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Wednesday, May 15, 2013

Il bacio di Paolo Malatesta -- il codice dell'amore cortese

Speranza

Quando fantastico sull’epoca medioevale, la mia immaginazione vola ai bei cavalieri coperti da lucenti armature, ai tornei, alle affascinanti eroine minacciate di essere rapite dal cattivo di turno… a quei tempi almeno una giornata su tre era festiva grazie alle numerose celebrazioni cattoliche e alle fiere dei villaggi dove era possibile assistere alle “giostre”, sfide in cui uomini coraggiosi si affrontavano in sella a possenti destrieri.

Originariamente le armi impiegate erano autentiche ma già nel XIII secolo i contendenti si affrontavano con armi dette “cortesi” ovvero, lance e spade spuntate anche se gli scontri rimasero talmente cruenti che gli incidenti erano inevitabili.


Quando un cavaliere sfidava il rivale toccava con la punta della spada lo scudo sospeso sotto le insegne del rivale e la sfida a questo punto non poteva che essere accettata.
 
 
Lo sfidante, preparata l’armatura, si presentava alla dama alla quale dedicava il combattimento portando al braccio, sulla lancia o attorno al collo un fazzoletto con i colori della prescelta.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rumore di zoccoli sulla terra battuta, schianto di lance, boato metallico di scudi… se uno dei due contendenti veniva disarcionato, l’altro scendeva a terra per continuare il duello con la spada o con la mazza e alla fine i giudici designavano il vincitore che riceveva il premio: le armi e il destriero del perdente. Restava da concludere la “faccenda” con la dama.
 
E qui scopriamo cose davvero interessanti…

Solo a partire dal IX secolo, con la mediazione della Chiesa Cattolica, comincia a diffondersi nella società medioevale la monogamia ma il vincolo tra futuri sposi, almeno presso le famiglie aristocratiche, è strettamente legato alla convenienza, un espediente per conquistare prestigio e ricchezze. Attenzione: è solo in quest’epoca che il matrimonio comincia a diventare un sacramento e il prete, all’inizio, ha la sola funzione di “testimone” del legame tra uomo e donna (ricordiamoci che allora il clero non era vincolato col celibato e i preti, “sessualmente attivi” non si preoccupavano più di tanto della vita sessuale del loro “gregge”). Fu solo nei due secoli seguenti che la Chiesa fece del matrimonio un sacramento religioso grazie all’uso della “benedizione del letto” e della casa dei giovani sposi che identificavano questa pratica con la garanzia di un legame fecondo e benedetto. Tra l’altro, solo i figli nati nel vincolo sacro del matrimonio, avevano il diritto all’eredità di titoli e di beni.  

Con la riforma Gregoriana dell’XI secolo che sancì la castità del clero, le cose si guastarono parecchio. La Chiesa, imponendo il celibato ai preti, circoscrisse l’atto sessuale alla sfera coniugale imponendo ai credenti un unico matrimonio indissolubile.  

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Essa si insinuò anche nella sfera privata imponendo ristrette regole all’interno della coppie: vietato “consumare” la domenica, durante i quaranta giorni che precedono la Pasqua, a Natale e durante la Pentecoste e in genere in tutti quei giorni (numerosissimi) in cui si festeggiava un santo. Secondo lo storico francese Flandrin, se i nostri “piccioncini” avessero osservato scrupolosamente queste imposizioni, aggiungendo i periodi “critici” femminili (il mestruo, le gravidanze, l’allattamento), erano fortunati se potevano contare tre, quattro “capriole” sul pagliericcio al mese e, udite! udite!, l’uomo era qualificato come adultero se “abbracciava” la moglie con troppa passione. Nulla era più infamante che amare una sposa come una prostituta! Non stupiamoci quindi se alcune pratiche del talamo vennero bandite ed etichettate come “sporche”. Solo la posizione del “missionario” era ammessa, tutte le altre forme di accoppiamento venivano condannate senza appello. Guai se la donna avesse assunto la posizione “mulier super virum”: la maledizione di Satana sarebbe calata sugli impudenti, facendogli generare figli deformi, mostruosi, lebbrosi…geniale essere una giovane coppia di sposi nel Medioevo, eh?  

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E i trovatori che cantano le romantiche gesta degli eroi innamorati, i poemi, le ballate?
 
E l’amore cortese, come quello di Tristano e Isotta?
 
Rassicuratevi, esiste ed è esaltato come un amore che rispetta le regole della cavalleria, profondo e venerabile.
 
Esso trova le sue origini nella letteratura del Levante e in quella Arabo-Andalusa e sembra che il primo a cantarne le lodi, in lingua d’Oca, fu Guglielmo IX di Poitiers, nel corso della sua crociata in Oriente.
 
Grande amatore, fu probabilmente il primo a codificare questi aneliti di “amor cortese” al solo scopo di rivaleggiare con l’ideale religioso che si dava al culto del matrimonio.

Eh sì, care mie, l’amore cortese altro non è che amore “adulterino” ma abbiamo ben capito che ci sono circostanze attenuanti, no?
 
Ma i cavalieri che professano l’amor cortese, chi sono?
 
Dato che il matrimonio è la negoziazione
di un contratto, sovente imposto e l
e famiglie si preoccupano solo del primo figlio
per non dilapidare la fortuna del casato,
tutti gli altri “pargoli” sono destinati agli
ordini ecclesiastici o introdotti all’arte della guerra e della cavalleria.
 
Questi ultimi devono combattere molte battaglie per racimolare un gruzzolo sufficiente e si sposavano tardi o non si sposavano affatto.  

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sono loro che costituiscono la “popolazione” turbolenta, quella frustrata e rude che si trova di fronte a spose deluse dal matrimonio imposto dalla famiglia.
 
Il codice dell’amore cortese
legittima e ritualizza dunque
un desiderio carnale e spirituale
che non può, per cause di forza
maggiore, fiorire
all’interno della coppia sposata.
  

Nasce un così l’amore casto (occhio, non ho detto platonico!)
che si insinua nel corpo e nell’anima dell’innamorato.
 
Il desiderio si amplifica, si ingrandisce perché l’oggetto del suo amore,
la dama di rango superiore, si rende inaccessibile o indifferente.
 
Già allora le donne avevano capito che per rendersi desiderabili bisogna farsi… desiderare!

Questo tipo di amore
diventa un gioco organizzato
da uomini per gli uomini e potremmo dire che entra a far parte dell’educazione di un cavaliere perché, per arrivare allo “scopo”, egli deve dare prova di virilità, di forza e di coraggio ma, nello stesso tempo, deve imparare a controllarsi, a mantenere un contegno adeguato.
 
Bisogna salvaguardare la dama dalle calunnie e mantenere segreto l’amore.
 
Soprattutto al marito cornuto!

Il Giardino del Piacere (Roman de la rose), ( XV°sec.)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La donna, adorata fino all’ossessione attira gli sguardi,
risveglia l’impulso carnale dei cavalieri, si concede
e nega con arguzia in una progressione sottile che ha come fine far apprendere al cavaliere come padroneggiare gli istinti e il corpo, messo a dura prova dall’eccitazione e dal pericolo.
 
Succede così anche per Ginevra e Lancillotto.

Ne “Il Romanzo della Rosa”, opera francese del XII secolo, il protagonista entra in un giardino dove in uno stagno magico si riflette un roseto.
 
Egli vorrebbe cogliere una rosa ma senza ferirsi con le spine… la metafora è chiara: la dama è la rosa inaccessibile, pericolosa ma ardentemente agognata e il protagonista il cavaliere che si strugge, pronto a tutti i sacrifici pur di conquistarla!



Non è per questo che Amanda Quick fa nascere l’amore tra Alice e Richard de Scarcliffe? O Johanna Lindsey immagina Rowena, mentre commette l’atto supremo di condanna per l’epoca abusando sfrontatamente di Warrick?

E tutto questo, non lo trovate follemente romantico?

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