativi degli Stati più forti di estendere la propria egemonia.
Il regno di Napoli fu scosso da una lunga crisi dinastica iniziata nel 1435 con la morte dell'ultima regina angioina, Giovanna II, e conclusasi solo nel 1442 con la vittoria di Alfonso V d'Aragona, che ebbe la meglio sul rivale Renato d'Angiò. L'avvento della dinastia aragonese dei Trastamara segnò anche la riunificazione de facto dei regni di Napoli e Sicilia e l'avvio di un periodo di stabilità dinastica destinato a durare fino alla fine del secolo.
Il dominio sui mari fu invece l'obiettivo che contrappose gli interessi delle antiche repubbliche marinare: estromessa Amalfi già nel XII secolo, lo scontro proseguì tra Pisa, Genova e Venezia. Genovesi e Pisani combatterono ripetutamente per il controllo del Tirreno, e nel 1406 Pisa fu conquistata da Firenze, perdendo definitivamente la propria autonomia politica. Agli inizi del secolo la contesa era dunque ridotta a un duello fra Genovesi e Veneziani. Per tutto il Quattrocento perdurò uno stato di conflittualità tra le due repubbliche senza battaglie decisive. La potenza di Genova andò affievolendosi nel corso del secolo e Venezia si affermò come padrona dei mari, raggiungendo il culmine della propria ascesa agli inizi del XVI secolo. Con la caduta dell'Impero bizantino (avvenuta nel 1453), l'altro grande rivale di Venezia, la Serenissima poté interessarsi ad una politica di espansione territoriale sulla terraferma che prese avvio proprio agli inizi del XV secolo.
Le iniziative militari veneziane entrarono in conflitto con gli interessi del ducato di Milano, impegnato a sua volta in una politica espansionistica guidata della famiglia Visconti. Nello scontro si inserì anche la repubblica di Firenze, minacciata dall'aggressività viscontea e alleatasi con i Veneziani. La Serenissima riportò una vittoria decisiva nella battaglia di Maclodio del 1427, assumendo una posizione egemone che allarmò i Fiorentini, i quali preferirono rompere l'alleanza e schierarsi dalla parte di Milano. La guerra si protrasse con operazioni di minore portata fino alla pace di Lodi del 1454.

[modifica] La Pace di Lodi e la politica dell'equilibrio (1454-1492)La Pace di Lodi, firmata nella città lombarda il 9 aprile 1454, mise fine allo scontro fra Venezia e Milano che durava dall'inizio del XV secolo[41]. Il trattato fu ratificato dai principali Stati regionali[42] (prima fra tutti Firenze, passata da tempo dalla parte di Milano).
L'Italia settentrionale risultava in pratica spartita fra i due Stati nemici, nonostante persistessero alcune potenze minori (i Savoia, la Repubblica di Genova, i Gonzaga e gli Estensi). In particolare, stabilì la successione di Francesco Sforza al Ducato di Milano, lo spostamento della frontiera tra i suddetti stati sul fiume Adda, l'apposizione di segnali confinari lungo l'intera demarcazione (alcune croci scolpite su roccia sono tuttora esistenti) e l'inizio di un'alleanza che culminò nell'adesione – in tempi diversi – alla Lega Italica. L'importanza della Pace di Lodi consiste nell'aver dato alla penisola un nuovo assetto politico-istituzionale che – limitando le ambizioni particolari dei vari Stati – assicurò per quarant'anni un sostanziale equilibrio territoriale e favorì di conseguenza lo sviluppo del Rinascimento italiano. A farsi garante di tale equilibrio politico sarà poi – nella seconda parte del Quattrocento – Lorenzo il Magnifico, attuando la sua famosa politica dell'equilibrio.

[modifica] Il Rinascimento italiano Per approfondire, vedi la voce Italia rinascimentale.

Il Rinascimento italiano è la fioritura di quella civiltà culturale ed artistica che, nata a Firenze e da lì diffondendosi in tutta Europa dalla metà del XIV secolo a tutto il XVI secolo, mira a riscoprire la cultura classica antica, per un verso depurandola da alcune forme della religiosità medioevale, per un altro integrandola nello stesso contesto cristiano del Medioevo, sulla scia della rinascita spirituale che si era avuta nel Duecento con le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi.[43]
I principali centri dell'Umanesimo-Rinascimento sono Firenze, Ferrara, Napoli,[44] Roma, Milano, Padova, e Urbino: a Firenze sotto l'egida di Lorenzo il Magnifico, nella città partenopea alla corte aragonese di Alfonso I, a Roma con il colto Enea Silvio Piccolomini, Pio II il papa umanista, e Leone X, a Padova con la prestigiosa Università, a Milano con Ludovico il Moro, a Ferrara con gli Estensi e ad Urbino nella raffinata corte di Federico da Montefeltro. Politicamente l'Umanesimo in Italia si accompagna alla trasformazione dei Comuni in Signorie essendo l'espressione della borghesia che ha consolidato il suo patrimonio e aspira al potere politico. Gli sviluppi dell'Umanesimo rientrano nella formazione delle monarchie nazionali in Europa.


L'Italia nel 1499[modifica] La sottomissione degli Stati italiani fra 1500 e 1700 Per approfondire, vedi la voce Guerre d'Italia del XVI secolo.

Il 1494 segna la fine della politica dell'equilibrio e l'inizio di quel lungo periodo di conflitti che va sotto il nome di guerre d'Italia. Secondo una fortunata formula storiografica, questa data coincide con la fine della libertà italiana: la Penisola cade sotto l'egemonia delle potenze straniere (prima la Francia, poi la Spagna e infine l'Austria), una soggezione dalla quale si libererà solo nel 1866 con gli esiti vittoriosi della terza guerra di indipendenza.

[modifica] La discesa di Carlo VIII in ItaliaLa riapertura delle ostilità dopo il quarantennio di pace seguito agli accordi di Lodi scaturì dall'iniziativa del re di Francia Carlo VIII, che discese in Italia alla testa di un esercito di 25.000 uomini con l'obiettivo di riconquistare il regno di Napoli, sul quale vantava diritti in virtù del legame dinastico con gli Angioini. La conquista del reame napoletano rappresentava per Carlo la premessa indispensabile per estendere il proprio controllo all'intera penisola e per affrontare direttamente la minaccia turca. La spedizione del re francese incontrò il favore di molti principi italiani, che intendevano approfittare della sua potenza per conseguire obiettivi propri: il duca di Milano Ludovico il Moro ottenne grazie all'appoggio di Carlo VIII la cacciata del nipote Gian Galeazzo Visconti, che insidiava il suo potere; a Firenze gli avversari dei Medici aprirono le porte della città ai Francesi costringendo alla fuga Piero il Fatuo e restaurando la repubblica sotto la guida di Savonarola. Anche i cardinali romani ostili ad Alessandro VI Borgia puntavano alla sua deposizione, ma il papa spagnolo scongiurò colpi di mano garantendo al re il passaggio attraverso i territori pontifici e offrendo suo figlio Cesare come guida in cambio del giuramento di fedeltà.
Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII entrò a Napoli, sostenuto da buona parte dei baroni del regno che si erano schierati dalla sua parte contro Ferdinando II d'Aragona. Ma la conquista non poté essere consolidata, vista l'avversione che la sua impresa aveva suscitato anche da parte di coloro che inizialmente l'avevano favorita: Milano, Venezia e il papa costituirono una lega antifrancese, alla quale diedero il proprio appoggio anche l'imperatore Massimiliano e la Spagna dei Re Cattolici. Anche se la lega non riuscì a ottenere una vittoria decisiva, con la Battaglia di Fornovo (luglio 1495) riuscì a costringere il sovrano a riparare in Francia. Le ostilità ripresero nel 1499 con la discesa in Italia di Luigi XII, successore di Carlo. Il nuovo sovrano conquistò il ducato di Milano in forza dei diritti ereditati dalla nonna Valentina Visconti e nel 1501 i Francesi occuparono Napoli, ma furono sconfitti dai rivali spagnoli nella Battaglia del Garigliano (1503). Fra il 1499 e il 1503 Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, conquistò un dominio a cavallo fra le Marche e la Romagna, grazie anche all'appoggio della Francia e a una politica violenta e spregiudicata. La morte del pontefice nell'agosto del 1503 travolse anche il fragile regno del figlio, che morì sotto le mura di Viana, in Navarra, nel 1507, combattendo a difesa del cognato Giovanni III d'Albret.


Carlo V in un ritratto di Tiziano[modifica] Carlo V e Francesco I Per approfondire, vedi la voce Rapporti tra Carlo V e Francesco I.

Con la formazione della Lega di Cambrai (1508), voluta dal papa Giulio II in funzione antiveneziana, i Francesi fecero ritorno in Italia, destando le preoccupazioni dei principi della penisola. Il pontefice costituì allora una Lega Santa che nel 1513 costrinse i Francesi alla ritirata. Le mire francesi sull'Italia furono ereditate nel 1515 da Francesco I di Valois, che fu protagonista insieme al rivale Carlo V di una lunga lotta per l'egemonia continentale che ebbe in Italia il suo principale teatro. Col trattato di Noyon del 1516 le due grandi contendenti riconoscevano le rispettive conquiste: alla Francia veniva confermato il possesso del Ducato di Milano, alla Spagna quello del Regno di Napoli. Ma l'accordo non bastò a spegnere le rivalità, che esplosero nuovamente nel 1519 con l'elezione a Sacro Romano Imperatore di Carlo V, già re di Spagna, Napoli e Sicilia. Nel 1521 le armate francesi scesero nuovamente in Italia con l'obiettivo di riconquistare il reame napoletano, ma furono sconfitte nelle battaglie della Bicocca, di Romagnano e di Pavia, durante la quale lo stesso Francesco I fu fatto prigioniero e condotto a Madrid per poi essere liberato solo dopo la cessione di Milano agli spagnoli (1525).


Francesco I di ValoisL'allarme per la crescente potenza degli Asburgo portò alla costituzione della Lega di Cognac, promossa dal papa Clemente VII e siglata dal sovrano francese insieme alle repubbliche di Venezia e Firenze. Un'alleanza fragile che non fu in grado di evitare il terribile sacco di Roma del maggio 1527 ad opera dei Lanzichenecchi, soldati imperiali di origine prevalentemente tedesca e fede luterana. Tale episodio suscitò orrore e costernazione in tutto il mondo cattolico e costrinse il papa, asserragliato in Castel Sant'Angelo, alla pace con l'imperatore, dal quale ottenne la restaurazione dei Medici a Firenze, dove si era costituita una repubblica (1527-1530). Il 5 agosto 1529 venne stipulata la pace di Cambrai, con la quale la Francia rinunciava alle mire sull'Italia mentre la Spagna vedeva riconosciuto il possesso di Napoli e Milano.


L'equilibrio fu nuovamente infranto nel 1542, con l'inizio di una nuova fase di conflitti franco-spagnoli in territorio italiano. Gli scontri ebbero esiti alterni, sanciti da deboli trattati di pace (come la pace di Crépy del 1544) e continuarono anche dopo la morte di Francesco I e l'ascesa al trono del suo successore Enrico II nel 1547. Ma lo scenario internazionale mutò di colpo nel 1556, quando Carlo V abdicò dopo aver diviso i suoi possedimenti fra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando I. Furono proprio Enrico e Filippo a stipulare nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine definitivamente allo scontro tra Francia e Spagna per l'egemonia europea e sancì, dopo un sessantennio di guerre continue, quella fine della libertà italiana avviata dalla spedizione di Carlo VIII nel 1494. La Spagna consolidò la propria posizione di dominio in Italia, destinata a durare fino al 1714, anno della conclusione della guerra di Successione spagnola e dell'avvento dell'Austria come potenza egemone sulla penisola.
Da questo momento si può considerare esaurita la parabola del Rinascimento: l'Italia è quasi interamente soggetta alla corona spagnola ed è interessata da quel processo di reazione della Chiesa cattolica al luteranesimo che va sotto il nome di Controriforma. Il periodo che seguì la fine delle guerre d'Italia - dalla seconda metà del XVI a tutto il XVII secolo - è stato a lungo etichettato come Età della decadenza, una formula per molti versi semplicistica che è stata fatta oggetto di profonda revisione da molti storici del XX secolo[45].

[modifica] La dominazione spagnola Per approfondire, vedi la voce Predominio spagnolo in Italia.

L'egemonia spagnola in Italia venne ratificata dalla pace di Cateau-Cambrésis. La Spagna esercitò da allora, e fino al 1714, il dominio diretto su tutta l'Italia meridionale ed insulare, sul Ducato di Milano e sullo Stato dei Presidii nel sud della Toscana. Lo Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova ed altri stati minori furono costretti di fatto ad appoggiare la politica imperiale spagnola. Il Ducato di Savoia, tendente a convertirsi in ago della bilancia fra Francia e Spagna, divenne nella realtà dei fatti un campo di battaglia fra queste due potenze. Solo la Repubblica di Venezia riuscì a conservare una relativa indipendenza che però non fu sufficiente a preservarla da una lenta ma inesorabile decadenza.

[modifica] Condizioni dell'Italia nel seicentoIn età moderna, l'Italia, e, più in generale, tutta l'Europa meridionale, ebbe a soffrire dello spostamento delle grandi rotte commerciali dal Mediterraneo all'Atlantico, chiaramente percepibile a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento. Le devastazioni belliche a seguito della guerra dei trent'anni colpirono soprattutto l'Italia settentrionale: il principale di questi scontri che vide contrapposti gli interessi imperiali a quelli francesi fu la guerra di successione di Mantova e del Monferrato. La forte pressione fiscale esercitata dalla Spagna sui suoi domini, dovuta alle esorbitanti spese di guerra, invece si fece sentire con gravissime conseguenze in tutto il meridione ed in Lombardia, mentre i vuoti lasciati dalla grave pestilenza del 1630 ebbero effetti devastanti sull'economia italiana del tempo. È un dato di fatto che fin dal quarto decennio del XVII secolo quasi tutta l'Italia era passata ad essere un'area con gravi problemi di sottosviluppo economico, politicamente amorfa, socialmente disgregata. Fame e malnutrizione regnavano incontrastate in molte regioni peninsulari e nelle due isole maggiori.
Il declino culturale dell'Italia non marciò di pari passo con quello politico, economico e sociale. È questo un fenomeno riscontrabile in molti paesi, Spagna compresa. Se nel Cinquecento il Rinascimento italiano produsse i suoi frutti più maturi e si impose all'Europa del tempo, l'arte ed il pensiero barocchi, elaborati a Roma a cavallo fra Cinquecento e Seicento avranno una forza di attrazione ed una proiezione internazionale non certo inferiori. È comunque un dato di fatto che ancora per tutta la prima metà del Seicento ed oltre, l'Italia continuò ad essere un paese vivo, capace di elaborare un pensiero filosofico (Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Paolo Sarpi) e scientifico (Galileo Galilei, Evangelista Torricelli) di altissimo profilo, una pittura sublime (Caravaggio), un'architettura unica in Europa (Gianlorenzo Bernini, Borromini, Baldassare Longhena, Pietro da Cortona) ed una musica, sia strumentale (Arcangelo Corelli, Girolamo Frescobaldi, Giacomo Carissimi) che operistica (Claudio Monteverdi, Francesco Cavalli) che fece scuola. A questo proposito ricordiamo che il melodramma è una tipica creazione dell'età barocca.


Masaniello ritratto da Aniello Falcone, 1647.[modifica] La rivolta di Masaniello Per approfondire, vedi la voce Masaniello.

Il rapace fiscalismo degli Spagnoli suscitò varie rivolte, tra cui una delle più note di questo periodo è quella del pescatore Masaniello a Napoli. La rivolta fu scatenata dall'esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte sugli alimenti di necessario consumo. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento sempre più dispotico e stravagante Masaniello fu assassinato all'età di ventisette anni dagli stessi rivoltosi che lo avevano appoggiato. La fine di Masaniello non decretò però la fine della rivolta: i napoletani, condotti dal nuovo capopopolo Gennaro Annese, riuscirono dopo vari mesi a cacciare gli spagnoli dalla città e il 17 dicembre fu infine proclamata la Real Repubblica Napoletana sotto la guida del duca francese Enrico II di Guisa, che in quanto discendente di Renato d'Angiò rivendicava diritti dinastici sul trono di Napoli. Enrico era appoggiato dalla Francia che sperava in questo modo di far rientrare il Regno di Napoli sotto l'influenza francese. L'esempio di Masaniello fu poi seguito anche da popolani di altre città: da Giuseppe d'Alesi a Palermo, e da Ippolito di Pastina a Salerno. La parentesi rivoluzionaria si concluse solo il 6 aprile 1648, quando gli Spagnoli ripresero il controllo della città.
Nel 1701 a Napoli avvenne una nuova insurrezione contro gli spagnoli: la congiura di Macchia ad opera dei nobili. Anche a causa di una scarsa partecipazione dei ceti umili, la rivolta fallì. Il dominio spagnolo su Napoli continuò fino al 1707, anno in cui la guerra di successione spagnola pose fine al viceregno iberico sostituendogli quello austriaco.


L'europa nel 1713, dopo la pace di Utrecht.[modifica] La guerra di successione spagnola Per approfondire, vedi la voce Guerra di successione spagnola.

Il 1º novembre 1700 morì Carlo II di Spagna, da tempo malato. La maggior parte delle dinastie regnanti al momento vantava parentele con il moribondo ed erano interessate al trono di Spagna, che sarebbe rimasto vacante con la morte di Carlo II. Cinque giorni dopo la morte, per disposizione testamentaria del defunto re, veniva proclamato nuovo re di Spagna il duca Filippo d'Angiò, nipote del re di Francia Luigi XIV, il quale assumeva il nome di Filippo V. Inghilterra, Austria e Paesi Bassi, intenzionate a impedire che la Spagna passasse sotto l'influenza francese (sarebbe stato infatti molto difficile fronteggiare un'unica sovranità borbonica da entrambe le parti dei Pirenei), strinsero la cosiddetta alleanza dell'Aja (7 settembre 1701), con la quale si impegnavano ad impedire che le volontà testamentarie del defunto re di Spagna trovassero definitiva attuazione. Diedero così inizio alla guerra di successione spagnola, che si combatté per ben dodici anni e coinvolse anche i possedimenti spagnoli in Italia. La guerra si concluse con la Pace di Utrecht (1713), che sancì la fine della dominazione spagnola in Italia e l'inizio di quella austriaca.

[modifica] La dominazione austriacaCome conseguenza della Guerra di successione spagnola (1701 –1714) Filippo V fu riconosciuto re di Spagna, ma il regno perse con il trattato di Utrecht i suoi possedimenti in Italia. Il ducato di Milano, il regno di Napoli e quello di Sardegna finirono alla casa degli Asburgo mentre il regno di Sicilia dovette essere assegnato alla Casa Savoia, regnante il duca Vittorio Amedeo II, che nell'occasione era divenuto re. In questo modo era iniziata la dominazione austriaca in Italia, che si protrasse fino al 1866.


Elisabetta Farnese, Regina di Spagna[modifica] La guerra della Quadruplice Alleanza Per approfondire, vedi la voce Guerra della Quadruplice Alleanza.

La Spagna, per mano del nuovo primo ministro Cardinal Alberoni, aveva adottato una politica aggressiva verso gli altri paesi cofirmatari dei trattati per l'insoddisfazione del nuovo Re per la perdita di tutti i possedimenti europei seppur in cambio di un trono e per il desiderio della Regina Elisabetta Farnese di ottenere ducati in Italia per i propri figli. Alberoni e Filippo V la sostennero in questo sforzo, poiché entrambi ambivano a ricostruire la ex Grande Spagna, e, decisi a recuperare i territori perduti in Italia, accamparono pretese del regno spagnolo su Sardegna e Sicilia.


La battaglia navale di Capo PasseroLa Spagna nel 1717-1718 prese l'iniziativa occupando prima la Sardegna, in mano agli Asburgo, poi la Sicilia neoterritorio sabaudo. Questa iniziativa provocò la formazione di una quadruplice alleanza (1717) tra Francia, Inghilterra, Olanda e Austria, la quale, un anno dopo conseguì una schiacciante vittoria a Capo Passero sulla flotta spagnola (1718). La guerra si concluse con il trattato dell'Aia (1720) che decretò un cambio di isole italiane tra Asburgo e Savoia: ai primi andò la Sicilia (allora più ricca rispetto all'isola sarda) e il titolo regio di Vittorio Amedeo II cambiò da Re di Sicilia (trattato di Utrecht) a Re di Sardegna; i Savoia porteranno questo titolo fino all'unificazione del Regno d'Italia. Al figlio di Elisabetta Farnese, Carlo (1716 – 1788), furono promessi i ducati di Parma, di Piacenza e di Toscana, che dopo la prossima estinzione della linea maschile dei Farnese gli sarebbero stati attribuiti. La Spagna negli anni successivi uscì dal suo isolamento e con la Guerra di successione polacca (1733 – 1738) riuscì persino a portare sotto il suo controllo Napoli e la Sicilia.

[modifica] La guerra di successione polacca Per approfondire, vedi la voce Guerra di successione polacca.

La guerra di successione polacca prese avvio nell'anno 1733 con la morte del Re di Polonia Augusto II, appartenente alla dinastia Wettin, e fu causata dalla volontà da parte della triplice alleanza costituitasi nell'anno precedente tra Russia, Prussia e Austria di impedire che la Polonia finisse sotto l'influenza francese. Infatti il primo ministro francese André-Hercule de Fleury riuscì a porre sul trono polacco il Leszczyński, ma l'intervento militare russo costrinse quest'ultimo alla fuga consentendo all'altro candidato Augusto III di Sassonia di insediarsi a sua volta sul trono polacco. Ciò mortificò la Francia che, per vendetta, scatenò un'offensiva bellica contro l'Austria. La Francia era alleata con la Spagna, anch'essa governata dai Borbone e legata con la Francia dal vecchio patto che aveva già visto uniti i rispettivi troni nel corso della precedente guerra di successione spagnola; ad essi si aggiunsero i Savoia. La guerra, combattutasi prevalentemente nel sud Italia, vide la sconfitta dell'Austria, che, avendo necessita di farsi riconoscere la Prammatica Sanzione del 1713 da parte delle altre case regnanti d'Europa (tra cui i Borboni di Francia e Spagna con i quali l'Austria si trovava in guerra), più che controbattere, subiva la guerra con la Francia. Nel 1734 con la battaglia di Bitonto, i Regni di Napoli e Sicilia ritornano formalmente indipendenti, dopo oltre due secoli di dominazione politica prima spagnola e poi austriaca. Sul trono di Napoli si insediarono i Borboni di Spagna.
Dopo due anni di conflitto, la Francia e l'Austria sottoscrissero il 3 ottobre 1735 un preliminare di pace contenente il riassetto degli Stati italiani, poi confermato dalla successiva Pace di Parigi del 1739. Gli accordi prevedevano l'assegnazione del Granducato di Toscana a Francesco III Stefano di Lorena, una volta scomparso Gian Gastone, ultimo rappresentante della dinastia de' Medici, per compensare l'assegnazione della Lorena al Leszczyński. L'Austria manteneva il porto franco di Livorno ma cedeva a don Carlos di Borbone lo Stato dei Presidii, il Regno di Napoli nonché il Regno di Sicilia. Il Piemonte sabaudo acquisì le Langhe e i territori orientali del milanese venendo autorizzato, inoltre, a costruire piazzeforti nei territori appena conquistati. All'Austria veniva riconosciuta la validità della "prammatica sanzione" e veniva restituito il Ducato di Parma e Piacenza. Gli accordi sottoscritti dalla Francia e dall'Austria con il trattato di Vienna del 1738 avrebbero dovuto costituire per gli Stati italiani una sistemazione definitiva e stabile nel quadro della politica di equilibrio tra tutte le maggiori potenze europee della prima metà del XVIII secolo. Ma l'assetto geopolitico dell'Italia, nato a conclusione della guerra di successione polacca, sarebbe stato nuovamente turbato nello spazio di qualche anno.

[modifica] Guerra di successione austriaca Per approfondire, vedi la voce Guerra di successione austriaca.
« L'Italia è un carciofo, bisogna mangiarne una foglia alla volta. »
(Carlo Emanuele III di Savoia, in seguito alla mancata acquisizione di Milano.[46])

Nel mese di ottobre del 1740, all'età di soli 56 anni, moriva improvvisamente, privo di figli maschi, Carlo VI d'Asburgo e saliva al trono d'Austria la figlia primogenita Maria Teresa, di soli 23 anni, sposa di Francesco Stefano di Lorena. L'ascesa al trono di Maria Teresa d'Asburgo provocò l'insorgere di numerosi dissensi tra le case regnanti in Europa che sfociarono in una sanguinosa guerra, passata alla storia come guerra di successione austriaca. Nel corso di questa guerra, che si combatté anche in Italia, la città di Genova venne occupata per un breve periodo dagli austriaci (1746). Il malcontento dei Genovesi nei confronti degli occupatori austriaci generò però una rivolta, che iniziò grazie al gesto patriottico di un ragazzino, Balilla, che lanciò un sasso contro un soldato austriaco. I Genovesi riuscirono alla fine a cacciare gli austriaci. Con il Trattato di Aquisgrana (1748), che decretò la fine del conflitto, l'Italia subì un riassetto tale da trasformarla in un insieme di stati dall'equilibrio stabile per lungo tempo. L'Austria aveva ripreso il possesso del milanese e ristabilito la propria influenza sul Ducato di Modena. Il Regno di Sardegna si era espanso verso la valle padana e si era riappropriato di Nizza e della Savoia. La Spagna era stata tacitata mediante la cessione del Ducato di Parma e Piacenza a Felipe di Borbone, mentre il fratello di questi rimaneva nel pieno possesso dei regni di Napoli e della Sicilia, per nulla rimessi in discussione. L'Italia si avviava, quindi, ad un lungo periodo di stabilità che sarà scosso soltanto sul finire del secolo a seguito del coinvolgimento della penisola nei fatti legati alla rivoluzione francese e all'epopea bonapartista.

[modifica] Condizioni dell'Italia nel settecentoAttorno agli anni trenta del XVIII secolo, si assiste ad una timida ripresa dell'economia italiana che si consolidò, soprattutto nel meridione, nei decenni successivi. L'Illuminismo, nato in Inghilterra, ma diffusosi in Italia attraverso l'intermediazione dei philosophes francesi iniziò a far sentire i suoi benefici influssi nel nord (Parma) come a Napoli e in Sicilia, dove regnò uno dei più grandi sovrani europei del tempo: il futuro Carlo III di Spagna. L'Austria, che, come abbiamo già visto, si era sostituita alla Spagna come potenza egemonica in Italia, soprattutto nella sua parte centro-settentrionale, fu governata da alcuni monarchi particolarmente capaci, Maria Teresa d'Austria e Giuseppe II in particolare, che introdussero in Lombardia, nel Trentino e nella regione di Trieste (la futura Venezia Giulia) delle riforme atte a fomentare lo sviluppo economico e sociale di quelle terre.


L'Italia nel 1803.[modifica] L'Italia sotto il dominio napoleonico Per approfondire, vedi la voce Età napoleonica.

Verso la fine Settecento sulla scena politica italiana si affacciò Napoleone Bonaparte. Questi nel 1796, comandò, come generale, la campagna italiana, al fine di far abbandonare al Regno di Sardegna la Prima coalizione, creata contro lo stato francese, e per far arretrare gli austriaci. Gli scontri iniziarono il 9 aprile, contro i piemontesi e nel breve volgere di due settimane Vittorio Amedeo III di Savoia fu costretto a firmare l'armistizio. Il 15 maggio poi il generale francese entrò a Milano, venendo accolto come un liberatore. Successivamente respinse le controffensive austriache e continuò ad avanzare, fino ad arrivare in Veneto nel 1797. Qui si verificò anche un episodio di ribellione a causa dell'oppressione francese chiamato Pasque Veronesi, che tenne occupato Napoleone per circa una settimana. Con il diretto intento di danneggiare il pontefice fu proclamata nel 1797 la Repubblica Anconitana con capitale Ancona che fu poi unita alla Repubblica Romana: il tutto ebbe però breve durata, poiché nel 1800 lo Stato Pontificio fu ripristinato.


Napoleone con la corona ferreaA ottobre del 1797 venne firmato il Trattato di Campoformio con il quale la Repubblica di Venezia fu annessa allo stato austriaco, causando quindi la delusione dei patrioti italiani. Il trattato riconobbe anche l'esistenza della Repubblica Cisalpina, la quale comprendeva Lombardia, Emilia-Romagna oltre a piccole parti di Toscana e Veneto, mentre il Piemonte venne annesso alla Francia provocando qualche moto di ribellione. Nel 1802 venne poi denominata Repubblica Italiana, con Napoleone Bonaparte, già Primo Console della Francia, in qualità di Presidente.


Il 2 dicembre 1804 Napoleone fu incoronato Imperatore dei Francesi. In conformità col nuovo assetto monarchico francese Napoleone divenne anche Re d'Italia, tramutando la Repubblica italiana in Regno d'Italia. Questa decisione lo mise in contrasto con l'Imperatore del neonato Impero austriaco Francesco I che, essendo prima di tutto Imperatore dei Romani, risultava de iure pure Re d'Italia. La situazione si risolse con la guerra contro la Terza coalizione: l'Austria venne sconfitta (2 dicembre 1805) e il trattato di Presburgo (26 dicembre 1805) pose di fatto fine al Sacro Romano Impero che verrà però sciolto solo nel 1807. L'anno successivo Bonaparte riuscì a conquistare il Regno di Napoli affidandolo al fratello e consegnandolo nel 1808 a Gioacchino Murat. Inoltre Napoleone riservò alle sorelle Elisa e Paolina i principati di Massa, Carrara e Guastalla. Proprio nel 1808 il Regno d'Italia subì un ampliamento con le annessioni di Toscana e Marche.
Nel 1809, Bonaparte occupò Roma, in seguito a contrasti con il papa, che l'aveva scomunicato, e per mantenere in efficienza il proprio stato[47], relegandolo prima a Savona e poi in Francia. Nella campagna di Russia, che Napoleone intraprese nel 1812, fu determinante l'appoggio degli abitanti della penisola italiana, ma questa si risolse con una sconfitta e molti italiani trovarono la morte. Dopo la fallimentare campagna di Russia gli altri stati europei si riorganizzarono, coalizzandosi tra loro e sconfiggendo Bonaparte a Lipsia. I suoi stessi alleati, primo tra tutti Murat, lo abbandonarono alleandosi con l'Austria.[48] Ormai abbandonato dagli alleati e sconfitto a Parigi il 6 aprile 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare e venne mandato in esilio all'Isola d'Elba. Sfuggito alla sorveglianza riuscì a ritornare in Francia e a riprendere il potere. Guadagnò nuovamente l'appoggio di Murat, il quale tentò di esortare, senza successo, gli italiani a combattere con il Proclama di Rimini. Sconfitto Bonaparte, anche Murat venne vinto e ucciso. I regni creati in Italia scomparvero ed iniziò quindi il periodo storico della Restaurazione.

[modifica] La RestaurazioneCon la Restaurazione ritornarono sul trono gran parte dei sovrani precedenti al periodo napoleonico. Il regno di Sardegna che durante l'invasione napoleonca era rientrato nei confini insulari, riottenne tutti gli Stati di terraferma ed in più s'ingrandi con l'annessione della Repubblica di Genova, mentre Lombardia, Veneto, Istria e Dalmazia andarono all'Austria. Si ricostituirono i ducati di Parma e Modena, lo Stato della Chiesa, mentre il Regno di Napoli tornò ai Borbone.


Il regno di Sardegna nel 1860[modifica] Il Regno di Sardegna Per approfondire, vedi le voci Regno di Sardegna e Regno di Arborea.

La storia d'Italia è indissolubilmente legata alla storia dello Stato che la unificò sotto un'unica guida, il Regno di Sardegna. Fu creato sulla carta da Papa Bonifacio VIII nel 1297, con la denominazione di Regno di Sardegna e Corsica[49] per risolvere la crisi politica e diplomatica tra corona d'Aragona e ducato d'Angiò sulla Sicilia (la guerra del vespro). La realizzazione concreta del Regno di Sardegna vedrà dapprima la guerra dei catalano-aragonesi contro i pisani, poi contro il Regno di Arborea. Per oltre cento anni l'Isola fu teatro di una sanguinosa guerra prima di essere unificata definitivamente nel 1420.
Con il matrimonio tra Ferdinando II di Aragona con Isabella di Castiglia a Valladolid il 17 ottobre 1469, il Regno di Sardegna fu aggregato alla corona di Spagna e con il matrimonio della loro figlia Giovanna con Filippo d'Asburgo e la nascita di Carlo V, passò agli Asburgo, prima di Spagna, poi da quelli d'Austria (1708). A seguito della guerra di successione spagnola e del trattato dell'Aia (20 febbraio 1720), il Regno fu ceduto a Vittorio Amedeo II di Savoia, che ne divenne il diciassettesimo sovrano. Il 29 novembre 1847 gli Stati che componevano la corona di Casa Savoia si fusero insieme (Fusione perfetta) mantenendo la denominazione di Regno di Sardegna. Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto promulgò lo Statuto fondamentale del Regno che ha retto lo Stato italiano fino al 1º gennaio 1948, quando entrò in vigore l'attuale Costituzione[50].


Vittorio Amedeo II, quindicesimo ed ultimo Duca di Savoia, poi incoronato re di Sicilia, nel 1720 divenne il diciassettesimo re di Sardegna[modifica] I Savoia Per approfondire, vedi la voce Casa Savoia.

Umberto Biancamano nel 1032 ottenne dall'imperatore Corrado II la signoria della Savoia, della Moriana e d'Aosta. Attraverso varie successioni ereditarie, i Savoia ingrandirono nel tempo i loro territori a cavallo tra le Alpi Occidentali. Prima conti, poi duchi, nel 1416 ottennero pure il titolo nominale (senza territori) di re di Gerusalemme lasciato in eredità da Carlotta di Lusignano. Riuscirono abilmente nel XVII e nel XVIII secolo a difendersi dalle mire espansionistiche della Francia mantenendo tenacemente la loro autonomia. Da quando poi Emanuele Filiberto I di Savoia spostò la capitale da Chambéry a Torino per meglio difendersi dagli attacchi nemici, la dinastia prese le redini della storia italiana mantenendo il dominio sul ducato prima e sul Regno di Sardegna poi, fino alla unità d'Italia.
Nel 1720 Vittorio Amedeo II di Savoia assunse il titolo regio, divenendo il diciassettesimo sovrano del Regno di Sardegna. I Savoia vennero allora a pieno titolo annoverati fra le grandi casate d'Europa, fregiandosi dei titoli nominali di Re di Cipro, di Gerusalemme, d'Armenia, e dei titoli effettivi di duchi di Savoia, di Monferrato, Chablais, Aosta e Genova; principi di Piemonte ed Oneglia; marchesi di Saluzzo, Susa, Ivrea, Ceva, Maro, Oristano, Sezana; conti di Moriana, Genova, Nice, Tenda, Asti, Alessandria, Goceano; baroni di Vaud e di Faucigny; signori di Vercelli, Pinerolo, Tarantasia, Lumellino, Val di Sesia; principi e vicari perpetui del Sacro Romano Impero in Italia. Il 17 marzo 1861 ottennero la corona di Re d'Italia. Nel 1936 Vittorio Emanuele III di Savoia fu proclamato Imperatore d'Etiopia, e nel 1939 Re d'Albania.


L'arresto di Pellico e Maroncelli da parte delle forze austriache[modifica] I moti carbonari Per approfondire, vedi la voce Carboneria.

Dopo la Restaurazione, che aveva portato al ritorno degli antichi sovrani e alla cessione di regioni italiane all'Austria, portarono alla nascita di forti ideali patriottici. Nacque così la Carboneria e si diffuse proprio nelle regioni cedute agli austriaci e in Romagna, grazie anche a Piero Maroncelli. I primi moti carbonari nella penisola italiana vi furono nel 1820-21 e colpirono il Regno di Napoli nel luglio 1820 e il Piemonte nel marzo 1821. A Napoli il sovrano fu costretto a cedere la costituzione, obiettivo dei carbonari, ma l'intervento degli austriaci riportò tutto come prima, e stessa cosa nel Regno di Sardegna. Contemporaneamente nel Regno lombardo-veneto vi furono molti processi, i più famosi al conte Federico Confalonieri, a Silvio Pellico e Piero Maroncelli.
Nonostante le sconfitte subite la carboneria non si sciolse e si ripresentò sulla scena politica nel 1830, in particolare nel Ducato di Modena e nello Stato Pontificio, venendo per la seconda volta repressa. Il risultato fu il decadimento della carboneria e la nascita della Giovine Italia, movimento anch'esso segreto fondato da Giuseppe Mazzini nel 1831. Dopo aver trovato una discreta adesione Mazzini decise di organizzare i primi moti in terra sabauda, ma questi vennero scoperti ancor prima di iniziare e fallirono. Nonostante ciò il Re Carlo Alberto di Savoia cambiò la sua linea politica e alcuni anni dopo, nel 1848 concesse la costituzione, nota come Statuto Albertino, temendo reazioni pericolose alla monarchia. Prima di questo si verificarono altri tentativi. Il più noto è quello dei Fratelli Bandiera, italiani appartenenti alla marina austriaca che tentarono di sollevare il sud, ma vennero catturati, anche grazie alla popolazione che li riteneva briganti, e fucilati.

[modifica] Risorgimento Per approfondire, vedi la voce Risorgimento.


Monumento a Carlo Cattaneo, protagonista delle Cinque Giornate di Milano[modifica] Prima guerra d'indipendenza Per approfondire, vedi la voce prima guerra di indipendenza italiana.

Dopo le guerre napoleoniche, spinte nazionali e nazionalistiche appoggiate dai Savoia, che videro in queste l'opportunità di allargare il proprio Regno di Sardegna, portarono ad una serie di guerre di indipendenza contro l'Impero austro-ungarico. Nel 1848 si verificarono varie insurrezioni nei domini sottoposti agli austro-ungarici, in particolare a Venezia e Milano (famose appunto le cinque giornate di Milano, che si conclusero il 22 marzo con la vittoria della popolazione locale e l'abbandono da parte del maresciallo austriaco Josef Radetzky della città). Visti i successi ottenuti dalle due città Carlo Alberto di Savoia decise, con l'appoggio bellico di altri stati italiani (Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie), di entrare in azione il 23 marzo dando inizio alla prima guerra di indipendenza italiana. L'inizio del conflitto fu favorevole agli stati italici, con varie vittorie, a Pastrengo, la Battaglia di Santa Lucia a Verona, poi Peschiera e Goito. Il ritiro dalla guerra del papa, che temeva una reazione religiosa austriaca che avrebbe potuto provocare uno scisma, e di Ferdinando II di Borbone decretò però l'insuccesso della guerra, che si risolse con un nulla di fatto: gli Austriaci recuperarono le città perse (l'ultima a cadere fu Venezia nell'agosto 1849) e il 4 agosto Carlo Alberto firmò l'armistizio; fu quindi costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II.


Vittorio Emanuele II di Savoia, il primo Re d'Italia di casa Savoia[modifica] Seconda guerra d'indipendenza Per approfondire, vedi la voce seconda guerra di indipendenza italiana.

Nel 1852 divenne primo ministro del Regno Sabaudo Camillo Benso Conte di Cavour, il quale attuò numerose riforme economiche al fine di rendere il regno di Sardegna più moderno, aumentando le ferrovie, ampliando il porto di Genova e favorendo la nascita dell'industria, fino ad allora inesistente nel Paese. Nel 1855 il Regno di Sardegna, sotto indicazione di Cavour, partecipò alla guerra di Crimea, inviando 18.000 uomini. Questa partecipazione permise al regno sabaudo di essere presente al congresso di Parigi l'anno seguente dove il primo ministro attaccò il comportamento austriaco e si creò simpatie tra inglesi, francesi e prussiani. Ricevuti pareri favorevoli all'azione da Napoleone III, nel 1858 i due strinsero un accordo segreto a Plombières, con il quale i francesi avrebbero sostenuto i Savoia in caso di attacco austriaco a patto che fossero gli austriaci ad attaccare: se i Piemontesi avessero conquistato Lombardia e Veneto, in cambio avrebbero ceduto alla Francia la Savoia e Nizza. Adottando un comportamento provocatorio nei confronti degli austriaci Cavour riuscì nell'intento di farsi dichiarare guerra, dando inizio alla seconda guerra di indipendenza italiana, che iniziò il 29 aprile 1859. Dopo alcuni iniziali successi austriaci, la guerra volse in favore del Piemonte, che fu vittorioso, grazie al sostegno di Napoleone III, a Montebello (20 maggio), Palestro (30 maggio), Turbigo, Magenta e Milano (5 giugno), occupando così la Lombardia. Proprio quando il Piemonte si stava accingendo a occupare il Veneto, tuttavia, Napoleone III cominciò le trattative, a insaputa dei piemontesi, che terminarono con la cessione della Lombardia. Gli accordi di Plombières prevedevano però la conquista del Veneto e Cavour deluso dovette comunque cedere, provocando varie proteste, Savoia e Nizza. Terminata la seconda guerra di indipendenza alcuni ducati (Modena, Parma, Emilia, Romagna e Toscana) vollero unirsi allo stato sabaudo. Il Regno di Sardegna comprendeva a questo punto i territori delle attuali regioni Valle d'Aosta, Piemonte, Sardegna, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria e Toscana, mentre rimanevano esclusi quelli di Umbria, Marche e Lazio, sottoposti al dominio pontificio, oltre al sud.


Garibaldi nel 1866[modifica] Spedizione dei Mille e nascita del regno d'Italia Per approfondire, vedi la voce Spedizione dei Mille.

Nel 1860 venne organizzata la spedizione dei Mille, guidata da Giuseppe Garibaldi. Partiti da Quarto il 5 maggio, sbarcarono l'11 a Marsala. Mentre Garibaldi, insieme ai picciotti siciliani conquistava l'isola, nella parte continentale del Regno delle due Sicilie il Comitato per l'Unità Nazionale di Napoli preparava la strada alla conquista della capitale: il 18 agosto dello stesso anno, con l'insurrezione di Potenza, la Basilicata, guidata dal governo prodittatoriale di Giacinto Albini, dichiarò la sua annessione al Regno d'Italia. Il giorno seguente Garibaldi passò lo stretto di Messina. Il 7 settembre Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli, abbandonata dal re Francesco II di Borbone in favore di Gaeta. La sconfitta finale dei borbonici avvenne sul Volturno il 1º ottobre 1860. Il 21 ottobre si tennero i plebisciti che decretarono l'annessione dei territori delle Due Sicilie al Regno Sabaudo.
Mancavano ancora Veneto e Friuli, Roma, Trentino-Alto Adige e Venezia Giulia. Il parlamento sabaudo decise allora di proclamare nel 1861 il Regno d'Italia consegnando la corona a Vittorio Emanuele II e ai suoi eredi. Lo statuto albertino venne esteso a tutto il Regno.


La battaglia di Custoza[modifica] Terza guerra d'indipendenza Per approfondire, vedi la voce terza guerra di indipendenza italiana.

Per conquistare Veneto e Friuli nel 1866 il Regno d'Italia dichiarò guerra all'Austria alleandosi con la Prussia e dando così inizio alla terza guerra di indipendenza. Le sconfitte però furono molte, le più famose a Custoza e Lissa. Gli unici successi vennero ottenuti da Garibaldi in Trentino. La vittoria prussiana, però, fu d'aiuto all'Italia, che ricevette dalla Francia (che, a sua volta, aveva ottenuto dalla Prussia grazie alla vittoria di quest'ultima sull'Austria a Sadowa) il Veneto e parte del Friuli-Venezia Giulia.
Mancava Roma e per due volte Giuseppe Garibaldi ne tentò la conquista con i suoi volontari: nel 1862 e nel 1867, venendo fermato nel primo caso dalle truppe italiane, nel secondo dall'esercito francese, che anche nel 1862 aveva costretto l'esercito regio a intervenire. La caduta del secondo impero francese, conseguenza della vittoria prussiana nella guerra franco-prussiana, tolse al papato la protezione di Napoleone III, detronizzato, e permise alle forze italiane di espugnare Roma il 20 settembre 1870 in seguito alla Breccia di Porta Pia. Ciò determinò tuttavia una profonda frattura tra Stato italiano e Chiesa, formalmente sanatasi poi con i Patti Lateranensi del 1929.

[modifica] Storia d'Italia dall'unità a oggi Per approfondire, vedi la voce Storia d'Italia (1861-oggi).


Bandiera nazionale del Regno d'Italia[modifica] L'Italia liberale (1861-1914) Per approfondire, vedi la voce Regno d'Italia (1861-1946).

Il Regno d'Italia (1861-1946) nacque nel 1861 dopo l'esito della seconda guerra di indipendenza e dopo i plebisciti degli altri territori conquistati. Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II fu il primo re d'Italia (1861-1878). La popolazione, rispetto all'originario Regno di Sardegna, quintuplicò. Istituzionalmente e giuridicamente, il Regno d'Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna. Ciò, ed anche l'aver a modello la struttura della Francia, comportò quella che viene chiamata la piemontesizzazione del Paese ed un assetto fortemente accentrato, tanto che lo stesso presidente Giorgio Napolitano ha dichiarato che oggi occorre «superare il vizio di origine del centralismo statale di impronta piemontese»[51].
Il neonato Stato, una monarchia costituzionale, si ritrovò, fin dai primi tempi, a tentare di risolvere problemi di standardizzazione delle leggi, di mancanza di risorse a causa delle casse statali vuote per le spese belliche, di creazione di una moneta unica per tutta la penisola e più in generale problemi di gestione per tutte le terre improvvisamente acquisite. A questi problemi, se ne aggiungevano altri, come ad esempio l'analfabetismo e la povertà diffusa, nonché la mancanza di infrastrutture. La questione che tenne banco nei primi anni della riunificazione d'Italia fu la questione meridionale ed il brigantaggio antisabaudo delle regioni meridionali (soprattutto tra il 1861 e il 1869). Ulteriore elemento di fragilità era costituito dall'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato, ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 e la presa di Roma (questione romana).


Ritratto di Marco Minghetti[modifica] La destra storica Per approfondire, vedi la voce Destra storica.

La Destra storica, composta principalmente dall'alta borghesia e dai proprietari terrieri, formò il nuovo governo, che ebbe come primi obiettivi il completamento dell'unificazione nazionale, la costruzione del nuovo stato (per il quale si scelse un modello centralista) e il risanamento finanziario mediante nuove tasse che produssero scontento popolare e accentuarono il brigantaggio, represso con la forza. In politica estera, la Destra storica mantenne la tradizionale alleanza con la Francia, anche se le due nazioni si scontrarono in diverse questioni, prime fra tutte l'annessione del Veneto e la presa di Roma. Nel 1876 il governo venne esautorato per la prima volta non per autorità regia, bensì dal Parlamento (rivoluzione parlamentare). Ebbe così inizio l'epoca della Sinistra storica, guidata da Agostino Depretis. Finiva un'epoca: solo pochi anni dopo, Vittorio Emanuele II morì, e sul trono gli successe Umberto I.


Agostino Depretis[modifica] La sinistra storica Per approfondire, vedi la voce Sinistra storica.

La Sinistra abbandonò l'obiettivo del pareggio di bilancio e avviò delle politiche di democratizzazione e ammodernamento del paese, investendo nell'istruzione pubblica e allargando il suffragio, e avviando una politica protezionistica di investimenti in infrastrutture e sviluppo dell'industria nazionale coll'intervento diretto dello stato nell'economia. Per ciò che concerne la politica estera Depretis abbandonò l'alleanza con la Francia, a causa della conquista da parte dello stato d'oltralpe della Tunisia. L'Italia entrò quindi nella Triplice Alleanza, alleandosi con la Germania e l'Impero austro-ungarico. Favorì lo sviluppo del colonialismo italiano, innanzitutto con l'occupazione di Massaua in Eritrea.


Giovanni GiolittiDal 1901 al 1914 la storia e la politica italiana fu fortemente influenzata dai governi guidati da Giovanni Giolitti

[modifica] L'epoca giolittiana Per approfondire, vedi la voce Età giolittiana.

Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso malcontento che la politica Crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. Ed è con questo primo confronto con le parti sociali che si evidenziò la ventata di novità che Giolitti portò nel panorama politico a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e quindi degli scioperi, purché non violenti né politici, con lo scopo (riuscito) di portare i socialisti nell'arco parlamentare. Gli interventi più importanti di Giolitti furono la legislazione sociale e sul lavoro, il suffragio universale maschile, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni, la riduzione del debito statale, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'industria. In politica estera, ci fu il riavvicinamento dell'Italia alla Triplice intesa di Francia, Regno Unito e Russia. Fu continuata la politica coloniale nel Corno d'Africa, e dopo la guerra italo-turca, furono occupate Libia e Dodecaneso. Giolitti fallì nel suo tentativo di arginare il nazionalismo come aveva costituzionalizzato i socialisti, e non riuscì quindi a impedire l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale e quindi l'ascesa del fascismo.

[modifica] L'avventura coloniale Per approfondire, vedi la voce Colonialismo italiano.


Umberto I, Re d'Italia dal 1878 al 1900[modifica] Il Corno d'Africa Per approfondire, vedi le voci Campagna d'Africa orientale, Eritrea italiana e Somalia Italiana.

L'inizio del regno vide l'Italia impegnata anche in una serie di guerre di espansione coloniale. L'occupazione cominciò nel novembre 1869 con il padre lazzarista Giuseppe Sapeto che avviò le trattative per l'acquisto della Baia di Assab. Il governo egiziano contestò tale acquisizione e rivendicò il possesso della baia: da ciò seguì una lunga controversia che si concluse solo nel 1882 dopo tre tentativi. L'iniziativa fu appoggiata dai governi di sinistra di Agostino Depretis e da una compagnia privata guidata da Raffaele Rubattino. Il 10 marzo 1882 il governo italiano acquistò il possedimento di Assab, che il 5 luglio dello stesso anno diventò ufficialmente italiano.
Oltre all'acquisizione di Assab da parte della società Rubattino, lo stato italiano cercò di occupare il porto di Zeila, a quel tempo controllato dagli egiziani, ma con esito negativo. Quando gli egiziani si ritirarono dal Corno d'Africa nel 1884, i diplomatici italiani fecero un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua che assieme ad Assab formò i cosiddetti possedimenti italiani nel mar Rosso. Dal 1890 assunsero la denominazione ufficiale di Colonia Eritrea. L'interesse per la fondazione di colonie italiane continuò anche durante i governi di Francesco Crispi. La città di Massaua diventò il punto di partenza per un progetto che sarebbe dovuto sfociare nel controllo del Corno d'Africa. Agli inizi degli anni ottanta questa zona era abitata da popolazioni etiopiche, dancale, somale e oromo, autonome oppure soggette a dominatori. All'epoca i signori della zona erano gli egiziani (lungo le coste del mar Rosso), alcuni sultanati (i più importanti furono gli Harar, gli Obbia, e i Zanzibar), emiri o capi tribali. Diverso il caso dell'Etiopia, allora retta dal Negus Neghesti (Re dei Re, cioè Imperatore) Giovanni IV, ma con la presenza di un stato relativamente autonomo nei territori del sud, retto da Menelik II.
Attraverso i commercianti e gli studiosi italiani che frequentavano la zona, già dagli anni sessanta, l'Italia cercò di dividere i due Negus al fine di penetrare, prima politicamente e poi militarmente, all'interno dell'Etiopia. Tra i progetti ci fu l'occupazione della città santa di Harar, l'acquisto di Zeila dai britannici e l'affitto del porto di Chisimaio, posto alla foce del Giuba, in Somalia. Tutti e tre i progetti non si conclusero positivamente. Nel 1889 l'Italia ottenne, tramite un accordo da parte del Console italiano di Aden con i i Sultani che governavano la zona, i protettorati su Obbia e su Migiurtina. Nel 1892 il Sultano di Zanzibar concesse in affitto i porti del Benadir (fra cui Mogadiscio e Brava) alla società commerciale "Filonardi". Il Benadir, sebbene gestito da una società privata, fu sfruttato dal Regno d'Italia come base di partenza per delle spedizioni esplorative verso le foci del Giuba e dell'Omo, e per ottenere il protettorato sulla città di Lugh.
A seguito della sconfitta e della morte dell'Imperatore Giovanni IV in una guerra contro i dervisci sudanesi (1889), l'esercito italiano occupò una parte dell'altopiano etiopico, compresa la città di Asmara, sulla base di precedenti accordi fatti con Menelik il quale, con la morte del rivale, era riuscito a farsi riconoscere Negus Neghesti. Con il trattato che seguì, Menelik accettò la presenza degli italiani sull'altopiano etiope e riconobbe nell'Italia l'interlocutore privilegiato con gli altri paesi europei. Quest'ultimo riconoscimento fu interpretato dagli italiani come l'accettazione di un protettorato e negli anni seguenti sarà fonte di discordie fra i due paesi.
La politica di progressiva conquista dell'Etiopia si concretizzò con la campagna d'Africa Orientale (1895-1896) e terminò con la sconfitta nella battaglia di Adua (1º marzo 1896). Fu uno dei pochi successi della resistenza africana al colonialismo europeo del XIX secolo. Anche dopo questa cocente sconfitta la politica coloniale nel Corno d'africa continuò con il protettorato sulla Somalia, dichiarata colonia nel 1905.

[modifica] Altre colonie acquisite nel primo ventennio del novecento Per approfondire, vedi le voci Concessione italiana di Tientsin, Libia italiana e Dodecaneso.

Nel 1901, come a molte altre potenze straniere, fu garantito all'Italia una concessione commerciale nell'area della città di Tientsin (l'odierna Tianjin) in Cina. La concessione italiana, di 46 ettari, fu una delle minori concessioni concesse dall'Impero cinese alle potenze europee e, alla fine della prima guerra mondiale, si espanse inglobando la concessione austriaca nella stessa città. I termini di tale concessione vennero ridiscussi, e infine la stessa concessione venne di fatto sospesa, a seguito di un accordo tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo filo-giapponese della Repubblica di Nanchino (che inglobò la concessione) nel 1943. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, la guarnigione italiana a Tientsin combatté contro i giapponesi, ma dovette poi arrendersi e pagare con la prigionia in Corea. La concessione di Tientsin, così come i quartieri commerciali italiani a Shanghai, Hankou e Pechino, furono formalmente soppressi con il trattato di pace del 1947. Dopo una breve guerra contro l'Impero ottomano nel 1911, l'Italia acquisì il controllo della Tripolitania e della Cirenaica, ottenendo il riconoscimento internazionale a seguito al Trattato di Losanna (1912). Le mire italiane sulla Libia, vennero appoggiate dalla Francia, che vedeva di buon occhio l'occupazione di quel territorio in funzione anti-inglese. Con il fascismo, alla Libia venne attribuito l'appellativo di quarta sponda, quando in realtà per gran parte degli anni venti fu impegnata in una sanguinosa pacificazione della colonia.
Tra l'aprile e l'agosto del 1912, durante la fase conclusiva della guerra in Libia contro l'Impero ottomano, l'Italia decise di occupare dodici isole del mar Egeo sottoposte al dominio turco: il cosiddetto Dodecaneso. A seguito del Trattato di Losanna (1912), l'Italia poté mantenere l'occupazione militare del Dodecaneso fino a quando l'esercito turco non avesse abbandonato completamente l'area libica. Questo processo avvenne lentamente, anche perché alcuni ufficiali ottomani decisero di collaborare con la resistenza libica, per cui l'occupazione del Dodecaneso venne mantenuta nei fatti fino al 21 agosto 1915, giorno in cui l'Italia, entrata nella prima guerra mondiale assieme le forze dell'Intesa, riprese le ostilità contro l'Impero ottomano.
Durante la guerra e l'occupazione italiana di Adalia l'isola di Rodi fu sede di un'importante base navale per le forze marine britanniche e francesi. Dopo la vittoria nella prima guerra mondiale, il Regno d'Italia intendeva consolidare formalmente la propria presenza nell'area dell'Egeo e lungo le coste turche. Tramite un accordo con il governo greco all'interno del Trattato di Sèvres del 1919, si stabilì che Rodi diventasse italiana anche dal punto di vista formale, mentre le altre undici isole sarebbero passate alla Grecia, come la totalità delle altre isole del mar Egeo. In cambio, l'Italia avrebbe ottenuto dallo stato greco il controllo della parte sud-ovest dell'Anatolia (Occupazione italiana di Adalia), che si estendeva da Konya fino ad Alanya e che comprendeva il bacino carbonifero di Adalia. La sconfitta dei Greci nella guerra contro la Repubblica di Turchia nel 1922, rese impossibile l'accordo e l'Italia mantenne l'occupazione di fatto delle isole fino a quando, con il Trattato di Losanna (1923), l'amministrazione dell'arcipelago non le fu riconosciuto internazionalmente.
L'isola di Saseno fu occupata il 30 ottobre 1914 dal Regno d'Italia, fino a quando, dopo la prima guerra mondiale, il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia, entrò a far parte dell'Italia che la voleva per la sua posizione strategica. Fece prima parte della provincia di Zara (dal 1920 al 1941), poi nel 1941 entrò a far parte della provincia di Cattaro (Dalmazia). Occupata dai tedeschi nel settembre del 1943 e dai partigiani albanesi nel maggio del 1944, l'isola venne restituita all'Albania per effetto del Trattato di Parigi del 10 febbraio (1947). Oggi sull'isola esiste un deposito e una caserma della Guardia Costiera aperta nel 1997 per reprimere i traffici illeciti tra l'Italia e l'Albania e restano le installazioni (incluso un faro e varie fortificazioni) costruite durante la precedente occupazione italiana.

[modifica] Dalla Sirte al CiadUno dei tentativi di creare un Impero coloniale oltre il Corno d'Africa era quello di un'espansione che andasse dal mare Mediterraneo al golfo di Guinea. Il progetto non venne mai esplicitato pubblicamente, ma fu chiaro durante le trattative per il Trattato di Versailles (1919), dopo la prima guerra mondiale, che causò frizioni diplomatiche con la Francia. Per realizzare questa intenzione, avendo già formale possesso della Libia, il corpo diplomatico italiano chiese di avere la colonia tedesca del Camerun e cercò di ottenere, come compenso per la partecipazione alla guerra mondiale, il passaggio del Ciad dalla Francia all'Italia. Il progetto fallì quando il Camerun venne assegnato alla Francia e l'Italia ottenne solamente l'Oltregiuba, oltre a una ridefinizione dei confini tra la Libia e ed il Ciad, possedimento francese.
Una delle richieste italiane durante il Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale fu quella di annettere la Somalia Francese e il Somaliland in cambio della rinuncia alla partecipazione nella ripartizione delle colonie tedesche tra le forze dell'Intesa. Il tentativo non ebbe seguito. Fu l'ultima manovra dello stato liberale, prima del fascismo, relativa alla penetrazione nel Corno d'Africa.

[modifica] Fatti di sangue durante il dominio coloniale italiano Per approfondire, vedi la voce crimini di guerra italiani.

A seguito dell'uccisione di civili e militari italiani in Libia ed Etiopia[52], durante il dominio coloniale italiano in Africa furono commesse (anche se in misura inferiore a quanto fatto - ad esempio - da inglesi e francesi[53]) alcune atrocità e crimini contro l'umanità[54][55].

[modifica] L'Italia nella prima guerra mondiale (1915-1918) Per approfondire, vedi le voci prima guerra mondiale, fronte italiano (prima guerra mondiale) e Battaglia dell'Isonzo.


Armando Diaz[modifica] L'iniziale neutralità Per approfondire, vedi la voce Neutralità italiana (1914-1915).

Nella prima guerra mondiale l'Italia rimase inizialmente neutrale, per poi scendere al fianco degli alleati il 23 maggio 1915 dopo la firma del segreto Patto di Londra. L'accordo prevedeva che l'Italia entrasse in guerra al fianco dell'Intesa entro un mese, ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, con l'esclusione di Fiume, parte della Dalmazia.
Per quanto riguarda le colonie, l'Italia avrebbe conquistato l'arcipelago del Dodecaneso (occupato, ma non annesso a colonia dopo la guerra italo-turca), la base di Valona in Albania, il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, nonché un'espansione delle colonie africane, a scapito della Germania (l'Italia in Africa possedeva già Libia, Somalia ed Eritrea).


L'Isonzo vicino a Caporetto[modifica] 1915-1918 Per approfondire, vedi la voce Battaglia di Caporetto.

Lo stato italiano decise di entrare in guerra il 24 maggio 1915.

Il comando dell'esercito venne affidato al generale Luigi Cadorna, che aveva come obiettivo il raggiungimento di Vienna passando per Lubiana[56]. All'alba del 24 maggio il Regio Esercito sparò il primo colpo di cannone contro le postazioni austro-ungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. All'alba dello stesso giorno la flotta austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia; alle 23:56, bombardò Ancona. Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo di Giusto. Il fronte aperto dall'Italia ebbe come teatro le Alpi, dallo Stelvio al mare Adriatico. Lo sforzo principale per sfondare il fronte fu concentrato nella regione delle valli Isonzo, in direzione di Lubiana. Dopo un'iniziale avanzata italiana, gli austro-ungarici ricevettero l'ordine di trincerarsi e resistere. Si arrivò così a una guerra di posizione simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale. La guerra continuò con pochi risultati e molte perdite nel corso del 1915, 1916, 1917.



Mappa dell'avanzata austro-ungarica tedesca in seguito alla rotta italianaNell'ottobre 1917 la Russia abbandonò il conflitto a causa della rivoluzione comunista. Le truppe degli Imperi Centrali furono spostate dal fronte orientale a quello occidentale. Visti gli esiti dell'ultima offensiva italiana e i rinforzi provenienti dal fronte orientale, austro-ungarici e tedeschi decisero di tentare l'avanzata e il 24 ottobre ruppero il fronte convergendo su Caporetto e accerchiando la 2ª Armata comandata dal generale Luigi Capello. Capello e Cadorna da tempo avevano il sospetto di un probabile attacco, ma sottovalutarono l'effettiva capacità offensiva delle forze nemiche. L'unica armata che resistette al disastro[57] fu la 3ª, guidata da Emanuele Filiberto di Savoia, cugino di Re Vittorio Emanuele III.
La rottura del fronte di Caporetto provocò il crollo delle postazioni italiane lungo l'Isonzo, con la ritirata delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, in Trentino, mentre gli austriaci avanzarono per 150 km in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni. La disfatta portò alcune conseguenze: Cadorna venne destituito e sostituito dal maresciallo Armando Diaz nel ruolo di capo di stato maggiore. Oltre a Cadorna perse il posto anche il generale Capello, ritenuto il principale responsabile della sconfitta. Un altro effetto della disfatta l'elevato malcontento nelle truppe: i disordini furono frequenti, e molti si concludevano con sommarie fucilazioni. Gli austro-ungarici fermarono gli attacchi in attesa della primavera del 1918, preparando un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura veneta. Tale offensiva arrivò il 15 giugno: l'esercito dell'Impero attaccò con 66 divisioni nella battaglia del solstizio (15-23 giugno 1918), che vide gli italiani resistere all'assalto. Gli austro-ungarici persero le loro speranze, visto che il paese era ormai a un passo dal tracollo, assillato dall'impossibilità di continuare a sostenere lo sforzo bellico sul piano economico e su quello sociale, data l'incapacità dello Stato di farsi garante dell'integrità dello stato multinazionale asburgico. Con i popoli dell'impero asburgico sull'orlo della rivoluzione, l'Italia anticipò di un anno l'offensiva prevista per il 1919 per impegnare le riserve austro-ungariche ed impedire loro la prosecuzione dell'offensiva sul fronte francese. Da Vittorio Veneto, il 23 ottobre partì l'offensiva. Gli italiani avanzarono rapidamente in Veneto, Friuli e Cadore e il 29 ottobre l'Austria-Ungheria si arrese. Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso Padova l'esercito dell'Impero firmò l'armistizio.


L'Italia nel 1924, con le province di Fiume, di Pola e di Zara[modifica] EsitoL'Italia completò la sua riunificazione nazionale acquisendo il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria, alcuni territori del Friuli ancora irredenti e la città di Trieste. Queste regioni avevano fatto parte, fino ad allora, della Cisleitania nell'ambito dell'Impero austro-ungarico (ad eccezione della città di Fiume, incorporata nel Regno d'Italia nel 1924 e posta in Transleitania). Inoltre al Regno d'Italia furono assegnate alcune compensazioni territoriali in Africa, come l'Oltregiuba in Somalia. Ma il prezzo fu altissimo: 651.010 soldati, 589.000 civili per un totale di 1.240.000 morti su di una popolazione di soli 36 milioni, con la più alta mortalità nella fascia di età compresa tra 20 e 24 anni.[58][59][60]


[modifica] Il ventennio fascista
Il fascio littorio, simbolo del fascismo.[modifica] Nascita del fascismo e marcia su Roma Per approfondire, vedi le voci Storia dell'Italia fascista, Vittoria mutilata, Rivoluzione italiana e Movimenti rivoluzionari nell'Italia del Primo Novecento.

Dopo la Prima guerra mondiale la situazione interna italiana era precaria: le casse statali erano quasi vuote anche perché la lira durante il conflitto aveva perso buona parte del suo valore, a fronte di un costo della vita aumentato di almeno il 450%. Scarseggiavano le materie prime e le industrie faticavano a convertire la produzione bellica in produzione di pace e ad assorbire l'abbondanza di manodopera accresciuta dai soldati di ritorno dal fronte. Inoltre, il paese, con la sua economia basata sull'agricoltura, perse una grossa fetta della sua forza-lavoro causando la rovina di moltissime famiglie. Per questi motivi nessun ceto sociale era soddisfatto, e soprattutto tra i benestanti s'insinuò il timore di una possibile rivoluzione comunista, sull'esempio russo. L'estrema fragilità socio-economica portò spesso a disordini, che il più delle volte venivano stroncati con metodi sbrigativi e sanguinari dalle forze armate.
Inoltre il Trattato di Versailles (1919) non aveva portato a nessun vantaggio importante all'Italia: infatti il patto (memorandum) di Londra, che prevedeva l'annessione all'Italia della Dalmazia, non venne rispettato. Infatti, in base al principio della nazionalità propugnato dal presidente americano Woodrow Wilson, la Dalmazia venne annessa al neocostituito Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con l'eccezione di Zara (a maggioranza italiana) e dell'isola di Lagosta, che con altre tre isole vennero annesse all'Italia.
Tra gli strati sociali più scontenti e più soggetti alle suggestioni ed alla propaganda nazionalista che, a seguito del Trattato di Pace, si infiammò ed alimentò il mito della vittoria mutilata, emersero le organizzazioni di reduci ed in particolare quelle che raccoglievano gli ex-arditi (truppe scelte d'assalto), presso le quali, al malcontento generalizzato, si aggiungeva il risentimento causato dal non aver ottenuto un adeguato riconoscimento per i sacrifici, il coraggio e lo sprezzo del pericolo dimostrati in anni di duri combattimenti al fronte.
Tale era il contesto nel quale il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fondò a Milano il primo fascio di combattimento, un nuovo movimento che espresse la volontà di «trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana», autodefinendosi partito dell'ordine e riuscendo così a guadagnarsi la fiducia dei ceti più ricchi e conservatori, contrari a ogni agitazione e alle rivendicazioni sindacali che caratterizzarono il cosiddetto biennio rosso. Il momento pareva propizio per Mussolini, ed un forte contingente di 50.000 squadristi venne radunato nell'alto Lazio e mosse contro la Capitale, il 26 ottobre 1922. Mentre l'Esercito si preparava a fronteggiare il colpo di mano fascista (con Badoglio principale sostenitore della linea dura) il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d'emergenza, costringendo alle dimissioni il presidente del consiglio Luigi Facta ed il suo governo. Le camicie nere marciarono sulla Capitale il 28 ottobre, senza incontrare alcuna resistenza. Il 30 ottobre, dopo la marcia su Roma, il re incaricò Mussolini di formare il nuovo governo.

[modifica] Il fascismo diventa dittaturaUna volta eletto Presidente del Consiglio, Mussolini decise di rafforzare il proprio potere. In vista delle elezioni del 6 aprile 1924 Mussolini fece approvare una nuova legge elettorale (c.d. Legge Acerbo) che avrebbe dato i tre quinti dei seggi alla lista che avesse raccolto il 40% dei voti. Il listone guidato da Mussolini ottenne il 64,9% dei voti. Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti prese la parola alla Camera contestando i risultati delle elezioni. Il 10 giugno 1924 Matteotti venne rapito e ucciso. Il 3 gennaio 1925 alla Camera Mussolini recitò il famoso discorso in cui si assunse ogni responsabilità per i fatti avvenuti:

« Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi. »


Con questo discorso Mussolini si era dichiarato dittatore. Nel biennio 1925-1926 vennero emanati una serie di provvedimenti liberticidi: furono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, venne soppressa ogni libertà di stampa, di riunione o di parola, venne ripristinata la pena di morte e venne creato un Tribunale speciale con amplissimi poteri, in grado di mandare al confino con un semplice provvedimento amministrativo le persone sgradite al regime.

[modifica] Politica internaIl fascismo in politica interna tentò di contrastare la svalutazione della lira con misure quali la messa in commercio di pane con meno farina, l'aggiunta di alcool alla benzina, l'aumento delle ore di lavoro da 8 a 9 senza variazioni di salario, l'istituzione della tassa sul celibato, la riduzione dei prezzi dei giornali, dei biglietti e dei francobolli ecc. L'11 febbraio 1929 furono firmati i Patti lateranensi, che stabilirono il mutuo riconoscimento tra il Regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano. Con la ratifica del concordato la religione cattolica divenne la religione di stato in Italia, fu istituito l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole e fu riconosciuta la sovranità e l'indipendenza della Santa Sede. Il fascismo tentò inoltre di rendere "pura" la lingua italiana italianizzando i prestiti linguistici[61] e i toponimi stranieri in Valle d'Aosta e in Trentino Alto-Adige. Inoltre viene imposto l'uso del voi al posto del lei, considerato straniero.
L'11 ottobre 1935 l'Italia venne sanzionata per l'invasione dell'Etiopia. Le sanzioni in vigore dal 18 novembre consistono essenzialmente nell'embargo. In realtà fu soltanto la Gran Bretagna a osservare le regole imposte dalle sanzioni. In seguito all'embargo, la propaganda politica spinse affinché si consumassero solo prodotti italiani. Fu in pratica la nascita dell'autarchia, secondo la quale tutto doveva essere prodotto e consumato all'interno dello stato. Per esempio venne sostituito: la lana con il lanital (la lana di caseina), la benzina con il carburante nazionale (benzina con l'85% di alcool) mentre il caffè venne sostituito con il "caffè" d'orzo. Le sanzioni all'Italia avvicinarono Mussolini a Adolf Hitler, il dittatore nazista tedesco. Ben presto i due dittatori strinsero un'alleanza, che venne consolidata dalla promulgazione, nel 1938, da parte di Mussolini delle leggi razziali che privarono di molti diritti civili e politici gli Ebrei (e tutte le altre "razze inferiori"): molti persero il lavoro solo perché Ebrei.


Benito Mussolini con Adolf Hitler[modifica] La politica estera e l'Impero Per approfondire, vedi le voci Africa Orientale Italiana e Impero Italiano d'Etiopia.

A seguito della completa conquista della Libia, avvenuta alla fine degli anni venti, Mussolini manifestò l'intenzione di dare un Impero all'Italia e l'unico territorio rimasto libero da ingerenze straniere era l'Abissinia, nonostante fosse membro della Società delle Nazioni. Il progetto d'invasione iniziò all'indomani della conclusione degli accordi sul trattato di amicizia e si concluse con l'ingresso dell'esercito italiano ad Addis Abeba il 5 maggio 1936.


L'Impero coloniale italiano nel 1940, nel momento di massima espansione.Quattro giorni dopo venne proclamata la nascita dell'Impero italiano e l'incoronazione di Vittorio Emanuele III come Imperatore d'Etiopia (con il titolo di Qesar, anziché quello di Negus Neghesti). Con la conquista di gran parte dell'Etiopia si procedette ad una ristrutturazione delle colonie del Corno d'Africa. Somalia, Eritrea ed Abissinia vennero riunite nel vicereame dell'Africa Orientale Italiana (AOI). Il progetto coloniale terminò con l'occupazione britannica dei territori soggetti al dominio italiano nel 1941. Dal 1938 in Europa si iniziò a respirare aria di guerra: Hitler aveva già annesso l'Austria e i Sudeti e con la successiva Conferenza di Monaco gli venne dato il lasciapassare per l'annessione di tutta la Cecoslovacchia mentre Mussolini, dopo l'Etiopia, stava cercando nuovi obiettivi per non perdere il passo dell'alleato tedesco. La vittima designata venne trovata nell'Albania. In due soli giorni (7-8 aprile 1939), con l'ausilio di 22.000 uomini e 140 carri armati, Tirana fu conquistata. Vittorio Emanuele III divenne anche re d'Albania. Il 22 maggio 1939 venne firmato il Patto d'acciaio tra Germania e Italia.

[modifica] La seconda guerra mondiale Per approfondire, vedi la voce Seconda guerra mondiale.

[modifica] Alleata con la Germania (1940-1943)
Il Regno d'Italia tra il 1941 ed il 1943, con le province di Spalato, di Cattaro e di LubianaIl 10 giugno 1940 l'Italia entrò nella seconda guerra mondiale come alleata della Germania contro Francia e Regno Unito. Nel 1941 fu dichiarata guerra all'Unione Sovietica e con l'Impero giapponese agli Stati Uniti d'America. Mussolini, confortato dagli schiaccianti successi della Germania di Adolf Hitler, credeva in una guerra lampo risolta in breve tempo a favore dell'alleato tedesco, assieme al quale avrebbe potuto sedere al tavolo dei vincitori. In realtà le difficoltà oggettive delle truppe italiane e le ingenti forze a disposizione dell'alleanza nemica, portarono non poche sconfitte all'esercito regio. I primi scontri ebbero luogo il 21 giugno sulle Alpi, contro la Francia, ormai annientata dai tedeschi con la tattica del blitzkrieg, che portò allo stato fascista italiano la sola conquista di una piccola striscia nel sud del Paese, riportando i confini a prima del 1850, con l'esclusione di Nizza. Nello stesso momento lo stato maggiore fascista concentrò le sue mire espansionistiche in Grecia. Pensando di non trovare alcuna resistenza le truppe italiane avanzarono in territorio greco, ma tra novembre e dicembre i Greci, aiutati anche dagli inglesi, passarono all'azione e costrinsero gli italiani a ritirarsi in Albania. L'insuccesso in Grecia causò la fine della Guerra parallela, così chiamata da Mussolini.[62]
Contemporaneamente si registrarono i primi insuccessi anche nelle colonie del corno d'Africa, culminati il 20 maggio con la resa del Duca d'Aosta dopo la Seconda battaglia dell'Amba Alagi. In questa occasione al Regio Esercito fu reso l'onore delle armi da parte dei britannici. L'11 aprile i tedeschi si impossessarono dell'area balcanica, concedendo allo stato fascista di mettere nominalmente a capo dello stato croato un rappresentante di casa Savoia. L'influenza italiana si limitò solamente alle zone costiere e, in base ad accordi con il capo del governo croato Ante Pavelic, l'Italia avrebbe avuto per 25 anni il dominio del litorale della Croazia.[62] Nel 1942 le operazioni italiane si concentrarono in Unione Sovietica e Africa. In entrambi i fronti, grazie alle truppe tedesche si ebbero frequenti successi: in Russia si conquistarono vasti territori e si arrivò a controllare durante l'estate anche Stalingrado, mentre nel nord Africa Rommel si spinse in Egitto, conquistando varie città, ma a causa degli attacchi dell'aviazione anglo-americana e dei rinforzi sempre meno frequenti si arrivò ad una sconfitta nella Seconda battaglia di El Alamein, che segnò la fine delle speranze dell'Asse di conquistare l'Egitto ed i campi petroliferi del Medio Oriente.
La situazione peggiorò poi anche in Russia con l'avvicinarsi dell'inverno, infatti Mussolini non si era curato di rafforzare l'equipaggiamento delle truppe italiane appartenenti all'ARMIR,[63] ex CSIR. Già nell'estate vi erano state pesanti decimazioni nell'esercito italiano e nel dicembre 1942 cominciano le prime pesanti sconfitte, seguite dalla ritirata. Le sconfitte sia sul fronte africano che su quello russo causarono in Italia vari scioperi e un calo di consensi nei confronti del fascismo e di Mussolini. Intanto, in Africa, proseguì la resistenza delle truppe italiane, mentre in Russia procedeva la ritirata. A maggio venne presa Tunisi, ultimo baluardo dell'esercito regio italiano e poche settimane più tardi anche le isole di Lampedusa e Pantelleria, dando inizio all'Operazione Husky.


Umberto II di Savoia, "Luogotenente del Regno" dal 5 giugno 1944. Fu Re d'Italia dal 9 maggio 1946 al 13 giugno dello stesso anno[modifica] La caduta del fascismo, la Repubblica di Salò e la resistenza (1943-1945) Per approfondire, vedi le voci Resistenza Italiana e Repubblica Sociale Italiana.

Le difficoltà militari colpirono anche Benito Mussolini. Il 24 luglio 1943 si riunì il Gran Consiglio del Fascismo e il mattino seguente il duce venne sfiduciato. Vittorio Emanuele III decise quindi di sostituirlo a capo del governo con Pietro Badoglio. Mentre il duce veniva arrestato, il nuovo capo del governo annunciò il proseguimento della guerra a fianco dei tedeschi, ma contemporaneamente stava trattando l'armistizio con gli Alleati, che venne firmato il 3 settembre e reso pubblico l'8. Il giorno successivo il re e Badoglio fuggirono da Roma, recandosi in Puglia, sotto la protezione di inglesi e americani. L'annuncio dell'armistizio provocò la reazione tedesca, le cui truppe occuparono gran parte dell'Italia, catturando molti soldati italiani e, il 12 settembre, liberando Mussolini, che venne incaricato di formare un nuovo regno nel nord Italia. Il Paese si trovò così diviso in due: il Regno del Sud a fianco degli alleati contro la Germania e la Repubblica Sociale Italiana, formata dai reduci fascisti. Di fatto, erano entrambi due stati-fantoccio, rispettivamente degli anglo-americani e dei tedeschi. In questo quadro drammatico, nacquero però le prime formazioni partigiane, che soprattutto nel centro-nord diedero vita al primo nucleo dell'Italia libera. Il 22 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono nell'Italia centrale, nella zona compresa tra Anzio e Nettuno. L'attacco, comandato dal maggiore generale John P. Lucas, aveva lo scopo di aggirare le forze tedesche attestate sulla Linea Gustav e di liberare Roma. La lunga battaglia che ne derivò è comunemente conosciuta come "battaglia di Anzio". Il 24 marzo i nazisti compirono l'eccidio delle Fosse Ardeatine, massacro eseguito a Roma ai danni di 335 civili italiani, come atto di rappresaglia per un attacco eseguito da partigiani contro le truppe germaniche ed avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione. Le Fosse Ardeatine, antiche cave di pozzolana site nei pressi della via Ardeatina, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti e sono oggi visitabili.
Nel maggio 1944 si accrebbe la sottomissione della Repubblica Sociale Italiana nei confronti della Germania nazista, con l'annessione del Trentino-Alto Adige, della provincia di Belluno e di Tarvisio al Terzo Reich. Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III nominò il figlio Luogotenente Generale del Regno in base agli accordi tra le varie forze politiche che costituivano il Comitato di Liberazione Nazionale, che prevedevano di «congelare» la questione istituzionale fino al termine del conflitto. Umberto, dunque, esercitava di fatto le prerogative del sovrano senza tuttavia possedere la dignità di re, che rimase a Vittorio Emanuele III, rimasto in disparte a Salerno. Grazie agli approvvigionamenti ottenuti nell'inverno tra il 1944 ed il 1945 in primavera gli alleati poterono lanciare l'offensiva contro l'esercito tedesco sfondando in più punti la linea gotica portando gli alleati alla liberazione il 21 aprile 1945 di Bologna. L'arrivo degli alleati a Milano fu anticipato dalla insurrezione partigiana proclamata dal CLN il 25 aprile, questa data sarà poi scelta come festività nazionale per ricordare la liberazione. Le truppe nazi-fasciste capitolarono il 29 aprile 1945, ed il 2 maggio il comando tedesco firmò a Caserta la resa delle sue truppe in Italia e per procura anche la resa formale dei reparti della RSI.

[modifica] Epilogo del conflitto e costo della guerraNell'aprile del 1945 le forze nazi-fasciste vennero sconfitte anche con il contributo dei partigiani, formati da ex-militari sbandati dopo l'armistizio ma anche da donne, ragazzi ed anziani, e col supporto delle popolazioni, che costò spesso gravi massacri per rappresaglia da parte delle forze occupanti. Inoltre, vi furono gravi episodi di regolamenti di conti e di guerra civile che costarono agli sconfitti migliaia di morti. La fine della guerra vide l'Italia in condizioni critiche: i vari combattimenti e bombardamenti aerei avevano ridotto molte città e paesi in macerie, le principali vie di comunicazione erano interrotte, il territorio era occupato dalle truppe angloamericane, ad eccezione dell'area triestina che venne velocemente occupata dai partigiani titini per un periodo di sei mesi, ritirandosi solo a seguito di un ultimatum alleato. Durante questo periodo i partigiani jugoslavi massacrarono le minoranze etniche italiane presenti nell'Istria e, per nascondere il crimine, gettarono gli innumerevoli cadaveri nelle foibe carsiche.
Il numero di italiani morti a causa della guerra fu molto elevato: sono stimati tra 415000 (di cui 330000 militari e 85000 civili)[64] e 443000 morti[65], stimando che la popolazione italiana all'inizio del conflitto fosse di 43.800.000 persone si arriva a conteggiare circa una vittima ogni 100 italiani. Dalla fine della guerra fino agli anni cinquanta avvenne anche l'esodo istriano durante il quale circa gran parte della popolazione di lingua italiana (in quantità stimata tra un minimo 200.000 e un massimo 350.000 persone,[66]) abbandonò i territori istriani e dalmati, occupati dalla Jugoslavia, rifugiandosi come profughi in Italia.

[modifica] L'Italia repubblicana Per approfondire, vedi la voce Italia repubblicana.

[modifica] La prima Repubblica Per approfondire, vedi le voci Nascita della Repubblica Italiana e Prima Repubblica (Italia).

Dopo la fine della guerra in Italia lo scontento popolare, soprattutto nell'Italia settentrionale, nei confronti della monarchia era elevatissimo. Il 2 giugno del 1946 un referendum istituzionale sancì la fine della monarchia e la nascita della Repubblica Italiana; in contemporanea vennero eletti i delegati all'Assemblea Costituente. Per la prima volta in Italia, per questa occasione, anche la donne ebbero il diritto al voto. Il 1º luglio Enrico de Nicola viene nominato il primo Presidente della Repubblica Italiana. Il primo Presidente del Consiglio dei ministri fu Alcide De Gasperi, della Democrazia cristiana e, salvo poche eccezioni, dal 1946 al 1993 la Presidenza del Consiglio fu democristiana.
La nuova costituzione repubblicana entrò in vigore il 1º gennaio 1948. In questi si tentò di riparare i danni provocati prima dal fascismo e poi dalla guerra. Anche grazie agli aiuti del Piano Marshall, l'Italia cominciò a riprendersi economicamente, fenomeno che fu definito il "miracolo economico": Il Prodotto interno lordo crebbe del 6.3%, un record nella storia del paese, mentre il reddito pro-capite passò da 350.000 a 571.000 lire. Tra il 1958 e il 1959 gli investimenti lordi crebbero del 10% e tra il 1961 e il 1962 l'incremento fu del 13%. Questi numeri ridussero sensibilmente il divario storico con i grandi Paesi europei: Inghilterra, Germania e Francia. La crescita del reddito pro capite produsse l'aumento dei consumi individuali che registrarono una crescita media di cinque punti percentuali l'anno. La domanda di beni durevoli (automobili, elettrodomestici, ecc. ) raggiunse una crescita annua pari al 10.4%.

Organizzazioni internazionali Membro NATO dal: 4 aprile 1949
Membro ONU dal: 14 dicembre 1955
Membro UE dal: 1º gennaio 1958

L'industria registrò una crescita pari all'84% tra il 1953 e il 1961. L'elevata disponibilità di manodopera era dovuta ad un forte flusso di migrazione dalle campagne alle città e dal sud verso il nord. Questo notevole sviluppo fu possibile anche grazie all'intervento dello Stato nell'economia che intervenne con politiche economiche di stampo keynesiano soprattutto attraverso l'aumento della spesa pubblica e la creazione di società a partecipazione statale. Infine, contribuì alla crescita dell'Italia un fattore esterno, cioè, la creazione del Mercato Europeo Comune (MEC), preceduta dalla creazione, nel 1951, della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e la creazione della CEE nel 1957, a cui l'Italia aderì immediatamente. Con la creazione del MEC vi fu l'apertura delle frontiere europee ai commerci, col conseguente aumento delle esportazioni e degli scambi commerciali europei.


L'immagine più nota dei due giudici, Falcone e BorsellinoNel 1961, avvennero le celebrazioni del Centenario dell'Unità d'Italia: il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy disse: «Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana. È un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia. [...] Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali. Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese. [...] Per quanto l’Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere»[67].
Il 1968 vide l'Italia trasformarsi radicalmente sul piano sociale, in seguito alle migliorate condizioni di vita dovute al boom economico degli anni precedenti ed al sorgere di movimenti radicali, soprattutto comunisti, di giovani e operai, che portarono profonde modifiche al costume, alla mentalità generale e particolarmente alla scuola. Negli anni settanta alcuni dei numerosi movimenti politici, sorti negli anni precedenti, si estremizzarono e degenerarono nel terrorismo rosso (le Brigate Rosse), accompagnato da quello nero (i gruppi neofascisti come i NAR) caratterizzando quelli che furono chiamati gli anni di piombo. Con gli anni ottanta iniziano quelli che Indro Montanelli chiamerà anni di fango. La strage di impronta fascista alla Stazione di Bologna e lo scandalo della loggia massonica P2 causarono un lento declino del potere dei sindacati e della partecipazione politica; crebbe inoltre la disaffezione per i partiti. La caduta del Muro di Berlino nel 1989 ebbe ripercussioni anche in Italia, assumendo il significato di un crollo ideale dell'alternativa al capitalismo. L'anno successivo il PCI deliberò il proprio scioglimento, costituendo un nuovo partito denominato Partito Democratico della Sinistra che abbandonò la tradizione comunista. Con questo gesto s'iniziò quasi senza accorgersene il disfacimento della Prima Repubblica, che logorata da scandali finanziari e da nuovi scenari mondiali, sarebbe morta di li a qualche anno. L'inizio della fine iniziò con il 1992 quando le indagini di Mani pulite sul fenomeno dilagante delle tangenti (lo scandalo venne chiamato Tangentopoli), portarono al coinvolgimento di numerosi esponenti nazionali e locali di tutto il pentapartito che portarono a un rapido declino delle tradizionali forze politiche. Contemporaneamente al disfacimento del vecchio sistema politico si riacutizzò il problema mafioso che in Sicilia prima e nel resto d'Italia dopo nel corso del biennio 1992-94 fece sentire tutta la sua forza arrivando a sfidare attraverso una serie di attentati la forza dello stato. Ciò avvenne attraverso vari attentati prima nel 1992 contro i giudici simbolo della lotta alla mafia, ovvero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che morirono in due tragici attentati. Falcone e Borsellino erano stati capaci con le loro inchieste nel corso degli anni ottanta e dei primi anni novanta di svelare e in parte scardinare il rigido sistema mafioso. La lotta mafiosa contro lo stato poi fu portata a un livello più alto nel corso del 1993 con una serie di attentati a luoghi simbolo dell'Italia. Alla tragica situazione politica e alla lotta alla mafia ci si aggiunse anche la grave crisi economica che colpì lo stato italiano tra il 1992 e il 1994 con l'uscita della lira dallo SME che insieme ad altre situazioni portò alla luce la grande fragilità del sistema economico italiano. Così il vecchio stato che fino ad allora aveva retto, ora sotto l'urto del terremoto politico, mafioso ed economico crollò con le elezioni del 27-28 marzo 1994 che decretarono la fine della Prima Repubblica e l'inizio della Seconda Repubblica.

[modifica] La seconda Repubblica Per approfondire, vedi la voce Seconda Repubblica (Italia).

Durante la Seconda Repubblica si riuscì seppure fra notevoli contraddizioni a bloccare l'azione della mafia, con una serie di leggi, e con l'arresto della cupola mafiosa nel corso degli anni novanta e primi anni 2000. Nello stesso periodo si riuscì a risanare almeno in parte i conti pubblici italiani, permettendo all'Italia seppure con molti sacrifici, di far rientrare prima la lira nello SME e poi di aderire nel 1998 al primo gruppo di paesi che fondarono la moneta unica europea "L'EURO". Sul piano politico nacquero dalla disintegrazione dell'ordine precedente, alcuni nuovi partiti come quello costituito dall'imprenditore Silvio Berlusconi, Forza Italia, il nuovo Partito Polare Italiano, nato dalle ceneri della vecchia DC, e Alleanza Nazionale, che sdoganatasi dal vecchio MSI, divenne il nuovo partito della destra italiana. Questi nuovi soggetti insieme al PDS nato nel 1990 andarono a formare due coalizioni di governo alternative, quella di centrodestra formata da Forza Italia e AN con l'entrata dell'altra grande forza politica ovvero la Lega Nord e quella di centrosinistra formata dal PDS, il PPI e altre forze minori. Queste due coalizioni si alternarono al governo del paese in modo litigioso nel corso degli anni anni novanta e anni 2000. Così facendo si consolidò il principio del bipolarismo e l'alternanza fra i governi dei due schieramenti di centrosinistra e centrodestra: dal 1996 al 2001 i governi dell'Ulivo, dal 2001 al 2006 quelli della Casa delle Libertà, dal 2006 al 2008 quello dell'Unione, e dal 2008 quello del Popolo della Libertà.

[modifica] Note1.^ Celti già presenti sul territorio italiano almeno sin dal XIII secolo a.C. con la cultura proto-celtica detta di Canegrate, al nome dell'omonima località presso Milano, che si sarebbero poi fusi con gli abitanti Liguri per dare vita alla successiva cultura mista di Golasecca (IX-IV secolo a.C.
2.^ Nelle sue Storie, I, 196; V, 9, lo storico greco Erodoto parla degli Ἐνετοί come di una parte del popolo illirico, stanziata presso l'Adriatico. La tesi dell'illiricità dei Veneti, sostenuta principalmente da Carl Pauli a fine XIX secolo, continuò a essere largamente condivisa ma, nella prima metà del XX secolo, Vittore Pisani e Hans Krahe dimostrarono che Erodoto si riferiva in realtà a una tribù illirica stanziata nella Penisola balcanica, e non in area italica.
3.^ Nota: la tesi di un'origine centro-europea è comunque sostenuta anche da autori classici come Tacito e Claudio Tolomeo.
4.^ G. Leonardi - Università di Padova a.a. 1999-2000.
5.^ Moscati, op. cit.
6.^ Moscati, op. cit.
7.^ Roberto Milleddu. Sant'Antioco, intervista a Bartoloni Piero in www.sardegnadigitallibrary.it. Regione Autonoma della Sardegna. URL consultato il 16 marzo 2011.
8.^ Cfr. F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari, 1986
9.^ Moscati, pp. 150-151
10.^ Wanderlingh Attilio, I giorni di Neapolis, Edizioni Intra Moenia, Napoli aprile 2001
11.^ È il numero tramandato dai racconti degli storici antichi, tra cui Tito Livio, nel libro I della sua opera Ab Urbe condita.
12.^ Secondo altre fonti, la firma del trattato fu istantaneamente successiva alla battaglia del Regillo.
13.^ La tradizione storiografica romana racconta della frase Vae victis pronunciata da Brenno in quell'occasione, e del retto comportamento di Furio Camillo, che impedì che Roma fosse riscattata mediante il pagamento di un oneroso tributo.
14.^ La memoria di quest'evento rimase sempre particolarmente viva, e, in occasione del grande incendio di Roma nel 64 d.C., furono in molti a ricordare quello dei Galli di Brenno (Tacito, Annali, XV, 41, 2).
15.^ Polibio, Storie, I, 62, 7.
16.^ Si tratta del figlio del console omonimo che fu sconfitto e trovò la morte a Canne.
17.^ Marco Terenzio Varrone nei suoi Rerum rusticarum libri III (i.17.1) propone una visione secondo cui gli schiavi dovevano essere classificati come strumenti parlanti, distinti dagli strumenti semiparlanti, gli animali, e gli strumenti non parlanti, ovvero gli attrezzi agricoli veri e propri.
18.^ Smith, "Servus", pp. 1022-39, dove è presentata la complessa legislazione romana sugli schiavi.
19.^ Davis, Readings in Ancient History, p. 90.
20.^ Smitha, Frank E. (2006). From a Republic to Emperor Augustus: Spartacus and Declining Slavery. Visitato il 2006-09-23.
21.^ Svetonio, Vita di Claudio, xxv.2.
22.^ Gaio, Institutionum commentarius, i.52, per i cambiamenti del diritto di un padrone di trattare a proprio piacimento gli schiavi; Seneca, De Beneficiis, iii.22, per l'istituzione del diritto di uno schiavo ad essere trattato bene e per la creazione dell'"ombudsman degli schiavi".
23.^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004.
24.^ a b c d Gibbon-Saunders, p. 26
25.^ a b Gibbon-Saunders, p. 98
26.^ a b Gibbon-Saunders, p. 99
27.^ Gibbon-Saunders, pp. 447-455.
28.^ Paolo Diacono, II, 32; Ravegnani 2004, p. 74.
29.^ P. Diacono, II, 37
30.^ P. Diacono, III, 17/22/28/30. Furono quattro le guerre franco-longobardo-bizantine.
31.^ Ostrogorsky, p. 104-105
32.^ Ostrogorsky, p. 148-149
33.^ Ostrogorsky, p. 155
34.^ Ravegnani 2004, p. 139.
35.^ Ravegnani 2006, p. 145.
36.^ Ravegnani 2004, pp. 141-143.
37.^ Ravegnani 2004, pp. 147-152.
38.^ Chittolini, Molho, Schiera, op. cit.
39.^ Cardini e Montesano, p. 389.
40.^ Galasso G., Storia d'Italia Vol XV, Utet, Torino 1995
41.^ A. Bassi, pp. 54-55.
42.^ A. Bassi, p. 55.
43.^ Cfr. Konrad Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, tradotto da Delio Cantimori, Sansoni, Firenze 1986.
44.^ Lezioni di storia di Franco Cardini (storico): l'Umanesimo
45.^ AA. VV. Storia moderna, Donzelli editore, Roma 1998 - Cap. XIV, saggio di Marcello Verga Gli antichi Stati italiani pp. 355-357
46.^ La Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi, capitolo "Un altro italiano a Madrid", p. 319
47.^ Dalle grandi rivoluzioni alla Restaurazione, 2004, La biblioteca di Repubblica, p. 342.
48.^ Dalle grandi rivoluzioni alla Restaurazione, 2004, La biblioteca di Repubblica.
49.^ L'intitolazione relativa alla Corsica scomparirà dalle monete e dai documenti di cancelleria aragonesi già nel corso del XIV secolo (vedi: F. Sedda, La vera storia della bandiera dei sardi, Cagliari, 2007, p. 55 e segg.) e definitivamente anche dalle intitolazioni regie allorché il regno di Aragona si unirà a quello di Castiglia nella corona di Spagna, nel 1479
50.^ Giuseppe Ugo Rescigno, Corso di Diritto Pubblico, 1996, Zanichelli Bologna, p. 209
51.^ G. Napolitano, discorso del 7 gennaio 2011, a Forlì
52.^ Antonicelli, Franco. Trent'anni di storia italiana 1915-1945 p. 67
53.^ Mockler, Anthony. Haile Selassie's War: The Italian-Ethiopian Campaign, 1935-1941, p. 48
54.^ Angelo Del Boca. Italiani, brava gente?, Editore Neri Pozza, 2005.
55.^ Angelo Del Boca. A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell'occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi Dalai, 2007
56.^ L'età dell'imperialismo e la Prima guerra mondiale, 2004, La biblioteca di Repubblica.
57.^ Puntata del "La grande storia" dal tiolo "Casa Savoia" andata in onda su Rai Tre
58.^ G. Mortara, La Salute pubblica in Italia durante e dopo la Guerra, Yale University Press, New Haven, 1925.
59.^ D. A. Glei S. Bruzzone G. Caselli, The effects of war losses on mortality estimates for Italy - A first attempt (L'effetto delle perdite di guerra nella stima della mortalità in Italia - Un primo tentativo)[1]
60.^ Dati Censimento Istat
61.^ per esempio "film" diventa "filmo", "taxi" diventa tassì", "cognac" diventa "arzante".
62.^ a b La seconda guerra mondiale e il dopoguerra, 2004, La biblioteca di Repubblica.
63.^ La seconda guerra mondiale e il dopoguerra, 2004, La biblioteca di Repubblica.
64.^ Giulio De Martino, La mente storica: orientamenti per la didattica geo-storico-sociale, Liguori Editore Srl, 2005, ISBN 88-207-3905-4
65.^ Secondo il rapporto Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45,compilato nel 1957 da Roma: Istituto Centrale Statistica i morti militari furono 291,376, di cui 204,346 prima dell'armistizio (66,686 morti in battaglia o per ferite, 111,579 dispersi certificati morti e 26,081 morti per cause non belliche) e 87,030 dopo l'armistizio (42,916 morti in battaglia o per ferite, 19,840 dispersi certificati morti e 24,274 morti per cause non belliche), i prigionieri morti sono inclusi in questo elenco. I civili morti sono stati 153,147 (123,119 dopo l'armistizio) inclusi 61,432 in attacchi aerei (42,613 dopo l'armistizio). Per ulteriori approfondimento si veda qui. A questi vanno aggiunti 15,000 soldati africani coscritti. Sono incluse le 64,000 vittime delle repressioni e genocidi nazisti (tra cui 30,000 prigionieri).
I morti militari dopo l'armistizio includono 5,927 schierati con gli alleati, 17,166 partigiani e 13,000 della Repubblica Sociale Italiana. 1,000 persone del popolo rom e 8,562 ebrei morirono.
66.^ A tutt'oggi non vi è accordo fra gli storici su una più accurata valutazione del numero di profughi Sintesi di un testo di Ermanno Mattioli e Sintesi di un testo dello storico Enrico Miletto
67.^ [2].

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