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Monday, April 8, 2024

GRICE E CASTRUCCI: L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE DEL GUERRIERO INDO-GERMANICO -- SUL CONFERIMENTO DI VALORE -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

 

 

Grice e Castrucci: l'implicatura conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul conferimento di valore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo italiano. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.  I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca  ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento.  Accade in questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.  Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.  L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci, la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto.  Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre  col quale si riferiva a figure storiche naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);  Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).  HOMO ABSCONDITUS  L’IDEOLOGIA TRI PARTITA  DEGLI INDOEUROPEI  il Cerchio   Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA DEGLI  INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli studi  di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle anti¬  che civiltà euro-asiatiche.   La struttura fondamentale del pensiero religioso e sociale delle popolazioni  uscite dalla comune radice indoeuro¬  pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e  Contadini che è presente nelle origini  di Roma così come nei miti iranici,  germanici e celti, si rivela essere lo  specchio di un'armonia divina, in cui  gli stessi dèi sono così suddivisi, clas¬  sificati e diversamente adorati.   È la dimostrazione di come, nelle ci¬  viltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda radicalmente  dalla dimensione mitico-religiosa. e il  mondo del divino diviene l’archetipo  che dà forma a tutta la società degli    uomini.  DUMÉZIL è  una figura fondamentale nel panorama  culturale europeo.   Filologo e storico, nel ‘900 ha riav¬  viato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia,  le popolazioni celtiche e germaniche.  Ha lasciato una bibliografia sterminata,  solo parzialmente tradotta in italiano, fra  cui ricordiamo almeno La religione ro¬  mana arcaica, Gli Dèi dei Germani,  Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli Indoeuropei.  HOMO ABSCONDITUS  Dumézil   L’ideologia tripartita  degli Indoeuropei   Con un saggio introduttivo di  RlES il Cerchio Iniziative editoriali  L'idéologie tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di Mera.  Walters Art Museum, Baltimora.  II Cerchio Srl    La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di Dumézil. Calmette rinvenne i primi due  Li bri dei Veda, u n documento coni p letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella Biblioteca Reale di  Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala, Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza  di una lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della riscoperta del pensiero indoeuropeo.  Il primo dossier indoeuropeo   Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬  piere nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti  dell’antica mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione  dei Germani al Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare  alle origini spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬  mente due pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la  celebre opera di  Creuzer Simbolik undMvlhologie  der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine nel 1810 J.J.  Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d imostrare che i  miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina co¬  mune su Dio, l’Anima e l’immortalità.   Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si lanciarono  alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò  questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità di trasmis¬  sione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.   A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filolo¬  gica, rappresentata da Karl Otfried Miiller (1797-1840), da Franz  Bopp (1791-1867), da Antoine de Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i testi  dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India e  dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in  grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una  Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle  religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero.  Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi  atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personi¬  ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e  descrivere.   Continuando le sue ricerche in direzione delle origini, Miiller  tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così secon¬  do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero reli¬  gioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche di  Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of thè  Easl (che potè terminare prima della propria morte, la¬  sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri  dell’antica Asia.  Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:  scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue  indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬  torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del dio  Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusio¬  ni sono deludenti.   Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono A.  Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances de  vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires de  la Société Linguistique»), Vendryes ha sottoli¬  neato le corrispondenze esistenti tra parole indo-iraniche da una parte  ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono anche parole mistiche relative all’effi¬  cacia degli atti sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬  ferta fatta agli dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla  protezione divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante,  poiché dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi  presso i popoli che in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici,  gli Italici ed i Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso  alle due estremità del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella  Gallia ed in Italia, è un dato molto significativo, benché la scomparsa  di questo vocabolario presso popoli come i Germani e gli Scandinavi  non abbia mancato di incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬  tato che questi termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic  disponevano di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e  trasmettere questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi  sacri ed alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa  c di una fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il  mondo indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic  veicolava grazie ad un linguaggio comune.   3. La scoperta dell’eredità indoeuropea   Alla luce delle ricerche dì Vendryes, G. Dumézil ha compreso  quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare  gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazio¬  ne de L'idéologie tripartie des Indo-Européens nel 1958 è il compi¬  mento di una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte  .successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei flamini  maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva:   «/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in  Italia la stessa concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui noto¬  riamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine sociale »'   Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità indoeuropea, di  una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità della quale si  trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla forza fisica che  s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la fecondi-  tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma indispensabile al  loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di lettura lo  studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la documenta¬  zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui oggetto c il  dato indoeuropeo.   Durante il III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si  spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate  erano fatte di diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che  suppone un fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di ci¬  viltà comune. Popoli senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato  pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II  millennio a.C., hanno adottato una scrittura cuneiforme che consentì  loro di conservare degli archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza  del vocabolario religioso legato all’organizzazione sociale, alle prati¬  che cultuali ed ai comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬  gono l’esistenza di una religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione dell’origine, del  presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les  épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad.  italiana, Einaudi, Torino 1982 - NdT)   Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil ha  elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama «gene¬  tico)} 2 . La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza delle  corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di tracciare  uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed articolazioni es¬  senziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al fine di  comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo delle  corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle ci¬  viltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione  delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia, della  filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi popoli  e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a questo lavo¬  ro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del comporta¬  mento e delle rappresentazioni.   Dumézil non ha preteso di resuscitare la religione degli  Indoeuropei come venne vissuta nei tempi preistorici. Si è accontentato  piuttosto di delineare lo schema concettuale delle società collegate tra  loro nello sviluppo della storia, e si è servito di questi schemi per giun¬  gere a spiegare i testi ed i fatti che resistevano ad ogni spiegazione.   Nelle civiltà indoeuropee il nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i tre varna dell’India: i  brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi della scienza  sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione del popolo; i  vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il  Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre «caste» sono molto antiche. In Iran  l 'Avesta menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guer¬  rieri, i radaci.star montatori di carri; gli agricoltori-allevatori, chiama¬  ti vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha lasciato tracce presso gli  Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i  loro druidi, la loro aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori  DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris  di buoi. L’analisi delle origini di Roma condotta da Dumézil si è rive¬  lata particolarmente illuminante.   Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili  per la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sa¬  cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi,  determina il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile  dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella re¬  lativa alla forza fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione  della società e nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quel¬  lo della sussistenza degli uomini e della conservazione della società:  fecondità animale ed umana, nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil  ha dimostrato che la società indoeuropea era governata in profondità  grazie ad una mentalità fondata su una struttura trifunzionale.  La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo. Una delle  grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni trovata su una  tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale dell’impero hittita.  Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il testo di un trattato con¬  cluso nel 1380 a.C. tra il re hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della loro alleanza ognuno dei re invo¬  ca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli dèi considerati i protettori  della società ariana: Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi  delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo  paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬  ne - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera illuminante questa  teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni.   Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬  lia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in  Umbria ed a Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus.   Questi dati indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad  una teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta  un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra  e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di questo  mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬  ni guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin  sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬  ti; si tratta dunque di una teologia tripartita.   Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teo¬  logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa parte della tradizione  ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello schema trifunzionale  nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma l’attacca¬  mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i sacerdoti che i  popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si rinviene anche in  Italia, presso i Celti, i Germani e gli Scandinavi.   Conclusioni   E stato necessario tutto il XIX secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c stato quello di aver consa¬  crato un 'intera vita all’interpretazione di questa documentazione. Egli  ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr c di James Frazer:  una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al dominio del culto  e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del vocabolario del sa¬  cro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli italo-ccltici dall’al¬  tra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a fondo i paralleli  attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi popoli sono i soli tra  gli indoeuropei ad aver conservato per molti secoli i loro collegi sacer¬  dotali.   Questa nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬  perta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia  dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬  cheologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬  do comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬  zioni c del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce  dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio  egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -  della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale  che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei  della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:  classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori.     Mezzo secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa  visione nuova del mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle  vestigia della civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬  giare di più d’un millennio i lempora ignota.   Julien Ries  Università di Louvaìn-la-Neuve  Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà menzione  de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni, della  loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo qui im¬  piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non interessa  molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi conside¬  reremo è quella dello spirito.   Al pari degli Indiani vedici, come ci vengono presentati dai loro  inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza riflessione e senza im¬  maginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni ormai la compara¬  zione delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue in¬  doeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di elementi comuni,  elementi non isolati ma organizzati in strutture complesse delle quali  non ci è offerto un equivalente in altri popoli del mondo antico.  L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata alla più im¬  portante di queste strutture.   L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente, tramite  una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una mole di  argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro fra¬  zionamento.   Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati  una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma  una messa a fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo  d’insieme può imporre ai risultati parziali.   Un problema che per anni è stato capitale e in primo piano - pen¬  so al valore trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui  limitato in un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse  nelle pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza  grazie ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice riavvicina¬  mento.   Questo doppio disegno non prevederànote a piè di pagina: si è  preferito costruire una sorta di commentario bibliografico distribuito  secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché ognuno riepilo¬  ghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c datando su  ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o ancora,  rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non avreb¬  bero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale.   Non si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di  un certo numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler  formare una scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse mate¬  rie con metodi simili e che si tengono costantemente in contatto tra  loro.   Altre visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili con  questa, non saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬  mensioni del presente libro sono ristrette e l’intento è costruttivo e non  critico.   Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose  discussioni.   Il mio caro collega Renard mi ha permesso di presentare  nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines , que¬  sta nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che prò  virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri  studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre invocato  con augurio.   Uppsala. Parigi. Le tre funzioni sociali e cosmiche    1. Le classi sociali in India   Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve-  diche è la loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬  scrito i quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse  sono pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬  biamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è  quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea  non si Lralterà qui ulteriormente.   I doveri di ognuna delle tre classi arya servono per definirle: i  brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano la scienza sacra e cele¬  brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i guerrieri, proteggono il po¬  polo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya è affidato l’alle¬  vamento e l’aratura, il commercio e più in generale la produzione dei  beni materiali.   Si costituisce così una società completa e armonica presieduta  da un personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬  mente estratto dal secondo livello.   Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su  loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoro¬  so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati  chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X  libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale crea¬  zione non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di  una pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M.  Apte, fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del  Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai  tempi della redazione di questi inni la società fosse pensata composta  da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano an¬  cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostanti¬  vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini non sono che i  derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che definiva di¬  stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro)  «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti del rea¬  le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza» o «habi¬  tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al greco  (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo raggruppa¬  mento sociale e locale».   È impossibile determinare in quale misura la pratica si confor¬  masse a questa struttura teorica: vi era forse una parte più o meno con¬  siderevole della società che indifferenziata o altrimenti classificata  sfuggiva a questa tripartizione? L’ereditarietà all’interno di ciascuna  classe non era forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale  più flessibile c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente  ci è accessibile solo la teoria.   2. Le classi sociali avestiche   Da un quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie-  gel, di E. Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno  nella sua forma ideologica la tripartizione sociale era una concezione  già acquisita prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da  una parte ed Iranici dall’altra.   In diversi passaggi VA vesta menziona i componenti della socie¬  tà come gruppi di uomini o di classi (designate da una parola che si ri¬  ferisce al colore, pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun (cf. uno dei  sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero Indra) e gli agri¬  coltori-allevatori, vàstryó.fsuyant.   Un solo passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi,  pongono come quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigia¬  ni, huiti, altri indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozio¬  ni sono talvolta messi maldestramente in rapporto con le quattro clas¬  si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a considerarla una aggiunta a un  antico sistema ternario.   Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele  testimone della tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo  Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste classi: se¬  parò inizialmente dal resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro  le montagne per celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio di¬  vino e restare nella luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra  parte, «combattono come dei leoni, brillano alla testa delle armate e  delle province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria del  valore è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi  arano, piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimpro¬  vera, non sono servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo  alla calunnia».   A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito  questa concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un  modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare  l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬  gia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto importante poi¬  ché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla mor¬  sa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino Orien¬  te, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a  molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore  antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni  grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di  vitalità, gli Osseti.   Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano  l’origine della loro nazione:    17     «Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora  deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬  glia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬  gli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais.  Quando erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti  d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi  t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si af¬  frettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ri¬  tirò e il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo i  primi due rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si  spense. Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo segno,  abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬  is sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-  atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,  Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si  chiamano Skolotoi, dal nome del loro re »   Mi sembra certo che bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere  yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù, una delle quali è la  tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa struttura: è  chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono alle tre attività  sociali degli Indiani e degli «Iranici deH’Iran»; il carro e il giogo (E.  Benveniste ha analizzato un composto avestico che associa queste due  parti della meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era  con l’arco l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬  vate da Erodoto, come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti,  incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e il simbolo delle of¬  ferte cultuali e delle bevande sacre.   La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla  tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli amba¬  sciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a  non attaccarli:   «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un  carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum,  hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e contro i  nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che ci procu-    18     ra il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino; quan¬  to ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino  con la lancia».   4. La famiglia degli eroi Narti   È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica  della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n  frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una gran¬  de impresa folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬  ticamente raccolto. Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i  Narti, erano divisi essenzialmente in tre famiglie.   «/ Boriatee - dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel  1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligen¬  za; gli /Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano  forti per i loro uomini».   I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due  a due queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni  ’40, confermano pienamente queste definizioni.   II carattere «intellettuale» degli Alaegatae riveste una forma ar¬  caica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c nella  loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si produco¬  no le meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei Narti».   Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è ri¬  marchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)  «bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate sci¬  tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbia¬  mo visto, del fondamento della classe guerriera.   I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante-  mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della ric¬  chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae, sono  una moltitudine di uomini.   5. Gli Indoeuropei e la tripartizione sociale   Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico, questa  dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di  un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al  di fuori degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica  o praticavano realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬  gende in cui spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti  «componenti» iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2)  nel mondo antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬  bia e dall’Arabia agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha  esplicitato praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è  stalo dopo un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto  con un popolo indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di que¬  sta proposizione. Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeu¬  ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c  prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose corrispondenze  che esistono nel vocabolario della religione, dell’amministrazione e  del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli-  che dall’altra.   Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato sociale della  Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci  informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al cristiane¬  simo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito  rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così costituita:   1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazio¬  nale come la classe dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid),  cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione.   2) Segue poi l’aristocrazia militare, unica proprietaria del suo¬  lo, \a flciith irlandese (cf. il gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬  mente la «potenza», esatto equivalente semantico del sanscrito ksatrà,  essenza della funzione guerriera.   3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi ( ciirif.;)  che si definiscono solamente come possessori di vacche ( bó). Non è  sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R. Thurney-  scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che questa ul¬  tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti i  membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee - airecht - e  ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una parola impa¬  rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\ antico-persiano  ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo», da *arya-ka-). Ma poco im¬  porta: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema reale o  ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e ancora in  qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa, Roma si e costituita da  tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli alleati  etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di Romolo  comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i  secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU II. Lucumone c la sua banda sono i primi  specialisti dell’arte militare arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è  il semi-dio, il rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri e di guerrieri  esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio (1,9; 2-4), “deos  et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes (e le donne)  che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini riconciliati  che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a vitas opes prò dote socicint.   Eliminando così gli’etruschi, il dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La  ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte  del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho  messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura  di tuo padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”.   Dionigi di Alicarnasso che segue la tradizione delle tre razze,  ripartisce tra quelli gli stessi tre vantaggi: le città vicine, sabine o altre,  sollecitate da Romolo per mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di  unirsi a questi nuovi venuti « Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di professione  come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e illustre in  materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).   8. Properzio iv, i, 9-32   Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da a  questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere i  caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il nome  di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu-  mo); TRIBU III. Tito Tazio.   Il testo di Properzio merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre (c un  luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza della  Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre parti ineguali, seguite da una conclusione:   -- sul pendio dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo focolare, immenso reame.  La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di toghe preteste,  non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime rustiche.  Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al  culto ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che con  fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno oggi  giorno grazie a un cavallo mutilato.   Vesta era povera e trovava il suo piacere in asinelli coronati di  Fiori. Delle vacche scarnite portavano in processione degli oggetti  senza valore.  Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le  interiora di una pecora.  Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo campo  e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON.  E la ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli  Bianchi. Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima di  menzionare il «radunatore» Romolo, nell’apparato dei suoi trionfi,  enumera sotto i loro nomi le tre tribù riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del verso 30 e i  Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes (v.    23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10.  In altre parole, prima di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza ancora  separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di  Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega  così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano  quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;  semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e  l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno  sfarzo).  TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme  primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di  pelle») anche col primo tecnico militare.   TRIBU III: Nel solo verso 30 (« Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA primitiva.   La nettezza delle articolazioni del testo e, in conseguenza, delle  intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto nel distico 29-30 di  Lucumo come generale e di Tazio come ricco proprietario di armenti,  mettono in risalto il fatto che, benché concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente.  TRIBU I: I Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al  governo e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio e  i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori.  Le divisioni degli Ioni   Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi ateniesi erano stati ini¬  zialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo nell’organizzazione  sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono molto chiari, al pari  della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni o, come dice Plutar¬  co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi tipi sono molto probabil¬  mente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o «guardiani», agricol¬  tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco  0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario ricollegato ai  sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori.   È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di Platone -  filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬  duce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o filosofica,  così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state ispirate in  parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in  GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬  tagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬  ellenico.   10. La tripartizione sociale nel mondo antico   A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica in¬  dipendente nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o  siberiane, presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo-  tamia sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti  agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle  organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combat¬  tente che pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui  un re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una massa  spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora  delle società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri  senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita.   Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano la strut¬  tura delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni.   Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad  esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a  lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti,  Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi.   E il caso ad esempio dell’Egitto «castale» in cui i Greci del V  secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vec¬  chie classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In re¬  altà questa struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli  Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del  secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il  cavallo e tutti i suoi usi.   Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni si  riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai  avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico testo  «multifunzionale» del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto  (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬  to un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H.  Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p.  165):   «M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-  spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and  all thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,  by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni »   Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo Faraone che  abbia mai sposato una principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re  dal nome caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione di  una classe di guerrieri col suo statuto «morale» particolare, unito ad  una sorta di alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata  di sacerdoti, sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro  la ragione e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e  cuneiformi ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle  vecchie civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi  come quei conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬  do comparvero ai capi e ai popoli degli imperi che schiacciarono.   Essi li designavano con un nome - marianni - che in effetti gli  Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig Wikander seppe riconosce-    26     re nel 1938 i membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da  Otto Hofler presso i Germani.   11. Teoria e pratica   La comparazione dei più antichi documenti indoiranici, celtici,  italici e greci, se da una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬  pei avevano una concezione della struttura sociale fondata sulla di¬  stinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte  non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse  forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora  generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬  dici.   È possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen-  te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la  distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan  o qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬  riere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento,  mentre il grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si  affidava alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le  occasioni.   Si è infine liberi di immaginare moltissime forme intermedie,  ma queste non saranno che punti di vista dello spirito.   Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬  venza di formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬  no una società divina concepita ad immagine della società aryae sono  talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari;  oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè  3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce-  res e Titienses, completate da 3 àuguri.   12. Le tre funzioni fondamentali   Così, non è il dettaglio autentico e storico dell’organizzazione  sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di più il comparatista,  ma il principio di classificazione, il tipo di ideologia che essa ha susci¬  tato, realizzato o formulato, e di cui non sembra essere più rimasta che  un’espressione tra tante altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata incontrata  una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna  così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate da  gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il sostentamen¬  to e la prosperità della collettività.   Ma il dominio delle «funzioni» non si limita a questa prospetti¬  va sociale. Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano  già fornito - come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi  delle tre classi nella riflessione filosofica degli Indiani vedici e  posl-vedici - ciò che può essere considerato, secondo il punto di vista,  come un mezzo per esplorare la realtà materiale e morale o come un  mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla  società.   L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali  della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938,  da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla  seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una  parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uo¬  mini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, ammi¬  nistrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi  delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine, più ge¬  neralmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla medi¬  tazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza  fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente ma non uni¬  camente guerriero.   È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza  funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorro¬  no dei legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben de¬  finito: fecondità umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo,  nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi della  pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran numero»,  applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini che  compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste delle defini¬  zioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni  dell’ideologia tripartita.   Gli indologi hanno familiarità con questo uso straripante della  classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del  pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di no¬  zioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della socie¬  tà, coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni preesi¬  stenti o create per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni  importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta  un senso molto profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile.   Così, ad esempio, le tre «funzioni» sono distributivamente con¬  nesse ai tre guna (propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione,  Oscurità - delle quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili  formano la trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori  dell’universo, le si vede non meno imperiosamente collegate ai diver¬  si metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare  minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte  le scodelle o i bastoni.   Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la maggior  parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di questo ge¬  nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del globo,  hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei. Non  si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.   13. Triadi di calamità f.triadi di delitti   Da circa vent’anni E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬  nici c gli Indiani delle formule molto simili in cui un dio è pregalo di  allontanare, da una collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno  dei quali si riconnettc a una delle tre funzioni.   Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario  domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero «r/a// ’esercito  nemico, dal cattivo anno e dall'inganno» (quest’ultima parola, drau-  ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la ribellione po¬  litica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si riferiva anche  al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la menzogna). Parallela¬  mente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c del novi¬  lunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che, diver¬  samente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio  Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo  comune:  «Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo sacrifi¬  cio, conservami dal cattivo nutrimento».   L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva  che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista  vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad  evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for-  maliste - delle religioni delle due società.   Mi è stato possibile dimostrare in seguito che i più occidentali  tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi sono talvolta così sorprendente¬  mente simili a quelli vedici, utilizzavano la stessa classificazione tri¬  partita delle maggiori calamità.   La principale compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus  Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV  1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il deperimento del  mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per epidemia o per  carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di guerra e la  dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così ripartiti fra le  tre zone della salute o del nutrimento, della forza violenta e del diritto.   I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici delle tali for¬  mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la trasposizione ro¬  manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a Llevelis è consacrato  all’esposizione delle tre «oppressioni» dell’isola di Bretagna e al  modo in cui il re Lludd vi mise fine.   Queste calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬  pere» è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione,  fosse anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬  porti umani; 2) ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due  draghi, il drago dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col  primo, cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da  paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re ac¬  cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di vivande»,  fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte seguente e porta  via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta come le tre oppres¬  sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita intellettuale, dell’ammi¬  nistrazione della forza e infine del nutrimento; in più, considerate in    30     base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬  ti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.   Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬  se i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu-  tio), violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto  {furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione  C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,  prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬  stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,  violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato la classificazione avestica dei me¬  dicamenti ( Vidèvdàt , VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬  le formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui  poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è  cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e  di chi ha una frattura (violenza)».   È lo stesso procedimento che nella III Pythica di Pindaro il cen¬  tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire « le dolorose malattie  degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o droghe, incisioni)  ed è stato sospettato che dietro questi fatti paralleli si celi l’esistenza di  una «dottrina medica» tripartita ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬  chi testi germanici non applicano questo schema classificatorio ai ma¬  lanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in altre circostanze:  il Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore  del dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a  cedere ai desideri amorosi del suo maestro.   Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con  dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di  decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo ten¬  tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua ma¬  gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).   15. Elogi tripartiti   Quando un poeta indiano vuole fare brevemente l’elogio totale  di un re, passa in rassegna le tre funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di essere chiamato padre  dei suoi sudditi « perché assicura loro buona condotta, li protegge e li  nutre». Con delle formule generalmente meno concise, l’epopea irlan¬  dese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei Viventi,  cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è caratte¬  rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: «.non vi è  né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio; l'in¬  tesa regna senza lotte ».   L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto  è buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero  dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬  danza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata  come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massi¬  mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII,  1928, p. 195).   In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n lesto  del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano «pace e tran¬  quillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del mare», «con¬  trollo, diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus irischen  Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della guerra,  della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali  il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero.   16. Le tre funzioni e la «natura delle cose»   Si può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo  naturali, così troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile dispo¬  sizione delle cose perché il loro accumulo e la loro somiglianza provi¬  no un’origine comune c resistenza di una dottrina caratteristica degli  Indoeuropei.   Una riflessione anche elementare sulla condizione umana e sul¬  le risorse della vita collettiva non dovrebbe forse mettere in evidenza,  in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una religione che ga¬  rantisse un’amministrazione, un diritto c una morale stabile, una forza  protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di alimen¬  tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac  sulle vie che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche va¬  rietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare che,  malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai quali si  riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi suppo¬  ne: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in al¬  cun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella lettera¬  tura dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o taoisti così  inventivi ed esperti di classificazioni.   La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà,  sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; por¬  tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne una  struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra. Nel  mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filo¬  sofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni lette¬  rarie di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione più econo¬  mica, come per la divisione sociale propriamente detta, è ammettere  che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni  provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore alla di¬  visione ed è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi  sacerdotali romani sono in parte i diretti eredi.   17. Meccanismi giuridici triplici   Una delle applicazioni più interessanti ma più delicate è quella  che in riferimento alla concezione indoeuropea chiarifica presso i di¬  versi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole giuridi¬  che. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha dimostrato che  questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo spirito, conserva  nelle sue forme un gran numero di procedure in tre varianti a effetti  equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove, come crea¬  zioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di queste  sorprendenti «tripartita» si modella sul sistema delle tre funzioni qui  considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere  fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei  Comitia Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una  battaglia davanti ai soldati; sia tramite una vendita fittizia a un «emp-  torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1).  Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un «diritto sacerdota¬  le», un «diritto guerriero» e un «diritto economico», o che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti differenti,  non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche  che si possono interpretare in questo senso.   Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di  possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si di¬  stribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori del  diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita  collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬  tieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti cia¬  scuno dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente milita¬  re; economico) di una delle tre funzioni ».   18. Le tre funzioni e la psicologia   La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I sistemi filo¬  sofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei principi  come la legge morale, la passione, l’interesse economico (dharma,  kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua Repubblica  ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle  formule di virtù che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Co¬  raggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente tradizio¬  nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la mitica  regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come tripli¬  ce condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di «essere  senza gelosia, senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed. Win-  disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante-  mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccel¬  lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione  di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.   Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza anti¬  chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9;  Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire  un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a  Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le va¬  rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguen¬  te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano  la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata  quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre princi¬  pi sono stati legati figurativamente e solidalmente a degli oggetti ma¬  teriali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li rappresentava.  Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia principalmente  portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani e un venta¬  glio di colori.   Ci si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬  to, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e  giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma guerriera,  coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori secondo le  tre funzioni.   Ora, questi oggetti non erano solamente mitici: erano conserva¬  ti lutti insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attra¬  verso le terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla pe¬  nultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita  dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della  dea Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il «calderone di Dagda»  che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬  li, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la spada  di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede  della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere  scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII,  1930, pp. 73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano allo  stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che ve¬  dremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.   20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici   Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già  segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)  gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita  varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq «screziato»,  russo pisat' «scrivere»), che con sfumature diverse designano il colo¬  re. Di fallo è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu,  ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spie¬  gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il giallo e il nero.    35     Di certo che vi è stata un’alterazione in seguilo alla creazione  delle caste inferiori ed eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di  cui rimangono tracce nei rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S.  IV, 2, 6) e senza dubbio anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è  il suo cammino » dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬  gli dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il giallo e  dove vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬  ri-agricoltori.   In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tra¬  dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata progressivamente stabilita e  interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan-  der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive nella cosmogonia  l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei guerrieri come rossa  o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come blu scura. Altri  Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha intelli¬  gentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio in  cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di lasciarla e  di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il che suppo¬  ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il se¬  condo in una stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus  Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925, pp.  22-23).   21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e Romani   Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore dei dm-  idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un  Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu-  lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo sulla testa  del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti armati che  sono i Salii.   Un sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo  s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è  quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande impor¬  tanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬  curamente anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità romane  ricollegano del resto alle origini stesse di Romolo.    36     Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici  e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬  vata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬  mane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica  erano inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo  con le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬  mente sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬  tà, guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,  Lucercs e Titienses.   A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano,  nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi,  Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti, da guer¬  rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio {De  magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle tribù  funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi.   Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi anti¬  chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori:  quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi  confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeu¬  ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui  considerato.   22. Le scelti- dei tigli di Feridùn   Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni mol¬  to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qual¬  che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ulti¬  mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro  simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradi¬  zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Ave¬  sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn.  Eccola nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i  JàmcispTk:   «Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro  nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: «Io sto per  dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che gli  sembra bello affinché io glielo doni». Salm chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬  coloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la religione.  Frètón disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto». Ed  egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz  e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric».   Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisio¬  ne geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso.  Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccio¬  so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con la propria natura e  col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si precipita cieca¬  mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza combattere, con  l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della dignità regale della  sua famiglia.   23. La scelta del pastore Paride   È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse in¬  fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia del  «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti conseguenze  poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo  valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.   Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee  (che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬  nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300-  1307) ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria  attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con  l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la  «potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬  ne, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo  un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬  toria e Afrodite la donna più bella.   Paride sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che  causerà ben presto il rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado  dieci anni di combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizio¬  ne di uomini e divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno  accanite.    38     Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L.  Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache  raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬  da greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬  neralmente «bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre  fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno, quello  della «prima funzione» assicura a chi lo possiede un destino piena¬  mente «buono». Ecco per esempio la forma originale rigorosamente  ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche sull’origine dello  «Jodeln» (Johlen).   «Res, il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre  esseri sovrannaturali in procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬  to il latticello è versato in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo  secchio è verde e nel terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere  un secchio e berne il latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬  giunge: «Se scegli il rosso sarai talmente forte che nessuno potrà  combattere con te». Il secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il  latticello di colore verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo».  Il terzo infine spiegò: «Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬  vigliosamente». Res rifiutò i due primi doni e si decise per il latticello  bianco, diventando un perfetto Jodler ».   Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse va¬  rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono incontro allo jodler e.  l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua capanna: le vac¬  che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la vacca più selva¬  tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente, etc.).   24. Talismani di Roma e di Cartagine   Verso la fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬  nizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua vittoria finale:  una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di-  done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬  none) avevano, a detta di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e  la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di  Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu-    39     turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta promessa,  quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora questa sor¬  prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli Indiani vedici  uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori delle vittime  ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme alle teste delle  due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno in apparenza,  essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare l’importante altare del  fuoco, in mancanza del santuario permanente che non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico la tripar¬  tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di  grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in India,  in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un  uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capi¬  tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.   Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei  Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lun¬  ga e varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo  schema delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro Tricefalo,  morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che minaccia il mon¬  do, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha il rango di brah¬  mano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di conseguenza  Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas (1-2). Poi, es¬  sendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il Tricefalo, Indra  s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del guerriero  conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla forza  l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia (3-11). Infi¬  ne, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito,  adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa  (12-13).   L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a rintracciarne  la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in lingua scandinava  - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr (Starcatherus),  guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e devoto ai re che  1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita  prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in  ognuna di esse egli commetta una penalità.   Ora, il quadro di queste tre penalità si distribuisce chiaramente  secondo le tre funzioni. Essendo al servizio di un re norvegese l’eroe  aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a uccidere il suo signore in  un sacrifìcio umano (VII, V, 1-2).   Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬  mente dal campo di battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬  nandosi, in quest’unica occasione delle sue tre vite, alla paura panica  (Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina il suo signore procu¬  randosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬  mente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬  ve, in atti e discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14).   Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che  cercare la morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili,  Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle  di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamen¬  te tarde ma non inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da  Zeus e Alcmene durante tre notti) è scandita da tre mancanze che han¬  no un effetto grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il  ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di  Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù  di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle  commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di  Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbi¬  dienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla  demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente  alla ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate  da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle  attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con  l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere for¬  temente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una ma¬  lattia psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo  che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo  di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato  aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile di¬  sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terri¬  bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un  terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap.  37-38).   Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di  un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e oblio della propria don¬  na: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre  zone funzionali esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa  specificazione (concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere  stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e cumulative nel  caso di Indra, sono invece successive nel caso di Eracle: le prime due  possono essere riparate mentre la terza trascina alla morte.   In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e ri-orientata  dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per un  unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro  Dio e usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello  x' arvnah , di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu-  ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di  questo x v arvnah successivamente sfuggono per collocarsi nei tre per¬  sonaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore,  del guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart , VII,  1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl XIX, 34-38).   26. Il problema del re   Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e  i diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha uti¬  lizzato la struttura tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci,  come per le altre applicazioni di questa struttura, verso i popoli non  indoeuropei del mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è  prodotto un tema epico o leggendario, la messa in scena di una lezione  morale o politica, la giustificazione colorita immaginifica di una prati¬  ca o di uno stato di fatto.   Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga-  mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della  Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun personag¬  gio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure degli Indoeuropei. È dun¬  que probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e che solo in  questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli Indo¬  europei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e applicato  all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizza¬  to nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità  fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬  sfare.   Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottoline¬  are ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non ci  fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le istitu¬  zioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli «Indoeu¬  ropei comuni».   Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e dei  quadri essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio il  rapporto fra le tre funzioni e il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza  antichissima nella parte senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬  ropei, cioè presso gli indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).   Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata  una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬  ne nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬  mente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬  tura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura  amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul  sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬  re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.   Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi  dalle tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬  la classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale  dei guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di  ràjanya, derivato dalla parola ràjanl   Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere meglio for¬  mulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò che  fu l’armatura più solida del pensiero di questa società arcaiche: il siste¬  ma divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè Rig Veda?»,  Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp. 34-36. Per brahman  vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA, CCXXXVII, 1949, pp.  1 -46. Questa interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali  da W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il  senso ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE-  ME, ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato  dello studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia  discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII,  1950, pp. 255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente  la questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in  vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma  la concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare  l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito  nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e infi¬  ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini differenzialmente  “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi  indo-iranici questo termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del  secondo livello.   § 2. DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI,  1930, pp. 109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-  stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,  Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions in-  do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550; H.S.  NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL, JMQ,  pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45).   § 3. L’interpretazione è stata progressivamente costituita negli articoli e  nei libri citati al § 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬  mier homme... I, 1918, pp. 137-140.   § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle tradizioni degli Osseti vedi il  mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle grandi inchieste degli  anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in  osseto: Narty kailcliitce ibid. 1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo  «Klo takie Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.  373.   § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco (1949), pp.  15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178.   § 6. JMQ, pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la  guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a  Stage in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:   « Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f society    44     among thepeoples concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in thehighest  rank a class oflearned and sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo-  west thè ordinary people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io  credo che bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬  landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conse¬  guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain, 1949.   § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ, pp. 129-1 54  (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp. 230-263); JMQ IV,  pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode L'heritage... pp. 127-130 e  190-209. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti delle tre fun¬  zioni: «Ner - et uiro - dans les sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp.  183-189.   § 8. Delle obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in  NR, cap. II (= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e  229-23 1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum  Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare  un re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della  gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi tempi della Re¬  pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio allude a  un mito del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir.,  Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in altre parole in rapporti diversi ma convergenti  con la fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬  renziale di ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato  delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti, come  componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ IV,  pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici e quello  di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della fusione dei  Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa ma differente,  vedi sotto, II i? 17, nota.   § 9. JMQ, pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬  riche sono di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ  it.). Un recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults,  myths, oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta  delle difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬  posto di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei:  TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture,  Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone, vedi  JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche tradizioni degli  Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita della so¬  cietà (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale di Platone  non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬  pea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò  (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO-    45     dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce Marsilio Ficino, cioè i filo¬  sofi che governano, i guerrieri che combattono e il terzo-stato, agricoltori e  artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La solidarietà dei primi due gruppi al  di sopra del terzo è fortemente marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia,  evita la confusione , 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita  politica, è assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula  di virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla  temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i «guardia¬  ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel po ’  che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India: stessa definizione  dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬  ma contro la confusione, varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬  nersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e  delle virtù dello stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none  forse perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a  tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto di¬  scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i  contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non ariane, ma anche  ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti del¬  la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano  le triadi; il pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a  non trascurare le componenti «iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto  § 18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in  Platone.   § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cunei¬  forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plu¬  rale arya mdrycin + la terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN,  «New light on thè Maryannu as chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung,  1951, pp. 308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische  Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬  tare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una  delle grosse differenze tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬  ni consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il  secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬  riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più specificata-  mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§ 405-412.   § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo «33» fra Roma e  l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ it., pp. 389-405),  L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono ripartiti frai tre piani del  mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE, pp. 7-9) essi stessi in rapporto  con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico  dei «33 dèi» è garantito dalla concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro-    46     tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp. 158-159(=JMQ  it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S. Wikander.   § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur les classes socia -  les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE ha per la prima  volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in cui il fatto era ben cono¬  sciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente l’organizzazione sociale  che finalmente non appare più se non come un’applicazione particolare.  Come disse all’inizio di un altro articolo, per riassumere l’insegnamento di  questo («Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques» RHR,  CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione della societe'i in tre classi, sacerdoti,  guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬  scienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬  turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo  indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni  esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529 e  segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono fuori dal¬  la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione di una totalità con¬  cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro tripartito che organizza  la società degli uomini. Da parte sua, G. Dumézil, in una serie di brillanti stu¬  di ha riportato sino alla comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬  zione, scoprendola nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e  principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella reli¬  gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto alla tripar¬  tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les classes fonclionnelles  chez divers peuples indoeuropéens» che sarà pubblicato quest’anno in Anna-  les. Economies, Sociétés, Civilisations.   § 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales», JA  CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades de  délits à valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens», Ltito-  mus, XIV, 1955, pp. 173-185.   § 14. BENVENISTE, «La doctrine médical des Indo-Européens», RHR,  CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2.   § 15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ it., p. 80)   § 17. «Les trois fonctions et le droit romain selon L. Gerschel», frammenti  di una memoria inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ IV, pp.  170-176.   § 18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)   «Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si volge  sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli stessi  elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia comandano  le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della giustizia, non diffe¬  risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬  ri, degli uomini ricchi: questi sono i principi della conoscenza, della  flussione e dell ’appetito , xò à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,-  che effli subordina in modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i  due primi dominino insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte  più considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poi¬  ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali che  convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo l’India,  con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni che le è propria,  compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre guna al pari della  società e dell'universo: queste qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬  scolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per  la loro combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso  della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si  uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lode¬  vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema  prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoran¬  za fonte di errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa sempli¬  ce enumerazione disegna una terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb  vedi JMQ, pp. 115 -116 (= JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬  ta chiaramente la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬  roso in guerra e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in  questi termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai  stata senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬  zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella lon¬  tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon., espone  magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre anime) c ritro¬  va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb (ma col «timore» al  primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris ira; seruitiipaliere iugum...   - Per «Zoroastro tripartito» vedi K. Barr, «Irans profet som xéXeioq  avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich, 1952, pp. 26-36.   § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (soppri¬  mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la Vacca magica per il  dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬  ve agli Aévin per portare la loro benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e  scandinavi (P anello magico per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle  setole d’oro per Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp.  205-246.   § 20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero ai  vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo diversamente co¬  lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo  secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila  G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo  luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp. 118-125 (testo del Grande Bundahisn c  del Denkart, pp. 321-336 e 374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF,  Euocatio, 1947, pp. 141-150.    48     § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili («Albati, russati, virides») e IV («Ve-  xillum caeruleum»); J. DE VRIES, «Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942,   pp. 1-10.   § 22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA,  CCXL, 1952, pp. 456-458.   § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans quelques traditions grecques»  Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove  sono studiate in questo senso il «Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme  dell’apologo di Mida e del Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon-  ctionnel dans une famille de légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp.  55-92, in cui sono esaminati due tipi imparentati di leggende, una che com¬  porta l’opzione proposta a un individuo fra tre «offerte funzionali» (es.  l’origine di «Jodeln» citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si  spartiscono tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del  dono della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT  D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon  esempio).   § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition fonctionnelle  dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77. L’estrema antichità  e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di Roma (la  parola augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:  «L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36», RSR,  XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951, pp. 17-29, prolungata da «Le iuges  auspicium et les incongruités du taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953,  pp. 249-266; Rituels..., cap. II («Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè-  res regiones caeli de Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A  M. Niedermamì), 1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬  doeuropea, vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp.  126-151.   § 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo anco¬  ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Feb¬  vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle  ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdo¬  tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede alla  terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini - la «parte  germinativa» di Roma - condotte dalla sua propria madre e da sua moglie.   § 26. Sulla diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni,  vedi la mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle  Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli  Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva trifunzionale  vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen», Saeculum, VII, 1956,  pp. 289-309.    49      Capitolo secondo    Le teologie tripartite    1. Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni   Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬  mente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi  fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬  mati è facile riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si  definiscono le une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬  cro, secondo il piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi  sono stati per lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal  compresi.   Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬  co e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a  partire dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;  all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta  penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei  diversi ambiti.   2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli inni e nei   RITUALI VEDICI   I sacerdoti dell’India vedica, in un certo numero di circostanze  rituali importanti, associano (per delle invocazioni, delle offerte o del¬  le enumerazioni classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi  sempre designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin,  guaritori, datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al se¬  condo livello, evidentemente per analogia col raggruppamento bina¬  rio del primo e terzo livello, Indra compare associato a un altro dio,  spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I §  18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni  o Sùrya), invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiet¬  tivo più importante in questi tempi arcaici che non oggi.   L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬  ma di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è  propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬  ne che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce  la lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento culminante  della spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono  Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1,  3-5) ed è lui che comanda il piano di un certo numero di inni del Rive¬  da ispirati da questo rituale.   Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬  stra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139  Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella  stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il  battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è  riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬  rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬  gnori delle due varietà di «vitalità», srlyah e prksah.   Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬  cati come nani, «Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è  detto che «con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto  un’elevata efficienza »; quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3,  slr. 1).    3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti   Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è  rispettato. Ecco inizialmente due casi molto «puri» in cui Indra è solo  al suo livello.    52      Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬  re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono li¬  mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk  («quella che quando la si munge dona ciò che si desidera»).  L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda, nel senso  discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori funzio¬  nali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a  Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),  alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una tale  numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed even¬  tualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non  possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬  spondono rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature.   In un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi  dèi sono invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬  vo ed esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli dèi  Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di Mitra-Varuna... tusei  il soffio di Tutti gli Dèi!».   Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬  va la stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬  sante ( RV , X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine  delle strofe): è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬  naggio che è senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta  come il supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste.   La prima strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con  gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬  tra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due  Asvin!». È degno di nota che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬  pria polivalenza o, come ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in  cui «glidèi l’hanno introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬  salto, come parti della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6  =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli  dèi e dagli uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh-  man, rsi), infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c  il combattimento.   È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale (si è parlato  in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya: con la  sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la se¬  quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin riu¬  nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre funzioni.   4. Gli dei arya dei Mitanni   Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è  spesso possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬  versi testi dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a  un documento molto importante.   È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro  «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a quelli che si possono  chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e  il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, in¬  correndo in un destino brillante ma effimero e lasciando sue tracce in  molti scritti cuneiformi.   Mentrei loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono  alla storia, questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬  tura, sono localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro  che hanno fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino  Oriente con le loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più  sopra, quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni.   Il gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,  inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella  metà del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri-  ta dei Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto  trattare da pari a pari.   Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi  hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato concluso da  questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei Mitanni, il re Mati-  waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli aveva inoltre donato  sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo benefattore nella debi¬  ta forma.   Il testo enumera le maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬  correre se mancherà alla parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬  vocano come garanti tutti gli dèi che i loro due imperi riconoscono.  Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬  za che è stata immediatamente identificata dagli indianisti e su cui i fi¬  lologi hanno lungamente lavorato, esaminando le particolarità grafi¬  che e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può rendere con  sicurezza nel modo seguente:   «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio  Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...».   Per più di trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬  dici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle  spiegazioni strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow,  1921 ). Il danese A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬  cinato alla verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya  non compaiono a Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come  interessali di questa o quella clausola particolare, ad esempio matri¬  moniale, del trattalo, ma poiché erano «dèi principali» della società  arya. Sfortunatamente egli ha «pensato» questo stato maggiore solo  nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬  ran, reale ma meno importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬  cialmente, contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi,  Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya dall'altra.   E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai  testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬  kòy, che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in  questi termini nel 1945:   «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che pa¬  trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi suoi  necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappre¬  sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso piano: a  un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e dell’ari¬  stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi  sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insie¬  me e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con se  stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma rego¬  lare, ed evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza.  Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua  persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio,  odio generale da parte degli dèi ».   5. Connotati degli dèi caratteristici delle tre funzioni   NELLA RELIGIONE VEDICA   Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi particolari  che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella prospettiva delle  tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli ar¬  chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e dei rituali in¬  diani, comprovano essere un raggruppamento formulare pre-vedico.  Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo libro Les  dieux des Indo-Européens (1952).   «Non è un caso se il primo livello è spesso rappresentato da due  dèi: nella sovranità che questi antichi indiani concepivano vi erano  due facce, due metà antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬  cessarie, incarnate e patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal  punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,  possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato  di nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e  irresistibili, Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è  rassicurante e benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e  stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre,  è l’altro mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota,  più dio stesso se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino.  Più che della prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità  con la seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prospe¬  rità che dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così netta che da  tempo si sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna:  non è forse l’àsura per eccellenza ? E nelle forme post-vediche della  religione, come già in molte strofe del Rgveda, gli usura non sono for¬  se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i  movimenti, i seni zi, le necessità della forza brutale che applicate alla  battaglia producono vittoria, bottino e potenza. Questo campione vo¬  race, armato di folgore, uccide i demoni e salva l’universo, per com¬  piere le sue imprese si inebria di soma che dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai  Marut, trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrie¬  ri, màrya. Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e  dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa,  come alla benevolente moderazione che si riunisce nel primo livello.  Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono  che una parte del dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono  soprattutto datori di salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi  soccorritori degli infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del  bestiame sterile. Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non  solo salute e giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni,  cioè massa sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a  questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito  con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al  loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della  terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,  Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee  madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, tota¬  le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe parti¬  colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35  oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh-  man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme».   Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia artico¬  lata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e  frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divi¬  no nel suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non  si definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo  l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del  suo carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo  decisivo nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere con¬  to di un tratto importante della teologia aveslica da tempo osservalo.   6. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni nella riforma   ZOROASTRIANA   Sotto il nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che  ha notevolmente alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie  di riforme progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il ri¬  sultato storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto  di partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino  allo schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttri¬  ci del movimento appaiono immediatamente.   Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato l’intransigente mono¬  teismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura Mazda - senza dub¬  bio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che l’India  chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango che  portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra, Indra,  Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra (al  pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto differen¬  te, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati ancora  sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya se¬  guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che  (operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a im¬  porre uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del  primo livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i pa¬  troni divini che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano al¬  tri comportamenti come lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno  sanguinante ma certo non meno libera, dei culti della fecondità.   7. Le Entità zoroastriane   Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella  delle Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il  tratto saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al  Gran Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo,  ma sono quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate  in un ordine fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬  fìci (o Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste  Entità siano già delle creature o delle emanazioni separate da Dio - una  sorta di arcangeli - o semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo  non cambia niente quanto al problema delle loro origini che qui ci inte¬  ressa. La lingua e lo stile delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità  volontaria e raffinata, ma fortunatamente per orientarsi si dispone di  talune considerazioni che non dipendono dalle incertezze di parola per  parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale dei nomi che designano  le Entità forniscono qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬  no quasi tutti i nomi di una o più Entità sono assai numerose per per¬  mettere delle osservazioni statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬  tà, frequenza delle loro associazioni diverse - che rivelano dei tratti  molto importanti del sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e  lo stile di questi inni lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬  tà in lista nel loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali  in prosa, tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità,  prese separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i  poeti le attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che  esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬  chia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬  nito dalla lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà,  parola per parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬  si fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad  ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬  rifica. Il quadro è il seguente:   Entità astratte Elementi materiali arcidemoni opposti   PATROCINATI   1) VohuManah bue   (Il Buon Pensiero)   2) Asa (l’Ordine) fuoco   3) XsaGra (la Potenza) metallo   4) Àrmaiti (il Pensiero terra   Pio)   5) Haurvatà( acque   (l’Integrità, la Salute)   6) AmarstàJ (la piante   Non-Morte,  l’Immortalità)   8. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti nelle   ENTITÀ   Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si interpretino le  Entità, questo quadro suscita delle domande: perché questi gli eletti e    Il Cattivo Pensiero   Indra   Saurva   NàqaiOya   La Sete   La Fame   non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non dispo¬  nendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qual¬  che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con  rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa?  Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che  sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma?   Un confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬  tannica degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione  d’insieme.   1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso  a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che esprimo¬  no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto gerarchico, i  gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovani-  tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nel¬  le piante.   2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nu¬  trice e modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea varia¬  bile (Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬  le enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il  dominio delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostan¬  tivi femminili, mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in  vcdico vis, femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della  terza l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬  za funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬  ne (ridotta a un unico personaggio) delle due divinità canoniche della  stessa funzione, i Nàsatya.   3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la stessa pa¬  rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che lin da  Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda l'unzione,  come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }> fornisce diffe¬  renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il «metallo» che  gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti espliciti  lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui opposto,  Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra, personaggio  complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua qualità  di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda funzione.   4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o men¬  zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi signi-    60     ficativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che corri¬  sponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,  patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli  sono propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il  «Buon Pensiero», in una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬  ra non gàlhica, è presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari  del benevolo e amichevole Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬  do», in opposizione a Varuna che è «l’altro mondo».   Yasna XLIV contiene a questo proposito due strofe rivelatrici,  le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e il nostro scenario più  vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto come fa Rgveda IV,  3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di cui si parlerà nel  capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a Vohu Manah c il  bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo riconosciuto (A.  Christensen) che il bue era sotto la protezione particolare del sovrano  Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e dell’arcidemone Indra ricor¬  da che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni tra i 1 sovrano Va¬  runa e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui divergenza  sfocia facilmente in un conflitto.   9. Intenzione di questa riforma zoroastriana   Altri particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il  confronto, ma questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬  blema delle origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬  pato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei  Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬  sta degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬  mente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬  que dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella  terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬  tura? Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non  hanno semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»?   Senza dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬  la struttura trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia  come mezzo di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza  dubbio perché gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro  predicazione e che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa forma di pensiero e bisognava dunque fornire un  sostituto esatto di ciò che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché  così presentata la lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici  della riforma, come si è visto, era distruggere la morale particolare dei  gruppi di guerrieri e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e  purificata dalle funzioni sacerdotali.   Elevando, ad esempio, al posto in cui infieriva sino allora l’au¬  tonomo Indra, l’esemplare figura di una «Potenza», XSaGra, devota  alla santa religione, si portava ai sostenitori dell’antico sistema un col¬  po più rude della semplice negazione del dio pagano o della semplice  soppressione di questa provincia della teologia. In un certo senso si  può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle Entità, sia con¬  sistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale con  una equivalente, che conservava il suo rango ma che essenzialmente  era privata della propria natura e animalo da un nuovo spirito, dallo  spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio unico.   Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli stu¬  diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,  questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili.  Si spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il  dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino  uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬  diano dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra  e Varuna sono i principali.   Questa analogia, che è un fatto incontestabile e che B. Geiger e  K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto ampiamente, non ha  comunque risolto il problema delle origini delle Entità: esse non sono  gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani vedici, ma gli equi¬  valenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli energicamente ri¬  portati al tipo unico di una «santità» esigente: dèi sovrani certo, ma an¬  che, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che li  completano.   10. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni   CRONOLOGICHE   Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬  messa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e  sottolineare la principale conseguenza del punto di vista comparativo.  Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica  degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è precluso ogni ten¬  tativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con avvenimenti sto¬  rici o della preistoria recente dei tempi vedici.   Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio»  che, ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conqui¬  sta sarebbero «in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Va¬  runa che in seguito avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un  più vecchio dio Mitra.   Se così fosse, come comprendere che questa situazione, effime¬  ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che re¬  trocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzio¬  ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo  stesso massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la  soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e  nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si  lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro?   La «storia» non può essere stata in questo punto tre volte identi¬  ca, aver avuto degli effetti intellettuali così simili in queste tre società  precocemente separate.   La sola interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora  indivisi, qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬  miti delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬  porti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li  ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬  mento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di  avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una  sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come  la «destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone  una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di  ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto  a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi  si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra  si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬  la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta  pienamente i benefici.   I miti collegati ai signori divini delle funzioni devono, almeno  in parte, illustrare con chiarezza la divergenza delle funzioni e devono  farlo senza i riguardi e i compromessi che la pratica sociale impone: è  chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica assoluta e la pura forza  guerriera fossero portate agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di  fatto in certi momenti della vita della società a causa di tali conflitti si  producono usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la  teologia dei rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella  grande maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dia¬  logato i poeti sono portati a questo estremo, che i politici evitano sag¬  giamente e per meglio definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬  no opposti come rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio  retorico sicuramente antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha  scelto Indra scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti-  col are di Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna.   11. Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni   Questa osservazione deve essere completata da un’altra inver¬  sa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è statisticamente ri¬  gorosa (la letteratura vedica è assai abbondante perché la statistica vi  possa trovare un appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali  funzioni sono intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate,  ma anchenella maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬  ca gli dèi di un solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬  ne le effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta  debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto  vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬  camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬  no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere  sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬  cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi  degli altri.   In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è sicuramente  la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la collaborazione  di tutti gli dèi che gli rispondono.   Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli  dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino  interpellati da degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬  giore è quello della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce  direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola,  la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa  c ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o  di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,  il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut.   Congiungere il cielo e la terra e assicurare la sopravvivenza del  mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c l’operazione tecnica si  svolge infine grazie allo specialista Parjanya.   Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre questa  giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c quindi  la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero Indra sia  così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua azione,  in quanto donatore di fecondità e di ricchezza.   Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare  il modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬  berare le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬  chia dei Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra gli  Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia tripartita,  l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora c deve es¬  sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario ri¬  cercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c suffi¬  cientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli  usi rituali o da formulari.   Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente  portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma allo stesso tempo,  in questi domini in cui gli specialisti, nella loro autonomia, avevano da  lungo tempo costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬  do-fatti, dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in  modo tale che spesso non è stata considerata la benvenuta.   In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le  «filologie separate», sia scandinava che latina, si erano abituate a pen¬  sare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e soggettiva  - la preistoria, la «formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬  tati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla  prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui ricordata,  s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬  cettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬  zioni esplicitate dagli Indoeuropei.   13. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-, VOFION(O)-   Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra e  l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci informano, presenta¬  no due varianti di una triade in cui i due primi termini sono identici:  Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus nella più  antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a non cer¬  care per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata sul  caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia locale:  com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti pos¬  sano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?   14. La triade precapitolina   L’esistenza della triade romana, che si è anche voluto contesta¬  re ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi dèi  sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza  omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, p.   198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e sa¬  cerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7 amines  maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa triade capito¬  lina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di una tria¬  de differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rima¬  sta legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche.    66     Una volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attri¬  buita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬  no solennemente la città in uno stesso carro e facevano congiuntamen¬  te un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i  dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era stata  attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et Quirini  (Servio, ad Aen., Vili, 663).   Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale romano,  per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi sotterranei  contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una for¬  mula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo  trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava  innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi  Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Po¬  libio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima  Jupiter, poi Mars e infine Quirinus.   Il carattere comune di queste circostanze, in cui la triade preca¬  pitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è inte¬  ressato nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento del¬  la fides pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile;  protezione continua o urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è la sola  circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme;  ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità  dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia  di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬  nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o aggiustamento sono  essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste «cose»?   15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade precapitolina   La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre che si preferi¬  sca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le ricostruzioni  ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W. Mannhardt o da  archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte; sempre che non si  dimentichi che questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium  e a Roma poiché rendevano dei servizi differenziati e complementari;  e infine, a condizione che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di  questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e queste precauzioni, si  riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius  (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬  to dagli atti del flamen dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬  merevoli precetti positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo pre¬  siede all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante della  vita, della continuità e della potenza romana.   Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬  mento dei migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬  battente di Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al  pari del vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non  di più) dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬  gno di essere forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o  invisibili, possono minacciare.   Questa forza è sempre rimasta la forza che dona la vittoria, sin  dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero, nella  schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti.   16. QuiRINUS   Per Quirino, l’unico «invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica,  gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei pressapochi-  smi etimologici allora correnti, delle teorie contraddittorie che com¬  plicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬  piuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e di  qualche indicazione oggettiva degli antichi.   Queste diverse fonti informative forniscono un quadro com¬  plesso ma coerente.   I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen  quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei  pressi di Roma e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge  Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto  sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano messo in  provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di Laren-  tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchez¬  za e la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua  fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto  dei Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del grano.   Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è asso¬  ciato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬  zione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬  no tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p.  326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬  stra che il voto fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬  gione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno.   Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del  dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rap¬  porto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole  Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si  spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava  seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non spettasse al  rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe  aspettato, ma al flamen quirinalis.   2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei  Quirites, cioè dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività  civili in opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un  aneddoto ben noto di Cesare lo prova).   P. Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con curia  (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro quadri sociali»,  essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa entità  della «massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e  prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬  dipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come  il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars,  Vofionus» possa essere il compimento fonetico rigoroso di un *Le-  udh-yo-no «patrono della massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi,  «massa di uomini liberi, bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬  lo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari  della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione.   3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta romana e  contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha  conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e  stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi erano  deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabi¬  li, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che  l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi  quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra.   È questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e  che esprime eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines  minores, il Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( por¬  tele ) delle città, prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico  di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s .v.persillum, p. 238, Lindsay),  cioè di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali pos¬  sono anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le quali può  sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di ricorrervi.   Questa ambivalenza Quirites-milites dei Romani, questa con¬  cezione militare della pax romana , spiegano sufficientemente come  Quirino possa essere stato considerato una varietà di Marte e come i  Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradur¬  re il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente da Ares,  ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo contesto su  due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un tempo  «assurde», ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha con¬  ferito pieno valore (ad Aen. I, 292; VI, 859):   «... Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit)  quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede  due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di  guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sul¬  la via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerrie¬  ro o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che  presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma  mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori  Roma ».   17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di  Roma   Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli di¬  scussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,  l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed  essenza stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e  guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste  etichette definiscono tre ambiti complementari che disegnano una  struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e  quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi risalente ai tempi  indoeuropei.   Non sarà inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono  rivestite, nei racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche,  base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬  pagni sono i depositari del potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati  etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte  militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne,  ricchi in bestiame e in più detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬  tarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I §  7) minimizza la componente etrusca e concentra le due prime caratte¬  ristiche su Romolo e i suoi compagni.   Sotto questa forma la triade precapitolina si divide molto ade¬  guatamente tra i due gruppi di avversari e futuri associati: Romolo è  costantemente il protetto di Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere-  trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in  sé i favori dei due primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme  leggendario soltanto) è considerato come un dio sabino, il «Marte sa¬  bino» portato in dote da Tito Tazio a Roma nella riconciliazione fina¬  le, allo stesso modo del nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse-  udo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere dei  Sabini della leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gio¬  co di parole, popolare tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»),   Si sa che un’altra forma della leggenda, incompatibile con que¬  sta, fa di Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo così sul solo  fondatore i tre termini della triade divina in base agli auspici, alla filia¬  zione e all’apoteosi.   18. Varianti della triade Jupiter, Mars, Quirinus   Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V, 74) e  Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e  dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa e  in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre Ro¬  molo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un  gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fe¬  condità e il mondo sotterraneo.   Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che  è stato già segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità de¬  gli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che  Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio»  (che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazio¬  ne etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi  che non sono altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars,  Quirinus», come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quiri¬  no) o Flora.   1 tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che corri¬  spondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano giustap¬  poste nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del più  alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen  dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) cul¬  ti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.   Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensi¬  bilmente che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dis¬  sociava nelle persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una  sua sintesi quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che  l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Ro¬  ma, come gestore delle forze sacre.   Quanto alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi  da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse  primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco,  rosso, verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo  posto, per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di  lei un doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a  Roma stessa, senza dubbio più alla massa romana che all’entità politi¬  ca patrocinata da Quirino.   Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus, Re-  mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica in¬  do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la  protezione del terzo livello.   19. Gli dèi delle tre funzioni in Scandinavia   Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello stes¬  so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come ul¬  timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di quella  precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile - se¬  condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e sin¬  cretismi tra culti successivamente comparsi.   Lacritica a questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬  dono di basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬  pongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬  re fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri.  Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬  derne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946,  1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬  tativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬  cente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio»  è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto  dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori.   Ci limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della  triade in quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo  di Brema ha vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬  scrizione del meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis  eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei che appare dalle formule di maledi¬  zione come dai poemi eddici o dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr,  Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si sprigiona dal racconto della batta¬  glia escatologica ( Vòluspà , 53-56) in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬  tro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i suoi colpi; è lei  che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che  rappresenta l’intera mitologia in cui le altre divinità - salvo la dea  Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e che li completa - sono  come comparse che circondano questi «primi ruoli» e che si definisco¬  no in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬  dotta spesso a due componenti, benché comprendesse tre tribù che  rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni,  detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il  dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano  quelli che apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e  le ricchezze, opes.   Il quadro scandinavo della formazione della società divina  completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una riconcilia¬  zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono due, gli  Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più eccelso  dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti  e i soli nominati individualmente.   La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬  te. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo  la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬  nanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e  patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬  dità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed  economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al  mare in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr).   A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi.  Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬  olo, ecc., ma da quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro  centri sono altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo  della società divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai  quali peraltro assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante  (nel suo stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e  anche nel folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬  sità in maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva.   Il senso da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬  blema centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬  dinave c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬  giche c storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le  spiegazioni strutturali e concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande so¬  stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche e  italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una  teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che op¬  pone per meglio definirli e che ricompone per creare un insieme vitale:  1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli  Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la forza  brutale dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che patroci¬  nano ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità, la  ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc.   21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei  Protoromani e dei Sabine formazione di una società   TRIFUNZIONALE COMPLETA   La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle due prime  funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso  sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unio¬  ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma,  sul piano umanoenei racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae  sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi canonici del terzo li¬  vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma entrarono nella  società divina come terzo termine al di sotto delle «due forze» (ubhe  virye) solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una  riconciliazione e un’alleanza.   Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati  scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» ri¬  spettive delle diverse componenti della società e i procedimenti speci¬  fici che queste «funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬  lisi comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani  e Sabini e della leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo»  degli Asi e dei Vani (a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le  strofe 21-24 della Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e  conferito un senso sia all’una che all’altra.   Ambedue sono formate da un dittico, da due scene in cui ciascu¬  no dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio limitato e provvi¬  sorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo vantaggio alla  sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e voluttuosi Vani che  corrompono daH’interno la società (le donne!) degli Asi, inviando  loro la donna chiamata «Ebbrezza dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn  che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto l’irresistibile effetto  magico e di panico.   Allo stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi  la vittoria occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col  combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante,  grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte  Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che  l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo,  invasa dal panico.   22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi  Germani   Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze  che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi  ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle tre fun¬  zioni e della teologia corrispondente.   Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del  primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è  vero che non combattono propriamente come Indra o Marte è anche  vero che mettono le loro magie al servizio della parte che favoriscono  e sono loro, in definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in  effetti conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le  sue conseguenze.   Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle  battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che ha  condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò-  \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la parte della  «guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu considerevole che  nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche  nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel prossimo ca¬  pitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più di una  osmosi, un vero e proprio ribaltamento e straripamento della guerra  nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den-  te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà  sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie guerriere, che  Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in certi luo¬  ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad averperso  il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli uomini) ed è  sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici contro i giganti  e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha giustificato e popo¬  lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr dal la parte agri¬  cola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra essere sta¬  ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i quali così  Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di Uppsala.   «Thor presici et in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos ymbre-  sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan, id est furor, bella gerit  hominique ministrai virtutem contro inimicos. Tercius est Fritto  (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens mortalibus...   Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur, sibellum, Woda-  ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».   Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi  di Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle  brevi osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio  principale poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un  martello che ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as-  similato a Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo  scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento  inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne  comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e  dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬  zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani.  Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi   Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬  gioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬  giosi non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strut¬  ture teologiche corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato  di cose è particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui  l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi.   In Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea,  il raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad  esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica  combinazione religiosa.   In Gallia, dove la classificazione degli dèi riportata da Cesare (e  confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti  versi la struttura delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e i  ritocchi che suggerisce, suscitano più problemi invece che risolverli.  Quanto al paganesimo degli Slavi, questi sono così poco conosciuti  perché i tentativi di spiegazione tripartitapossano essere altra cosa che  brillanti ipotesi.   Ma la concordanza delle testimonianze sui tre domini, in¬  do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni sono state de¬  scritte in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente  a garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva  dato luogo a una teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge-  rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad una «mitologia eziologi¬  ca» che giustificava la differenza e la collaborazione di queste divinità.   24. Divinità che sintetizzano le tre funzioni   Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro utilizzo fre¬  quente della struttura tripartita, non analitico ma sintetico. Vi sono in¬  fatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire, in opposi¬  zione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,  domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si è  prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civil¬  tà mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha  assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine:  così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita  (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro  tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena  che in epoca storica domina la religione.   Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian, durante le pic¬  cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le funzioni di sa¬  lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo  si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le  FravaSi, che sono in effetti trivalenti.   25. Dee trivalenti   Tuttavia, tra queste figure sembra che bisogni far risalire alla  comunità indoeuropea un tipo di dea la cui trivalenza è così messa in  evidenza e che è intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali: que¬  sta dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nel¬  le liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i li¬  velli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di  una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli spe¬  cialisti mascolini.   Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬  nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬  teti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono  chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno  dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di  interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa  dea indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,  anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di  Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la  forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬  zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro ab¬  bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al  terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(,  «Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso di una tripla tito¬  latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua  lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra nutrice dif¬  ferenzialmente associata.   Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era onorata sotto il triplice  epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi epiteti riportano alla teo¬  logia della Giunone romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della fe¬  condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la specificazione guerriera  manca, mentre era in evidenza nella figura di Giunone lanuvia e certa¬  mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom. sospit-,  da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati, eie.).  Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬  nentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente),  *Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬  lato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il poco che  si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il  nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»), Presso  gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in  Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore  magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr), dea tipicamente  Vani, ricca e voluttuosa.   In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬  nima del luogo più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re  pagani del 1 ’ Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti-  vamente questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni,  poiché è sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei  tempi. Una Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne-  med, «il Sacro», che muore per un’emozione profonda in seguito a una  visione; poi una Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il  suo generalissimo e che muore uccisa; infine una Madre che accresce  meravigliosamente la fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e  che muore durante l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬  bile determinare quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬  schi della stessa funzione.   26. Le teologie tripartite e i loro elementi   Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬  do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬  zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬  carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune.  Non è che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme,  l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre  termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa,  poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la comparazio¬  ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di determinare come gli  Indoeuropei concepivano, suddividevano e utilizzavano ciascuna di  esse.    80     Note ai paragrafi   § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vi¬  sta e di riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi prin¬  cipalmente L’heritage..., cap. I («Matièrc, objet et moyens de étude») - al  quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II  («Structure et cronologie»),   § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico «Milra-Varuna  Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui appaiono, sono state  fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it, pp. 38-39); NA pp.  41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei inni del  Riveda fondali su questa struttura); «Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com-  me palrons des trois fonclions cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II,  1948 pp. 121-129; JMQ IV, pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions  dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni  la divisione degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello  stesso senso (cf. DIE pp.7-9).   § 4. La discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova  formano il primo capitolo di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il  carattere indiano degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬  ro «uno» (aika: sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT  ha interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al vcdi-  co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in  questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel  trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare di  iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note 167, 170.   § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c  stata interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo  Indra (o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬  colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à propos  d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò prossima¬  mente il problema a partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne di  «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari  ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui  «gemelli»   § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA,  cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è  stala spiegata in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬  terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une legende  indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos de  Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE-  SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, p.  23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi specialmente  pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota    81     al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From Aryan Mythology to Zoroastrian The-  ology, aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353;  K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN , «Stand und Aufga-  ben deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har-  TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de l’Avesta», Orientatili  Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata inve¬  ce rigettata senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzio¬  nala nei libri di W.B. Henning e R.C. Zaehner.   § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle Entità già gathiche  come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni degli dèi prezoroastriani  equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al  non gathico Rasnu e alla Fravasi (considerate come figure purificate corri¬  spondenti a Visnu e ai Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa-  striennc», JA, CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come  una demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques,  1956, pp. 34-37.   § 11. DIE, pp. 22-23.   § 12. Gli attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi-  sta; vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e D鬠 esses latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale  preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole discus¬  sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365; 78, 1956,  pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si trovano dis¬  seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri. Le ultime in ordine  di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen de criliques réccnles;  John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp. 8-30.   § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano solitamente Vo-  fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi  «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium», RP, XXVIII, 1954, pp.  225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium», RHR, CXLVII, 1955,  pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune  degli studi sulle tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al  1948.   § 14. L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo  che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami-  nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito  JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.   § 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.  191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76 (=  JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tut¬  ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE,  pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR, CXXXVIII, 1951, pp.  209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia, pp. 66-96.    82     § 16. La spiegazione del complesso Quirino è stata formata in tre tempi:  1) JMQ, pp. 72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66,  101-104); 2°), NR, pp. 194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp.  176-179; 3°) JMQ, pp. 155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi  anche L. GERSCHEL, «Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR,  CXXXVIII, 1950, p. 145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special-  mente: «La triade Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123  (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos  de Quirinus», REL, XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques  sur les armes des dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp.  1-10 (con A. Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun  conto delle risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire  psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che tratta  anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter  Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni  nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e una  data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi «La bataille de  Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine» Annales, Eco¬  nomie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp. 145-154). Sulle etimologie pro¬  poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la  spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani «Mytho-etymologica», Rev.  desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI-  STE, «Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX,  1945, pp. 7-9.   § 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di una  componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto al no¬  stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti storici, e in più,  una risposta affermativa non genererebbe affatto l’interpretazione funzionale  delle leggende sulle origini, di cui bisognerebbe solamente ammettere (la  qual cosa è ordinaria) che presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬  dro ideologico ed epico preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬  sta interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la tesi  dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse difficol¬  tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà riassunta la lunga discussione del  capitolo III di NR («Latins et Sabins, histoire et myhte» non tradotta in JMQ  it.: vedi p. 263), condotta principalmente in funzione della tesi di A. PlGA-  NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da  quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte affer¬  mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina lontana dalla fon¬  dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto archeologico che non  fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere decisamente la bilan¬  cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti che si sono voluti demandare alla  strana disciplina della «geopolitica») e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un  curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter ricavare dalla triade um¬  bra). Quanto a me, continuo a trovare soddisfacente nel suo principio la spie-    83     gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da T.  MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35. In  una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome, VIII-V  siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus de  l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è pronuncialo per  l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo secolo.   § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi JMQ, pp.  144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella citazione di  Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus, 1953, pp. 109-110.   Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs cultes de la Regia, les trois  fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII, 1954, pp. 129-139. Per la triade  «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per  Romolo-Remo come corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, §  24. Inoltre l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di  Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières re¬  gione s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder-  memn) 1956, pp. 102-107.   § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue ricerche a una visione  strutturale delle religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli av¬  vertì la parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei  nostri argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo  d’accordo, credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue chia¬  re, obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsge¬  stiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli: «Dcr heutige Stand der  gcrmanischen Rcligionsforschung», Gemi. - Roman. Monatsschrift , N.F., II,   1951, pp. 1-11 ; e «L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬  gene, 18, aprile 1957, pp. 1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trat¬  tale: «La valeur religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp.  18-27; «Die Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand.,   1952, pp. 172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI,  1954, pp. 207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI,  1954, pp. 461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss,  Miinchen, 1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),  redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scan¬  dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che io  ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema: «L’élymologic  du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études Germuniques, 1953,  pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc socia¬  le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG, oggi felicemente esau¬  riti, hanno sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla  tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un pro¬  gramma carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre  no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non  ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali  (specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c    84     Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna aggiungere  l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R. Otto, 1932): vedi  J. De Vries, op. cit., II, § 405.   § 21. Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di  Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ it.,pp.  108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione in «giganto-  machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8, 1924, e la pre¬  sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.   § 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree  i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto alterati)  con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR, pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux  de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬  pretare nel quadro delle tre funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art.  «Slavic Mythology» in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore,  II, 1950, pp. 1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un  giorno favorevole alla nostra inchiesta.   § 24. Sulla tripla titolatura di Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La  guerre dea géants, le mytheavant l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258.   § 25. Su SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬  peia, pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-  rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp. 405-413.  Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.», Eranos, LII, 1954,  pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo  indoeuropeo implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬  grediti in maniera assai discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬  pidamente a risultati sistematici che al primo livello. Se importanti  aspetti del secondo e del terzo sono stati determinati in breve tempo,  essi non sono tuttavia che un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬  profondimento. Non si è potuto dunque fare altro che dare per essi de¬  gli orientamenti generali e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di  lavoro.   Varuna e Mitra, ASa e Vohu Manah   Il principio fondamentale intorno a cui si organizzavapresso gli  Indo-Iranici la teologia della prima funzione è già stato segnalato; nel  trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che sono state confronta¬  te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che la rappresenta¬  no, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli corrispondono in testa  alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali.   Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commenta¬  tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni.  Attualmente è stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro  stessi nomi: se la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq,  wpavoq, resta oscura (la si è interpretata con radici che significano  «coprire», «legare», «dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente,  come ha spiegato Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬  mologia, il Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei  casi, tra questi dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con  una forma grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non  fanno differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬  dali del più grande potere, e quando non nominano che uno dei due,  non si fanno scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬  buti di questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia  della funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬  stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo  piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente,  anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta  o il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due  dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà.   In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello  stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di  coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due  piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un  punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia  un’aria di parentela così netta che di ogni nuova coppia assegnata al¬  l’insieme si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine «mitria-  co» e quello «varunjco».   Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile  estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo  tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio  procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in  rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto  ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è vicino  all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si ri-    88     trova nettamente fra le Entità zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°);  passando al limile, dei testi affermano che Mitra è questo mondo mentre  Varuna Valtro mondo, come è certo che ben presto Mitra rappresentò il  giorno e Varuna la notte. Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali  del soma e del fuoco, mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche.   Nelle modalità d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto»  e stabilisce tra gli uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande  mago, signore della màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬  so dei «nodi» con cui «afferra» i colpevoli con una presa irresistibile.   Nondimeno essi si oppongono per il foro carattere : l’ami¬  chevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna  è impietoso, violento, a volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬  zioni illustrano questo teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che  è cotto a vapore, a Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il  soma inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò  che è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc..   Tra le funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha  più affinità per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬  ra e la conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬  sto - come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il  potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬  spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.  II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente,  di Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬  ni Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno  che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò  non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza  maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬  mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬  ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬  minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c  mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una co¬  stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora indo-iranico, ha fornito  la chiave per qualche difficoltà o enigma delle mitologie occidentali.  A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in cui il cosmo  e le sue diverse parti richiedono attenzione e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un  aspetto di Jupiter, è vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione  nei primordi. Certo, i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia romana -- come più  propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo stesso modo,  nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione nettamente  mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono, mentre  quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,  “summanus”.   È probabile che questa teologia complessa abbia risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso tempo,  della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la creazione del  suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade «Jupiter O.M,  Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars, Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità; ma  forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” --  cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E   Tyr   Ma è nel mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬  mente illuminante. Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania    90     di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a  loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interes¬  santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Que¬  sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari di  questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso, è  generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un  dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia  strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i poeti  scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio allo  stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le con¬  siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale a  questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a causa  dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra, teori¬  camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti e  come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini hanno  più attenzione per la sovranità magica che per quella giuridica.   La grande originalità del mondo germanico è quella segnalata  da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa per¬  viene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui  abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guer¬  riera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo de¬  finisce (Gylfaginning cap. 25).   «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È molto intrepido e co¬  raggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia. Perciò è  bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più co¬  raggiosi degli altri e che non hanno paura di niente, si dice prover¬  bialmente che sono figli di Tyr »   Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani  non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬  nonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle  opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale  ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i  Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo  tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars  tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di saevire.    91     In altre condizioni, meno formali e più violente, le società ger¬  maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i  quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guer¬  riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legisla¬  tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al  contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania , 11 -13) descrive il  Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite  o battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e  deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si  regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava  non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si  approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo.  Non è dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-  dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uni¬  forme dei suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e  costante, dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo  avessero considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia  sono rivolte a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato  indoeuropeo probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel  Tyr di cui è stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli anti¬  chi luoghi del Ping.   Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Ger¬  mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo  guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto - con le sue  manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il  combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere  il più forte e per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario  così radicalmente come in un duello. Quando si dice che Tyr, in segui¬  to a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra come  pegno di un’affermazione utile ma falsa, « è divenuto monco e non è  chiamato pacificatore di uomini», non si tratta che della controparte,  del completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in  armi, con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in  ogni luogo.   Queste indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere  come un  Tiuz-Mars abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeu-    92     ropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è purifi¬  cato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva.   5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga  vicino a Mitra   Ma negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico Varuna,  benché sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non  sono isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal  gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Li¬  bera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni de¬  gli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di  ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro  legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che di¬  segnano.   Non è qui possibile beninteso riassumere molto brevemente  queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due  tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il  ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, van¬  no a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra  che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima  estensione a otto, per addizione di due dèi eterogenei.   Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia; di ognu¬  na delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce sul pia¬  no e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agi¬  sce sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di modo che è legittimo e  comodo chiamare queste figure complementari «sovrani minori». Ma  questa cifra di sei sembra essere stata estratta, per ragioni di simme¬  tria, da un sistema più breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano  «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna  rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di  questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna.  Il principio della stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, pro¬  vato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è semplice: ognuno  di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su ognuna delle due  province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il diritto romano ritroverà  con un altro orientamento, più individualista, distinguendo le perso-  nae e le res.    93     Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il  modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare,  orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società  degli uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome si¬  gnifica propriamente parte, assicura la distribuzione e il godimento  regolare dei beni degli Arya.   6. Aryaman   Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politi¬  camente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li protegge  non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli aspetti  principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:   1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrat¬  tuali tra Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a  interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme  complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der  Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto  di farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il  resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matri¬  moni: c pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti  (subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciul¬  la giovane o una donna per il celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬  zione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui  il cui cammino non può essere interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬  re negata o minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c  P. Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di strofe di inni e da un  lesto liturgico che lo definisce come il dio che permette al sacrificante  «di andare ove e^li desidera» e di « circolare felicemente » ( Tait-  tir.Samh., II-, 3, 4, 2).   2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto litur¬  gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima volta la Vacca  mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a fianco  dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col  commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9) di  espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni  (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di  un’altra forma di servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea con¬  servi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo  Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬  sce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli ante¬  nati morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la  felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che  porta presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno  praticato esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è  chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.).   7. Bhaga   Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui  che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una par¬  te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo no¬  minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha per¬  messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste alla  metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare,  prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di gesta¬  zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo bhd^a»: RV,  V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza rivalità, implicante  un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco  Sou|.iov); infine è acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione  degli uomini maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I,  91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile,  violenta, «varunica», che si conquista con la battaglia o con la corsa, è  designata da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una  risonanza combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il  nome del «sovrano minore varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa.   8. Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa  e A$i   Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica:  come in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala subli¬  mata dallo zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondo¬  no termine per termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori asso-    95     ciati a Mitra hanno prodotto due figure complementari non comprese  nella lista canonica delle Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli  mostrano l’affinità esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due  rispetto a Vohu Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei testi in cui  questo dio ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo lega ad  Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome come per la loro  funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina , e  Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman o  da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per punto  che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la  comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità.   1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione  «derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore» sarebbe più  esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo nel mon¬  do materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale»  {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p.  219) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già  indo-iranico; cf. persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è  concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e  34).   Se non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze ma¬  trimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua  azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande  virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la  giusta misura, la moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬  diatore e il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il Male  (Vasi XI, 14) e il demone che gli è personalmente opposto è il terribile  Aesma, il Furore, distruttore della società ( Bundahisn XXXIV, 27).   Rimane una precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa a  un dio protettore degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è  lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam  vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli  Iranici ( Vidèvdat , I, 3).   2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato in  Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare  gli inni e tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato    96     all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti-  fica per questo ricordo.   Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo  combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente  nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale  (.Bunclcihisn , XXXIV, 29).   3) Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della  dimora in cui vanno - attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti  che hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬  lo decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli ac¬  compagna e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la  conducono al tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte  {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una «distribuzio¬  ne» come lo era Bhaga ma la nuova religione, che conferisce più im¬  portanza all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda soprattutto  di vegliare sulla giusta «retribuzione» post-mortem degli atti buoni o  cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi  post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi meriti, non di¬  mentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di riempire la sua  casa di beni.  L’analisi di questa concezione, già indo-iranica, della sovranità  che non altera la grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va-  runa, ma dona solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire  il popolo arya, illumina una particolarità della religione romana di Ju-  pitcr che sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di  questa religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia  quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3),  ospitava in due cappelle del suo tempio due divinità minori, Juvenlas e  Terminus.   Una leggenda giustificava la coabilazione singolare di questi  tre dèi facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma  questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo al  concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ azione  fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a considerarla  come preromana.    97     Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju-  ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli compara¬  bili a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice  la leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la sta¬  bilità sul suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la du¬  rata e Bhaga la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da  questa leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto que¬  sto: Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più interes¬  santi per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va della socie¬  tà; Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni, dei beni  sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non delle  greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani vedici  costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non si  è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a Ódinn  non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro, non aves¬  sero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della so¬  vranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana  che suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omo¬  loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente  e che secondo la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di  sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che ri¬  mane pensante e parlante anche dopo la sua decapitazione; oppure  Bragi patrono della poesia e dell’eloquenza.   Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili e Vé, sicura¬  mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in scandi¬  navo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma si  conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e tutt’altra  soluzione sarà proposta più avanti.   11. Condizioni dello studio teologico della seconda e   TERZA FUNZIONE   I procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di  dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e    98     poi progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della  prima funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e  al momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dub¬  bio questa differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi  concetti (i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologica¬  mente chiari e molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione  si prestava facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna di¬  menticare che i primi filosofi, appartenenti al personale di questa fun¬  zione, erano dei sacerdoti e non potevano evitare di applicarvi con pre¬  dilezione la loro analisi. La controparte è che nel Rgveda questa  teologia così ben sviluppata non si raddoppia in una mitologia ricca in  proporzione: di Mitra non è quasi «raccontato» niente; di Varuna si  dice molto di più, ma la lista delle scene in cui interviene è ridotta e in  generale si tratta di potenze e qualità degli dèi sovrani più che della  loro storia, del loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise com¬  piute da loro.   Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e  prosperità si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichia¬  razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi  benefici che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi tauma¬  turghi. Così queste due province divine sono più adatte a degli svilup¬  pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire  che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei  racconti.   Per il comparatista questa differenza comporta grandi conse¬  guenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente  enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle re¬  ligioni vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie al  conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni, mentre  la religione scandinava non interviene che a titolo di conferma dopo  che il percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato.   Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana pre¬  senta ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento «Jupiter  Mars, Quirinus» o nel raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven-  tas, Terminus», essa ha registrato coscientemente delle articolazioni  concettuali molto chiare. Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere  che la religione romana non è più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli dèi  sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati di  ogni racconto e limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro pro¬  pria funzione. Se dunque (per la determinazione del quadro generale  tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto di una teo¬  logia vedica facilmente determinabile, e di una teologia romana im¬  mediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti coerenti, c sem¬  pre più completi che si sono appena letti, la stessa cosa non avviene  quando si passa ai due livelli seguenti.   India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della pro¬  pria natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino  non corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c  per ciò che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sa¬  cerdoti: i documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬  pali sostegni del comparatista non si combinano più.   12. Mitologia ed epopea   La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro  fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti capi¬  toli del presente libro hanno già discretamente fornito qualche esem¬  pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo solamente a delle  speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la  mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche», dall’epopea in cui  degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che gli  dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro.   Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epo¬  pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei  suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con  l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo.  Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza  gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬  sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬  lega svedese Stig Wikander.   Da una parte, la più grande epopea indiana, il Mahàbhcirata,  sviluppa le avventure di un insieme di eroi che corrispondono parola  per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della religione vedica e pre¬  vedrà, di modo che l’India presenta, con questo enorme poema c col   Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due differenti bisogni e  con sensibili varianti, alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra par¬  te, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri  teologici alla loro scarna essenza, ha conservato al contrario, per costi¬  tuirla in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬  gini, un antico repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬  ralleli a quelli che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le  raccolte mitiche degli dèi.   Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in storia  da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea prero¬  mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe per¬  duto senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi  possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬  sta questa discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito  Livio contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬  gli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬  logia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui  dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬  zione è dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro  comparativo.   13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander   Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il Mahàbhdra-  ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo di cinque  fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti notevoli pre¬  sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c cinque,  Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo regime di  poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya ma attribuito  qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per più di un se¬  colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la soluzione  soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto l’intrigo  del poema.   In realtà i «figli di Pàndu» non sono i suoi figli. Sotto il peso di  una maledizione che lo condanna a morte nel momento in cui compirà  l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità con un procedimento  eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo ad un’avventura  giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era sufficiente in-    101     vocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei e  le donasse un figlio.   Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione di¬  versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma, «la  Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto del giu¬  rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.   I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna.  Suo marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie,  di questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri  prende dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati  i due inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬  mi dei cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò  ben presto che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin  - riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi  dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che  rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al  secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora  più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri  doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni  epiche dei figli, come in effetti accade.   Yudhisthira è il re, mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬  gli ausiliari; un re giusto, virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza  specialità o virtù guerriere, come si conviene a un rappresentante della  «metà di Mitra» della sovranità.   Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme. Quanto  ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori dei  loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la grande vir¬  tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due classi  superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve immediatamente  in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza aberrante ma  della trasposizione epica della concezione vedica, indo-iranica e pri¬  ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi maschi, tra i  quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con una dea unica  ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica Sarasvatl  che comprende in se stessa la sintesi delle tre funzioni.   Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due gemelli  servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125 formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): «Sono  io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sosten¬  go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con  un’ulteriore specificazione della terza funzione) della principale dea  dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione  di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande  battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per  la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione  epica permette, partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e  dalle molte rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più  avanzato di quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬  sciuto sopralutto dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo  articolo del 1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la  struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti  più arcaica di quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in  questo innario ma che le analogie iraniche provano come fosse in¬  do-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi apportati da questo  nuovo studio è stato quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬  cotomia che il Rgveda ha quasi completamente dimenticato a tutto  vantaggio di Indra.   Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬  ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di  due tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju-  na, rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una  parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a  Vàyu per un periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬  bili in qualche parola.   L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di un vi¬  gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia, pro¬  lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello né  brillante, non è molto intelligente c si abbandona facilmente a disa¬  strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso da solo, fuori  da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per cercare  l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo  compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle  armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬  cialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬  tutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e  generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nel¬  la persona del brutale Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di  Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più seducente come ©raètaona.   In Grecia ricorda l’opposizione tipologica di Ercole e Achille,  ma soprattutto permette di dare una formulazione più precisa, in Scan¬  dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr e più in generale a quelli della pri¬  ma e seconda funzione. E stato segnalato, nel secondo capitolo, che  Ódinn si era annesso una parte importante della funzione guerriera.  Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la discriminazio¬  ne sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio tuonante dello  sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli Indo-Iranici  era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu era piuttosto  quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero delle spedizioni  solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più chiaramente se si  considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a ciascuno di que¬  sti dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬  nosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬  nosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un  gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e soli¬  tario, vera replica scandinava di Bhlma o Ercole.   16. Caratterizzazione funzionale dei Pàndava   Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente consape¬  voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle rappresentazio¬  ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse maniere di  reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel momento in  cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto esilio che avrà  fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno la loro rivincita,  il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il volto col suo abito  per non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato».  Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non vi è uomo ugua¬  le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue braccia, inor¬  goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i nemici  un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la sabbia  «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i  nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula,  il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicen¬  do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il cuore di una  donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta il viso  (II, 2623-2636).  All’inizio dei libro IV (23-71 e 226-253), i cinque fratelli scel¬  gono un mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del re  Virata: Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un  brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore;  Arjuna, coperto di braccialetti e orecchini, come un maestro di danza;  Nakula come un palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati,  mentre Sahadeva come un bovaro, informato di lutto ciò che riguarda  la salute e la fecondità delle vacche.   Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono  interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬  ne nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato  l’importanza del criterio qui rivelato.   Sempre restando prima di tutto degli abili medici che ignorano  l’agricoltura (il che ci porta a far risalire indietro di molto questa con¬  cezione), Nakula e Sahadeva si dividono le due principali province  deH’allevamento, riservandosi rispettivamente l’uno la protezione  delle vacche e l’altro quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono  loro il loro secondo nome collettivo, Aévin, un derivato di àsva, «ca¬  vallo».   Abbiamo così il primo modello delle formule che si osservano  anche altrove a proposito degli omologhi funzionali dei Nàsatya  -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie all’interno del genere «sa¬  lubrità», sotto le acque e le piante; così pure, almeno parzialmente, tra  il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione nell’uniforme be¬  neficio dell’«arricchimento» si compie secondo le due fonti della ric¬  chezza, il mare e la terra.   Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea  metta in risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il  travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è  arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il  «danzatore» e i suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut  che si adorna il corpo di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬  glia che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più  vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬  mente da riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E  forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬  dere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la  morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul  carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna.   18. Pàndu e Varuna   Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze  tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sem¬  pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua,  facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo  degli inni c dalla loro retorica dell’allusione.   Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia assente dalla  trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore, inattuale,  morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina, diviene re.  Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del suo figlio  maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri originali e im¬  probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a Varuna; a  uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu significa «pallido, gial¬  lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di nascita, o meglio, del con¬  cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle insanamente pallida  o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi rituali come sukla «bian¬  chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco». L’altro aspetto c di  più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie  l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV , IV, 4,  1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come uno divenuto  momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a  vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco  Urano castrato dai suoi figli).   Il lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che Wikander  speriamo di estrarre da questa riserva importante del materiale abbon¬  dante e abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà  che sono ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla rico¬  struzione indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia delle  tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non  sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente gerarchizzati;  essi si succedevano nel tempo e progressivamente costituiscono  Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un altro or¬  dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano «gioviano» se¬  mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi  sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo Mi¬  tra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In più,  il sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli sopravvissuto  alla coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia singolarità  schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma inizialmente  considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che non  implicano problemi inediti.   20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima funzione   Nella tradizione annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e  Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello stes¬  so senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa  si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e nella loro storia, ma  in un’opposizione senza ostilità: Numa completa l’opera di Romolo  donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo polo, necessario  quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬  senta tutti e due in qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e  808-812), definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore di  Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e della  sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe-  rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote  portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda  Roma donandogli delle leggi, legibus.   Tutto si ordina intorno a questa differenza - «l’altro mondo e  questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equili¬  brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare  il linguaggio miracoloso di Giove.   Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di  sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e  Mitra (vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella  genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa  metà del mondo.   Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo, quando  spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del regno,  una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a Romo¬  lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato  nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particola¬  re della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono sta¬  to nutrito e allevato da uomini che voi conoscete».   I loro modi di azione non differiscono di molto e la differenza si  esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono chiamare i loro  dèi prediletti.   Romolo stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di  Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi-  ter Feretrius e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il  dio protettore del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle  vittorie; e la seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana  di Giove, a «un cambiamento di vista» contro il quale nessuna forza  può niente e che capovolge l’ordine normale e consueto degli avveni¬  menti. Al contrario, tutti gli autori insistono sulla devozione particola¬  re che Numa rivolge a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento più  elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che nei  rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa,  il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e  istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divi¬  nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il primo a costrui¬  re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più grande giuramen¬  to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa distribuzione sia  conforme all’essenza delle due divinità sovrane antitetiche, Varuna e  Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due dèi si oppone allo stes¬  so modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti come un ti¬  ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti sicura¬  mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo ,  26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa della loro prontezza  nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in pubblico che preceduto  dai littori armati di verghe, con le quali respingevano la folla, cinti di  corregge con cui legavano sul posto quello che lui ordinava di arre¬  stare». A questo sovrano, così materialmente «legatore» come Varu¬  na, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima iniziativa una volta  di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei Celeres e come seconda  di organizzare ( ibidem) o creare (Tito Livio, I, 20) i tre flamines maio-  res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate dai barbari,  come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa, 3, 6).   Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione  guerriera, quelle dell’altro per la funzione di prosperità.   Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi,  prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16, 7).   Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla guerra  (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del suo re¬  gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che compiono  razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo una va¬  riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che im¬  pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso, II, 72; Plu¬  tarco, Numa, 12, 4).   Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da Romolo  «per sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della perversità, e  per spingere verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-, divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬  missari che lui stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in  base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si distinguono  perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬  ze» (Plut. ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe  comunque proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬  nalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i  due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬  sti) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto  piamente dai senatori, antenato di numerose genti.   Delle pretese gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno  potuto introdurre più di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite  parallele inverse» e sicuramente in quella di Numa.   Ma è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate a  un dato tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re,  due modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i  nomi di Varuna e Mitra.   21. Tullo Ostilio e la funzione guerriera   Dopo la funzione sovrana la funzione guerriera, dopo Romolo e  Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta ad Enea ( En . VI, 815)  come colui «che riporterà alle armi, in arme, i cittadini divenuti casa¬  linghi e disabituati ai trionfi». Arma, come auspicia e sacra per i suoi  predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua opera:  militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: «La regalità gli  fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬  ma militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver esercitato  in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli Alba¬  ni».   22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio   È in questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la mito¬  logia ha dato ( 1956) i risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo  studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo  confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che i mag¬  giori aspetti: nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria  del terzo Orazio sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬  no Roma del pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per la  subordinazione di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da  vicino i due principali miti di Indra che la tradizione epica presenta  spesso come conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita  sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che mettere in  un quadro schematico le omologie, pregando il lettore interessato di  riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬  mente esposti.   A, a) (India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demo¬  ni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tut¬  tavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino germano degli dèi  (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli  dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre fratelli Àptya, a  uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma  quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, com¬  porta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liqui¬  dano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eli¬  minazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di  quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima.   b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si  disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli  Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella  degli Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi di Alicar-  nasso, sono cugini germani degli Orazi).   Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio, ma  questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a Roma.  Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di produrre  un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi hanno  accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità cade su  di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è ripartita subito,  trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel racconto indiano: il  terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto per la morte del suo  fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare quest’impurità e  ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio: la data di questo  sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni riguardavano (da là  la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma, macchiati  dalle inevitabili morti della battaglia.   B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude  un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di  giorno né di notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬  tando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato  messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬  tributi: forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso  gli dèi canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬  dono la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data  pur violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando  non è né giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né  umida). Indra sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in  maniera bizzarra, «burrificando» la sua testa nella schiuma.   b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani,  Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della  convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬  taglia contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬  do il fianco dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti  alla divinità della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché  al corrente del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e  convoca al pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là  sorprende Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella  storia di Roma, lo squartamento.   23. Rapporti della funzione guerriera con le altre due  Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia  della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si  esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa  l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con  l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta affatto e  che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli,  come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa  azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e  Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione sovrana  non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in     cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e gli  Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr in  un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vi¬  vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la ten ibile vendet¬  ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro questo re  troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo.   Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia a  continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una lunga  malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8):   «lui, che fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno  degno di un re che applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬  visamente si abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e  propagò anche fra il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬  so consultando i libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬  greti in onore di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia  all’inizio che nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di  modo che, invece di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter  con un'evocazione mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la  sua casa»   Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il  grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬  ché egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che  più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era l’unica a onora¬  re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi delle  sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella persona di  Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re, che abbia¬  mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della sua car¬  riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa  differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione, nella  disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora di es¬  sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo fra-    113     tello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬  tutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a  «legare» nel senso letterale del termine, al pari del suo omologo del  pantheon vedico, Varuna, armato di lacci.   La corrispondenza tipologica dei gemelli dell’epopea romana e  degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la lista trifunzionale  indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba, e alla fondazio¬  ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un pastore,  vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto  marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione pastorale  l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del carro  da guerra) ha eliminato la «parte del cavallo» (in evidenza nella parola  ASvin), non rimane quindi che la «parte del bue e del montone», per si¬  tuare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.   I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza  dagli dèi perché troppo «mescolati agli uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5,  14, etc.) e nella letteratura posteriore saranno considerati come degli  dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla  società ordinata.   Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi  è in essi niente di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più  umili, disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del  re (Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta  sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬  genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬  polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5).   Sono raddrizzatori di torti: come i Nàsatya passano il loro tem¬  po a riparare le ingiustizie degli uomini o della sorte. Essendo sempli¬  cemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni, restaurazio¬  ni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo non  possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici contro  i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore maltrattati da  quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri ser¬  vigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello di  aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di  Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il loro vecchio nonno che era stato privato del¬  la regalità di Alba.   I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬  sieme ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬  da quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬  glio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma  considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua  carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬  no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬  tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II  395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen  ex illis iste vigoris habet ...»   Certe azioni estranee ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la  loro mitologia - sembrano ricordare dei tratti della leggenda di Romo¬  lo e Remo, talvolta solo con una inversione (protettori e non protetti)  che testimonia come essi siano degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬  ni. Uno dei servigi frequenti dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità  delle donne e delle femmine; ora, Romolo e Remo sono i primi capi  dei Luperci, un compito dei quali è di rendere madri le donne romane  con la flagellazione (una leggenda eziologica, che pone l’origine di  questo rito dopo la fondazione di Roma c il ratto delle Sabine, dice che  è stato destinato inizialmente a far cessare una sterilità generale).   In tutto il Rgveda il lupo è un essere mal visto, è il nemico;  l’unica eccezione si trova nel ciclo dei Nàsatya: un giovane uomo ave¬  va sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa e per punizione  suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa i gemelli divi¬  ni resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e Remo, c solo  in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice che la lupa  occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle leggende  dei Luperci (Ovidio, Fasti, II, 361-379), nel racconto sulla giovinezza  di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo  considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia degli  ASvin.   Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs  (il «cavallo mutilato», curtus equos), come pure il concetto stesso del¬  la dea «Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬  zione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for-     ze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza funzione  e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo  confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera  «preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai  Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corri¬  spondono a Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore  verrà deificato sotto il nome del dio canonico della terza funzione,  Quirino, ritornando quindi al suo valore primigenio e, sia dello di  sfuggita, questa notevole convergenza spinge a rivedere l’idea gene¬  ralmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino sia secon¬  daria e tardiva.   25. La terza funzione, fondamento delle altre due   Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea  delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo  da «Nàsatya» in «Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano  un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo avuto  occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto cer¬  to che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa è  il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero maghi  e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda  iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo  sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente, nella  primaparte della sua vita, un buon «eroe della terza funzione» dai ric¬  chi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo  né la bestia né le piante ( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla (vedi  sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uc¬  cide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli  i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti se¬  condo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae (una fami¬  glia di ricchi).   È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla stessa  area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre  funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difen¬  de contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo  presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è il fuoco fondamentale  acceso per primo e che serve per accendere gli altri.     26. Sviluppo della ricerca   Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui  sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna  delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'at¬  to penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte  ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure or¬  dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬  ni, delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio  compreso e generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬  ri. Prima di prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬  tante o centrale che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi  dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬  rativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri  più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬  rora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle varietà  del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del  pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la comparazione  dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c permetterà di ricono¬  scere delle coincidenze che è difficile attribuire al caso.    Note ai paragrafi    § 2. La struttura bipolare della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo  III di NA studia i fatti iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ulti¬  mi la critica di W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p.  963, non regge; non più dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle  Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte circostan¬  ze, di caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per  lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina contemporaneamente le due Entità  esattamente come RV, V, 69, in cui ogni strofa nomina simultaneamente i due  dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The  f>reai Vohu Manah and thè Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda  nella nuova prospettiva vedi MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬  GREN, Numen, I, 1954, p. 46, n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre ,  1948, pp. 87-93; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68  (sul Mesoromazdés di Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon     F oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die Was-  ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro comparativo.   § 3. MV, cap. IV.   § 4. MV, cap. VII: si hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm.  Rei. -Gesch., Ir, 1957, §§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§  19-20) «Die altgerm. Religion», col. 2485-2498.   § 5. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman,  1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre degli Aditya, in quanto «madre e fi¬  glia» di uno di essi, vedi Déesses latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬  fiutando e caricaturando in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che  avevo proposto alla sua interpretazione (1938) di ari (non importa quale  «Fremdling», ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del  mondo arya - alleato o avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬  scutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale  di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,  etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e detta¬  gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò successivamente questa  curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme userà più fair play nello studio  che sta preparando, mi dicono, su «Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice).   § 6. DIE, pp. 50-51, riassumendo Le troisième souverain.   § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58.   § 8. DIE, pp. 59-67; K. Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215.   § 9. DIE, pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro  nel mondo celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬  re di Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio,  così l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della gio¬  ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si fa  concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e la notte fanno  la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del luogo («Jeunessc,  éternité, aube», Annales d’histoire économique et sociale , 1928, pp.  289-301.   § 10. DIE, pp. 76-77.   § 11. Vedi la prefazione di Aspects...   § 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini  romane comparata con la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬  sto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser-  vius et la Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in  «Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in cui  I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra il  350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi  L’héritage..., p. 181, n. 49.   § 13. L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.  WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan och     Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp.  27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85; cf.  WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse et de  l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un caso paralle¬  lo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è stato studialo in  La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au roman,  1953. Mentre il presente libro era in stampa, in Orientalia Sue vana, sotto il ti¬  tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER faceva considerevolmente avanzare  l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi sotto § 24).   § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...», pp. 33-36; è il risultalo dei  lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317;  di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S.  WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico  * Vayu nel nome generico dei «giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse-  ti, weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp.  450-457, che io ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le  folklore des Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352.   § 15. Aspects..., pp. 9, 70, 80.   § 16. JMQ IV, p. 56.   § 17. «Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68.   § 18. Pandu come trasposizione di Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La  trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la ruota del carro  del Sole «infossata») è stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna,  fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli  dèi delle tre funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do-  num natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di  Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit  d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i sovrani  minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferen¬  za fatta all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala quest’anno  nell’ Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux souverains dans le  Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella  stessa prospettiva.   § 19. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi  che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco  della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono  Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»), i due salvatori  di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in  MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne L’heritage..., pp.  159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma vedi il riassunto degli  studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un notevole «ritocco» parallelo  al «ritocco» zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione romana  nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc  et Ics rois romains de Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463.    119     § 20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.   §21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp. 154-156.   § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius et les mythes de  Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra vedico come «solita¬  rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci -) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬  grafia degli studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39  e completala in Aspetta..., p. 1.   § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli Nàsa-  tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...», Orientalia Sueca-  na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho ancora pubblicato su  questa interpretazione dei gemelli romani il libro preparato nel 1951-1952; è  comparso solo un frammento: «Le turtus equos de la fète de Pales et la muti-  lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956,  pp. 232-245. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli  indoeuropei sono state segnalale in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130,  151-154.1 Dioscuri greci sono solo parzialmente comparabili. Sembra che  altri aspetti della terza funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e  del commercio; piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma,  Anco Marzio, successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior  Ancus») e la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬  tanti questioni di metodo sono toccate).   § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia,  pp. 31-113 (=JMQ it., pp. 287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39,  sono state rilevate delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi-  vasvat; in Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno  chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi  anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à  l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della silenziosa  Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri opero¬  sa con la preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia  prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del sovrano  Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp.  115-158 (= JMQ it., pp. 355-388) si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬  sto sacrifico triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di  un loro, di un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-  doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali resi  chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca dagli otto pie¬  di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orien¬  tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di  accensione, «fuoco del padrone di casa», attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬  drato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve-  dica; i rapporti rituali degli equidi, c in special modo del cavallo, con  ciascuno dei tre livelli funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a  Roma che nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬  blicarsi in REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei    120      Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia e la prescrizione  bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati  vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):  «Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe-  uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale »,  REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111; REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene  uno studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: «A propos de latin  ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112; «Ordre, fantasie, changemente  dan les pensées archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos»,  REL, XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé-  rences entre les Romains et les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e  XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste sono invece due nozioni prettamente romane  che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin emi¬  nentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi  L.R. PALMER, «The Concept of Social Obligation in Indo-European», Coll.  Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI-  STE ha delucidato comparativamente un gran numero di nozioni religiose e  sociali, vedi in special modo «Symbolisme social dans les cultes gré-  co-italiques» RHR, CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato  importante nel mio Rituels...)', «Don et échange dans le vocabulaire in-  do-éuropéen», L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de  pvaopai», Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrun¬  ner), 1954, pp. 13-18.      Storia degli Studi e bibliografìa    Dopo lo scacco del saggio intelligente ma prematuro fatto dalla  scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di Friederich Max Miiller  ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei,  l’impresa fu per un certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto  l’influenza di Wilhelm Mannhardt (1831-1880), gli studi si spostaro¬  no sui rituali e le credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza  uniforme per tutta l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere  di stabilire filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e  miti delle diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici.  Da un’altra parte, per effetto della crescente settorializzazione delle  specialità, gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬  manico, etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono  per spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle  ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano  che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,  dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori  continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio  A. CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240.   Tuttavia nel secondo quarto di questo secolo si produssero delle  reazioni. In Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der  Arische Weltkonig und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und Got-  theilen derArier (1932); F. CORNELIUS, Indogermanische Religion-  sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che prosegue brillantemente, degli  articoli c dei libri di F.R. Schroder.   A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso ho fatto un  primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con dei    123     mezzi filologici insufficienti e rimanendo prigioniero, per la spiega¬  zione, delle concezioni mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im-  morIalite 1924, Le crime des Lemniennes 1924 e qualche articolo di  cui non vi sono grandi cose da ritenere; il Leproblème des Centaures,  1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui frammenti rimangono utilizzabi¬  li). Non è che a partire dal 1938 che, inizialmente solo e poi, dopo il  1945, raggiunto e spesso superato da altri ricercatori, spero di essere  riuscito a delineare dei tratti importanti della struttura dell’eredità in¬  doeuropea comune, in una coscienza più chiara delle condizioni c dei  mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema  preconcetto di spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della socio¬  logia e dell’etnografia, come pure il ricorso all’analisi linguistica dei  concetti.   Essa ha due postulati: ammette che tutto il sistema teologico e  mitologico significa qualcosa, aiuta la società che lo pratica a com¬  prendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del suo passato, confidante nel  presente e nell’avvenire; ammette anche che la comunità di lingua,  presso gli Indoeuropei, implica una misura sostanziale dell’ideologia  comune alla quale deve essere possibile accedere grazie a una varietà  adeguata del metodo comparativo.   Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva at¬  tirato l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricer¬  che: il vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello  dei Celti e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di con¬  cordanze precise e che sono loro proprie. Un articolo-programma del  1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR, CVIII, pp.   1 88-200 ha dimostrato che questa parentela prossima non si riduce al  vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal 1938, in  ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o in¬  do-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi risultati precisi sui  quali è stato possibile fondare delle comparazione più vaste.   Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religio¬  so sia interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi no¬  tevolmente fedeli al passato indoeuropeo.   Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il domi¬  nio celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione, un  gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza dubbio    124     del «miracolo greco» e anche perché le più antiche civiltà del Mare  Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord -  contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più conside¬  revoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto agli  altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi,  non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in  cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli  Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':    Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation compara¬  tive 1939 (citato MDG)   Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations indoeuropéen-  nes de la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV)   Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne  de la société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ)  Naissance de Rome (=JMQ II) 1944 (citato NR)   Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la théologie  zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato NA)   Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV)   L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries  «JMQ» et «Mythes Romains», 1949   Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949  Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE)   Rituels Indoeuropéens à Rome, 1954   Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens, 1956  Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956    Una traduzione italiana di una versione migliorata in diverse  parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è  stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars Quiri-   I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di JMQ. NR. NA ehc  sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard. Aspettando, l’edizione  italiana dei primi due Corniscc un’idea delle correzioni giudicale necessarie: le  parli che non sono state tradotte sono da eliminare.    125     ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬  to, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬  bri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ...  («Materia, oggetto e metodi di studio»).    2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der  Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J A  = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society; JP =  Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines;  RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV  = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse;  SBE = Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle  Religioni ; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir  Celti sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen  Gesellschafl.    126     Appendice    Aryaman e Paul Thieme    Mentre correggo le seconde bozze di questo libro (maggio  1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota al  cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze che  esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del JA,  concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello stesso  paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su Mitra  and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i nu¬  meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P. Thieme, Der Frem-  dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z =  P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp. 96-104.   I   Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora in¬  do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.  In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero», qualunque sia) c del senso  che ne risulta per aryó («l’ospitale»), Aryaman non può essere che il  «dio dell’ospitalità)). È così?   E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa  definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del  ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi  è un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di    127     Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia, Aryaman non è né invo¬  cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un visitatore. Non biso¬  gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso, se il concet¬  to di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere personificato  in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo Varuna e Mi¬  tra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per espri¬  mersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come dio  molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame è  manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.   Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti-  co Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono  irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due.   Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle con¬  clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il matri¬  monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua  tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei trattamenti poco racco¬  mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e  più netti, altri più oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è  d’informarsi all’inizio sui primi e con questi chiarificare o precisare in  seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, 1,  60, la formula destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa  di Aryaman la prima strofa:   tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah   asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye   «Ecco arrivare Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per  questa fanciulla un marito e una moglie per chi non è sposato».   Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1, inno rituale del matrimo¬  nio, la strofa 17 che riguarda la giovane donna:   aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam   urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah    11 I lesti sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp. 74-76,  seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente errata. «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il  trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui  (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale)».   V icino a questi testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala  «ricerca della sposa» che diversi episodi precisi del rituale delle noz¬  ze, nei quali Aryaman interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di  conseguenza con un ruolo non immediatamente identificabile. Ciò  che in questi casi incerti può orientare l’interpretazione è evidente¬  mente la descrizione e la definizione che su di lui hanno dato i testi  espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le parti gli elementi delle  coppie coniugali e fa delle buone alleanze matrimoniali.   Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda cate¬  goria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e per  tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro indeterminazione,  la sua concezione di Aryaman («die Gastlichkeit», «der Gott der Ga-  stlichkeit», «der Gott gastlicher Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬  ghe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui testi  meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera» porta¬  ta questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 :   «Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1,  14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu-  chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat, in ih-  rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des Hau-  shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als  «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1)  schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die  Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft  des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.»   Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel masche¬  rare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬  denzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale  del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente    12 F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79.   13 F„ § 124.  adatti a chiarire la funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che  Aryaman non vi figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran  nome» della mitologia, è una spiegazione che generalizzata permette¬  rebbe all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze im¬  barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come «einer derGenien  des Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii, usando la libertà  fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di  questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando Aryaman  ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di ungere  (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella non in¬  vecchi»)' 4 , Thieme, ricordando che «in ogni paese del mezzogiorno» 15  il bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepida¬  mente: «Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich=  die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =  inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa traduzione  sono leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità  e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile;  come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell 'ospitalità ti  unga con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa se  si vede in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è naturale  che egli sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o vigorosa vec¬  chiaia.   E non è tutto. Thieme assimila costantemente l’ospitalità e il  matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella che riceve la fi¬  danzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del riferimento a  Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che entra in casa di suo marito per  rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del visitatore che dopo  essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del dovere di  contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla futura  madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti, delle ceri-   14 RV, X, 85, 43:   a nati prajath janayatu prujàpatir   àjarasàya sùm anaktv aryamù...   Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns Arya¬  man verschinelzcn».   15 Nell'India vedica?   16 F., p. 125, n. 1.    130     monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della  stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬  dura sui generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto  all’adozione che all’ospitalità?   Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano un’ambi¬  guità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischia¬  va di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione  datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale nuziale 17 :   aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm]   prdtiksante svasuro devaras cu.   «Sie umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o  Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und Schwager.»   Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali ve¬  dici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche que¬  sta circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto corrispon¬  dente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore  di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è così  m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo di Arya-   17 F„ § 122.   18 Piuttosto, secondo la variante «schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella tra¬  duzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza  del mio manoscritto o delle mie correzioni delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso  con «i suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della secon¬  da parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale  della prima. Questo testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la  giovane sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman  si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata  da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf.  Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119  di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei pro¬  positi, considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile  nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E  l’inverso. La moglie parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto  al festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il resto  dell'insieme ari » (e non facendo sparire la parola essenziale «altro», « jederunde-  re, niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo  testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si  rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere mari¬  to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai figli del suocero»).  man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare  eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il legame mi  sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono  queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il  ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che esige  l’ipotesi di Thieme.   L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per sostenere  «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è detto dotato  di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza, vincitore dei nemici  (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui è onnipotente e guari¬  trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di una scena mitica in cui  questa preoccupazione di guarigione è al primo posto: quando Angra  Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999 malattie,  il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la «Formula  Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina) si av¬  vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva  divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .  Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta  la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione,  un uso fuori dal dominio di un dio sentito come importante: «Man hai  also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von  A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho cita¬  to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare un  elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti di  Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio, strumento  utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi del mio Troi-  sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far capire che  Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità. Infatti  nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei matrimo¬  ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di un  gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche il  matrimonio siano possibili.    19 F. § 126-128; S„ 81-83.   20 V. qui sopra n. 13.   21 S., p. 141-149. Per il trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F.,  vedi S., p. 137-139.    132     L’Airyaman iranico protegge in una maniera più ampia e fino  alla sanità l’insieme di uomini e donne della «buona società», definita  dopo la riforma zoroastriana solamente in base alla religione e non alla  nazionalità.   Bisogna dunque che il concetto di arya - nel nome di Aryaman  sia altra cosa rispetto a quello detto da Thieme: minore in estensione,  poiché il matrimonio non è possibile con alcun ospite, ma più ricco in  comprensione, poiché oltre all’ospitalità comporta altre forme di lega¬  mi e in special modo l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così  costretti a introdurre in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬  nalità.    II   Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in S p.  113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende conto  di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi ai quali si  adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di Thieme,  rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il dossier  di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente impone una  traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia riconside¬  rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:   uta svàsyd ardtyd arir hi sa   utdnydsyd ardtyd vrko hi sah   La costruzione e il senso sono limpidi:   «[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.   [Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.»   Questi versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti  equivalenti, quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono  di conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita,  ari : vi è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è  proprio, imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬  riore, straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬  mento è selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di  nemico distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al  di fuori del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è  definito come intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario  fatto da Thieme a questo passaggio devono essere citati per intero 12 :   «/ Schutze] vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie  (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be-  droht), sie istja der Wolf... ».   Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre-  izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili-  stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel-  len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist ja ein  Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an-  derer drdti-sie istja ein Wolf».   La prima interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché  sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al  rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due opposizioni  equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e  vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di  cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti.   La seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà  in un senso che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me  temporalmente e accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬  game permanente ed essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬  pone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello  dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma  questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del  RV vi fa allusione: sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di  una preghiera e che, in questa preghiera, fossero messi sullo stesso    32 P. 27, già II, 1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),  si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella di¬  rezione «élite», «capo», etc.    134     piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka bar¬  baro e brigante.   Questo testo è dunque decisivo contro il senso troppo esteso di  ari e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéen-  nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegna¬  mento del testo nella formula: «.vrka il nemico straniero, ari il nemico  interno». Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite,  sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta alla considera¬  zione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n .   Ili   Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet contro di me:  fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬  servazioni che faranno vedere a quale livello si situa il dibattito.   Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni credito ai miei  argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre punti, che io  commetto molteplici e grossolani errori di grammatica utilizzando gli  inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi rimprovera   (pp. 12-16):   a) Io tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui  si incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬  ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo  che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in  un solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel  1938) e che ora preferisce chiamare «The contract (God Contract)  which is hospitality (God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬  stro, di cui non vi sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono  rifiutato, nel 1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi-    33 Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare scar¬  tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è stato portato in ap¬  poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur Bedeutung des Ariernamens», KZ,  68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere  ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra  che lo svà di IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬  bio locale. Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬  dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para.    135     mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una coppia  «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».   Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman  vdrsistham ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬  tenuto la più alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il  poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è  fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo  che si debba tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma  la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra e  Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i  tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi che  sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende come  me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya-  man» - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme mi  rimprovera di avere detto.   L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me  asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è  ambigua: «Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai-  yasva e conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara,  un aggettivo al duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi di¬  vini.   Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò  che segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet  aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein-  miitig, (und mit euch) Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o  se si può trovare una giustificazione più sottile, ma come lui penso che  gli dèi dell’ultimo verso, qui come altrove, siano ire.   b) Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV, III, 54, 18,  aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale e  non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman, ad  Aditi». Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la tradu¬  zione di Geldner: «.Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert», con la  nota corrispondente: « Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die  iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più m’interessava perii mio argo¬  mento (S., p. 68) è che in questo lesto della «terza funzione» (la fine  della strofa domanda abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo  degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi soli delegati  espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho  preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una precisa¬  zione che ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a dire:  «Sembrerebbe che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che orienta  l'azione collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale». Non è  abbastanza chiaro?   c) Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus segna¬  lato più sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha  fatto scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del «suo¬  cero», come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io  abbia pensato ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter cre¬  dere che io abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o,  per un nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è  forse correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S, v.   1 19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che, essendo  poco leggibile il mio manoscritto, il compositore abbia congetturato i  «suoceri» secondo i «cognati» che seguono immediatamente, o che  meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due parole  così analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il  lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo che  nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze  quello mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente  qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme  orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore su  svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno  Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento  la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39  e quella del suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari» in X, 28,   1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato  qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimo¬  nio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per  l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa  da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si com¬  piono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida «all’in¬  terpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio altrimenti  grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi che stabilisco-    137     no il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è in  seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste  ed utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai  rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché  Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di sen¬  so, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2 , caricaturan¬  do le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un  motivo di risentimento in più 4 , etc. etc.    1 L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: «IJ'eel il  my duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè me¬  riti of Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe  Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his "expla-  naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza grandi  speranze che latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬  mi lo facciano lealmente.   2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in  RV VII, 82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione,  ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S., p. 40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬  nirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion  védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto  esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il sacer¬  dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl icementc «rendere gli onori do¬  vuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens, p. 42,  1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come un sacerdote di Varuna.   3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra-  Varuna', 1948, pp. 79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho  semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i sociologi  hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo  stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è de¬  formata: che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia  dei nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo  quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset  mythes védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬  to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente, l’insieme  del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure divine: un dio non c  prigioniero del suo nome.   4 P. es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136,  a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà facilmente che essa non  esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo così futilmente in contraddizione.  P. 86, n. 60, sono accusato per due parole di «mislranslations, wich might have  been avoided by looking up thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà  rifarsi a A.B. Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi  sono ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione tra  Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo in¬  diano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬  mostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬  ni in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima  funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha  scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con  una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabi¬  lire «gli insegnamenti degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri  (dopo Bergaigne e H. Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In  Le Troisième Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un pro¬  blema specificatamente indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovu¬  to riprendere tutti i testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da  scrivere sul mio libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di  essere e di rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei  soggetti, a dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della  materia hanno corrisposto dei procedimenti differenti.   Quanto alle tesi stesse di Thieme, le esaminerò nella Revue de  l'Histoire des Religions e mi sforzerò di rispondere con un’argomen¬  tazione serena a questa scherma da gladiatore. Enumererò gli apporti  positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto le apparenze del  rigore filologico Thieme misconosca costantemente le prospettive,  ignori i dati statistici più evidenti e distrugga i rapporti più probabili e  sulla via così sgombra si avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬  ne sorprendenti che terminano il suo libro.   In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da questo mec¬  canismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi Àditya,  l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia su  molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture del  pensiero, onesta e intelligente.    I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale riparazione.   L’editoria italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un  autore tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Georges Dumézil,  persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado pungente  ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta  scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi che  accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di piacevo¬  le lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto dì immortalità.  Conversazioni con Didier Eribon , Guanda, Milano 1992.   Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges Dumézil nel panorama edito¬  riale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non sen¬  za travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il carteggio C. Pavese - E. de  Martino, La collana viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha contribuito a diffondere autori importanti come  C.G. Jung, K. Kerény,L. Frobenius, G. van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju-  piter, Mars, Quirinus, Torino 1955, è una traduzione di parti dell’originale,  più capitoli di altri volumi come Naissance de Rome, Naissance  d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬  naudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di  Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et  epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986.   Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti,  a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli  Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della  Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬  europei, 1984; Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso  gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla  precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi della  Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno 1974). E infi¬  ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio dentro Varennes»,    141     1987 che è però un divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di  Nostradamus.   Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione romana arca¬  ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II Melangolo (Genova) ha tradotto  due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste romane, 1989. Recentemente le  edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito  al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière,   Dumézil egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil  cf. la rivista Futuro presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero  monografico “Georges Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibatti¬  to su Dumézil in base alle aree storico-geografiche consuete nella sua ricerca  (Roma, Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze del modello trifunzionale nella società medioeva¬  le - suddivisione in oratores, bellatores, laboralores - e la traduzione di un ar¬  ticolo di Dumézil in risposta alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni  Storici, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,  Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista, già  affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf.  A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni  di Ava/lon e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in  L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose, economi¬  che, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi indoeu¬  ropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬  naudi, Torino 1979 (e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità  indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeu¬  ropee, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeu¬  ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991.   Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬  tica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse letterature -  Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una fraseologia co¬  mune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro eccellente di G.  Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries   La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di  Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le teologie tripartite.  Le diverse funzioni nella teologia, nella mitologia  e nell 'epopea   Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme  Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento di valore,  il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.

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