Quando fantastico sull’epoca medioevale, la mia immaginazione vola ai bei cavalieri coperti da lucenti armature, ai tornei, alle affascinanti eroine minacciate di essere rapite dal cattivo di turno… a quei tempi almeno una giornata su tre era festiva grazie alle numerose celebrazioni cattoliche e alle fiere dei villaggi dove era possibile assistere alle “giostre”, sfide in cui uomini coraggiosi si affrontavano in sella a possenti destrieri.
Originariamente le armi impiegate erano autentiche ma già nel XIII secolo i contendenti si affrontavano con armi dette “cortesi” ovvero, lance e spade spuntate anche se gli scontri rimasero talmente cruenti che gli incidenti erano inevitabili.
Quando un
cavaliere sfidava il rivale toccava con la punta della spada lo scudo sospeso
sotto le insegne del rivale e la sfida a questo punto non poteva che essere
accettata.
Lo sfidante, preparata l’armatura, si presentava alla dama alla quale
dedicava il combattimento portando al braccio, sulla lancia o attorno al collo
un fazzoletto con i colori della prescelta.
Rumore di
zoccoli sulla terra battuta, schianto di lance, boato metallico di scudi… se uno
dei due contendenti veniva disarcionato, l’altro scendeva a terra per continuare
il duello con la spada o con la mazza e alla fine i giudici designavano il
vincitore che riceveva il premio: le armi e il destriero del perdente. Restava
da concludere la “faccenda” con la dama.
E qui scopriamo cose davvero
interessanti…
Solo a
partire dal IX secolo, con la mediazione della Chiesa Cattolica, comincia a
diffondersi nella società medioevale la monogamia ma il vincolo tra futuri
sposi, almeno presso le famiglie aristocratiche, è strettamente legato alla
convenienza, un espediente per conquistare prestigio e ricchezze. Attenzione: è
solo in quest’epoca che il matrimonio comincia a diventare un sacramento e il
prete, all’inizio, ha la sola funzione di “testimone” del legame tra uomo e
donna (ricordiamoci che allora il clero non era vincolato col celibato e i
preti, “sessualmente attivi” non si preoccupavano più di tanto della vita
sessuale del loro “gregge”). Fu solo nei due secoli seguenti che la Chiesa fece
del matrimonio un sacramento religioso grazie all’uso della “benedizione del
letto” e della casa dei giovani sposi che identificavano questa pratica con la
garanzia di un legame fecondo e benedetto. Tra l’altro, solo i figli nati nel
vincolo sacro del matrimonio, avevano il diritto all’eredità di titoli e di
beni.
Con la
riforma Gregoriana dell’XI secolo che sancì la castità del clero, le cose si
guastarono parecchio. La Chiesa, imponendo il celibato ai preti, circoscrisse
l’atto sessuale alla sfera coniugale imponendo ai credenti un unico matrimonio
indissolubile.
Essa si
insinuò anche nella sfera privata imponendo ristrette regole all’interno della
coppie: vietato “consumare” la domenica, durante i quaranta giorni che precedono
la Pasqua, a Natale e durante la Pentecoste e in genere in tutti quei giorni
(numerosissimi) in cui si festeggiava un santo. Secondo lo storico francese
Flandrin, se i nostri “piccioncini” avessero osservato scrupolosamente queste
imposizioni, aggiungendo i periodi “critici” femminili (il mestruo, le
gravidanze, l’allattamento), erano fortunati se potevano contare tre, quattro
“capriole” sul pagliericcio al mese e, udite! udite!, l’uomo era qualificato
come adultero se “abbracciava” la moglie con troppa passione. Nulla era più
infamante che amare una sposa come una prostituta! Non stupiamoci quindi se
alcune pratiche del talamo vennero bandite ed etichettate come “sporche”. Solo
la posizione del “missionario” era ammessa, tutte le altre forme di
accoppiamento venivano condannate senza appello. Guai se la donna avesse assunto
la posizione “mulier super virum”: la maledizione di Satana sarebbe calata sugli
impudenti, facendogli generare figli deformi, mostruosi, lebbrosi…geniale essere
una giovane coppia di sposi nel Medioevo, eh?
E i
trovatori che cantano le romantiche gesta degli eroi innamorati, i poemi, le
ballate?
E l’amore cortese, come quello di Tristano e Isotta?
Rassicuratevi,
esiste ed è esaltato come un amore che rispetta le regole della cavalleria,
profondo e venerabile.
Esso trova le sue origini nella letteratura del Levante e
in quella Arabo-Andalusa e sembra che il primo a cantarne le lodi, in lingua
d’Oca, fu Guglielmo IX di Poitiers, nel corso della sua crociata in Oriente.
Grande amatore, fu probabilmente il primo a codificare questi aneliti di “amor
cortese” al solo scopo di rivaleggiare con l’ideale religioso che si dava al
culto del matrimonio.
Eh sì,
care mie, l’amore cortese altro non è che amore “adulterino” ma abbiamo ben
capito che ci sono circostanze attenuanti, no?
Ma i cavalieri che professano
l’amor cortese, chi sono?
Dato che il matrimonio è la negoziazione
di un
contratto, sovente imposto e l
e famiglie si preoccupano solo del primo figlio
per non dilapidare la fortuna del casato,
tutti gli altri “pargoli” sono
destinati agli
ordini ecclesiastici o introdotti all’arte della guerra e della
cavalleria.
Questi ultimi devono combattere molte battaglie per racimolare un
gruzzolo sufficiente e si sposavano tardi o non si sposavano affatto.
Sono loro
che costituiscono la “popolazione” turbolenta, quella frustrata e rude che si
trova di fronte a spose deluse dal matrimonio imposto dalla famiglia.
Il codice
dell’amore cortese
legittima e ritualizza dunque
un desiderio carnale e
spirituale
che non può, per cause di forza
maggiore, fiorire
all’interno della
coppia sposata.
Nasce un
così l’amore casto (occhio, non ho detto platonico!)
che si insinua nel corpo e
nell’anima dell’innamorato.
Il desiderio si amplifica, si ingrandisce perché
l’oggetto del suo amore,
la dama di rango superiore, si rende inaccessibile o
indifferente.
Già allora le donne avevano capito che per rendersi desiderabili
bisogna farsi… desiderare!
Questo
tipo di amore
diventa un gioco organizzato
da uomini per gli uomini e potremmo
dire che entra a far parte dell’educazione di un cavaliere perché, per arrivare
allo “scopo”, egli deve dare prova di virilità, di forza e di coraggio ma, nello
stesso tempo, deve imparare a controllarsi, a mantenere un contegno adeguato.
Bisogna salvaguardare la dama dalle calunnie e mantenere segreto l’amore.
Soprattutto al marito cornuto!
La donna,
adorata fino all’ossessione attira gli sguardi,
risveglia l’impulso carnale dei
cavalieri, si concede
e nega con arguzia in una progressione sottile che ha come
fine far apprendere al cavaliere come padroneggiare gli istinti e il corpo,
messo a dura prova dall’eccitazione e dal pericolo.
Succede così anche per
Ginevra e Lancillotto.
Ne “Il
Romanzo della Rosa”, opera francese del XII secolo, il protagonista entra in un
giardino dove in uno stagno magico si riflette un roseto.
Egli vorrebbe cogliere
una rosa ma senza ferirsi con le spine… la metafora è chiara: la dama è la rosa
inaccessibile, pericolosa ma ardentemente agognata e il protagonista il
cavaliere che si strugge, pronto a tutti i sacrifici pur di
conquistarla!
Non è per
questo che Amanda Quick fa nascere l’amore tra Alice e Richard de Scarcliffe? O
Johanna Lindsey immagina Rowena, mentre commette l’atto supremo di condanna per
l’epoca abusando sfrontatamente di Warrick?
E tutto
questo, non lo trovate follemente romantico?
No comments:
Post a Comment