Grice
e Cardia: l'implicatura conversazionale dell culto del laico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with
a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome
has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking
about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call
a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures
of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of
vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be
unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a
focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought
the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life
has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with
noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts.
The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and
physically and has played an important part of life. Topped by a striking
copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the
Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and
present. It is a place where the community come to mark milestones and
celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.
Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those
who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of
another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the
moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth
forever.’ The Chapel was built to
a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie.
Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of
Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is
licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol. Stato,
Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it)
settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto
ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante
polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una
copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi
anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle
confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica
sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé
naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica,
separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre
ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo
secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del
nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente.
Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei
concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si
inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non
prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione
allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation,
secondo le proposte della commissione governativa Machelon1. Da esso Cardia
deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente
a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito
pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della
memoria. * Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica,
multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202,
destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007.
1 Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica Dal quale non varranno a riesumarla le
“guerricciole”, rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere
un po’ dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano
gli accordi li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è
l’unico ad integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico,
ad assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a
finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni.
L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente
a Cardia di avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più
propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i
rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle
preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide
suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione
spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il
“fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti
personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una
relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam.
Ovviamente Cardia è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può
invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a
favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma
sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del
paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la
laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento
dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente,
cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta
la seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai
vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione
evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante,
aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la
quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3 Come quelli di
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o
di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del
XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le
numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello istituzionale, ad
annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non
religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in
contrapposizione alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna riconoscere che
abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari,
quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini
appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei
ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel
suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente
poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla
lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è
dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere
spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno
d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta
impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero
ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto
dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento
biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento
pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.),
emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità
come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la
chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è
altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma
poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e
agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti
ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi
riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”,
quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7 - “quale
ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione
possono avere per una società 4 Cfr. l’antologia di P. BRANCA e
quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così ne Il linguaggio politico
dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6 Cfr.
BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della natura
umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica
(www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la
nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario,
fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta
norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non
paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini:
visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori
esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia
e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica
e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe
porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro
di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono
da una parte sola. 8 In questo senso rilegge il da mi factum, dabo
tibi ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e
diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi
cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra
conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento
culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro
europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e
questione islamica. 6. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive.
Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della
laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia
necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere
meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più
che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune
costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché
l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove,
avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse
di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario
neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di
una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta
vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al
multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra
religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi,
l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte
storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper
individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che
chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in
Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio
privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione,
tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni
storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata
ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della
conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra
Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto
focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene
letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere
temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo
cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista
in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di
fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché
permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere
integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i
chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di
lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende
aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata
ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in
modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di
moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio
generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente
presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella
cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della
laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti
modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido
compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita
l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della
classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio
ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione
della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici
dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno
(tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a
stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e
obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici
mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o
stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di
teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e
afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare
teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa
troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di
ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che
sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo
intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la
grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo
della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono
progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni
di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a
nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come
quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non
riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi
apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il
problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande
compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla
laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati , non segue la
cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se
l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in
quelle elementari. La Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo
silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere
l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da
quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie
italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un
Regolamento conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello
stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza
religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti
di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che
lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una
scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza
popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può
dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica
vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha
operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di
fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva
e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle
maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma
importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. L’elogio della
moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza
italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni
settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo
tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla
cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle
correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più
autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma
anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa
dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel
conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti
laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a
lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette
nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo
estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in
Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione
della religione dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola
privata nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo
scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia,
come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi,
sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del
linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia
all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di
grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Gaetano Salvemini e
in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente
tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si
ravvivano quando l’accordo tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità,
provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale
viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre
idealità e di altri ruoli. Anche l’intransigenza cattolica riaffiora più
volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni
della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti,
porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica
più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni
radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento
rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come
quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento
maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo
provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza
statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla
capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società
americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo,
non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la
religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto
alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello
della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai
canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato
a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto
importante all’epoca) nel quale Domenico Berti critica quei liberali che per
paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa
trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da
annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si
oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla scuola
privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero insegnamento
finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”, perché in
Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la scuola
cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero liberalismo
postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo non è
praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al liberalismo si
ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai Patti
Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però, si
ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le asperità e
finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di Costituente.
Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e che tocca
all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo problema
vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla storiografia
prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto di maggiore
attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo dell’intransigenza
cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur nei termini del
conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un elemento equilibratore
nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti Lateranensi, soprattutto
all’atto della elaborazione della Costituzione democratica. Quando parlo di
elemento equilibratore intendo dire che la presenza della Santa Sede ha fatto
uscire il meglio di sé dalla classe dirigente liberale nell’Ottocento, ha
attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi hanno avuto sulla società
italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che ha portato alla formulazione
del disegno costituzionale complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già
nell’Ottocento, la classe dirigente liberale conferma la propria lungimiranza
con quella Legge delle Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più
grande questione storica europea, e, dovendo misurarsi con un evento che
interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela capace di ad attenuare,
smussare, equilibrare le asperità del separatismo. Anche quando il Concordato
ferisce duramente la laicità e la cultura laica italiana, la soluzione
definitiva del questione romana stempera il valore politico del patto con il
fascismo. Non a caso il giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti
Lateranensi si presenta come scisso in due: severo e aspro, anche da parte
cattolica, nei confronti dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del
Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti del Trattato del Laterano.
Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la soluzione della questione romana,
riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo
con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi
afferma che ciò che è stato fatto avrebbero dovuto farlo i liberali. Infine, i
programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista
della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in
discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che,
senza una questione romana risolta, forse non avremmo avuto quel tipo di
rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato e che ha saputo anticipare un
modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei.
Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza
della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo
provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto
circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono
riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di una laicità che è
destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che
diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei
totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della
tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è
superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della
religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società,
si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra
Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun
culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le
differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo
Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati
tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più
intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti,
ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni
ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla
Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà
religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese
come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle
confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia
verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca
integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che
ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto
in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese
ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna
di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli,
su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si
tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un
uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel
secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello
Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è
oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua
complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che
esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a
pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia,
l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione
teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto
del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie
confessioni religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che
affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come
nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo
etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si
contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante,
ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello
Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità
e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che
coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire
qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità
nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar
vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il
fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe
alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga
nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri
convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre
ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si
impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe
la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti
sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla
chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non
sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono
essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari,
meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori
convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi
una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica
L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo,
perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande
rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto
accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle
popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio
se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società
antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le
prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte
riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo
islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze,
che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi
sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica
sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il
multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della
laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio
che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra
vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed
eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano
slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico
alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono
che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle
Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni
della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica
suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore
e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si
reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se
vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per
offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non
costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio
è di competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute
su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini,
avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica
o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o
all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce,
violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla
nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee
di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa
esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per
difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie
valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un
fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il
cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per
criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità,
per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre
religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura
liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica
illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo
fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre
società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione,
violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi
sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su
un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel
realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una
sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della
laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito
paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni
tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre
religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello
Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per
meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo
torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si
è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da
pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a
nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce
tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri,
alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non
avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà
di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e
sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare
le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di
lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come
quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un
nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta
trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella
accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo
della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in
genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo,
riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che
nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i
presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone
aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una
partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella
simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima
altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi
sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti
fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la
presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono
in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi
pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti
dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di
significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della
perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della
laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa
distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e
quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e
tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa
criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti
umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa,
cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si
impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e
potremmo dedicarvi un altro convegno. Trovare l’uomo capace, e
l’investirlo de’ simboli della capacità (culto, o com’altro sì chiami) così
ch’egli possa avere agio a governare secondo la propria facoltà, è l’officio di
ogni procedura sociale. A questo punto il Carlyle riscrive
‘worship’ WORTH-ship, per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore,
compincendosi che la ragione etimologica venga quasi ad attestare la nocessità
del fatto che gli sta tanto a cuore. Per mantenere questa relazione
logica Loubatières muta ‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da
prima, e poi di *élite*. ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son
pergant et rapide regard, dénude la racine des mots et des
choses.’ Carlyle non è punto tenero degli studi etimologici.
Le parole gli si dischiudono ad un tratto come si fendono le roccie allo
sguardo diabolico del suo jötun Hymir. Ci fa ripensare a quello che dice
Daudet: ‘Il y a dans cortains mots que nous employons ordinairement
un ressort cachè qui tout à coup les ouvre jusqu’au fond, nous les explique
dans leur intimité exceptionelle.’ ‘Puis le mot se replie, reprend sa
forme banale et roule insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo
Cardia. Keywords: il laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il
filosofo italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa
– stati papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza –
religione dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica –
credenza religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il
sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito
romano – la mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della
roma antica pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto
del laico, worship of the hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cardia” – The Swimming-Pool Library.
Monday, April 8, 2024
GRICE E CARDIA: L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE DEL CULTO DEL LAICO -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA
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