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Sunday, May 12, 2013

ICONOGRAFIA Paolo/Francesca, Lancillotto/Ginevra -- DOMENICO MORELLI.

Speranza

MORELLI, Domenico. – Figlio adottivo di Francesco Soldiero e di Maria Giuseppa Mappa, Domenico Soldiero nacque a Napoli il 7 luglio 1823. Dal 1848 scelse di aggiungere il cognome Morelli al proprio, per poi assumerlo come unico. Nel 1892, con decreto reale, il cambio di cognome venne ufficialmente formalizzato.
Giovanissimo s’iscrisse al Real Istituto di belle arti, partecipando negli anni Quaranta a diversi concorsi accademici per la classe di pittura e di nudo, nei quali conseguì vari riconoscimenti; nel 1844 vinse il primo premio nel concorso di pittura con un soggetto dantesco, Virgilio comanda a Dante di inginocchiarsi appena che conobbe l’angelo che guidava la navicella colle anime del Purgatorio (Napoli, Prefettura), esposto alla Biennale borbonica del 1845. Il conseguente mese di pensionato a Roma gli consentì, per la prima volta, di entrare in contatto con la cosmopolita scena artistica della capitale pontificia. Visitò lo studio di Francesco Coghetti, che aveva già completato gli affreschi a villa Torlonia, e soprattutto rimase impressionato dal ciclo pittorico del casino Massimo, realizzato negli anni Venti dai nazareni Philipp Veit, Joseph Anton Koch, Friedrich Overbeck e Ludwig Schnorr von Carosfeld. Inoltre poté finalmente studiare dal vero quei modelli antichi che tanto aveva copiato in Accademia. Tornato a Napoli, riprese a partecipare con assiduità ai concorsi accademici. Nel 1848 competé per il pensionato sul tema Goffredo e l’Angelo (Napoli, Accademia di belle arti, Galleria), ottenendo il secondo posto dopo Saverio Altamura. Nessuno dei due, tuttavia, poté compiere il soggiorno di studi a Roma. A causa degli avvenimenti del Quarantotto napoletano, infatti, le restrizioni borboniche costrinsero Morelli a rinviare la partenza, mentre Altamura, per ragioni politiche, fu mandato in esilio.
Morelli, smanioso di superare gli angusti confini della capitale borbonica, riuscì a raggiungere segretamente Firenze dove ritrovò, esiliati, Altamura e Pasquale Villari. Vi arrivò per la prima volta nel 1851, dopo aver terminato Un neofita (1850; Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), saggio per il primo anno di pensionato, ritornando poi nel 1853, durante la complessa elaborazione del Cesare Borgia a Capua (Palermo, collezione privata), ispirato alla Storia d’Italia di Guicciardini. Il medesimo desiderio di conoscenza e di approfondimento storico-letterario lo spinse ancora a Genova, a Milano, a Venezia e di nuovo a Roma, dove soggiornò nel 1852 e nel 1854. La produzione artistica del periodo di formazione, circoscrivibile tra il 1845 e il 1855, fu il risultato dello studio, mediato da Villari, allievo della scuola liberale di De Sanctis, delle fonti letterarie del passato (Dante, Tasso, Shakespeare), ma anche de I promessi sposi di Manzoni, degli scritti di Scott, Moore e Byron, nonché della poetica di Leopardi. Proprio dalle letture byroniane, «il Corsaro, la Parisina, Lara e altri poemi minori» (Lettere, 2002, p. XXVIII), trasse ispirazione per opere come Corsari greci sulla spiaggia (Napoli, Università degli studi Federico II), sua prima prova nel filone della pittura di storia esposta alla Mostra borbonica del 1848. I contatti con l’ambiente artistico milanese (Eleuterio Pagliano, Giuseppe Bertini) contribuirono a elevarlo a interprete tra i più originali del secondo romanticismo. Passaggio decisivo nella formulazione di una concezione nuova della pittura furono i cosiddetti ‘martirologi’ del Museo di Capodimonte. A partire dai modelli letterari e dalla storia, intendeva «rappresentar figure e cose, non viste, ma vere ed immaginate all’un tempo» (Filippo Palizzi e la scuola napoletana... 1901, p. 82). Al già ricordato Neofita seguirono I martiri cristiani condotti al supplizio (1851) e I martiri cristiani portati dagli angeli (1855), presentati come prove rispettivamente per il secondo e per il quarto anno di pensionato. Abbandonato il purismo lineare di eredità nazarena, il fare pittorico di Morelli evolse verso una più intensa drammatizzazione dei valori cromatici e dei contrasti chiaroscurali. Con Gli iconoclasti (1855) prese avvio una poetica incentrata sulla restituzione obiettiva della verità dei fatti rappresentati, che prese il nome di verismo storico.
Il dipinto decretò il successo dell’artista a livello nazionale tanto da essere ancora acclamato all’Esposizione di Firenze sette anni dopo. Alla mostra borbonica del 1855 la tela destò l’ammirazione di Ferdinando II, il quale avendone però ben compreso il significato patriottico, mise sull’avviso Morelli, esordendo con la celebre frase: «Nun fa’ a pittura cu certe penziere a’ dinto!» (Levi, 1906, p. 64). Sintesi dell’approfondimento della coeva pittura francese ma soprattutto dell’influsso del naturalismo palizziano, Gli iconoclasti riuniva in sé i nuovi valori risorgimentali sottolineando la necessità di conquista delle libertà civili e di difesa delle opere d’arte. Il tema del dipinto, raffigurante il monaco Lazzaro condannato al taglio della mano perché sorpreso a dipingere immagini sacre nei sotterranei di S. Sofia a Costantinopoli, gli fu suggerito da Villari, suo amico fraterno nonché cognato.
Il 10 marzo 1853 Morelli aveva sposato la sorella di Villari,Virginia, da cui ebbe 8 figli: Eva Maria Margherita, Bonaventura Mario Pasquale (ambedue morti in tenerissima età), Evangelina, Bonaventura, Eleonora (moglie di Paolo Vetri), Fausto, Mario, Virginio (Lettere, 2002, 2004). Conosciutisi «poco dopo del 1840» (Villari, 1902, p. 4) presso lo studio dell’avvocato Francesco Paolo Ruggiero, Villari rappresentò per Morelli il principale ispiratore della sua prima produzione di matrice verista. Il sodalizio con Villari, storico e filosofo oltre che politico in anni postunitari, è ampiamente documentato negli epistolari conservati nella Biblioteca apostolica Vaticana e nella Biblioteca nazionale di Napoli (Lettere, 2002, 2004), carte preziosissime non solo per la ricostruzione del pensiero e della biografia dell’artista ma anche del contesto culturale dell’epoca, del quale restituiscono un assai vivido ritratto.
A seguito del successo riscosso con l’esposizione borbonica, Morelli intraprese in compagnia di Giuseppe Tipaldi un viaggio d’istruzione attraverso le capitali europee dell’arte (Monaco, Berlino, Bruxelles, Londra, Parigi), durante il quale confermò il profondo interesse per la pittura tedesca, in particolare dei Deutsch-Römer e dei contemporanei Karl Ferdinand Sohn e Karl Theodor von Piloty. All’Esposizione universale di Parigi (1855) manifestò, invece, sentimenti contrastanti: da un lato l’insofferenza per la posizione degli Italiani a suo avviso mal rappresentati, dall’altro la fascinazione per l’arte europea, la cui impressione perdurò a lungo nella mente dell’artista (Bagno pompeiano, 1861, Milano, Fondazione Balzan). Nel 1856, di ritorno dal viaggio, si stabilì per un anno a Firenze con Bernardo Celentano, con la sola interruzione di una breve sortita in compagnia dell’«amatissimo Pasqualino» nel mese di luglio a Venezia e a Verona. L’impatto con il cromatismo veneto, componente fondamentale della tradizione artistica italiana, ispirò lavori come I freschi veneziani (Roma, collezione privata), presentato alla prima Nazionale di Firenze del 1861 insieme a Bagno pompeiano, Il conte Lara e il suo paggio, Barca con figure,Mattinata fiorentina, Gli iconoclasti,Mattinata di Lorenzo de’ Medici, Allegoria sulla vita umana, alcuni dei quali furono acquistati dal banchiere svizzero italianizzato Giovanni Vonwiller.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta fu impegnato anche nelle imprese decorative della chiesa di S. Francesco a Gaeta (opera incompiuta di cui restano i bozzetti) e soprattutto negli affreschi della cappella neobizantina di palazzo Nunziante a Napoli, felice episodio d’integrazione tra spazio architettonico e pittura dove trovò pieno compimento il processo di rivisitazione del Medioevo che aveva accompagnato l’artista sin dagli esordi. Il progetto fu condotto nel 1859 da Errico Alvino, architetto con il quale avrebbe collaborato dieci anni dopo per la realizzazione della Culla del principe Vittorio Emanuele (Caserta, Palazzo reale), dono della città di Napoli al primo erede dell’Italia unita. La prestigiosa commissione segnò tuttavia la conclusione del rapporto tra la Casa reale e Morelli, che a partire dal 1863 aveva lavorato al progetto di revisione delle collezioni d’arte moderna nella reggia di Capodimonte. Tra i vari incarichi nel 1864 gli fu affidata l’esecuzione del «gran quadro» dell’Assunta (terminato nel 1866) per il soffitto della cappella del Palazzo reale di Napoli.
Lo schema iconografico, con la Vergine in ascensione sorretta da angeli e immersa nel blu profondo del cielo, trovava preciso fondamento non solo nella riflessione sulla grande tradizione figurativa, ma sopratutto nella rilettura delle fonti religiose, canoniche e leggendarie. La necessità di aderenza al vero storico lo spinse a studiare una composizione adeguata al punto di vista naturale dello spettatore, dal basso, ove non risultassero «né la tomba, né alcun pezzo di terra» (Levi, 1906, p. 149), così come trasmesso dai testi sacri. L’Assunta, di cui esistono diversi bozzetti preparatori, segnò un importante momento di evoluzione verso una nuova prassi linguistica e formale, caratterizzata, secondo una cifra stilistica tipica della sua tarda attività, da un più generale schiarimento della gamma cromatica ottenuto con un ampio ricorso a miscele di biacca.
Per gli sviluppi dell’attività artistica di Morelli fu senz’altro determinante la sua amicizia con Giuseppe Verdi, conosciuto a Napoli nel 1845 ai tempi della prima dell’Alzira al teatro S. Carlo. Il legame ossequioso con il compositore indirizzò l’artista verso filoni tematici legati al teatro romantico del tempo, ispirando tele come I Vespri siciliani (1859-1860; Napoli, Museo di Capodimonte), episodio tratto dal romanzo di Michele Amari (1842) e messo in scena da Verdi proprio a Napoli nella stagione 1856-1857, o la più tarda composizione della Cacciata dei saraceni ideata per il sipario del teatro Verdi di Salerno e poi tradotta in un dipinto per Vonwiller (1868-1869 circa), oggi in collezione privata. Nel 1858 ebbe la fortuna di entrare nelle grazie del maestro, il quale gli concesse di effigiarlo. Ripetutamente menzionato nella fitta corrispondenza tra i due, il Ritratto (Piacenza, collezione Carrara Verdi) – incorniciato da una corona d’alloro dipinta da Filippo Palizzi – non fu l’unica opera destinata al musicista. Dagli anni Settanta, Verdi divenne il consulente artistico di Morelli il quale non mancava occasione per mandargli fotografie degli suoi ultimi lavori, ottenendone consigli, e per confrontarsi con lui su temi di comune interesse, come la rappresentazione dei personaggi shakespeariani del Re Lear e dell’Otello. Per giustificarsi del ritardo nella consegna del ritratto (a causa di varie vicissitudini giunto a destinazione solo nel 1896), il pittore inviò una seconda opera, di soggetto evangelico, Gli Ossessi (Milano, Casa di riposo per musicisti, Fondazione Giuseppe Verdi), ispirata alla Vie de Jésus di Joseph-Ernest Renan, frutto di una tormentata elaborazione, portata a compimento tra il 1873 e il 1876. Nello stesso periodo prese avvio la sua stagione orientalista: «Erano i giorni dell’Aida, e Morelli, che aveva già iniziato spiritualmente il viaggio d’Oriente, trovò un compagno. Percorsero l’uno e l’altro le medesime regioni e le videro senza averle mai visitate» (Conti, 1927, p. 27). Anche per questo filone figurativo l’ispirazione del pittore trovò sostegno nell’analisi approfondita delle fonti, il Corano, la biografia di Maometto scritta da Washington Irving, la letteratura di viaggio, e della documentazione fotografica della Palestina, ottenuta grazie al rapporto d’amicizia stretto col pittore inglese naturalizzato sir Lawrence Alma Tadema (Villari, in Lettere, 2004, p. CXLIII). Da tali ricerche scaturirono i due acquerelli Allah perdona le donne che hanno molto amato (Piacenza, Galleria Ricci Oddi) e l’Improvvisatore arabo della collezione Stevens, fortunata invenzione attestata da diverse repliche, o ancora le due versioni del Maometto che prega prima della battaglia (rispettivamente Trieste, Museo Revoltella, e collezione privata). Le suggestioni del mondo orientale, come nella serie delle Odalische, sensualissime figure femminili dai tratti esotici (tra le tante, La donna nell’Oda, 1874, già collezione Maglione, ora Tel Aviv, collezione privata), o nel Bagno turco (collezione privata), filtrarono attraverso la rimeditazione dell’eredità di Mariano Fortuny, suo amico ed estimatore, morto a Roma nel 1874. Morelli ebbe il merito di riunire in sé la lezione del pittore spagnolo, dalla raffinatezza dell’arte giapponese con i suoi motivi decorativi e le sue fredde cromie, ai bagliori di luce vibrante, restituendoli in atmosfere d’incanto, come in La sultana e le schiave al ritorno dal bagno (1883 circa;Milano, Fondazione Balzan). Tali scelte provocarono non pochi giudizi negativi da parte della critica ufficiale, specie quella di matrice toscana, che alle Esposizioni nazionali di Napoli del 1877 e di Torino del 1880 si schierò pesantemente contro la scuola napoletana, accusando lo stesso Morelli di aver ceduto «all’arte di moda». Un’invettiva di Adriano Cecioni fu in particolar modo indirizzata a Le tentazioni di s. Antonio (1878), senza dubbio una delle prove più estenuanti della carriera di Morelli, sia nella realizzazione sia nella ricezione presso i contemporanei.
Totalmente incompreso dal pubblico, il quadro segnò il fallimento del rapporto con il mercante francese Adolphe Goupil, con il quale aveva fruttuosamente collaborato per la vendita di diversi lavori. Nel 1880 Le tentazioni passò dalla collezione Goupil alla galleria Pisani di Firenze, dove rimase fino al 1914, quando entrò a far parte delle collezioni della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. La composizione, tratta dall’omonimo poema di Gustave Flaubert, fu preceduta da una lunga serie di pensieri, schizzi, disegni, e da una prima redazione di dimensioni minori (già proprietà Vonwiller, poi Treccani). Nonostante le aspre critiche, all’Esposizione di Torino Morelli ricevette un diploma d’onore e un contestato premio in denaro, suscitando il non facile entusiasmo di Verdi, che definì quel dipinto un «capo-d’opera» (Levi, 1906, p. 234).
La fama di Morelli, non solo come pittore ma anche come intellettuale attivo nelle istituzioni artistiche e culturali dell’Italia unita, era ormai comunque consolidata e riconosciuta su scala nazionale e internazionale. Si era interessato, infatti, alle problematiche storiche e sociali connesse al processo di creazione dello Stato unitario, rendendosi punto di riferimento per la ridefinizione del nuovo ruolo dell’artista, impegnato e partecipe della costruzione della nuova società civile. Dal 1868 fu titolare della cattedra di pittura presso l’Istituto di belle arti di Napoli, dedicandosi a tempo pieno, in collaborazione con Filippo Palizzi, alla riforma della scuola allo scopo di rinnovarne i modelli didattici e garantire agli allievi una più adeguata formazione artistica. Successivamente i contrasti interni all’istituto costrinsero prima Palizzi, nella carica di presidente, e poi Morelli, a rassegnare le dimissioni nel 1881, salvo ritornarvi dieci anni più tardi su richiesta di Villari (divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1891-1892). Nel 1882 fu istituito a Napoli il Museo artistico industriale, il cui regolamento, sottoscritto da Gaetano Filangieri e Demetrio Salazar, ebbe la direzione di Palizzi e Morelli. La nascita del Museo era volta a garantire un’educazione completa sia ai produttori sia al pubblico allo scopo di promuovere la disciplina e il progresso delle arti applicate, sulla scia di un movimento avviato in Europa. Sempre al fianco di Palizzi, Morelli fu uno dei fondatori della Società promotrice di belle arti, libera associazione sorta nel 1862 che, attraverso le esposizioni annuali, intendeva dare sostegno ai giovani artisti.
Le attività della Promotrice di Napoli furono affiancate da Vonwiller, che ricoprì le cariche di consigliere e di presidente, oltre a risultare azionista della Società. Generoso sostenitore di Morelli sin dai tempi della giovinezza, Vonwiller tra il 1856 e il 1858 lo aveva accompagnato in viaggio a Milano, passando per Firenze e Ferrara, affidandosi poi all’artista affinché curasse le scelte di acquisto per la propria galleria, sita in via dei Guantai nuovi e aperta anche al pubblico. Alla morte di Morelli, tuttavia, l’importante collezione, segnalata anche nelle guide cittadine, fu venduta all’asta a Parigi. Nella raccolta, esempio illustre per qualità e completezza del collezionismo moderno a Napoli e in Italia, figuravano molti dipinti di Morelli – solo nell’inventario del 1871 se ne contavano 18 (Lettere, 2004, p. CXLII) – tra cui La barca della vita o Allegoria della vita umana (Roma, Antico Caffè greco), I profughi di Aquileia (Napoli, Accademia di belle arti, Galleria), Il conte di Lara, Torquato Tasso che legge la Gerusalemme liberata a Eleonora d’Este e Cristo deposto o Imbalsamazione di Cristo, tutti nella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
Nonostante i numerosi incarichi che accreditarono il suo prestigio a livello nazionale (nel 1886 fu insignito della nomina di senatore), Morelli non si sottrasse alla pratica pittorica, considerandola un rifugio dagli impegni quotidiani. Negli anni maturi si concentrò sui temi religiosi, sempre secondo un rigoroso metodo di studio e di ricerca dei testi, dalle fonti e leggende del cristianesimo alle teorie positiviste di Ernest Renan e di David-Friedrich Strauss sulla figura storica di Gesù. Il tema evangelico e cristologico, inaugurato negli anni Sessanta con il Cristo che cammina sulle acque del mare – «fra i primi di questi nuovi lavori, che è però dei meno riusciti» (Villari, 1902, p. 22) – assorbì la quasi totalità della sua tarda produzione; per questo periodo (dagli ultimi anni Ottanta fino al 1900), si pensi, a esempio, al consistente nucleo conservato alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, tra cui Venerdì santo, Pater Noster, Gesù chiama a sé i figli di Zebedeo, Cristo che veglia gli apostoli, Il pentimento di Giuda. La figura del Cristo, straordinaria coincidenza di umanità e divinità, è immaginata da Morelli come immersa in un’ambientazione fortemente evocativa, memore di quell’Oriente che egli aveva conosciuto grazie ai repertori fotografici, di cui possedeva una vasta collezione.
La stessa originale interpretazione della storia sacra riguardò anche le opere di soggetto mariano, declinando un’intonazione intima e familiare, e pertanto ‘vera’, dell’iconografia. Dopo aver eseguito il trittico per la cappella del castello di Corigliano Calabro (noto come Salve Regina o La Vergine delle Rose; 1872), Morelli decise di tradurre nel 1875 un acquerello, da lui precedentemente realizzato, in un dipinto a olio, come dono per le nozze di Villari con Linda White: «Io sto dipingendo una Madonna per te, la vorrei bella assai, la vorrei fare vera e mistica ad un tempo» (Lettere, 2004, p. CLXXVIII). Ne risultò la Madonna della Scala d’oro, replicata in una seconda versione inviata in America tramite Goupil (entrambe non rintracciate) e, successivamente, in un pannello in gres maiolicato prodotto e conservato presso il Museo artistico industriale (1898). Morelli risolse l’immagine della Vergine-Madre di Dio nella semplice rappresentazione di una giovane donna col suo bambino in braccio, rilanciando così un soggetto che da quel momento incontrò grande fortuna sul mercato.
La tensione mistica dell’ultimo periodo indusse Morelli a ripensare alcune delle letture che tanto lo avevano appassionato trent’anni prima, come ricordava Villari nel suo Diario: «Byron o gli amori degli angeli fanno la sua lettura prediletta» (Lettere, 2002, p. XXIX). Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta la sua pittura assunse tinte simboliche e spirituali, con tonalità evanescenti. La rappresentazione delle figure degli angeli, mistiche ed eteree, si coniugò a un’ulteriore evoluzione della resa formale. Il frequente uso dell’acquerello accompagnò il progressivo sfaldamento della materia pittorica, sempre più diafana e rarefatta. Con la stessa tecnica eseguì una delle prime redazioni degli Amori degli angeli, realizzata nel 1875, per il perduto boudoir privato di casa Miceli (Netti, 1895, pp. 192 s.). Tra la prima versione e l’acquerello di collezione Chiarandà (1885) passato, poi, nella raccolta Marzotto, Morelli maturò in chiave simbolista lo stesso soggetto, derivato dall’omonimo poema di Thomas Moore.
Agli ultimi due decenni del secolo risalgono pure gli interventi decorativi per le facciate del duomo di Amalfi (in collaborazione con Paolo Vetri) e del Museo artistico industriale, espressioni differenti di integrazione tra architettura, pittura e arti applicate e delle riflessioni morelliane sull’arte antica.
Uno dei lavori finali di Morelli fu la realizzazione dei disegni per le tavole della cosiddetta Bibbia di Amsterdam (dalla città in cui aveva sede la società che promosse l’opera).
Il piano editoriale prevedeva 100 tavole a illustrazione di un volume, di grande formato, da pubblicarsi a dispense e in più edizioni. All’ambiziosa impresa, coordinata dalla Società anonima per la Bibbia illustrata presieduta da Carel Dake, furono chiamati a partecipare 26 artisti, europei e americani, di nazionalità e stili differenti. Per l’Italia presero parte, a seguito della prima Biennale internazionale di Venezia (1895) dove si erano aggiudicati i premi più importanti, Giovanni Segantini, Francesco Paolo Michetti e Morelli, che aveva presentato il Cristo con gli angeli nel deserto (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). Il soggetto fu poi ripreso in una delle sette tavole a lui commissionate (Il Cantico dei Cantici, Gesù in Galilea, Il Battista decapitato, Il ritorno del figliuol prodigo, Saulo e Anania, Gesù con gli angeli nel deserto, Gesù davanti ad Erode). I disegni degli artisti furono infine tradotti in incisioni dall’editrice parigina Lemercier ed esposti a Londra nel 1901. Nello stesso anno furono messe sul mercato le prime edizioni (olandese, inglese, latina) della Bibbia.
Morelli non riuscì a vedere l’esemplare che gli era stato inviato. Durante l’estate la malattia al cuore, di cui soffriva già da tempo, si aggravò ulteriormente. Morì a Napoli il 13 agosto 1901.
Fonti e Bibl.: D. Morelli, Lettere a Pasquale Villari, a cura di A. Villari, I, 1849-1859, Napoli 2002; II, 1860 -1899, ibid. 2004; F. Netti, Scritti varii, Trani 1895, pp. 168-170, 192-199, 431 s., 448-450; D. Morelli, Filippo Palizzi e la scuola napoletana di pittura dopo il 1840. Ricordi, in Napoli nobilissima, X (1901), pp. 66-71, 81-88; P. Villari, D. M. Commemorazione fatta a Napoli il 19 gennaio 1902, estratto da Nuova Antologia, s. 4, XCVIII (1902); P. Levi, D. M. nella vita e nell’arte, Roma-Torino 1906; A. Conti, D. M., Napoli 1927; G. Cassese - A. Cipriani, Notizie dall’Archivio storico dell’Accademia di belle arti di Napoli, ibid., pp. 58-61; D. M. e il suo tempo. 1823-1901 dal romanticismo al simbolismo (catal.), a cura di L. Martorelli, Napoli 2005 (cui si rinvia per un esame complessivo e aggiornato della produzione di M. e per l’elenco esaustivo delle fonti e delle voci bibliografiche precedenti); L. Martorelli, Dopo l’Unità d’Italia: D. M. tra collezionismo, istituzioni e mercato, in Pittura italiana nell’Ottocento. Convegno, Firenze… 2002, a cura di M. Hansmann - M. Seidel, Venezia 2005, pp. 151-172; Id., Il contributo di M. per la cappella Nunziante di Errico Alvino, in Architettura e arti applicate tra teoria e progetto. La storia, gli stili, il quotidiano 1850-1914. Atti del Convegno… 2003, a cura di F. Mangone, Napoli 2005, pp. 113-121; Id., L’Oriente e il Golfo. D. M. e la pittura orientalista, in FMR, n.s., XII (2006), pp. 1- 28; Id., D. M., in Disegni del XIX secolo della Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino. Fogli scelti dal Gabinetto disegni e stampe, a cura di V. Bertone, II, Firenze 2009, pp. 325- 359; Id., L’Assunta di M. Genesi del dipinto, in Effetto luce. Materiali, tecnica, conservazione della pittura italiana dell’Ottocento. Atti del Convegno… 2008, a cura di IGIIC, Firenze 2009, pp. 109-112; Il fondo D. M. Catalogo delle opere su carta, a cura di R. Camerlingo, Roma 2010.
Valeria Vagnoli
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