Speranza
Amor ch’a nullo amato… una rivoluzionaria esegesi
Il verso probabilmente più noto della "Divina Commedia" ha forse
dato vita ad uno dei più tenaci equivoci della Storia della Letteratura, se è
vero che esso dura da più di sette secoli.
L’amore che assicura a chi ama di
essere riamato.
Come poteva il genio di Dante esprimere una così sciocca
sentenza?
Non convincono certo i riferimenti al trattato di Andrea Cappellano,
che dovrebbero suffragare l’esegesi tradizionale.
Dante ha scritto, a nostro
avviso, un aforisma che non è mai stato capito.
Proviamo a dimostrarlo… provando
contemporaneamente che il Saggio “O Dante o Benigni” sa anche essere
propositivo.
AMOR NIL POSSET AMORI DENEGARE
Amor ch’a nullo amato amar
perdona…
Il nostro primo dubbio sull’interpretazione del verso
"Amor ch’a
nullo amato amar perdona"
risale alla seconda metà degli anni Sessanta.
Leggevamo
la Storia della Letteratura Italiana di Arturo Pompeati (UTET, 1965) e il
rapido, lapidario commento del critico, riferito all’aforisma dantesco.
Eresia
psicologica che è poi invece il dogma degli amori corrisposti
ci provocò un
immediato senso di ribellione.
In che modo un genio come Dante era potuto
incorrere in un abbaglio del genere?
Qualunque essere umano, di qualunque
estrazione mentale, sa che non basta amare per essere riamati: magari fosse
così! Nessun amante sarebbe mai respinto e non esisterebbero delusioni d’amore.
Il pensiero di Dante non poteva essere quello. C’era però tutta la tradizione
ermeneutica a supporto dell’affermazione del Pompeati, che bollava il verso come
“eretico” attenuando appena la condanna in riferimento al caso specifico. E
c’era il Gualtieri [1] del Cappellano! Non avevamo risorse, allora.
Per
lustri il dilemma fu un sedimento, un tarlo di cui avvertivamo talvolta il
rodere sommesso, un seme sulla pietra… Non sapremmo per quale battito di vento
quel seme sia scivolato sul terreno per germogliare…
La lingua non ha le
caratteristiche della matematica, è per sua natura ambigua, polisemica, non solo
per la pluralità dei significati che un vocabolario attribuisce a molti dei
singoli lemmi, quanto, se non soprattutto, per la varietà di senso cui danno
luogo le associazioni delle parole. [2] Non a caso, le moderne esigenze
dell’informatica hanno portato al moltiplicarsi delle ricerche per la messa a
punto dei programmi di gestione del testo linguistico, in relazione ai problemi
generati dall’ambiguità semantica.
La premessa è breve, ma è sufficiente, in
questo contesto, per gli scopi che ci prefiggiamo, anche se non si impedisce a
nessuno di approfondire l’argomento.
L’interpretazione tradizionale del verso
di cui ci occupiamo, si è sempre appoggiata alla teorica dell’amor cortese, in
particolar modo al trattato di Andrea Cappellano, rimanendo rigidamente
imprigionata in un certo tipo di lettura del Gualtieri, cui sacrificava perfino
l’intelligenza dell’Alighieri.
Bruno Gentili, a proposito, molto recentemente
ha sostenuto: «Questa norma di reciprocità e reversibilità sarà un principio
cardine dell’amore cortese del XII secolo [3] e varrà nelle teorie degli
scrittori religiosi medioevali come argomento per dimostrare la necessità di
amare Dio con l’amore che Dio nutre per tutti gli uomini; [4] diverrà poi in
Dante il simbolo del tragico amore di Francesca: “amor ch’a nullo amato amar
perdona”, amore che non consente che chi è amato non riami». [5]
Per come si
presenta, l’opera di Andrea Cappellano “fu solennemente condannata dal vescovo
di Parigi, Etienne Tempier, il 7 marzo 1277, [6] malgrado lo stesso autore
avesse in qualche modo bilanciato l’arditezza delle sue tesi nel terzo libro del
trattato, significativamente intitolato De reprobatione amoris, che offre una
sorta di palinodia di quanto veniva sostenuto nei due libri precedenti”; [7]
per questo essa non sembra conciliabile con l’ortodossia che anima la Commedia.
La cosa avrebbe dovuto indurre a una riflessione più accurata. Gianfranco
Contini, a dire il vero, sostiene che «Dante conosceva Gualtieri e per quanto
egli avvolga quel nome nel manto della più totale preterizione e, certo,
disistima», l’opera è puntualmente dietro il discorso di Francesca, e per essa
di Dante”. [8] Si può anche essere d’accordo, purché si precisi che Dante,
ponendo sulle labbra e nel cuore di Francesca il pensiero del Cappellano, altro
non sceglie che sottolineare la colpa della peccatrice, [9] se è vero che il De
amore era stato condannato proprio per la sua concezione contraria alla morale
cristiana. [10] Vogliamo dire che, per il suo carattere “trasgressivo”, il
trattato del Cappellano ben si prestava a giustificare il perseverante peccato
dei due dannati. È innegabile, infatti, l’appellarsi di Francesca alla forza
irresistibile dell’amore senza alcun accenno al pentimento, che cerchi discolpa
o comprensione, oppure entrambe. È altrettanto evidente che, se Dante avesse
fino in fondo legittimato il peccato di Francesca attraverso il Gualtieri, non
avrebbe collocato i due cognati adulteri all’Inferno. Il suo “pietoso” ascolto
non può essere quindi indulgente: la sua è sempre, sarà sempre, un’umana
comprensione, mai un avallo, in un tragitto di redenzione proteso
all’affrancamento dagli affetti umani verso l’amor che move il sole e l’altre
stelle. E se la carnalità è passione di cui l’Alighieri conosce la prepotenza,
la vertigine, addirittura, sia pure nella “pietà” (e caddi come corpo morto
cade), egli “cadrebbe” davvero in un’insanabile, incomprensibile contraddizione
se volessimo artificiosamente attribuirgli complicità nei confronti di Francesca
da Rimini e di Paolo Malatesta, o trasformare, come fa lo sprovveduto Roberto
Benigni, il V Canto dell’Inferno, da esempio di condanna ad apoteosi dell’amore,
non solo dei sensi.
Noi crediamo che un’analisi più indipendente e la
maggiore flessibilità conseguente, avrebbero potuto aprire alla critica sbocchi
diversi. Non condizionati dalla precedente letteratura sull’argomento, o da
questa spinti alla “difesa” di Dante, non siamo mai riusciti ad accettare
l’esegesi universalmente condivisa.
Commentando il verso che analizziamo,
Natalino Sapegno sostiene: “La tesi è esposta nel De amore di Andrea Cappellano
(De amore, II 8, reg. 26); ed era vera anche per gli scrittori religiosi, come
argomento per dimostrare la necessità di amare Dio; così Fra Giordano da Pisa:
‘Non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno, ch’egli non sia tratto ad
amar lui incontanente’; e Santa Caterina: ‘naturalmente l’anima è tratta ad
amare quello da cui sé vede essere amata’” (Natalino Sapegno, La Divina
Commedia, Inferno). Approfondiamo allora le citazioni alle quali il critico si
riferisce.
1) Amor nil posset amori denegare: l’amore non può negare nulla
all’amore.
“Il volgarizzamento” fiorentino, conosciuto come traduzione romana
per la sede in cui è custodito (la Vaticana), traduce: l’amante lievemente non
può distorre a l’altro nulla… Già sorge il dubbio: vorrà davvero il Cappellano
significare quello che Dante dovrebbe ripetere e che a nostro parere nessuno dei
due proprio dichiara? Per di più la proposizione ha una struttura che richiama
il principio di non contraddizione: l’amore non può negare se stesso, non può
essere non-amore.
2) Non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno,
ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente (Fra Giordano da Pisa);
naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata (Santa
Caterina).
3) Aggiungiamo noi, attraverso il già citato Santagata: “Francesca
è più realista del re: nell’indicare la bellezza come causa dell’amore nato fra
lei e Paolo, senza saperlo, lei, che ha velleità di donna colta, colloca se
stessa, stando proprio al Cappellano, fra i “semplici”, gli “indotti”:
formae
venustas modico labore sibi quaerit amorem, maxime si amorem simplicis requirit
amantis. Simplex enim amans nil credit aliud in amante quaerendum nisi formam
faciemque venustatem et corporis cultum [la bellezza si procura l’amore con poca
fatica, soprattutto se aspira all’amore di un innamorato "ingenuo". L’innamorato
ingenuo, infatti, crede che nell’amata non si debba cercare che la bellezza, la
piacevolezza, la leggiadria, l’aspetto curato].
Opposto è il comportamento
del “savio”, del “doctus”:
morum probitas acquirit amorem in morum probitate
fulgentem. Doctus enim amans vel docta deformem non reiicit amantem, si moribus
intus abundet (I x, 18) [la virtù d’animo cerca un amore che risplenda della
virtù d’animo: l’innamorato savio, o l’innamorata, infatti, non respinge un
amato brutto, se dentro è ricco di virtù].
Insomma, Francesca è colta e
informata, almeno quanto è superficiale e semplificatrice”.
Perché Dante
avrebbe scelto per Francesca di ritenere l’attrazione fisica quale “prima
radice” dell’amore colpevole (prese costui de la bella persona), quando nel
Cappellano si considera chiaramente anche l’amore verso cui tende la virtù
d’animo? Evidentemente per rimarcare la condizione di peccatrice dannata
dell’amante di Paolo. Non è quindi nemmeno necessario pensare, come Marco
Santagata, che “Dante affidi ai discorsi e ai comportamenti di una donna come
questa il compito di esemplificare le colpe etiche e culturali della civiltà
cortese o quanto meno della sua letteratura…” o, più correttamente, “che Dante,
attraverso Francesca, intenda esemplificare un modo distorto di leggere quei
testi, che la sua, cioè, non sia una critica all’ideologia dell’amore cortese,
ma alla ricezione che certi ambienti sociali al suo tempo ne facevano”
.
Infatti il Cappellano è ben attento a lasciare “alla persona amata la
libertà di non riamare chi lo (o la) ama” [11]
Ideo ergo amor in arbitrio
posuit amantis, ut, quum amatur, et ipsa, si velit, amet, si vero nolit, non
cogatur amare (I, 44) [Dunque amore ha lasciato facoltà a colei che ama, quando
è amata, di amare a sua volta, se vuole, e di non essere costretta ad amare, se
invece non vuole];
Vere profiteor in mulieris esse collatum arbitrium
postulanti, si velit, amorem concedere, et, si non concedat, nullam videtur
iniuriam facere (I, 104) [Affermo che alla donna è stata attribuita facoltà, se
vuole, di concedere il suo amore a chi la ama, e, se non lo concede, non si
ritiene che commetta un torto].
“La sofisticazione della dottrina di Andrea –
commenta Avalle – non poteva essere più disinvolta, soprattutto laddove si fa
esplicito riferimento all’‘arbitrio’ della persona amata (nella fattispecie
della donna)”. Ne conclude che di quel dialogo Francesca è “cattiva o
interessata lettrice”.
A noi interessa in modo particolare proprio la facoltà
di assenso che il Cappellano riserva alla donna amata e che sarebbe in forte
contraddizione con le regole che i critici adducono a sostegno
dell’interpretazione del passo dantesco. Perché a nostro avviso è possibile
dimostrare che tale contraddizione non c’è!
Abbiamo raggruppato nel punto 2
le due citazioni degli scrittori religiosi perché esse appartengono ad una
stessa categoria e perché – non escludiamo il passo del De amore cui poc’anzi si
accennava (la virtù d’animo cerca un amore che risplenda della virtù d’animo) -
trovano proprio nella Divina Commedia, ma non nel V dell’Inferno, un’eco
incontestabile (già rilevata dal Boccaccio nel suo Comento alla Divina Commedia,
Lez. VIII):
… “Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese…” (Purgatorio,
XXII, vv. 10-11)
In tutti e tre i passi su citati l’amore di cui si parla è
“virtuoso”, inoppugnabilmente: e non è la passione che unisce Paolo e
Francesca.
Perché Dante ha bisogno di precisare “acceso di virtù”? O forse
questa non è una puntualizzazione, sicché l’Alighieri considererebbe virtuoso
anche l’amore dei lussuriosi del II Cerchio infernale? Un’ipotesi quantomeno
ardua da sostenere. Il nostro precedente dubbio diventa più forte.
C’è di
più: quando Francesco da Buti (1324-1406) sostiene che l’amore “carnale non
accende sempre, imperò che non accende se non li carnali; ma l’amore virtuoso
sempre accende li virtuosi”, nemmeno può essere citato per suffragare l’ipotesi
che “l’amore non perdona a nessun amato di riamare”, perché quanto meno esso
“perdona” al virtuoso di riamare il colpevole! Dunque la massima dantesca non
conterrebbe il caso dell’amore colpevole che ama il virtuoso, dal quale
evidentemente non può essere ricambiato!
La questione diventa più complessa,
ma anche più affascinante. Forse è il caso di tornare al testo del Cappellano, a
quello che per i critici sembra essere stato il più condizionante.
Amor nil
posset amori denegare
Intanto il congiuntivo posset non rende la regola del
Cappellano apodittica… In secondo luogo l’asserzione non è affatto univoca e
contiene in sé, al di fuori quindi del contesto riferito a Dante e al Cappellano
stesso, almeno cinque significati, non considerando la “variabile di
conoscenza”, che analizzeremo successivamente:
L’amore niente potrebbe negare
all’amore: principio di non contraddizione: A non è NON-A;
L’amore niente
potrebbe negare “a se stesso”, niente potrebbe negarsi, tutto
permettersi;
L’amore possibile di X per Y niente potrebbe negare (anche se X
ancora non ama Y) all’amore nutrito da Y per X: il caso dell’interpretazione
tradizionale.
L’amore che X nutre per Y niente potrebbe negare all’amore
ricevuto da Y: l’amore di X concederebbe tutto a Y che ricambia.
L’amore che
X nutre per Y niente potrebbe negare all’amore possibile di Y per X: niente X
negherebbe a Y, che questi ricambi o meno.
Consideriamo adesso tutti i casi
possibili inserendo la “variabile di conoscenza”, dal momento che la domanda che
Dante rivolge a Francesca indica che i due cognati non erano a conoscenza del
loro sentimento fino al giorno della lettura fatale:
A che e come concedette
amore / che conosceste i dubbiosi disiri?
X = Francesca; Y = Paolo; A =
Amore
1 A non è non-A
2 A non nega nulla ad A, tutto concede a se
stesso
3 X non ama Y che non lo sa; Y ama X che non lo sa (premessa
favorevole all’interpretazione tradizionale):
X amerà necessariamente Y: è il
caso di “amor ch’a nullo amato amar perdona” secondo la tradizione, visto che mi
prese del costui piacer sì forteindicherebbe che Francesca si sarebbe innamorata
come conseguenza dell’amore di Paolo, non essendole possibile sottrarsi per la
forza stessa dell’amore! Perciò X che non amava Y, nel momento in cui si rende
conto che Y l’ama, è costretto a ricambiare!
X non ama Y che non lo sa; Y ama
X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X non ama Y che lo sa; Y ama X
che non lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X non ama Y che lo sa; Y ama
X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
4 X ama Y e Y non lo sa; Y ama
X che non lo sa: è la premessa per l’avverarsi della nostra interpretazione
X
ama Y e Y non lo sa; Y ama X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X
ama Y e Y lo sa ; Y ama X che non lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X
ama Y e Y lo sa; Y ama X che lo sa:
uuuuuuuuuuè la combinazione
dell’avverarsi della nostra interpretazione.
5 X ama Y e Y non lo
sa; Y non ama X che non lo sa
uuuuuuuX ama Y e Y non lo sa; Y non ama X che
lo sa
uuuuuuuX ama Y e Y lo sa; Y non ama X che non lo sa
uuuuuuuX ama Y e
Y lo sa; Y non ama X che lo sa
Le quattro combinazioni del punto 5 riguardano
il caso in cui è Paolo che non sa (la prima combinazione contiene la premessa
per cui egli “sarebbe costretto” ad amare Francesca una volta venuto a
conoscenza dell’amore di lei, secondo l’interpretazione tradizionale), ma non le
analizziamo in dettaglio perché non si conciliano con il racconto
dantesco.
6 X non ama Y; Y non ama X: questa combinazione e quelle da essa
derivanti, non interessano ai fini della nostra dimostrazione.
La condizione
che avalla l’interpretazione da noi scelta è quindi: X ama Y e Y lo sa; Y ama X
e X lo sa
Vediamo come:
X ama Y e Y non lo sa; Y ama X e X
non lo sa
Francesca ama Paolo e Paolo non lo sa; Paolo ama Francesca e
Francesca non lo sa –
ma…
per più fiate gli occhi ci sospinse
quella
lettura e scolorocci in viso – a questo punto
X ama Y e Y lo
sa; Y ama X e X lo sa
Francesca ama Paolo e Paolo lo sa; Paolo ama Francesca
e Francesca lo sa
dunque
l’amore nutrito (amor) che a nessuno ricambiato
(ch’a nullo amato) dà scampo (amar perdona)
mi prese del costui piacer sì
forte… divampò senza controllo.
Prima di trarre le conclusioni estendiamo
l’analisi ad un’altra regola alla quale i critici si appellano per la loro
dimostrazione:
Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione
compellitur
Nessuno può amare se non costretto dalla potenza dell’amore (è la
traduzione più ricorrente).
Non ci pare che questa “regola” dica qualcosa di
nuovo o di straordinario per avvalorare in maniera decisiva l’interpretazione
del verso 103 del Canto di Francesca secondo la formula ormai consolidatasi.
Anche in questo caso si manifesta una pluralità di significati, sia pure molto
più limitata.
Amoris è genitivo soggettivo oppure oggettivo? Significa
dell’amore o per l’amore?
- Nessuno può amare se non chi è conquistato
all’amore dal fatto di essere amato? (genitivo oggettivo) oppure
- Nessuno
può amare se non chi è spinto a farlo dalla forza dell’istinto naturale?
(genitivo soggettivo) o ancora
- Nessuno può amare se non chi è costretto
dalla spinta dell’amore (astrattamente)? (genitivo soggettivo)
- Oppure,
addirittura: al cuor non si comanda? (Se mai, quindi, il motivo per cui
Francesca non poté amare Gianciotto).
Senza volerci atteggiare a latinisti,
la nostra sensibilità ci fa sentire in suasione la “suasio”, appunto, non la
“vis”, di modo che nel “suasione compellitur” avvertiamo più un sospingere che
un costringere, pur dovendo ammettere che il compellitur allude a un impulso
irrefrenabile. Il volgarizzamento però traduce: Niuno può amare se non quello
ov’è il suo cuore e l’irrefrenabilità può essere allora intesa come spinta
incoercibile verso l’oggetto d’amore prescelto. La regola vorrebbe dunque
semplicemente significare che nessuno può amare se non l’oggetto d’amore verso
cui è orientato irrimediabilmente il suo cuore e, in modo sottinteso, forse, che
nessuno può spingere chicchessia ad amare un oggetto d’amore diverso da quello
che questi ha prescelto! Da qui ad affermare che, quando si ama, certamente si
sarà ricambiati, il passo è ben lungo.
Adattando al verso dantesco il
significato della regola del Cappellano che, fra quelli possibili, ci è sembrato
il più congeniale, capace di dare maggiore coerenza allo stesso pensiero del De
Amore, [12] ne conseguirebbe, come si è visto, che Dante non si contraddice con
quanto afferma nel Purgatorio (XXII, vv. 10-1), ma soprattutto che non cade
nell’”eresia psicologica” rimproveratagli dal Pompeati (e non solo): l’amore di
X per Y non permette a nessun X di sottrarsi all’avveramento della relazione
amorosa nell’evenienza in cui Y sveli il suo amore a X; l’amore (che quindi deve
già essere nutrito) come sentimento, non come forza astratta, o addirittura come
divinità, non permette a nessuno, che lo nutra, di sottrarsi all’oggetto d’amore
che si dimostra a sua volta innamorato. Se è necessario un così contorto
ragionamento per dare chiarezza al significato del verso, è pur vero che una
volta acquisita la comprensione, il senso del verso medesimo diventa intuitivo:
l’amore nutrito (amor) che a nessuno che sia corrisposto (ch’a nullo amato) dà
scampo (amar perdona).
Tralasciamo a questo punto le X e le Y e riferiamoci a
Paolo e Francesca, riepilogando il senso completo delle più famose terzine del V
Canto dell’Inferno.
Il sentimento d’amore che rapidamente si accende
nell’animo nobile, ad esso naturalmente disposto, innamorò Paolo dell’avvenente
aspetto che mi fu strappato con la violenza da Gianciotto, e della natura di
quell’amore “proibito” ancora subisco le conseguenze (in tutti i sensi).
L’amore nutrito nei confronti di Paolo, che non mi ha permesso, come non
permette a nessuno in condizioni analoghe, di eludere chi a sua volta si
dimostrava innamorato di me, mi divampò dentro, mi prese [13] in maniera così
forte, che, come puoi ben constatare, perdura. Sicché fummo condannati da una
stessa passione ad una stessa morte (sia fisica che spirituale [14]): ma chi ci
ha tolto la vita finirà fra i traditori dei parenti, nel fondo dell’Inferno
(Caina)!
Non abbiamo la pretesa di aver detto la parola definitiva a
riguardo, ma godiamo della soddisfazione di essere pervenuti a un senso che non
espone Dante alla critica di aver preso un abbaglio così clamoroso (non c’è
giustificazione che potrebbe perdonarlo: nessuno mai avrebbe potuto sostenere un
principio tanto assurdo come quello che vuole un “amato” costretto a
corrispondere, tanto meno un genio come l’Alighieri).
A titolo di curiosità
riportiamo anche una prima idea, quella che ha mosso la ricerca successiva, da
noi in seguito scartata perché poco lineare e scarsamente eufonica nella lettura
alla quale costringeva, ma che comunque può giovarsi di tutte le argomentazioni
che abbiamo addotte.
Amor ch’a nullo amato amar perdona
Amor che a nullo
(a nessuno, considerato come pronome) perdona amar (permette di non amare)
amato(la persona scelta come oggetto d’amore; “amato” va qui considerato con
funzione logica di complemento oggetto).
Non c’è forza che permetta di
sottrarsi all’amore per la persona che si ama (amato), verso la quale si prova
cioè trasporto amoroso.
L’uso di nullocome pronome si ritrova in Dante altre
due volte (se non abbiamo commesso errori nel controllo):
Inferno, Canto
XXXI, verso 81
come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto
Paradiso, Canto
XXIV, verso 21
che nullo vi lasciò di più chiarezza
Consulta in fondo
alla scheda il parere di Giorgio Bàrberi
Squarotti
___________________________
L’esegesi è tratta dal Saggio O
Dante o Benigni, di Amato Maria Bernabei, Arduino Sacco Editore, Roma 2011, pp.
283-295
[1] http://www.classicitaliani.it/index124.htm
[2]
Qual è il senso dell’espressione “gli acidi grassi”? Quello di acidi
monocarbossilici alifatici, ingredienti costitutivi di quasi tutti i lipidi
complessi e dei grassi vegetali e animali, oppure semplicemente di grassoni
astiosi e malevoli? “Il primo atto del barbiere” è l’insaponatura o la prima
parte dell’opera di Rossini? “I testi sono portatori di ambiguità, di carattere
semantico e sintattico”… “Non è forse superfluo ricordare ancora una volta che i
significati connotativi sono estremamente instabili, e che i significati
denotativi di una parola in un codice naturale differiscono sempre da quelli di
qualsiasi altra parola, sia appartenente al medesimo codice naturale, sia
appartenente a un altro codice
naturale”.
http://courses.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_10?lang=it
[3]
A. Cappellano, Trattato d’amore, testo latino del XII secolo con due traduzioni
toscane inedite del secolo XIV, a cura di S. Battaglia, Roma 1947, regola IX:
“Amare nemo potest nisi qui amoris suasione compellitur”; regola XXVI: “Amor nil
posset amori denegare”; cfr. Contini 1976, p. 46 e soprattutto Avalle 1977, pp.
39 sgg.
[4] Fra Giordano da Pisa: ‘Non è nullo che, sentendosi che sia amato
da alcuno, ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente’; Santa Caterina:
‘naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata’.
Cfr. Avalle 1977, p. 41.
[5] (Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia
antica, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2006, p. 152).
[6] Cfr. A.J.
Denomy, The “De amore” of Andreas Capellanus and the Condemnation of 1277, in
Mediaeval Studies, 1946, vol. VIII, pp. 107-49.
[7]
http://www.indire.it/lucabas/lkmw_file/leggereDante/V_Inf_Malato.pdf.
[8]
www.indire.it/leggeredante/upl/enrico_malato/La%20dottrina%20medievale%20dell’amor%20cortese.doc
[9]
“Non vale quasi la pena di rilevare la profonda dissimiglianza fra ciò che
Francesca pensa dell’amore e il “tono” della canzone guinizzelliana da lei
addotta come auctoritas: è evidente che Francesca esprime convinzioni sue e
intreccia sue parentele culturali che Dante non avrebbe facilmente accettato.
Dante come avrebbe potuto appiattire il “padre” suo e “de li altri… che mai /
rime d’amor usar dolci e leggiadre” (Purg. XXVI 97-99) su una concezione
puramente fisica e materialistica dell’amore?” (Marco
Santagata).
http://www.italica.rai.it/principali/dante/santagata/capitoli/f_10.htm
[10]
“Il Cappellano espone, in effetti, un’idea materialista dell’amore, basato sul
desiderio fisico e teso al suo soddisfacimento” (Marco Santagata, nel sito
citato).
[11] Avalle, D’Arco Silvio. “Prolegomeni all’innominata” In:
Istituto Universitario Orientale, Napoli. Beatrice nell’opera di Dante e nella
memoria europea 120-1990. Atti del Convegno Internazionale 10-14 dicembre 1990,
a c. di Maria Picchio Simonelli. Firenze, Cadmo 1994, 29.
[12] Cfr. la
combinazione sopra analizzata “X ama Y e Y lo sa; Y ama X e X lo sa” e le
interpretazioni date del testo del Cappellano.
[13] In quest’ottica del
costui piacer diventa “per il fatto di essere corrisposta, perché anch’io gli
piacevo”. Il Caretti aveva già proposto “amore” come significato di piacer,
osservando che: «Il parallelismo delle due terzine non si attua attraverso la
bellezza della donna e quella dell’uomo […], bensì attraverso l’identica
irresistibile forza onde son mossi i due
affetti».
http://2rosati.blogspot.com/2010/08/1.html
[14] La “seconda
morte” cui Dante allude nel I Canto dell’Inferno (verso 117). Vale la pena di
far notare che nel commentare il verso appena ricordato, con la consueta
superficialità, frutto della sua frettolosa preparazione, Benigni riferisce
l’interpretazione meno attendibile (per cui la seconda morte sarebbe quella
successiva al Giudizio Universale: seconda morte) non alludendo nemmeno a quella
più probabile, fondata sui testi danteschi e sulla tradizione. Vos autem divina
iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne
nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagitat…? (secondo il testo curato
da Ermenegildo Pistelli per l’edizione della Società Dantesca Italiana, 1921):
“Voi, poi, trasgressori delle leggi divine e di quelle umane, che le funeste
fauci della cupidigia lusingarono ad apprestarvi ad ogni iniquità, non vi
perseguita il terrore della dannazione…?” (Epistole, VI, 5, Dante, Tutte le
opere, Newton Compton, Roma, 1993, p. 1165; cfr. pure “ka la morte secunda no ‘l
farrà male”, San Francesco, Il Cantico di Frate Sole, 31). Per quanto riguarda
l’affermazione che i dannati aspettano la seconda morte “sperando di stare un
pochino meglio”, è evidente che Benigni non si ricorda del dialogo fra Dante e
Virgilio nel VI Canto dell’Inferno, ai versi 103-108 (e che lui stesso “spiega”,
come è possibile ascoltare dal documento sonoro staranno peggio tratto dalla
serata del VI Canto, nel quale è stato operato il taglio – farraginoso e inutile
ai nostri fini – di una breve digressione; senza tener conto che nel documento
riportato Benigni prima afferma che la Summa Theologica è… Dio, poi allude non
alla creatura più perfetta, ma alla “pena più perfetta”!): … «Maestro, esti
tormenti / crescerann’ ei dopo la gran sentenza, / o fier minori, o saran sì
cocenti?». / Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, / che vuol, quanto la cosa è
più perfetta, / più senta il bene, e così la doglienza.
IL PARERE DI GIORGIO
BÀRBERI SQUAROTTI
Torino, 24 gennaio 2012
Caro Bernabei,
Le sono
grato dell’invio della Sua geniale e documentata interpretazione della celebre
terzina dantesca del potere dell’amore secondo Francesca. Mi piacerebbe
discutere con Lei della questione, perché qualche dubbio in me rimane.
[...]
Le propongo qualche ulteriore aspetto del testo, premettendo che le osservazioni
di Santagata non mi convincono, in genere, in confronto con le proposte di
Edoardo Sanguineti e di Angelo Iacomuzzi. A parlare è un’anima dannata che cerca
di spiegare a Dante il suo errore mortale che l’ha portata all’inferno. Non si
tratta soltanto delle citazioni vere dei canoni mondani dell’amore con cui
Francesca vuole “giustificarsi”, scaricando su di loro la responsabilità del
peccato, ma della confusione che Francesca fa fra l’amore terreno e fisico e
l’Amore che move il sole e l’altre stelle. Come dice Bonaggiunta, le “nuove”
rime (dei due Guidi, di Guinizelli in specie per il rimatore lucchese) guardano
alla filosofia e all’idea dell’amore al tempo stesso divino e cortese, e non più
alla naturalità sola del poetare che non può essere se non dell’amore di uomo e
donna, come dice Dante stesso nel venticinquesimo capitolo della Vita nova.
Nell’episodio della Commedia c’è l’eco della concezione dell’amore secondo la
filosofia che Guido Cavalcanti espone e da cui Dante si distacca proprio nella
Commedia. L’episodio dell’Inferno io credo che debba essere letto in questa
prospettiva. Di qui, secondo me, l’ambiguità dell’orazione di
Francesca.
Auguri per il volume dantesco! Con i più vivi saluti,
Giorgio
Bàrberi Squarotti
______________________________
Riflessione
Il buon
insegnante si sforza di portare i discepoli al suo livello, non di scendere al
livello dei discepoli.
L’Alighieri non ha scritto in volgare per essere letto
dal popolo, ma per conferire al volgare una dignità letteraria.
Rendere
popolare Dante è un falso problema e un’ingannevole promessa.
La Divina
Commedia non è un canovaccio per gli show, ma un testo per lo studio, la
riflessione, il godimento estetico. Non basta commuovere con espedienti
analogici (gesti e uso della voce) per trasferire la sublime letteratura
dantesca (pensiero, lingua e poesia)! Per comprendere un linguaggio è necessario
apprenderlo.
Il Dante di Benigni è un inganno ed è la docenza nelle mani
dell’incompetenza.
O Dante o Benigni!
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2 risposte a Amor ch’a nullo amato… una rivoluzionaria
esegesi
Alessandro scrive:
30 agosto 2012 alle 18:25
Egregio Dott.
Bernabei,
Ho letto con interesse la sua esegesi e devo dire che mi
convince.
Tuttavia vorrei sottoporle brevemente la mia interpretazione che,
tengo a sottolinearlo, è quella d’un inesperto, d’un semplice lettore; anzi, con
molta probabilità, le sarà già nota.
Ecco il mio commento:
Dante, nel
famoso verso, vuole descrivere un amore connotato da egoismo; si tratta di quel
sentimento amoroso che, una volta impossessatosi dell’uomo, non tollera (nullo…
perdona) che il suo oggetto (la persona amata) non lo contraccambi.
Dunque
accade che ciò che si ama non è, in definitiva, la persona amata, ma se stessi:
“Io t’amo, quindi voglio, pretendo, che tu contraccambi!” Questo mi sembra di
sentire quando leggo il verso. Inoltre, riflettendoci bene, il sentimento così
descritto può manifestarsi tanto nel caso di amore corrisposto, quanto nel caso
di un amore respinto.
In conclusione, mi sembra che questo sentimento egoista
si ponga in contrasto frontale con l’amore di Dio verso l’uomo, il quale è
connotato da assoluta gratuità. Qui mi fermo, perché ho già sconfinato in campi
che conosco poco.
La ringrazio per l’attenzione
Distinti
saluti,
Alessandro
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Amato scrive:
31 agosto 2012 alle 08:58
Gentilissimo Alessandro, mi
è difficile immaginare come motivato da altruismo un amore punito da Dio. Credo
quindi che l’egoismo di cui lei parla sia senz’altro caratteristico del peccato
di lussuria tormentato per l’eternità nel secondo cerchio dell’Inferno
dantesco.
Sono meno convinto che il verso di cui ci occupiamo voglia alludere
alla pretesa del contraccambio. Nella comunicazione non si può prescindere dal
codice usato ed è quindi necessario tener conto delle leggi che lo regolano. La
mia interpretazione non perviene infatti alla formulazione di un significato
possibile in maniera indipendente dal sistema linguistico: i nessi della
grammatica sono fondamentali, e gli elementi presenti nel verso acquistano
semantica in forza dei collegamenti logici e sintattici; e questi sembrano
portare all’esclusione dell’intolleranza, da parte del soggetto che ama, per il
rifiuto che l’oggetto amato opporrebbe, e andare piuttosto nella direzione di un
principio che generalizza l’impossibilità per chiunque di sottrarsi a un
sentimento corrisposto. Naturalmente io posso anche ingannarmi, ma le mie
argomentazioni vogliono dimostrare soprattutto questo.
Sarei perplesso, poi,
anche sulla qualità “gratuita” dell’amore divino, dal momento che esso
“pretende” il rispetto dei comandamenti, mancando il quale l’oggetto d’amore,
l’uomo, irrimediabilmente è condannato alla pena eterna. Questo è però un
discorso per teologi, più che per letterati, e lo lasciamo quindi a chi ne sa
più di noi.
Cordialmente
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