LA DOTTRINA MEDIEVALE DELL'AMOR CORTESE
L’esegesi ha ricostruito con molta precisione la fitta
trama di riferimenti letterari e dottrinali che
è sottesa a questi enunciati.
Dal guinizzelliano famosissimo incipit,
Al cor gentil rempaira sempre amore.
coniugato” con il v. 11 della stessa canzone, iniziale della seconda stanza,
Foco d’amore in gentil cor s’aprende
al dantesco
Amore e ’l cor gentil sono una cosa.
Vita nuova, XX 3-5; Rime, XVI 1
Ma al di là dei riscontri testuali, piú o meno puntuali e precisi, che sono stati fin qui registrati, importa rilevare che tutta una civiltà letteraria sta dietro il parlare sentenzioso di Francesca, nella sua elaborazione formale come nei suoi postulati dottrinali.
La stessa che ella ha creduto di ravvisare nell’"affettuoso grido" di Alighieri, dal quale, in forza della comune radice culturale, si è sentita autorizzata a pronunciarsi in questo modo.
È la civiltà del AMORE CORTESE, quella che ha assunto come fondamentale l’esperienza amorosa vissuta in modo totalizzante, quale è rappresentata, oltre che negli innumerevoli romanzi d’amore circolanti fra il XII e il XIII secolo, nel ricordato
"De amore"
di Cappellano – o il libro di Gualtieri, come anche veniva chiamato, dal nome del personaggio cui è dedicato, "il codice piú completo dell’amore quale si trova in atto nei romanzi cortesi," secondo la definizione di Gaston Paris.
L’opera che, come ben ha visto Gianfranco Contini, benché rinnegata e magari vituperata.
Dante conosceva Gualtieri per quanto egli avvolga quel nome nel manto della piú totale preterizione e, certo, disistima.
E' puntualmente dietro il discorso di Francesca, e per essa di Dante Alighieri.
In Andrea si trova innanzitutto la
prima teorizzazione e perentoria
affermazione di un principio
elementare, fondamento del trattato
e di tutta la successiva teorica in
tema d’amore:
il principio della indissolubile connessione tra amore e nobiltà -- morum probitas -- la definisce Andrea intendendo quest’ultima non come privilegio di nascita ma come qualità propria dell’uomo e della donna.
È quella che Contini definisce la soluzione detta borghese, e insomma scolastica del problema della nobiltà, in antitesi alla soluzione aristocratica, cioè ereditario-patrimoniale, assegnata a Federico II.
L’insistenza con cui questo principio viene ripetuto e ribadito nel trattato di Cappellano dimostra la centralità che esso aveva nella visione del trattatista e la sua funzione di cardine, effettivamente mantenuta fino a tutto il Duecento, di quelle problematiche e delle soluzioni che se ne davano.
Affermato il principio che solo il cuor nobile può ospitare amore, si poneva poi, per esempio, il problema se tale nobiltà fosse dote naturale o qualità acquisita.
Si discuteva il problema dell’innamoramento, se possa procedere dall’uomo o dalla donna.
In questa vasta e varia problematica, piú o meno riconducibile, nei suoi nuclei principali, al mai pretermesso trattato di Andrea, Francesca, colta lettrice, o intellettuale di provincia, secondo l’impieto, a ma pertinente definizione di Contini, coglie quanto torna piú utile al suo caso.
Nessun dubbio, per l’autorità di tanti dottori che lo hanno affermato, che Amore al cor gentil ratto s’apprende, dove il ratto esprime la prontezza della risposta d’Amore e s’apprende la capacità di imprimersi con forza in quella materia o sede che è piú degna e adatta a riceverlo è.
Un altro principio vincolava l’amore non tanto strettamente alla bellezza,
requisito positivo ma non indispensabile ,quanto all’immagine
della persona amata.
È anzi un principio essenziale, implicito addirittura nella celebre definizione di amore con cui s’apre il trattato di Andrea.
E Francesca dichiara che proprio la sua bellezza, la bella persona , insieme con il cor gentil di Paolo Malatesta, fu il punto d’incontro e di saldatura della loro passione.
Paolo s’innamorò di Francesca; Francesca, per quella legge della reciprocità di amore che ha enunciato.
Amor ch’a nullo amato amar perdona.
Riprende la XXVI delle regulae amoris di Andrea.
Amor nil posset amori de¬negare ») , fu presa « del costui piacer sí forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Si è discusso molto sul significato di quella parola, " piacer", variamente interpretata.
Bellezza, come sinonimo e parallelo della bella persona della terzina precedente, è l’interpretazione che sembra trovare oggi il maggior numero di consensi (Barbi, Parodi, Scartazzini-Vandelli, Momigliano, Sapegno, Porena, Mattalia, Mazzoni, Bosco-Reggio, Pasquini, ecc.) .
Amore ha proposto Caretti.
Il parallelismo delle due terzine non si attua attraverso la bellezza della donna e quella dell’uomo, bensí attraverso l’identica irresistibile forza onde son mossi i due affetti.
Compiacere secondo Paparelli, che riprende l’interpretazione di Benvenuto "me strinxit ad complacendum isti de mea pulcra persona", intendendo precisamente come femminile disposizione ad accondiscendere, ad appagare i desideri dell’altro » ; ecc.
Confesso tuttavia che nella rigorosa simmetria dell’architettura delle due terzine non riesco a vedere un vincolo insuperabile alle interpretazioni fin qui suggerite: e vorrei proporre invece di intendere quel « piacer » semplicemente per quello che è: ‘pia¬cere’, ‘appagamento dei sensi’, che è un connotato che dovrà pur avere, benché enunciato nella forma meno cruda e sgradevole al lettore, un peccatore lussurioso condannato alla pena eterna.
E sarà appena il caso di ricordare,
in un territorio assai prossimo a
quello che stiamo perlustrando, il
« tanto di piacere […] e […] tanto di dilettazione »
che Enea ha « ricevuto da Dido », accusato
dallo stesso Dante nel Convivio .
Con che si perfeziona, per altro, il rapporto amoroso secondo la già vista definizione che ne ha dato Andrea Cappellano, particolarmente nella seconda parte, solitamente taciuta ma senza dubbio presente a Dante e funzionalizzata al discorso morale che corre dietro il discorso poetico: « ob quam [la passio quaedam che procede dalla visio] aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus », ecc.; e resta sal¬va anche la correlazione (formale e concettuale) tra le due terzine: al¬la « visio » della prima terzina corrisponde la « cupiditas alterius potiri amplexibus » della seconda.
Naturalmente « ancor non m’abbandona » andrà inteso come atteggiamento affettivo, in tutto coerente con il quadro qui rappresentato; mentre il « come vedi » si spiegherà con lo «’nsieme vanno » del v. 74.
È una passione, un amore cosí forte che ancora non li abbandona, i due amanti, anche nella profondità infernale.
E fu proprio quell’amore che li condusse entrambi « ad una morte »: dove « la messa in rilievo ritmica dell’una – osserva Contini – deduce implicitamente l’i¬dentità della sorte anche suprema dall’identità di volere degli amanti, principio che, se Andrea lo riceve (“Omnia de utriusque voluntate […] praecepta compleri”) per ridurlo trivialmente a concomitanza di piacere, è corrente nella dottrina medievale dell’amore » . [Ma più ri¬levante appare qui la consequenzialità scandita del discorso di France¬sca: (quell’)Amor che si ‘apprende’ ratto al cuor gentile, (quell’)Amor che non consente a nessun amato di non corrispondere all’amante, (quel medesimo) Amor condusse noi a una stessa e comune morte spirituale. - B].
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