Grice e Genovese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi. La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana. Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre saggi: “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento». Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni, i Tizii e i Luceri.– La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla distanza di mezzo secolo, la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam,e quella della Dissertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da Bonghi, Manifesto di Brioschi, Giorgini e Minghetti. Questitresignorirecanoilseguentegiudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto, con trapponiamo quello del Savigny e dello Schwegler, la cui competenza insiffatto argomento non èscono sciatadaalcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così parla della storia romana del Niebuhr:«L'opera del Niebuhr ha impresso alla trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen -- Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel campo Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I. ragione, aparernostro, del Niebuhr; che, cioè, questisi propo nesse più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del PERIZONIO e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica fosse, dopolacomparsadel l'opera del Perizonio, generalmente ammesso,esso non fu usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gli altri scrittori, e sono il maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del NIEBUHR, all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue variant. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della leggenda e del mito, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delleantichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge:« La Storia Romana del Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segnò l'indirizzo e diede il più fecondo impulso (Seinerömische Geschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla leggenda, quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler cogliesse sempre nelsegno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo delMommsen ètuttol'oppostodiquello dello Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolse col titolo di “Ricerche romane” – “Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova in questi ultimi giorni un am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse intrapreso di narrarla.Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di ORIOLI, di UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui opere dimostrano, che noi non ci eravamo con tentati, come afferma il Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen . E se la letteratura nostra mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono il MACHIAVELLI e il VICO, per ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce il desiderio di averesott'occhi la seconda parte del volume, che avrebbedo vuto comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa migliare questo studio. Dopo illavoro diligentissimo di Schwegler, a me era parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico,anoi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'Autore : « Del rima nente,ènecessario,dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più svariate. la storia sia stata. Terza, come la leggenda sia nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per leggenda? Ciò che noi chiamiamo leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della leggenda è questo. Cioè, il ricordo di un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della leggendaèadunque storico. Il mito, invece, è tutt'altra cosa. In luogo del fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda, nel mito abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. Ora, nella tradizione romana leggenda e mito trovansi mescolati insieme, e il lavoro della critica consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto dal BONGHI nel primo volume della sua opera, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa fermata. -- Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio : il trattato federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges tribuniciae e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, la troiana è indubbiamente importazione straniera. Però non tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, furono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’ “Eneide.” Infatti,mentre presso idue primi,le lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età pre-romana. Quel Turno che negli altri racconti figura come capo dei Rutuli, nell’ “Eneide” comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea, An tenne, Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gli Aurunci,i Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio d’Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E col loro ausilio, conquista Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa di Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso.Ivi troviamo adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Set timonzio. Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel presentarciidue popoli,latinoe sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul Settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi aveano dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli ha strappato dal capo il lauro dei prodi. Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'èparsafuoridiluogo,ve niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende,tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non -- Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli » Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini, a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un fondatore epo n i m o . Una città che no ma vasi Roma, dove a a dunque, secondo il concetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolse dallo storico Antigono. « Antigonus, italicae historiae scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo all'articolo Romam . La tradizione romulea, nella quale l'eponimo ROMO diventa ROMOLO e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso ENNIO non la conosce che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla madre di Romolo, Ilia, Enea per padre. Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto fu data già da VICO in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la capitale cagione che indusse i romani, quando andarono in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica, inter venne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione. Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino , nel pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in seno Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel suo esilio la famiglia degli Eneadi. Già nell’ “Iliade” è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia era risorta in Roma, e non andrà guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso Julo, che comparisce nella genealogia degli Eneadi, or quale figlio, or quale nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m un quesia dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprese per bocca di Caio GIULIO CESARE, ch'esso avea nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua famiglia eraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote state sunt reges » (1). Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non avea che 32 anni di età , e non avea fatto ancora il suo ingresso nella politica militante, comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo , e SVETONIO, Caes ., avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo condurrà a Munda, e metterà nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che fosse nata nello stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre tribù, e pose a ciascuna il nome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro i Sabini,il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella III. del terzo. Il Lucumone di CICERONE diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la derivazione dei Ramni da Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico,chePrima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER ,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio,PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische Geschichte, –da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù. Lucere vuol dire risplendere; Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid dimostra,a immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei Raseni. Noi diremo gli argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri ; indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che pas sati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che fu desunto dalla ubicazione geografica di Roma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto, che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità, avvertita e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la lingua latina dovrebbe somministrare la chiave per decifrare le inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i Luceri fosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in che,rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc Taties Ramnesque viri, Luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il Palatino, il Capitolino, il Quirinale e il Celio (il Viminale e l'Esquilino furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati ; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni. E il Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagl’Albani. Ora, se questi ultimi ebbero per loro stanza il Celio, non saprebbesi davvero dove collocare iLuceri,quando non siammettesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano (1). Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei Ramni, dei Tizii e dei Luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro. I Romani non erano ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo attesta Catone per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè, nei primi tempi dello Stato romano, la clientela, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e comprendeva ilceto nella sua generalità,quelladellaclientelaimpe gnava giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che fosse ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro era assai diversa. Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre ilplebeo possedeva su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiil dominio del Settimonzio. Gli abitanti primitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti? Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi ramni formato il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani. Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicassero in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son Latini. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio , portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque Con latinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia in meam populique romani dicionem? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto Anco Marcio. Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti nellacittadinanzaromana: «tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale , che fa materialmente introdurredaAncoinRoma questivinti, eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia . In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in contestabile, chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato. Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i Latini, e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri. Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine adAnco,e promette, che procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vintinei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori [Lo fece abitare la “les Icilia de Aventino publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , DeRep., Liv.] gine della plebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, laquale, oltre ad avere il suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente daiclientie dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione in più modi. Ora, essa ci dice che Servio Tullio, per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittà i rurali, e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formavano il nerbo della fanteria romana.. Ma un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze plebee, ossia i comizii tributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di mercato (trinundines) prima di essere messa a partito Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerarono in « Ex agricolis viri fortissimi et milites strenuissi migignuntur -- Catone, De re rustica , Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'Esposizione Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su gli uomini e su le cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ; essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusaerifugiarsia [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo,che sebbene la genesi di quel ceto non possa essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, I quali rilevano di che elementi fosse formato, e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la ro vina di Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, dinaturadeleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le gerarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace.Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria ! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia in luogo di essere per luiunmistero,èinvece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? » guerre civili, come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità conjattura della loro libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanimeepaziente della plebe romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne facesse maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie, e facile creare una simbolica, per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for mazione del primo stato. E clienti diventarono i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli; sial'interesse político,che consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma ebbe rafforzato il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da pleo, plenus). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta la persona litàgiuridicacheimplicavailjus commercii,essanonavrebbe po tuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Genovesi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo. Grice: “I like
Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his
treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would
say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself
teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I
like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t
teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did
not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the
dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’
logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the
form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander
could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an
idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply
others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of
things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic
would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs,
and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity
and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a
genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi.
E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da
Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella
cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone.
Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale
condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti,
presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici
d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno
dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si
trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia
presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in
contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione
contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate
eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani,
e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce
lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica,
cattedra tenuta in passato da VICO. L'evoluzione dalla metafisica-
all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la
trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere
nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri,
la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non
consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei
n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista
è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si
diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume
della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la
ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni
interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie
illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento
di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose. In pratica, fu
l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del
Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di
trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In
questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un
anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso
tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali
valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo
panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti
il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo
stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese
coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo
d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire
per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io,
che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad
avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi
ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a
queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia
affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per
alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il
benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per
questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano.
Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui
di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo
proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per
trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue
opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla
cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e
l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante
anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e
delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso
costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero
eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche
importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione
monetaria. Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o
sia di economia civile e considerate una
delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per
alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà
fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne
sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene
ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i
suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e
di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo
studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento
Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche
questo un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem
adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi
dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere
filosofiche; Lettere Accademiche;
Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti; Altre opere da ricordare sono La logica per i
giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che
testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero politico, Giuffrè, Peter Jones,
Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; Genovesi,
Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press,.Antonio
Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. 10 maggio. Lucio Villari, Il
pensiero economico di G., Le Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti
linguistici degli scritti di G., Pensiero politico, Davide Alessandra, Antonio
Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com,. M.
Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia
dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di
Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Luigino Bruni, Voce
"Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico Italiano, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Bruni e Zamagni, Economia civile, Il
Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, G. e il suo mercantilismo rinnovato, in A. M.
Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli,
Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi,
Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della
filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio Genovesi,
L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G.
L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della
cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel
pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii
e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno
alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee
politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G. nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero
politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Rohbeck,
Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18.
Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze
motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il
progetto e il contributo analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli
nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Pietro Napoli
Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Antonio Genovesi, sConferenza
Episcopale Italiana. Opere di Antonio
Genovesi / Antonio Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di Antonio Genovesi,. Luigino
Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Saverio Ricci, G. in Il contributo italiano
alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. G. 1 2 non è
uno di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al pensiero
filosofico. A paragone del grande Vico, che si gloria di aver avuto
maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue opere con profondo rispetto,
G. apparisce come uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO
ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle
generazioni successive; i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie
di lui, concordanti o no con dottrine congeneri di altri pensatori e da
annoverare tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i
problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero
senso. Se pertanto nella storia del pensiero il Vico rappresenta quello
che egli rappresenta a’ nostri occhi di storici che han penetrato il
significato di quei problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una
de¬ viazione. Quella vena speculativa altissima nello
scolaro Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern, ì n occasione del
monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione del
Genovesi. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo d’immortai
fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm., Napoli, Il nostro Vico
nella Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste
ma¬ terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica,
Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero
ha cambiato strada, abbandonando gli ardui argomenti con cui s’era
cimentato. Ma il paragone col Vico storicamente non è
giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani storici,
da uno dei quali non si passa all’altro direttamente. Se il G. non ebbe
occhi per vedere i problemi del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua,
ebbe occhi per vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa, con
diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato
sempre al cielo, e lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno
se non come uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge
alla sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si
assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai
dolori della vita quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del
dramma che egli ama studiare e nel cui studio concentra infatti le
energie più potenti della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra
i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di questo
mondo. Quantunque il suo animo, propria¬ mente, sia a questo mondo legato
così strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con
sguardo penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente a
intendere il significato, e in questo mondo appunto agogni con titanico
sforzo a conquistarsi razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma
questo mondo egli vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è
sempre lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti
sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con immutabile
legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita
intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città e nelle
campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli, per tutta Italia, e di là
dalle Alpi. L’istruzione del popolo e l’educazione dei giovani;
l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi della
feudalità e della manomorta; il problema della moltitudine degli
ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi la questione
giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria- lista in difesa dei diritti
dello Stato; e via via tutte le questioni che erano all’ordine del giorno
nella Napoli del tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a
cui la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi allora
alla testa della cultura europea erano insieme Inghilterra e Francia, e i
libri che si pubblicavano in quelle lingue i più letti, celebrati e
discussi, ecco quelle lingue, insieme con le classiche, a cui Vico si era
limitato, studiate e possedute con animo pronto a seguire il movimento
della letteratura straniera in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali.
Allargato quindi enormemente l’orizzonte. Non più quel carattere
antiquato e accademico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si
muove ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi problemi,
arcaico per la forma (lingua ed erudizione) E la modernità segna la fine
di quel chiuso provincialismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito
sempre cittadino di Napoli. G. guarda più in là del Garigliano e
del Tronto. Egli si sente italiano; e come italiano, partecipe dell’unica
società europea della cultura. Italiano e moderno, si lascia alle spalle
il vecchio mondo tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante
e dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre della
scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza
d’interessare gli uomini, tutti, al sapere e al lavoro dell’
intelligenza. Siamo, come dicevo, in un piano diverso da
quello della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-
nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per risorgere in forma
più adeguata alle sue esigenze più profonde. Ciò che è tante volte
avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero
sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e
corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per
ridiscendere tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione ha
cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,
e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto dell’essere che
tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di ogni esistenza e di ogni luce.
Il progresso è pur sempre in certo modo regresso; e se si volesse andare
avanti, avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel
vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare la
terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come l’Anteo della
favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che ha, in altri
termini, un certo grado di coscienza filosofica. Vogliamo sentire dallo
stesso G. qual fosse il suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che
pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari per
far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per giustificare
la nuova via per cui egli si metteva, dopo aver anche lui pubblicato i
suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi
stessi libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici
del G. e il carattere dominante del suo pen¬ siero filosofico, del quale
ci proveremo qui appresso a dare un sommario cenno ; ma ancora non è
avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello scrittore,
dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬ teria
più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e ritrovò
propriamente se stesso. In questo Discorso G. propugna una sorta
di filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come
dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a
partito tutti i più celebrati filosofi della tradizione e le loro
dottrine. Esalta bensì la ragione come quella che più di tutte le nostre
doti ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si
solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte universale »
governatrice di tutte le arti e strumenti onde l’uman genere arricchisce
la vita e viene ogni dì perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad
accrescerne il benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni
e schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto
dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose, sottili,
astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione dei
semplici e a procacciare una riputazione fallace. « Poiché
gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno
intendono, i dialettici ed i metafisici. I don Chisciotti della
repubblica delle lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti
delle chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,
loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬ parono il
premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che riempì ne’
vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli assai più
vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica filosofia era
stata una « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati
i legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di
etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di tutti i buoni
cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi della società, così
dovevano aver parte alle cure e alle fatiche » pel bene pubblico e
domestico. Vennero dopo i tempi di corruzione, in cui prevalse la massima
che l’ozio fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia
infi¬ nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù»;
«i quali si credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose
inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili
cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ».
Vennero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei
poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i metafisici, «Penelopi della
filosofia, implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle
loro mani » ; verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili
lacciuoli alla ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie
gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto
». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto che richiamò la filosofia
dal cielo in terra e a cui infatti gli uomini devono di sapere che tutto
quello che si vuole intendere essi non lo possono cercare se non nel
pensiero, cioè in se medesimi, — dal G. non è ricordato qui se non
come colui che insegnò la più ricca e la più bella possessione dell’uomo
essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova menzionare altri che
Aristippo e Diogene il Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a
scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e
l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone e le entelechie
di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole di ragione » degli altri più
celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si
può leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-
l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze di carta, che
stimano del più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con
i Giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del
nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa, fuor
che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ». In questa caricatura
della storia della filosofia super¬ fluo avvertire lo strazio che G. fa delle più importanti dottrine dei maggiori
pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico
documento degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e
insieme dello spirito che la moveva:«La materia prima, che
Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi, fu di sì vivi e
vaghi colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni altri, che
divenne una Divinità, la quale poi il più empio e il più freddo de’
filosofi del passato secolo, si studiò di adornare con un sistema
geometrico ». Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con grande
interesse. Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il nostro
filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e tutti
gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman genere si sostiene,
abbian potuto tollerare in pace una razza di uomini, i quali, lungi di
dar loro il menomo ri¬ schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’
frutti della loro industria godevano, pare che si ridessero delle
loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di altra specie, fatti
da Dio in forma umana per servire a’ loro piaceri ». Lode a
Bacone, che proclamò la necessità di ristaura- zione dalle fondamenta
tutto il sapere, e dimostrò che « si poteva essere filosofo con assai
gloria, senza essere peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della
natura, l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la
geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande onore. L’ Europa
cambiò faccia. Ogni nazione ha il suo Ercole, uccisore dei mostri che la
infestano. L'Italia ha GALILEI. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa
a questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore questa
potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin- 1 Cfr. la sua
lettera a Sterlich; dove racconta come potè studiare 1 ’Etica di Spinoza:
Leti, fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei
Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un concetto che rammenta
l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è veramente un certo Genio, che
discorre per le nazioni, e che in dati intervalli le anima, e le
raccende, quello che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere
e le belle arti ». Ma questo Genio, secondo G., « vuol essere
sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬ tato. Può dirsi che la
curiosità, la più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo
guscio, la gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi
e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il
rinnovamento del pensiero richie¬ deva a Napoli le più propizie
condizioni create dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo
Regno. Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,
delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta. Ma « un certo
lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia
attaccato agli scrittori. La ragione non è pervenuta ancora alla sua
maturità: è ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore
e nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile. Bisogna
che diventi pratica e realtà; come può solamente quando « tutta si è così
diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come sovrana
regola, quasi senza accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la
cognizione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia,
ed in Dio non ci sono Enti di ragione»: cioè le astrattezze che si
annidano nel cervello dei filosofi. I dotti napoletani hanno bensì
coltivato lo studio delle leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei
dialettici: questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla
vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il G.,
c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore; e c’è cattivo gusto.
Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi
quando sono ammirati come incomprensibili, che quando stimati come
utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da
sedici anni) aveva dimostrato al G. che Napoli era un semenzaio di nobili
e glandi ingegni ; ma i migliori ingoiavano avidamente la nuova filosofia
prima di digerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla «
ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare il debito onore
alle scienze sode, feconde, che avevano già trasformato la cultura
inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo dunque « una volta la
seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio
della parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men
contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin dono della
ragione perché intendiamo, che il vero sapere non è di sì gelosa natura
che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al popolo. Il quale ha
bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua naturale ritrosia
alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace alla
tradizione. Deve essere indotto a profittare delle osservazioni e delle invenzioni
dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve
quindi operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli
uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa sì preziosa
derrata dell'uomo, da che egli comincia a sbucciare dal suo guscio. Curare
l'educazione. È uno degli articoli principali dell’apostolato del G. 1 ;
poiché i contemporanei, a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori »
e le piante Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di
Comm., parte I, cc. VI e Vili; e Logica, Senza educazione «oltre¬
ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove
avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬
uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura
ne’ loro giardini, che non i figli. E raccomandava la massima
diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,
mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto
vivo che ce ne ha lasciato: « I maestri di scuola pongono poca cura
a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti
d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto,
che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che
gentilezza: la loro lingua è più fre¬ quentemente un gergo corrotto de’
vari dialetti del nostro Regno, che la bella e nobile della pulitissima
Italia: finalmente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro e
il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar assai più la
memoria de’ loro allievi che la ragione e il cuore. Un solecismo o
barbarismo in lingua latina è da loro più severamente punito, che molti
a’ gentiluomini sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi
di ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano e fanno
dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono senza misericordia,
e gli trattano più da servi, che da figli: tutte cose più atte a fare o
stupidi o villani o zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel
sapere, nelle virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben
anche spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito
dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri
ragionevoli : che i fanciulli si curan colle mazze». 3. — Un
filosofo che parla questo linguaggio umano, familiare, e che pensa come
s’è veduto, dei filosofi e dei loro sistemi, evidentemente non è un
filosofo di professione. Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire
più e meglio dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente
an¬ dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle
Si che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e
venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬ stidio verso le
questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro cervelli, certo
potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se
ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità, appena se ne
presenti l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognissanti,
fu avviato quattordicenne agli studi di filosofia da un suo stretto
congiunto, che gli insegnò per due anni filosofia scolastica e per un
terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa di moda allora nel
Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato
ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini minori,
promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel
seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto
con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e un’eredità
allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a Napoli, per
appagare in quella Università e nella consuetudine degli illustri
letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli
frequentò molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Vico; di
cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva già da un anno letta la
Scienza Nuova : « Il perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la
sua servitù, ebbe l’onore della sua amicizia » Insoddisfatto della
filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua
scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore monsignor Galiani,
che era l’uomo che poteva intenderlo, gli affidò l’incarico d’insegnare
nell’ Università Metafìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato
Spinoza 1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in
Ardi. stor. nap. 2 Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e dettava
agli alunni, come volevano i rego¬ lamenti del tempo, le sue lezioni in
latino. Ne nacquero gli Elementi di Metafisica in lingua latina,
pel metodo geometrico con cui la dottrina e esposta (metodo, si
sussurra, caro ai protestanti), per le novità che conteneva, per le
concessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo moderato
che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬ secuzioni dei censori
ecclesiastici, aprendo una serie di contestazioni teologiche, che
alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in Italia,
e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei frati.
Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬ sandolo
dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria di Etica :
insegnamento più conforme all’ ingegno del Genovesi, e da lui infatti
tenuto per un decennio con grande efficacia per l’eloquenza delle sue
lezioni, la mo¬ dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle
que¬ stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva in
cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino. E queste opere
si ristampavano e si diffondevano in Italia e fuori d’Italia. Nondimeno
l’autore nel '65 poteva scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta
pei teo¬ logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come
neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Metafìsica s’insegna in
molti collegi di Francia, e in quasi tutte le scuole di Germania» '.
Avevano fortuna; poiché questi libri rispondevano al bisogno delle
scuole, e nel loro andamento eclettico e largamente informativo ben
s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma
neppur ciecamente chiusi nella tradizione, e disposti quindi a conciliare
nova et vetera 1 Leti, jam., II, 67. e farsi una filosofia
senza compromettersi; ma, come si vede, non finivano di contentare
l’autore stesso. Anche i due libri De iure et officiis eran nati dalla
scuola e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due
brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma quando al G. sarà possibile
avere una scuola a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a
pub¬ blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non
scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui, nell’
Università, la cattedra di « Commercio e Economia », fondata dal suo
vecchio amico, facoltoso e autorevole, il fiorentino Bartolomeo Intieri,
studioso di macchine agricole e di questioni economiche: ingegno pratico
alla toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il G. si
sentì davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel
pubblico per il nuovo insegnamento ; ma potente altresì l’estro del nuovo
insegnante e l’im¬ peto e il calore della sua eloquenza. Quando tenne la
sua prima lezione, fu un avvenimento nella vita del G. e nella storia non
soltanto della cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché questa
del G. fu la prima cattedra istituita in Europa di Economia politica:
dovuta, s’intende, non al semplice intuito d’un privato ma al movimento
degli studi che la situazione economica del Regno di Napoli aveva
prodotto. In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a
un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso preliminare, 0 sia
l'apertura alla nuova Cattedra del Commercio con uno straordinario concorso,
tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza
niente aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di
quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto con applauso, e
subito diffuso per tutta la città. È stata Leu. falli., I,
108. bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho
potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche
l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande fu la
meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché, essendomene accorto,
nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della
lingua italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole
d’Italia.... La scuola è stata sempre piena in guisa che molti non ci
hanno trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba, e
di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto è nato da
queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬ vano libri di
economia, di commercio, di arti, di agricoltura ; e questo è buon principio
». Da questo corso, che il G. proseguì finché le forze gli
bastarono (morì, ma un anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la
cat¬ tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia
di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della
nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di
amore del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬
zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬ mercio della
Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in universale e
lunghe e impor¬ tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del
Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso
scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue opere latine.
Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche, che arieggiano quelle di
Cartesio; ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere
filosofiche ; come 1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 20
numero della Frusta Letteraria: dove il Baretti giudica il libro con
questi termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia
e migliaia di libri scritti nella nostra lingua, io non ne conosco
assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, del '64 le Lettere
accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di filosofia. E
volle scriverlo per i giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico)
« che son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare
italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬ tivo che mi
muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per
vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di scienze e di arti
nella sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di Luigi
XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in francese. Perciò aveva
seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in
Germania. Dove non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi,
si accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma questo
resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da antiquari d’onde non
tralucono che pochi tenebrosi raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio
inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di vera
scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed
aggiustatissimo filosofo G.». A Baretti non andava lo stile di G.,
seguace della scuola toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però
disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a
studio intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero.
Com' è possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue
tanto stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è
una aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando
si tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G. ha potuto
avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e
tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli abbindolati stili del
Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche
accademica diceria, qualche cicalata, qualche insulsa tiritera al modo
fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi le tue sublimi Meditazioni,
lascia scorrere velocemente la penna....; e lascia nelle Frammette e
negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬ gevolissimi libercoli
i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte quell’altre
cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram- maticuzzi
vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere ».
1 Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico che una
nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti,
nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i
libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere da
una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una
picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del
lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre
idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in
un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze
saranno in un gergo stra¬ niero alla maggior parte del popolo, avremo
sempre, dice il G. -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,
molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né ha possibile
di avere delle buone teste ». Con questo ideale di una scienza che
penetri il popolo per svegliarne e metterne in moto tutte le forze
morali ed economiche, il G. voleva scuole e quando furono da Napoli
espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica istruzione ed egli a tal fine
invitato a scrivere un Piano di riforme 3, non dimenticò nelle sue
proposte le scuole del popolo —; voleva metodi razionali e semplici
perché fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai
giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vecchia letteratura e le
discussioni vane della filosofia in¬ feconda, si rivolgessero alle
ricerche sperimentali e alle arti più necessarie alla vita; e voleva,
come sè visto, libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma
aveva pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo
dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle coscienze i
convincimenti morali e la fede religiosa che ne Per questo Piano, vedi
gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. G., Firenze, è
sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel rinnovamento che
egli auspicava: potesse infondere negli uomini e nelle nazioni la fede
nella ragione, di cui egli era l’apostolo. Tutto il suo sistema
riformatore era in¬ somma ispirato a una filosofia. Della
qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di Logica e di
Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte ristampati (è
almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare il Romagnosi),
sono entrati a far parte della letteratura filosofica nazionale, si
scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che
li precedettero e prepararono. G. è un empirista, ma non e un
sensista, e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina L’uomo per essa è immor¬ tale.
Per essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a
viver felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza.
Essa è energia ( energetico , dice G.) perché è anche passione, cuore i.
Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni
metafisica, insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche
speculative alle questioni essenziali per una concezione sana e morale
della vita. Insi¬ stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano.
Vedi Gentile, Stona della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves,
’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza di G..
Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬ chiarazioni
che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità delle più
astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special
modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri,
Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si
combatte con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e
soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale, ma comune e
universale, stringe in un vincolo di amore gli uomini.
Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione
leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche per G. i corpi,
scomposti negli elementi semplici di cui sono formati, si riducono a
sostanze spirituali, attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non
sono altro che fenomeni, nostre sensazioni. Lo spirito è
attività : è quella stessa forza che è in tutte le cose che sono in
natura, e che tende ad espandersi. In noi questa forza si svela nella
ragione, che è prima di tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza
è attiva e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,
a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione,
che nel suo progressivo prevalere è cultura sempre più intensa e sempre
più diffusa; è benessere in cui lo spirito viene ritrovando e
procuran¬ dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è
amore degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo in
comune il destino della sua natura, la libera vita della ragione.
Questa la fede del G.. Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli
attese con ferventissimo zelo dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la
sua malferma salute, infaticabilmente alla sua opera di apostolato.
Questo il segreto della potente azione da lui esercitata sul suo
tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla lotta contro il
vecchio mondo: contro la feudalità in favore dei lavoratori della terra e della
nascente borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro
il pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la
religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0
ostacolasse il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della
ragione. G. non fu un rivoluzionario; ma fu un educatore di
rivoluzionari, che quando scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o
crederanno di obbe¬ dire alla voce del vecchio maestro accogliendone
una scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso
incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di una grande fede
idealistica ancorché astrattamente gia¬ cobina, santificata dal martirio
0, uomini di grande accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco,
con più profonda intelligenza dell’ insegnamento di G., ne
trarranno argomento a una più realistica concezione politica della
libertà necessaria al popolo napoletano: poiché vedranno come il maestro
aveva veduto, che questa libertà non poteva essere vitale, se non era
forte della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato
infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un
corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia
unificata dal Galanti, il più fido dei discepoli del Genovesi, passò al
Cuoco, e dal Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era
stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬ memorazione io non
potrei meglio concludere che rileg¬ gendo una sua pagina del 1757, a
proposito della sicurezza necessaria al commercio, e impossibile senza
una fiotta militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno
di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia:
«Vorrei io», scriveva nel detto anno il G., «in questo luogo dire un
pensiero, che ho sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo
tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1 Sulla
scuola del G. e la sua importanza storica, A. Simioni, Le origini del
Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Messina, Principato,
presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutriscono per l’Italia, come
madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque parte sia per prendersi da chi
non guarda più in là del proprio utile. « A voler considerare
l’Italia nostra, e dalla parte del suo sito, e da quella degl’ ingegni, e
per quello che ha ella altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e
come dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di
Europa sia fatta a dominare; perocché il suo clima non può esser più
bello, né più acconcio il suo sito rispetto alle terre e al mare che la
circondano, né più perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di
arti e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della vera
gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella sia
non solo rimasta tanto addietro al- l’altre nazioni in tutto ciò, che par
suo proprio, ma divenuta in certo modo serva di tutte quelle che il
vogliono? Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le
conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa morbidezza, che le
ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma la
vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in
tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo
primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è questa della ruma delle
nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti
principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la quale hanno
spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero, sperimentata e al comune
d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio considerare i propri e i
comuni interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ridursi.
Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire il vigore degl’
Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle
formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri. che la facessero
stimare e rispettare non che dalle potenze d’oltremare, che pure spesso
l'infestano, ma dalle più riguardevoli che sono in Europa. Ella non
vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la natura le ha
circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo. Potrebbe
veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le industrie, dilatarsi
il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e la pristina bellezza
prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti,
forse che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che i
principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi, che per
massime vecchie che son passate ai posteri più per costume che per sode
ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle cagioni di reciproci
timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo
vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.
Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose sono al presente,
sperare altronde la sua salute, che dalla concordia e dall’unione de'
suoi principi. Il comune e vero interesse suol riunire anche i nemici:
non avrà egli forza da riunire i gelosi ? Rettor del Cielo,
io chieggo Che la pietà che ti condusse in terra. Ti volga al
tuo diletto almo paese » ». Al Genovesi dunque, il più filosofo dei
grandi riformatori italiani del Settecento, spetta il merito di essere
stato il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e
vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà. Egli indicò
agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della
Gran Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle
sue Letture del Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli
l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua voce
si riper¬ cosse di generazione in generazione, finché l’Italia
venne. E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la
letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio
ancorché dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella cultura, a
servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.
Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente sovrano, religione
tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni cupidigia e pretesa
mondana; libera la ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la
scuola che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,
per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬ pevole di una
sua missione civile. Questa la scuola del G.. Perciò gl’ Italiani devono
ricordare il suo nome; perciò devono annoverare G., lui così
modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra i padri
della patria. E nella scuola italiana particolar¬ mente deve esser
ricordato come esempio ed ammonimento contro la pseudoscienza astratta
dalla vita sempre rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in
vita Antonio Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e
dal suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro di
essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi. Perciò Genovesi è
vivo. G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo
paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei
quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo
benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e
viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola
proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e
socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella
società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla
carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada
percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione
intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta
sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato
a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio,
praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici
anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica,
per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di
un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico
cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste
incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P.
Zambelli, La formazione; la seconda al 1755: Vita di A. G., in Illuministi
italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e
ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e
desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso
tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del
luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i
poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un
altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre sorvegliava
attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La rigidezza paterna
ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si innamorò,
ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire che questo
amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose il
trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti,
mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur profondamente
addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e possibilità di
contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gli
offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che migliorò la sua
preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e il diritto civile
e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla
necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio
dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo
per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della
città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, l'anno seguente, fornito del
modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello
Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno,
dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per
brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di
intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca
conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita), insofferente
del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli
studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la
Scienza nuova -, conobbe DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE,
che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo
(Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia).
Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica
divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici
di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal
francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una
scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di
teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita), frutto
delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest'esperienza - che
durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta
l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo d'insegnamento dinamico, in
cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva
l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo
e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di M.
Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore C. Galiani,
autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore
dell'Accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco
avviata. Attraverso il Galiani, il G. ottenne il primo incarico
universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e cominciò
a insegnare nel novembre 1745. Era nel frattempo approdato a una visione
filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla
serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale
disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava
con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli
Elementa metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso
completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la
sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e
duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e
la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix
pubblicata salvarono G. dalla denuncia
al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del
Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di M. Di Sarno,
bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di Salas), primo
segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione
di Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla
natura delle idee, stampate (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla
cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti.
Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le
note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai quali
premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et
constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità
al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora
all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la
visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la
platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo
manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli), che gli
procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi
totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e
più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro
determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre
il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G.
Spinelli. Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a
Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel
contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva
dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rese
vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per
concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò
violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I.
Molinari, la Curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di
Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa
volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù
dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale
amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano
dottrinale, si definiva mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa
occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia
non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla
pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando la decisione del
G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso sanguinosi"
(Vita). Il G. continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva
il completamento della Metafisica con un quarto volume, dedicato al
giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel
giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente
fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile,
i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La
persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue
frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di
Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far
parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI.
Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico
di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a
poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e
soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI,
ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di
discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto
con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani
e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il
cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit
des loisdi Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con
chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza
operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che
appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di
cambiamento e di modernizzazione. Vero e proprio manifesto del programma
riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne
costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso
sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la
villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio
dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione
dell'erba orobanche di P.A. Micheli. G. operava così la sua scelta di campo,
presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più
attivamente impegnato nella sua realizzazione. Requisito indispensabile
per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica,
economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità
nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la
"studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da
speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di
idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio
dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva. A questa
istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne
rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università
di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia
politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500
ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa
venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e
che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La
nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il
nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul
commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia
del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary (Napoli). Questo
grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le
commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali
avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di
J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's
treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche
annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico
sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede
pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori
Lezioni di commercio o sia di economia civile. Contemporaneamente G.
procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi del commercio, che
anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de
Fortbonnais. Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico,
non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo
sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in
parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una
duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica;
tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel
quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia
istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il
cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di
letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche
condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi.
Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. furono la Spagna e
l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa,
per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il
modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le
strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si
documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa
nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale,
approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni
Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a
Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una
serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e
statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento
demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà
attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare
gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di
società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società
provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del
tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo
qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso
libero dai vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione
del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave
carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore
sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de'
grani (Napoli; traduzione della Police des grains di C. Herbert, Berlin), da
lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme
si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura
strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre
nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e
di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la
formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione
necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure
l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile
quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della
sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il
suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più
accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione
di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero
infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più
scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai
trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio
per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia
giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per
l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta
alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla
pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della
sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte un corso completo di
"istituzioni filosofiche per i giovanetti", in italiano, articolato
nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e
dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente, il G.
stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois. In questo
contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di
economia civile, cui il G. lavorò direttamente: le due napoletane, e quella
intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da
contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle
Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o
gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un
riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da
questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di
un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso
la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua
riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi
complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e
politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le
spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si
presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio
work in progress di letteratura militante. Il G. colloca le problematiche
dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue
dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una
linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria
stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il
confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce
l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione
al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e
anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento
caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della
lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei
mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e
costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica.
La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769. Negli anni seguenti la
sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate
nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti (Napoli). Larga ma
diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa.
Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono
esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne
apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché
considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata.
In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe
seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio (Leipzig),
sia le Lezioni, a cura rispettivamente di A. Witzmann e di C.A. Wichmann. Molto
più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia
economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione
in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di
lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base
dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento. Edizioni:
Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi,
Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese,
Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a
cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi, Torino 1977;
Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977 (rist. anast.
dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli; Se
sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura
di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli
"Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e
altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii,
Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli,
Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch. di
Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari
gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte
Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi, 164;
Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie
economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie manoscritte della Theologia
sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III.16; Ibid., Biblioteca
provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana,
Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.;
Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate
a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid.,
Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi
Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena,
Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid.,
Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla;
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, A. G.,
Napoli; G.M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento, A. G. e G.M.
Galanti, Firenze 1926; Studi in onore di A. G., Napoli; Villari, Il pensiero
economico di A. G., Firenze 1959; A. Potolicchio, Postille autografe inedite
alla "Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e
politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII
(1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano 1966; O.
Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi
di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma; M.
Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni,
Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli economisti napoletani
del Settecento e la politica di sviluppo, Napoli, passim; M.T. Marcialis, Note
sulla "Disputatio physico-historica" di A. G., in Annali delle
facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, XXXII
(1969), pp. 301-333; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; M. De
Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di A. G., Napoli, Garin, A. G. storico della scienza, in Id.,
Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa 1970, pp. 301-333; R. Villari, A. G. e
la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; E. De
Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle
leggi", Firenze 1971; P. Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella
filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari
1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. G., Napoli; Economisti
italiani del XVIII secolo, Roma Arata, A. G.:una proposta di morale
illuminista, Padova 1978 (rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi
vichiani, X [1980], pp. 225-232); P. Zambelli, A. G. and eighteenth-century
empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il
pensiero degli economisti italiani nel Settecento sull'agricoltura, la
proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, XV (1979), pp.
245-292; D. Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in
La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La
ripresa demografica del Settecento, … 1979, Bologna 1980, pp. 539-590; A.
Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. G., in
Le forme e la storia, I (1980), pp. 321-380; V. Ferrone, Scienza, natura,
religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E.
Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis,
G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nella "Ontosophia"
genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica
"civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni
di storia dell'economia politica, III (1985), pp. 277-296; M. Bazzoli, Il
pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze 1986, pp. Garin, A. G.
metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da
"metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a
new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of
political theory in early-modern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge, Battista,
Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie
della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il
lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni
problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in
Prospettive Settanta; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera
manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici, metafisici,
mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e
pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp. 83-107; Id.,
La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V. Ferrone, I profeti
dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden,
La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel
secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della
cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino; Marcialis, Legge di natura e
calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura
giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political
economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal,
Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e
cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi.
Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio
conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taggia). Filosofo italiano. Grice: “It seems every philosopher
has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!”
-- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin
colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi
contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is
interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching
Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti,
poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di
Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’
mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e
batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli
Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò
nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome
con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S.
Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.
Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento
nel quale è nominato è il testamento del padre. In una data incerta della fine
del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il
soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo,
partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. Fu promotore
di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis
metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di summaenciclopedica del lullismo,
stampata a Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine
di R. Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un
altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio
Remondi christiani et Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era
dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a
pubblicare testi di Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di
Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu
autore. Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica
tradizione poetica catalana fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile
l'influenza delle opere poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta
nell'edizione di Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del
1520 del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti
"sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un
sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les
guerres dela sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de
Iesus" e cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge
Maria". Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove
morì presumibilmente in una data compresa fra il primo e il secondo decennio
del sec. XVI. In vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim
anno") si dedicò alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è
stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in
terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, il F. costruisce un poema
dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma
la particolarità del testo del F., cui non manca una certa abilità nella
costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del
viaggio proprio Raimondo Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi
studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i
temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati
alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de'
minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui
seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della
cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione
eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione,
della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"),
sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del
giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e
proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio,
del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata
piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di
Agostino Giustiniani, già Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia
lamentava l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto durante i secoli
XVII e XVIII. Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne
descritto nella Storia letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo
alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste
non particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa
edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre
sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel
Cancionero. Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova
1687 (reprint, Bologna), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia letteraria
della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della letteratura
ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del
lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e
ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del
Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M.
Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504
ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century
Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione
lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L. Grillo, Seconda appendice
ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp.
183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi
nei primi anni del '500, in Interpres, V (1983-1984), p. 256; E. Grendi,
Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de
Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo
Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di B a r
tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490. Il
Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai
lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava smarrita. Il
sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria dà un'analisi
di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il manoscritto
oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio genovesc,
amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del G. non ha titolo. La
materia dice Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di leggi
pontificie e cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A.incomincia dal favellare
de'Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e
l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla
età dolce e superba , Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea
che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti
occidentali una gran Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il
suo desiderio di conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo
morte ; e Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse
ne'Cieli. Per man mi prese Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte
mie speranze sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni
piacere in me restava spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse
in una oscura valle. Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di
favelle che parlavano del Cielo e della Terra. e > Nel Il Canto vede Saturno,
poi Marte, poiGiove; e il Sole gli dice : Già presso al fin che tutto il mondo
atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle... Ed
eccouscir del Ciel, nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto
Qual dicea in prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e
in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel
Collegio , Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e
costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal
quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle
sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli
Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano , morto nel 1476, ed
afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar
le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di
greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire
a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice
Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlavia serena. Il
Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E
inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon
smeraldo affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della
bell'arte han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX
ragiona della vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie.
E le cicogne d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della
empietà degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia ,
qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate
formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo.
Alzato già del Ciel a tanto lume , acqua e del fuoco. Nel VII parla de
minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose
,dicendo terra , Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai d'entrar
nel mio volume : Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti mostri la mia
casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna ; e fa molte dimande
di fisica, elerisolvecolla dottrinape= ripatetica che allora correva. Nel canto
V parla degli elementi ; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena,
Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è
noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo
immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro
i Medici. Falcon leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La
genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui
siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,
Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della
immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier,
e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina) Il
lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un
pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il
poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia
spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende ,
si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena
di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio
tutto mondano ; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando
s'aggiorna O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là
disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome
tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo
escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno
preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan
ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I
Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde
l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti I V , V e
V I trattano di cose morali . Nobil naturà , in cui si trova giunto Le
vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi
sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . Ch e per
ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria...
Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un
gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna. Ed
ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II
trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli
Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione
del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole.
NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte
ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi
dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno, più eccellente, più
gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna
dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco
ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta
dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro
Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora.
Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro
ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema
ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più
decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace
rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di
quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ;
nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In
duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la parte
teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno danno
alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non hannopiù
sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo
i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura. Secondo differenzia
di peccati. A guardia de'superbistannoileoni,de'lasciviiporci; de'golosi gli
orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel disquadrein squadre.
Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel I si parla della felicità
de'Giusti. Nel IIsono ricor datituttiipiùcelebripersonaggi
dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto diSaloinone,che secondo l'opinionedel
b.Alessandro Sauli si teneva per dannato. NelIII si trattadegli Apostoli, dei
Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S .
Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che l'onori , Eccelso cavalier di Cristo
atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran
Liguria. Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone.
Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo
solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio
delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime , sono
dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in sembianza di
animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni male carca E
le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar con elle ... E
come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice eterno agli Eletti,
dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche pena si perdonano
all'Autoredella incomparabil Commedia. E Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S.
Giorgio. > cheap Cerbero lascio , Minos e Plutone , Da riveder qual fosse
quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di
Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre.
Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque
, Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci,ronitieconfessori,ediquesti
l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di
questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama
s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in
tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa
Chiesa. G. B. Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il
poema, volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi.
Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non
poteva questa essere più ampia dovendo costituire parte di un articolo della
sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del medesimo, poi chè pare
anoi, che altri passi, e forse più felici, dovreb b'essocontenere, se, comedicegli,
questo poemadopola CommediadiDante,eprima dell'Orlandofuriosodee tenersi per la
migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta.
Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E
vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi
contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor
filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io
restai fra me tutto sospeso con l’alma or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile.
Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo
Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia
filosofica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura dell’atto
conersazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo italiano. Grice: “Do not multiply the senses
of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult
to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into
‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a
way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel,
mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s
logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist
philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics
as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual
idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental
subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God,
good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject,
which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello
spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is
a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity
and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty
influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists
discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P.
Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London,
Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori
esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda
L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica
istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.
Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione
alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra
mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che
ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati
sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un
filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi
di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece
l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità
sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie.
Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo
"Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di
Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri,
tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al
positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja,
hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea,
con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed
un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso
il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli. Sposa
Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico
Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni Gentile junior, Giuseppe Gentile,
e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi
la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si veda) e fonda
“Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante
gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti
dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il
positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La
Critica” al rinnovamento della cultura
italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del
Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra
mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra
come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che
gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del
filosofo che parla “ex cathedra”, ma
quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto
del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di
ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma
politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di
larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi
burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi
«inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e
tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili». Fonda il “Giornale
critico della filosofia italiana”. Diviene
consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene
nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità”
e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia
dei Lincei. G. non mostra particolare interesse nel confronto del
fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere
in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile,
fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge
Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al
Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale.
Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato
a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello
Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento
giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli
intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione
degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo
manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con
un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per
le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana,
specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A Gentile
si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione
dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa
3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere
tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti,
che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal
modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia
Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del
Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni
dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro
nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa. Non
mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce
un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato.
Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene
di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo
impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del
cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le
sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del
cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore
alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi
sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri,
Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo
eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia,
impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de'
Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa,
come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro
Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea
che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee
e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe,
l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e
conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente
ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli
e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in
un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro
con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale
Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di
riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui
tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo
restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi
ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare
questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un
colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio
pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico
aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi
fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col
ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla
sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne
la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI,
auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta
di Mussolini. Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del
Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in
condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo
a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva
accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare
in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande
Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni
dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e
permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile
dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti
alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità,
che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente
collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta
armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle
accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale
come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio
di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al
Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa
nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si
avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and
Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un
filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi della
rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse
all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito
direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide
lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite,
venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola
esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella
basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo
l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto,
pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente l'influsso
dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo”
(contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di
Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per
cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico
(energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto
l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La
auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in
Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente,
come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La
critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la
dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con
la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della
dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre
non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base
al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto
accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti G. ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta
arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un
“atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa
dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando
La Dottrina della scienza di Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima,
forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il
principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden –
dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la
soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione -- intention-based semantics -- (tesi) e
l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism
scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto
puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica
del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante –
impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la
seconda una logica formale – l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al
tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato
l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione,
dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non
analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito,
acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso
razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo
la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà
esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un
idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo),
sebbene Gentile tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto
preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente
con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già
affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non
trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una
esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di
Gentile è fortemente attivista e
attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente
inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero»
(lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una
‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile
troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso
tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa
come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e
proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del
regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che
accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in
quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte
approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione
dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o
dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un
"atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini:
anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei
principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento
dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del
processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma
anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste
molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione,
ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò
dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella
di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a
grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti
tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica,
mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina
revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso
l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire
dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non
vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura
della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in
ambito lavorativo. Attraverso
l'istituzione della cooperative e la corporazione,
la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la
collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di
Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme
realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia,
progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i
problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe
(classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della
dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea
una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur
riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad
ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare
una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo
fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra
"rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la
dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo
pagano di Evola. Per l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il
Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a
causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia
derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica
della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura
economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà,
che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come
momento del suo sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con
l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il
fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa
dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori
l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia
marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana
"rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio:
è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile
cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo
concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero
ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce
alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far
derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera
il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga
l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto
del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a
crearlo.Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la
pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico
della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione
deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che
realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui
non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o
tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma
affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori.
Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e
diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è
richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il
metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo
processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee)
deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune
partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore
(tutore) verso l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’
– cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale.
«Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano
la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica
istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri.
Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica
sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato
(viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo
scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il
predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu
ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e
definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in
sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e
censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione
della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di
tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a
livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’
per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli,
o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse
di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire
gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica
e messa in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce
che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla
scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le
materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al
dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di
Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne
anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di
instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu
innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni.
L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra
il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo
il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita
di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi
– l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo
fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche
Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo
("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i
licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio
dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia,
adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al
popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione
della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante
addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci.
Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile
«format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo
il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica
di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a
parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene
Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non
c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione
dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della
sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore
filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina.
Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create
l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile"
a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi
una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e
certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo
europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le
personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte
della Repubblica Italiana. L'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei
acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il
coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere di
gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e
Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del
gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce
insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine
dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare
come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La
filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze,
Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria
del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra)
Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di
religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di
storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla
filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con
introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano
Di carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini
detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”;
“Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in
Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino
Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti
del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e
Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento
della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza
filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico
del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni
Gentile Scritti per il Corriere. Note Vi
è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe
posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico
letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono
questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero
numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere
della Sera. 10 giugno.). Cit. di Geno
Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia
d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le
Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile.
Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia
contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là
di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del
ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni
Paolo Simoncelli41. Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana
Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e
il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S.
saggi cult. cont. Giordano Bruno. LE
VICENDE DELLA STATUA «De Vecchi, Cesare
Maria», Treccani Paolo Simoncelli207.
La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le
bufale, l'Opinione, 30 marzo Paolo
Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo
vano Paolo Simoncelli43. Paolo Simoncelli40. Paolo Simoncelli34. Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo;
"Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in “Il
Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo23. Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo24. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile,
Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26. Vettori, Giovanni G., Editrice Italiana,
Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la
testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania,
in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per
salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la
grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia",
Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo
Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di
denunciarlo a Mussolini" Elio Chianesi,
La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di
vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte
le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non
lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a
nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù (). Paolo Paoletti, "Il Delitto
Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da
Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali"...Sicuramente
(Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se era il professore e subito dopo
gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini
posteriori..." Resistenza: "Angela",
la ragazza col fiore rosso Antonio
Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della
Sera, «Per fare in modo che i gappisti
incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li
accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre
usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un
terribile imbarazzo.» (Teresa Mattei)
Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica
Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio
Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva morire, sul Corriere della
Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte
impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti.
Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per
dissociarsi." Maria Cristina
Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile,
La Repubblica, 24 aprile Renzo
Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a
salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono
l'archeologo Romano302. Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così
Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera
stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli
parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma
e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva,
venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente,
come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio
in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era
levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva
seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e
rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale
giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva
aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte
del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue
convinzioni e del suo costante atteggiamento».
Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su
liberoquotidiano. 15 novembre 16
novembre ). «Attualismo», Enciclopedia
Treccani Diego Fusaro, Giovanni Gentile
Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice
hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è
compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte
la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un
dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un
agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un
idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di
religione, Firenze, Sansoni). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La
dottrina del fascismo. Nicola Abbagnano,
Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano,
Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino
Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana. Augusto Del
Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il
fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto degli
intellettuali fascisti Giovanni Gentile,
"Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università di
Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni
Gentile La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al
governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è
fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa
limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola
d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e
risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole
chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero
degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche,
quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma
soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo
nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son
valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di
commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella
esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della
Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali
e professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron, Il
fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe
Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di
pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261. Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il
neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.
Il mistero di Ettore Majorana Eleonora Guglielman, Dalla scuola
per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma
Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per
una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma,
Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune
varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza
"taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista G. Gentile, La donna nella coscienza moderna,
in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le
donne nel regime fascista, G.
Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale
Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma
della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra
parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile,
Bologna, il Mulino, Martin Beckstein,
Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation
einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica
I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani Fondazione Gentile | Dipartimento di
Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla
faziosità del '900 Emanuele Severino:
Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano È Gentile il profeta del la civiltà
tecnica. «I nemici di Giovanni Gentile»,
puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai Emanuele Severino, dalla quarta di copertina
de L'attualismo, Milano, Giunti, Nicola
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli,
"La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il
Giornale. Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani, VIII di Giovanni Gentile, la vita e il
pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici,
Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio
Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano
Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto
del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia
contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione
del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro
Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A.
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Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile,
Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il
Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile,
Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. L’essere e
il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni
Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli, Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio
Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano,
Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio
politico, Firenze, Le Lettere, Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia,
Torino, POMBA, Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in Giovanni Gentile,
Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’immagine del fascismo in
Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
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morte di Giovanni Gentile. A proposito di un recente volume, in Nuova Rivista
Storica, Carmelo Vigna, Studi gentiliani, Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo,
Giovanni Gentile e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri
studi Charles Alunni, Giovanni Gentile
ou l'interminable traduction d'une politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel
Surya, Les Extrême-droites en France et en Europe Charles Alunni, Ansichten auf
Italien oder der umstrittene Historismus, in Streuung und Bindung über Orte und
Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, 1987 Charles Alunni, Heidegger, la piste
italienne, Paris, in Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour
l'interview de Ernesto Grassi), Charles Alunni, Giovanni GentileMartin Heidegger.
Note sur un point
de (non) ‘traduction’, Paris, Cahier nº 6 du Collège International de Philosophie,
Éd. Osiris Charles Alunni, Archéobibliographie. Eugenio Garin, Paris, Préfaces,
Charles Alunni, Giovanni Gentile, Ernesto Grassi & Bertrando Spaventa,
Paris, Dictionnaire des Auteurs Laffont-Bompiani, Robert Laffont Charles
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sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro",
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dell'attualismo. Il personalismo di Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Antonio
Giovanni Pesce, La filosofia della nuova Italia. Il progetto etico-politico del
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Gentile. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli, Michele Tringali, L'attualismo è sempre
attuale. Saggio su Gentile, Vettori, Gentile, Roma, Editrice Italiana, Marcello
Veneziani, Giovanni GentilePensare l'Italia, Le Lettere, Firenze, Attualismo (filosofia) Fascismo Idealismo
italiano Manifesto degli intellettuali fascisti Riforma Gentile Uccisione di
Gentile Spirito, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia
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Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gentile, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giovanni Gentile,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giovanni Gentile, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Gentile, su
accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H Questa soluzione
della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano
starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di
cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente
ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve
essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani.
Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del
filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel
pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius
spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse
malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per
campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita
tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios
passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio,
contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas
emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica
come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e
teoria. -Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità
cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso
idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali'
individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria. Vox populi. La concretezza dell'individuo. La
conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La particolarità
dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere,
carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto
della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo
nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La
socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte"
e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento
dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al
clovere che ai doveri - 0. Il bene e il male. La categoria etica e
l'esperienza. Dialettica dell'Io. - 3. li nulla. -Unicità della categoria
logica. La legge dell'uomo: Pett.sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La
categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. - 8.
Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen --Lo Stato. Concetto dello
Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il
liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia .
Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare
economico. - 3. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e
l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo
schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate matica
dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. - 12. Moralità ed
eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto
essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4.
Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e
rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo. Cultura.
Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia
nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello
Stato. - 2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto
di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico. Il riconoscimento degli altri Stati e il
Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione
umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria. La Storia come storia dello
Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione.
L'Unico. Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie
di lavoratori e rappresentanza politica.-LaPolitica. Definizione della
politica. Etica e politica. Im possioilità cli un'etica apolitica. Il privato
e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e democrazia.
L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e
pace.Ordine. Senti mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo.
La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della
scienza. Politica della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. La dottrina della
tolleranza. -La politica diritto e dovere. p. 93 l:).'DICE 19r
XIII. - La Società trascendentale, la morte e l' im mortalità. 11 motivo della
fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. - 5.
Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte.
L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami
dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa
mettev a in, mostra una lunga fdza di evidenti spropositi commessi da
filosofi con¬ temporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo
avere rilevato con 1 ’ Herbart, con l’Alexander, col Barth. col Taggart,
che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde- durre dal pensiero auro ciò
che non è puro pensier o (realtà naturale e realtà storica), ma volle
solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e
e la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della
natura e della storia, soggiungeva: «Intanto anche F. Paulsen in vólliger
Hcgellosigkeit afferma (nel suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori
la stessa natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero
come tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,
cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato
recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove si mostrò con
quanta competenza sia stato spesso giudi¬ cato in Italia 1 Hegel da
quelli che volevano passare per 1 Alte I ernunft unii netto
I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova
recentissima ne ha avuta però lo scrivente per aver curata una nuova
ristampa degli Lh - menti di filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo
la pri¬ mitiva edizione del 1877, dall’autore più tardi
parzialmente rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale.
Al¬ cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)
han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un Fiorentino
hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi degli ultimi anni della sua
vita era stato costretto ad ab¬ bandonare le dottrine di Hegel per
accostarsi al neokan¬ tismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il
libro per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non po¬
teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)). Molto
probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬ serzione, che io denuncio
soltanto per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla comune
Hegellosigkeit, è in ciò, che questo libro è stato ristampato per cura
mia, e da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬
sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬ nuale del
Fiorentino, nella sua forma originaria, come l ’unico , fra quanti ne
abbiamo in Italia, degna , ancoraci es ser m esso nelle mani dei giov ani
e tolto a base d’un p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di
avere sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta
ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito permesso dei colleglli
accusatori, che il libro del Fioren¬ tino nella prima edizione non è
punto hegeliano; e che la differenza tra la prima e la seconda edizione
non è divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬ tismo ed
empirismo spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve
opportuno to¬ gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere
su cose filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di Francesco
Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cul¬ tura filosofica
italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬ tere su verità di questo
genere : « Kant intende • per a priori soltanto ciò che non‘è derivato
dalla sperienza, ma che invece è condizione indispensabile, perchè la
sperienza 1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e Logica
sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia potuto
originarsi da una associazione di esperienze ante¬ riori accumulate,
trasmessa poi per eredità; nè poteva ai suoi tempi, e prima del Darwin,
porre il problema in questi nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una
funzione dell o spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi
: ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa cercare
di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬ rava che l’d priori
kantiano è una semplice fer¬ mata al concetto dell’ attività preformata
a compiere certe funzioni, senza di cui la sperienza non si
farebbe; e che « la filosofia moderna.... domanda: come si è preformata ?
E cerca di trovar la risposta in due fattori: l’asso¬ ci a z i o n
è e la eredità; la prima che accumula, la seconda che trasmette. Per loro
mezzo, l’a priori dell’individuo sarebbe ciò ch’è poste¬ riori per
la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.). E altrove : « Se il fine etico,
che è la vita comune, è stato il risultato di una lunga lotta per
l’esistenza, è pur sempre vero che cotesto primo acquisto viene
oggi trasmesso come eredità, che gl’in¬ dividui trovano, e non debbono
più riacquistare » tp. 288 n.). Proposizioni che si equivalgono nei due
campi della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fio¬
rentino. ci dice la fonte, dove avverte (p. 304) che «nella filosofia
dello Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è spiegato con
l’adattamento, o con la trasmissione eredita¬ ria ». E tutta la seconda
edizione è ispirata a questo prin¬ cipio della negazione di ogni assoluto
a priori: onde si costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica
della conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non ha
bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale negazione dell'a
priori e tale confusione del problema psi¬ cologico con lo gnoseologico,
non può a niun patto ac¬ cettarsi come integrazione del kantismo.
C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬ vani, e che
io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non s’era lasciato sfuggire il
vero punto di questa questione fondamentale dell'a priori, che è pòi il
problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e
della moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva
detto « Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve inten¬ dere come
qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma come una funzione
essenziale dello spirito » (nuova ediz., P 33 )- Aveva discusso,
opponendole l’una all altra, le dot¬ trine di Kant e di Spencer intorno
all’apriorità o aposterio¬ rità della coscienza, e aveva dimostrato che
non se ne può dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è
un rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬
rispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può de¬ durre dalla
risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la coscienza è originaria.
11 fondamento dell'esperienza non può essere attinto mediante
l’esperienza » (57). E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue
categorie. « Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè
l’idea di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,
sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il
con¬ cetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle
ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha più bisogno
d'essere dimostrato tale, mi pare anche evi-, dente che ricondurre il
manuale del Fiorentino a’ suoi principii fosse dovere imprescindibile d’
ogni nuovo edi¬ tore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non
con¬ cesso che empiristi si possa essere per proprio conto, certo
per nessuno è più sostenibile una svista di questo genere per cui,
appunto a proposito dell interpretazione di Kant, una questione
gnoseologica si scambia con una questione psicogenetica.
Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla, be ci fosse
stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬ riore alla kantiana, chi
sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano al kantiano. Ma gabellare
per hegeliano quello che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi
pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima
redazione del suo manuale il Fiorentino rende omaggio al fantasma della
materia opposta all’attività formale dello spirito; e nell’etica, invece
di correggere il timido forma¬ lismo kantiano col formalismo assoluto,
crede di compierlo con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre
meglio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezio¬ nato, che
Spencer! Si sente, per esser sinceri, negli Elementi del Fiorentino
un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867) dello Spaventa. Ma non
più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a
rannicchiare in quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto
il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino, io ritengo che
potrebbero andare a braccetto con lui tutti i kantiani più scrupolosi del
mondo.Genovesi comincia a pubblicare in Napoli i suoi Elemento,
metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fon¬ damentali: una intorno
alla potenza costruttiva dello spirito, per cui anticipò il principio di
soggettivismo kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto
come sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò il
principio della nuova metafisica dimostrata dalla Lo- >jica di Ucgel.
Ne’ 6tioi Elementi di metafisica il Geno¬ vesi invece si mostra seguace
di un incoerente sincre¬ tismo, in cui la monadologia leibniziana s’
accoppia con l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande
pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con 1’ uomo che nella
solitaria meditazione del diritto, anzi di tutto lo spirito come vive
nella storia, aveva attinto una forza speculativa che lo pose al di sopra
e fuori del tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬ siero
italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non furono nè i suoi
coetanei, nè i suoi immediati successori nella filosofia italiana in
genere e napoletana in ispecie. La vera interpetrazione cominciò in
Germania col Jacobi, 1 dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore
di pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da
Bertrando Spaventa. Tra Vico e Spaventa — i cui primi scritti cadono
attorno al 1850, — per tutto un secolo, c’ è un’ inter¬ ruzione nello
sviluppo dell’ idealismo iniziato dalle opere di \ ico ; nella quale il
pensiero napoletano si appropria ed elabora per conto suo la moderna
filosofia europea. Questo movimento, che riempie tutto il secolo che va
dalla metà del secolo XVIII alla metà del XIX, può essere designato
dai nomi dei due pensatori che aprono e chiu¬ dono tale periodo, Dal
Genovesi al Galluppi. E così appunto s’intitola la monografia, nella quale
ho cercatq d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di
cotesto periodo. 3 Può recar meraviglia, che la ricerca sia così
limitata dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi
del Genovesi e del Galluppi, e corrispondenti ai confini del reame di
Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni d Italia per tutto il tempo
del dominio borbonico, alle piofonde differenze civili e politiche e
letterarie, in una paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto
della penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea da me
tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e Vedi lo scritto
Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung (1811), in Werke,
Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr. specialmente Tocco, Descartes jugé
par Vico in Reme de métaphy- sigue et de morale del luglio 1896, pp.
568-78, e gli scritti da me citati nel Discorso premesso agli Scritti
filosofici di B. Si’avknta Na- poli, Vedi tfli Scritti Studi di
letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli,
Edizione della Critica). considerati come formanti una speciale serie
storica a sé. 3. Pel carattere generale della loro filosofia
questi pensatori costituiscono una continuata corrente di em¬
pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben presto il principio
critico dominante nell’ empirismo lockiano corrode ogni concetto
metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese pochissimo noto — benché
i suoi scritti consacrati all’ interpretazione di Kant, quelli specialmente
relativi alla filosofia pratica, possano ancora esser letti con profitto
— il quale, pur combattendo la «filosofia dell’esperienza» del
Galluppi dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su
talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica Mia ragion pura
in un senso decisamente empirico¬ oggettivo. Ma tutti quosti
empiristi si potrebbero dividere in due generazioni: 1 una di ideologi e
l’altra di criiicisti; e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della
filosofia scozzese e di eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come DELFICO,
BORRELLI e BOZZELLI meritano certamente di esser posti accanto agl’
ideologi contem¬ poranei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy,
coi quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchian¬ done
spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi il Bor- relh e il Bozzelli
stanno, 1’ uno per la sua genealogia del pensiero (com’ ei chiamava la
sua filosofia dello spirito) e per la sua critica di Kant, e 1’ altro pel
suo tentativo di morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei
francesi; di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle
opere di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi
esercitata; giacché per a nascita due degli ideologi furono più giovani
dei criiicisti. il cui valore nondimeno fu
giustamente rivendicato nella storia della filosofia dall’ ottima
monografia del profes¬ sore F. Picavet su Les idéologues. Una pari
rivendicazione in prò dei confratelli italiani vuol essere in parte il
mio lavoro, mediante una larga notizia e uno schiarimento delle loro
dottrine. Onde ci son rimasti documenti notevolissimi in libri ed
opuscoli estremamente rari, nelle riviste del tempo e in mano¬
scritti ancora inediti. 4. In mezzo alle due generazioni alcuni
pensatori levano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi
o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi ideologi,
traendo autorità e argomenti dalla filosofia del senso comune del Reid o
dall’ eclettico spiritualismo del Cousin e della sua scuola. Non hanno
nessuna origina¬ lità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi
loro commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea, di
celebri filosofie europee, valgono a suscitare o pro¬ muovere un moto di
studi e di partecipazione al lavoro filosofico straniero, onde a poco a
poco si ringagliardisce la fibra del pensiero napoletano, e si prepara
una scuola di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà
l’e¬ stetica di Francesco De Sanctis e la metafisica e la storia
della filosofia di Bertrando Spaventa. In questa parte la mia monografia
studia scrittori mediocri, testi¬ moni di cotesta preparazione al
risveglio filosofico po¬ steriore. 5. Nella seconda
generazione campeggiano due figure principali: P. Galluppi e 0. Colecchi:
due kantiani, di cui si può dire che la vita speculativa si consumi
tutta nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono per
due vie opposte al medesimo risultato, che è di accettarlo
sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬ mente lo spirito nella
filosofia del loro paese. Il Galluppi À combatte sempre, o
quasi sempre, un Kant immaginario con le armi del Kant reale ; e il
Colecchi combatte con le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno
un Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che la
dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai il valore intrinseco
delle dottrine da lui professate. Dalla curiosa situazione di questi due
pensatori, che genera altre false posizioni nella filosofia italiana
successiva, nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: 1° che
la scuola dei galluppiani continuerà a combattere Kant e tutta la
filosofia tedesca posteriore, sempre meglio conosciuta in grazia
dell’influsso francese già accennato; 2° che la scuola del Colecchi e dei
tedescheggianti con¬ tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore
del pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che da
lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana. 6. Se
da queste ricerche si sottrae la parte che con¬ cerne il Genovesi e il
Galluppi, si può dire che esse scoprano una regione presso che
sconosciuta nel campo della filosofia moderna. E poiché anche del
Genovesi e del Galluppi questo studio analitico della serie in cui
essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in parte più chiara
il significato e il valore, può pure af¬ fermarsi, che l’insieme di
queste ricerche colmi una lacuna nella storia della filosofia italiana,
anzi della europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i
due termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono, non
sono due capitoli della storia della filosofia italiana, ma due capitoli
della storia della filosofia europea: ed è difetto gravissimo quello che
può notarsi in proposito in tutte le recenti storie straniere della
filosofia moderna. A. Genovesi, M. Delfico, P. Borrelli, F. P.
Bozzelli, P. Galluppi e 0. Colecchi sono nomi ai quali, una volta
conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur rovare un posto, e
non degl’ infimi, nel quadro degli u imi tentativi dell’empirismo
naturalistico e materia¬ listico del secolo XVIII e delle feconde
discussioni suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. «
Il trionfo dell’ Idea » in Italia : Antonio Tari e Floriano Del
Zio Fin dal 29 ottobre 1860 B. Spaventa era stato nomi¬ nato
professore di Filosofìa nell’ Università di Napoli ; e la sua nomina —
scriveva a lui stesso il De Meis, da Napoli — era stata accolta in questa
città « con una commovente impazienza dai giovani e dal pubblico ».
Ma 10 Spaventa chiese ed ottenne di tornare e restare qualche
tempo a Bologna, dove nel maggio era passato, da Mo¬ dena, a insegnare
Storia della filosofìa, per farvi almeno 11 primo corso semestrale
e « non mancare al suo dovere verso quella Università». A Napoli, dopo
una rapida corsa nel novembre, non andò se non negli ultimi mesi
dell’ anno appresso. Era a Torino dall’aprile, perchè eletto deputato di
Atessa (ma la sua elezione fu annul¬ lata il 25 giugno per eccedenza del
numero legale di deputati professori, * quando gli pervenne la
seguente 1 Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui
ristampato con molte aggiunte. * Vedi per questi particolari
il mio B. Spaventa, Firenze, Vai- lecchi, 1925, p. 109. lettera di
Floriano Del Zio, che è un curioso documento delle disposizioni degli
animi verso 1’ hegelismo nella gioventù colta di Napoli, da cui lo
Spaventa era atteso : Napoli, 30 giugno 61. Amico
carissimo, Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una
piccola parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.
E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre novello, e
per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’ Idea, alla qualo abbiamo data la
nostra fede. Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del
nuovo libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro
scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere 1’
intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà pure il
suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico de’ nostri
dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero sia P infinita misura
e forza, che, battuto ogni positivismo storico e morale, eleverà ad
armonia vivente Essere e Spirito, Natura ed Umanità. — Son persuaso p.
es. che il signor Pes¬ ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della
Fila ridotta a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così
frequeu- temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che
ha dato di sé Monsieur Jauet. Come Hegel disse che ai tempi
della Rivoluzione francese una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per
risplendere in mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo
proprio principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà
consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature tutte
quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi, amico, a
partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete sì bene
apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio grembo 1’ adempimento
della libertà assoluta dell’ Uomo, e quel regno di giustizia e di amore,
a cui tutte cose corrono come al bacio dell’ Universo, giusta il bel
dotto di Schiller: Diesen Kur der ganzen IVelt ! Il punto
però che nel libro del Vera avrei desiderato più estesamente sviluppato,
è quello della pluralità dei mondi. I,a dottrina di Hegel su questa
materia non può essere difesa che movendo dal principio dell’ Unità della
Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità
de’ mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬
tellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed una
Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1* essere sia suo
sapere. La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in
quel presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili
l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non potendo darsi
ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre, post’ i mondi come
innumerabili, intellezioni intinite, infinita¬ mente diverse, dell’
istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità, 1’ unificamento di esse? Se
si risponde: nell’Idea medesima dell’Assoluto — , altri potrebbe
osservare che quest’ idea ap¬ punto è quella che deve essere concreta
nell’Umanità. L’U¬ nità della Rivelazione universale dello Spirito
sarebbe sempre un postulato. Krause immagina una sintesi superiore
do’ pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre
colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come un desiderio!
Anche il signor Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità
della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre che 1’
indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il fantastico si
sostituisce alla scienza. Diventa oramai neces¬ sario di approfondire
maggiormeute 1’ infinito matematico nel- 1’ influito filosofico, e
sottomettere cosi 1’ astronomia al con¬ cetto della finalità assoluta, lo
Spirito. La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei
dice, tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere
più lunga e scritta più chiaramente. Vi prego intanto mandarmi una
copia della vostra prolu¬ sione alla storia della filosofia italiana,
perché n’ ebbi ili dono nell’anno scorso una copia dal vostro fratello D.
Silvio; ma quando scesi in Basilicata per 1’ insurrezione, la sperdei
a Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con
questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usa¬ temi la
cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè sarà mia cura
farla richiedere da librai napoletani. Quando portate a stampa il
vostro libro su Gioberti f Esso dovrà levar grido straordinario, secondo
che mi accennano i comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal
vostro ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di
tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi • quelle
opere che possono concorrere all’ aumento vero della scienza.
I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso attestarvi
in alcunché la uiia devozione, comandatemi libe¬ ramente.
Vostro amico Flokiano Dei. Zio. AH’ Egregio
Spaventa Deputato al Parlamento Italiano in Torino.
II libro, da cui il Del Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé- gélianisme
et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che il Vera, allora professore di
Storia della filosofia nell’Ac¬ cademia di Milano, aveva pubblicato poco
innanzi per ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul
Janet e da altri scolari del Cousin. — Enrico Pessima, già di¬
scepolo del Galluppi, dal Galluppi era passato al Gio¬ berti e dal
Gioberti al Krause; e mormorava contro Hegel e gli hegeliani 1 .
La lettera di Tari, a cui il Del Zio accenna, è un articolo, uscito
appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea, col titolo:
De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in Alemagna,
Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza la¬ mentato in questo scritto
dal Del Zio, e divenuto poi sempre maggiore e sempre più caratteristico
del- P ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa bizzarra
genialità — aveva fatto dire allo Spaventa, in una lettera a suo fratello
Silvio, dell’8 marzo 1858: «Ho letto molti mesi fa un articolo di
Totonno... Un 1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La
fllos. ital. in re¬ lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera
dello stesso Pes- sina nella Critica articolo filosofico, come puoi
immaginarti, sopra un punto di estetica. Mi pare che abbia studiato
finora per imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili
a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i più difficili
tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno; il quale mi pare che abbia
preso da costoro più i di¬ fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che
sono ri¬ masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto
ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*. « Dopo tanti anni
! » S’erano conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a
Montecassino (tra il 1838 e il 1840); e il secondo giorno, seduti fraternamente
sulla sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversa¬ zione:
«Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬ tiane?»-. Da lui lo Spaventa
aveva appreso i rudimenti del tedesco ; e, col suo aiuto, acquistato
familiarità con la letteratura filosofica tedesca. Nella quale il
Tari, chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di un villaggio
(Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato, accumulando una
meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità a rischiarare il
suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì
nell’agno¬ sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui
credette si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo
e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬ suppone un
principio, che, essendo fuori del divenire, è fuori della logica; e non
si può chiamare Volontà, nè Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro;
poiché ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬ mento di
pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA ’ Dal
184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» Cotuono, Le lettere
di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬ bile», Iranl, Vecchi, non
battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An- ch’ io, Bpecie di
Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza,
che Hegel chia¬ mava l’ignoranza dotta». Non è questo il
luogo di chiarire questo innominabi- liBmo o limitiamo, — com’ egli anche
lo chiamò, — del Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello Spa¬
venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro del Tari per una
dissertazione di laurea circa il diritto di punire, il 29 settembre 1882,
gli scriveva : « Ti vo¬ levo suggerire di chiedere consiglio al nostro
caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il di¬
ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando fu nominato
professore ordinario (nel 1873), che la sua nomina era in contradizione
coll’ esistenza dell’Innomi¬ nabile, principio, essenza, natura, causa di
ogni cosa e avvenimento. Figurati il diritto di punire!» 1 . — Il
Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo scolaro, rispondeva
a questo: « Par¬ liamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’
ami¬ cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come concilie¬ remo il
diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬ nabile? — Se fossi
profeta, o figlio di profeta, di rimbecco direi : Vade retro, Satana.
Noli tentare Tariiim admiratorem tuum! —- Ma, non essendo Gesù, nè
gesuita, mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: —
Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa pietra di
giuridico scandalo? Anche a te metterebbe conto salvar capra e cavolo ;
cioè la capra della Feno¬ menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo
della pretesa * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia,
III, pari. II, pp. 28-37. * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.
Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando
con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica sentenza: — La
pena non è che una valvola di sicu- rezza che la società impiega a
garentirsi di chi la in¬ sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a
priori un ma¬ nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole
etno- crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia
Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo della luna,
insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬ natismo. Chi ben pensa,
riconosce la deplorevole povertà di siffatte deduzioni... Diritti e
doveri, Pene e ricom¬ pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle
uova dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio umano le
facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬ marono, con un quasi
stillicidio psicologico, a poco a poco scavandosi un bucherello nel
naturale egoismo... E tutta la giustificazione delle pene, da
quella del ta¬ glione e quella penitenziaria, che è ancora in
Werden si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco dalle
belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬ dendoli incapaci di
nuocere. Ora quali sono i birboni? ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene
P Innominabile a comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul
da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano
sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un necessario male,
presso a poco simigliante alla chirurgica estirpazione di un arto, il
quale, se curabile, anche a dilungo, l’operatore rispetta
religiosamente... Un inno- mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure
" sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per del delino, ! V ? Cbe
neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia dello s r n e a,,a
| S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura o spirito,
ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero dello spaventa
intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne suoi Principi di
dica, ed. Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo
affermare, in barba a tutti i dot¬ trinari criminalisti del mondo, come
qualmente il bar¬ baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par
suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di non
aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in- neggerà al magnanimo
Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva
molti tirannelli stra¬ nieri e mostravasi anche dappiù del Re
Galantuomo suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il
palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬ nefice (v. ult.
lett. di Victor Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha
ragione il palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a
modo mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo- deo
Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari, dunque, negava
coraggiosamente jT diritto come diritto. Poeto-1’ assoluto di là dal divenire,
nel divenire, ch’egli vedeva indirizzato a un Nirvana
iperindividualistico, non poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il
magnifico proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬
torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al concetto dell’
assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬ stizia non solo comporta, ma
richiede per la propria realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli
etno-crono- topouraficamentc), non era stato scritto. E come in
quel concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che egli
non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità del suo
Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo
spirito. Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a
1 A. Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi,
nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le
ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte. *
COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬ conde,
senza scoprire il principio vero del suo pensiero. Molti si ritrassero
presto sconfortati dall’impresa; etra questi il Del Zio, che con tanto
entusiasmo nel ’61 studiava le opere e la letteratura hegeliana; e
ansiosa¬ mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione
letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia italiana del
secolo A VI sino al nostro tempo ‘ e la Filo¬ sofia di Gioberti, di cui
il I» volume usci nel 1863) per fede vaga che indi potesse venirgli la
luce. Il Del Zio allora si preparava a un corso di lezioni,
sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo
con una enfatica lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’ tempi,
merita d* essere ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia
delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬ vegno ne’ dì 16
e 18 novembre 1861*: scritto pieno di giovanile entusiasmo e di ardore
filosofico. Oltre le opere del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi
cita ed esalta 1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als
Commentar u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬
lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬ loro che s’
iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22); i Esquisse de logique di K.
L. Michelet (Paris, 1866); e 1 Risi, in Scritti filosofici, ed.
Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬ cino, a una figliola del quale lo
Spaventa aveva privatamente Im¬ partito qualche lezione, gii scriveva per
questo opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio
della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale rnfiìf. -u- l Sn me
. *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli
Ella sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso io non
ammirare il suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro e i
amo! Giorgio Palla vicino. * Napoli, S. Marchese, IMI,
di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come
la Personalità eterna dello Spirito, ecco il line della lilosofla
». di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.
Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des Geistes
(Berlin, 1841) ; le quali « quando furono pub¬ blicate, tenevano aspetto
di polemica negativa in rap¬ porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma
1’ avanzato sviluppo della scienza ha tolto loro il senso
irreligioso, che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo
volevano a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come
la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità » (p. 41): ciò che
appare, nota il Del Zio, dell’opera maggiore del Michelet, Die Epvphanie
der ewigen Per- sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52).
A proposito del problema hegeliano del punto di partenza fenomenologico
e logico della filosofia, l’Autore dichiarava di sperare che le
difficoltà sarebbero state da lui sciolte più chiaramente nelle note a
una sua traduzione del System der Wissenschaft, ein philosophisches
Eincheiridion (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che avrei di già
pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che tutto il mondo
ha fatto e fa presso noi al libero pensiero» (p. 23). Un altro suo lavoro
concerneva la filosofia di Krause, la quale, specialmente per mezzo di
Ahrens (il cui Corso di diritto naturale , 1838, era molto letto
dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto già due volte in
italiano, da Francesco Trincherà e da Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi
« in qualche modo popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul
sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos., 1828)», dice
il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto
naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬ cherà, Napoli.
18-11, e Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita sulla quarta ed. dal prof.
V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬ cora, 1860. Più tardi
la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad. in italiano da A.
Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano
in classico modo il fermento incommensurabile dal quale era
travagliata 1’ intera Allemagna alla vigilia dell’ ap¬ parizione d’ Hegel
sul teatro della scienza. Ma in Krause c’ è il presentimento della
scoperta, che fu fatta invece da Hegel »; e questo giudizio era il «
risultamento di una conveniente disamina » . « A tanto speriamo di
adempiere più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬
tolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di Krause a quello di
Hegel » . Appunto per quella certa popolarità che il Krausismo aveva
acquistata anche nel Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse
di¬ scussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia. «
Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle nostre convinzioni
speculative, il trionfo della scienza e il progresso della nazione non
saranno nè liberi nè universali » L’opuscolo era dedicato Alia gioventù
napoletana con parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli,
questo piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma dell
andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, se¬ condo le mie
convinzioni, il nostro paese, per essere in armoniu coll’ indirizzo
generale della scienza in Eu¬ ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me,
potrete con¬ durlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè
giovane, è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze
lei corpo che 1’ opera dissolutrice della tirannide seppe in molti
generare negli anni scorsi». Continuava an¬ nunziando che, accettato il
suo programma, tre fiamme divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima
dei gio¬ vani napoletani : tre sedendovi d’ un unico sole, il
libero Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,
dell’Amore. «Colla prima darete fine alla superstizione del Papato, la
più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda
scrollerete il Dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole
im¬ perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione eterna
di bellezza e di verità ; costituirete I* Italia, e getterete il
fondamento alla fratellanza democratica di tutta Europa».
Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia dello spirilo,
per mostrare come lo spirito sia necessa¬ riamente condotto dalla sua interna
dialettica al punto di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava
con pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava con
molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬ mente nel mondo del
sapere, renderete testimonianza dell’ istinto divino che move lo spirito
del nostro tempo, e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed
alla sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬ mento
filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore assoluto», della morte
alle cose finite e a se stesso, e dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo
spirito deve rina¬ scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’
hege¬ lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬
talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬ telletto,
del pensare finito addebitava la loro incosciente predilezione dello
scetticismo e del nullismo: e dimo¬ strava che « non solo il sapere
assoluto è possibile, ma che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché
ninna realtà finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta
fuori del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di buona o
di mala fede, cercava d’ additare il carattere intrinsecamente religioso
della filosofia hegeliana, nella quale la verità della religione non è
negata, ma trasfi¬ gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente.
In- 1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.
fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬ dissimo
tra i giobertiani di Napoli, del primato italico- e della filosofia
nazionale, sosteneva, a simiglianza dello Spaventa, ohe « la grandezza
del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di tutto
l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò por
tutta la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle
nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬ nità, e che un piano ideale
stringe in armonia assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme
svariatissime del- 1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è dav¬
vero un’ opera unica, una sola attività produttrice... Le frutta
abbondanti di quei primi pensieri filosofici, che gl’ italiani del XV e
XVI secolo destarono nella coscienza umana sono appunto i grandi sistemi
della fi¬ losofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita
europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri, celebreremo la
festa di commemorazione a quel Risor¬ gimento, che il papato e l’Impero
soffocarono nel sangue di tutta la Penisola» : sopra tutto a Bruno, la
cui vita randagia per 1’ Europa, ma cominciata in Italia e in
Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬ bolo divino del
corso storico della filosofia mo¬ derna nel mondo. E col ricordo della
vita del Bruno e un invito a vendicarne la morte facendo tornare in
Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio, termina
questa prolusione. Cinque giorni dopo leggeva nell’ Università la
prolu¬ sione al suo corso lo Spaventa, tornando a trattare il tema
: Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e D. Spaventa
Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ impor¬ tante
carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington tuttavia posseduto dalla
famiglia di Francesco Fio¬ rentino, gioverà spigolare tra le carte dello
Spaventa, alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che non
ci paiono inutili alla storia della fortuna di Hegel in Italia. Quando la
Florenzi entrò in rela¬ zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,
essendo nata nel 1802: da Schelling era giunta fino a Hegel : dall’
ammirazione del Mamiani, per la conver¬ sazione frequente col Fiorentino,
che da Bologna andava spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a
quella del critico severo della prefazione, che il Mamiani nel 1844
aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di Schelling 1 . Prefazione
desiderata da lei, che ne caròla promessa con un certo imperio di
belletta che. ancor pos¬ siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello
Giuseppe il 7 aprile 1844 ;* prefazione piaciuta già allo stesso
Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente e libera
pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei santi cattolici, s’
erano accorti di non potersi intendere. Già in una lettera del 1846, 4 il
Mamiani le rimprove- ' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli,
Gliio. 1867, pp. 366 sgg. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della,
fllos. contemp. in Italia III, parte II, pp 37-50. * Mamiani,
Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma, 1809. 1, 211. * In
una sua lettera a un suo amico, del 26 dicembre 1845, il Ma- raiant
scriveva: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca moderna con
gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene punto mal
soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march. Florenzi, ha
detto di me parole onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr. il Bruno
stesso, ed. I.e Monnier, 1859, p. 213. * Leti, cit.. Il, -10. Cfr.
la lett. al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo
alla mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia
del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬ presso le scriveva: «
ìli congratulo molto con voi dello studiare indefesso che fate e dello
involgervi coraggiosa tra le tenebre sacre della metafisica dello
Schelling». 1 Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si
avventurava per il rischioso viaggio! Sul principio del 18GB,
la Fiorenti aveva pubblicato i suoi Filosofemi di Cosmologia e di
Ontologia (Perugia, V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne
una recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di
Torino, del 20 aprile 1863, a. IV, pp. 250-52), la incitò a mandarne un
esemplare allo Spaventa. Quindi la seguente lettera :
Signore, Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non
m’ in¬ coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io
non oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più
distinti lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi
affido più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi
uomini, e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il
suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo la
disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi com¬ plimento.
È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto vieue a
cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo por cosa di sì poco
valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza sua. Me le offerisco e
raccomando. Perugia, li 20 marzo 1863. Obb.ma
M. Marianna Florbnzi WAnDiNcroN. Lo Spaventa in ricambio le
mandò il suo volume Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia,
starn- 1 Lett., li, 314. pato 1’ anno innanzi
; a cui la Florenzi fece gran festa, diffondendolo nel circolo di
letterati e filosofi, 1 che si raccoglievano intorno a lei. €
Dono prezioso, scriveva all’ autore il 9 maggio del '63, di cui mi valgo
per miu istruzione e per ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più
grande), che ora dia fama alla nostra nazione » . Da altre
lettere della colta gentildonna si rileva che tra gli ammiratori
guadagnati da lei allo Spaventa, de¬ siderosi di leggere i suoi scritti,
v’ erano anche delle donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi
! Il 25 maggio questa mandava allo Spaventa un suo piccolo
discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stam¬ pato coi
Filosofemi. Era instancabile : quando, nel giugno 1864, lo Spaventa le
ebbe mandata la memoria su Le prime categorie della logica di Hegel, ella
poteva annun¬ ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato
anche quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Fi¬ renze,
1864): «Mi preme sempre di leggere le cose sue, e per questo ho indugiato
a dirmene grata e ricono¬ scente. Non ho parole per esprimerle quanto
quella lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo non
poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argo¬ mento trattato, ed in
vero non c’ è nessuno che abbia penetrato tanto addentro la dottrina e le
intenzioni di llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.
«Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente nella scienza del
filosofo? « Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in
quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro che scrivo ora :
Il divenire e V essere e il non essere, pen- 1 Cfr. la Necrologia
che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari, Napoli, 1876, p.
410-1. siero ed essere. Quanta istruzione io posso
ricavare da lei ! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile
ri¬ cevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera del ló
giugno ’64). In una poscritta d’ una delle sue lettere la
Florenzi scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande sforzo
di rispondermi al pili presto » . Lo Spaventa, in¬ fatti, era tardissimo
a scrivere, anche se chi aspettava era una dama così gentile. Il
Fiorentino badava a fare le sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa
del 19 novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa Florenzi ho
parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò non ho durato
fatica a persuaderla della vostra trascu- ranzn nello scrivere. Ella ha
sotto i torchi due saggi, uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed
aspetta di averli in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima
che il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di dare due
lavoretti elementari, e mi sembrano molto giu¬ diziosi e precisi e
chiari, da qualche capitolo almeno che ho scorso, correggendo gli
stamponi che le venivano quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa
avete fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non le ho
detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe cosa ben fatta se si
potesse effettuare, perchè veramente è una donna meravigliosa per 1’
ardore che ha per la scienza » . Lo Spaventa aveva pensato di
premiare la nobilissima operosità e il virile animo, onde la Florenzi
proseguiva gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia
delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che la scrittrice
gradì molto, e ne fregiò il frontespizio de’ suoi libri pubblicati dopo
il 1865. Primo il Saggio sulla natura (Firenze, 1866), che è dedicato
appunto allo Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia...che
gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore in¬ dulgenza tisano
alle persone di buona volontà. Gliene chiese licenza il 14 dicembre 1865
con una lettera molto mo¬ desta, dove sono espressi gli stessi sentimenti
della de¬ dica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era da
tre mesi in tipografia. Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav.
Evelino Wad- dington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa
liete accoglienze. «Egli se n’è tornato», scriveva il Fiorentino, «
contento di aver conosciuto un uomo del vostro ingegno e con quella franca
ed ingenua indole, che è segno infallibile». E come a Napoli si
prepa¬ rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Con¬
gresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci anche lei;
come infatti ci venne: «Ebbi la vostra me¬ moria 1 che ho letta con grande
attenzione per racco¬ glierne quell’ utile che sogliono apportare i
vostri scritti. Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò
pur io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere costì
nuli’ ostante gli eventi del monito. « Mi faceste dire di fare un
qualche piccolo discorso per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho
tracciato alquanto, e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no
codesto Congresso. « Io presumo che no, stante 1’ imminenza
della guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ; ed
ancora più mi preme sapere se vi troverete in Na¬ poli a quell’epoca, o
alla campagna, ed in quale cam¬ pagna, od in quale città ; infine, mi
direte dove dimo¬ rerete » (15 giugno ’6G). 1 La dottrina
della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli Atti dell'Acc. delle Se. mor. e
poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi di cri¬ tica pp. Un’ ultima
lettera del 8 agosto 1867, ha un certo in¬ teresse, per l’accenno che vi
si fa al discorso Della immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi
pubblicò nel maggio 1868 : « Io mi preparo o mi sono già
preparata a scrivere un opuscolo sulla immortalità dell’anima:
problema scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬
mortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti i costi. Sarà
dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la mia assoluta
opposizione». Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’
I- talia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E lo Spaventa
alluderà forse, con quell’ ironia che gli era propria, al discorso poco
persuasivo della Florenzi, quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al
De Meis, la chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale
almeno come, socia della Beale nostra Accademia » . ! L’intimo
pensiero dello Spaventa sull’ immortalità dell’ anima individuale
apparisce dal principio d’ una malinconica lettera da lui scritta al De
Meis il 13 luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima figliuola morta
a tre anni : Napoli, 13 luglio 80. Mio caro
Camillo, Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3
tuo omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.
In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria, di que’
maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle cocozzelle, oramai
divenuti celebri no’ nostri annali domestici. Via de’ Fiori a San
Salvario, n... 4 . Il numero non lo ricordo 1 II Ff.ii* *riiach,
coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb- li chheil (183(1)
sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed.
Gentile, p. 303 n. 8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria
del De Meis. • Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23.
Isabella Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e
non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che attende alle
faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso: ricordo il luogo, il
prato, la soala, il piano, le stanze e il mio tavolino da lavoro, e tutte
le miuchionerie che scrivevo : le cose futili e le serie; il mio chiodo
Bolare e i misturi he¬ geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno,
angelo consola¬ tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia
povera prima Mimi e lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà
lavora! — Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi; oramai
non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sus¬ siste tuttora
qui, come forse non ha mai meglio esistito iu realtà, nel mio cervello,
o, come (licevano una volta, nell’ a- nima mia; o non si dileguerà se non
quando questo cervello (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E
che ne sarà! Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf
Eppure è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è
sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine umana ha
trovato lo consolazione: — tutto nasce e perisce, è vero, ma gli atomi
restano, e son sempre quelli, non mutali mai. — Bella scoperta! me li fo
fritti gli atomi, io. Troppo serio per la festa di San Camillo ;
troppo malinco¬ nico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia!...
Lo Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista. Ma nella
concezione hegeliana della natura e dello spi¬ rito non trovava posto per
lo spiritualismo astratto, e quindi neppure per l’immortalità
personale. 3. Il primo scolaro (li B. Spaventa (F.
Fiorentino). Battaglie carducciane ancddote. Nella nota
polemica del 1876 con l’Acri il Fiorentino dice di aver conosciuto tardi
lo Spaventa, e poco prima i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi
un altro mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a
Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparavano a combatterlo
c’ero io; ma, lettolo, mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi
avversarii non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia
maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla
di lui, e che lo combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere
perchè! ». 1 Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma,
quando, sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia
della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * * L’ultima di
queste ne ebbe consigli e suggerimenti circa gli studi per cui la
Biblioteca Universitaria di Bologna avrebbe potuto offrirgli E
opportunità. Giacché dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere
quelle ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬
vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬ visero, lo Spaventa
dovette annunziargli il libro, che allora stampava, Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe
trovato uno schema della storia della filosofia italiana. Glielo
inviò poi infatti con una lettera, della quale possediamo la
risposta : Mio carissimo amico, La vostra lettera e il
vostro libro lungamente aspettati mi sono arrivati carissimi. Mi son
messo subito a leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se
non che intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬
ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite sempre
profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare il nodo del
sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬ damente che meglio non
si può. lo vi ho sempre tenuto, e vi tengo a ninno secondo nell’arto
difficilissima della critica filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi
Italiaui abbiamo ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli,
specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente notato. Le considerazioni
su la lìlosofia nazionale sono esatte, e l’indole della filosofìa del
Risorgimento, che io ho letta fino al Bruno, è scolpita cou molta
fiuezza, e contorni assai rilevati. Le osservazioni su l’antichissima
sapienza degl’i¬ taliani del Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla
Scienza nuova, sono inappuntabili ; ed a rifiutarlo bisognerebbe
di¬ sconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.
Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico, ed auguro
all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino. Negli scrittori, come
negli uomini, a me piace la lealtà del manifestare le proprie
convinzioni, quali che si fossero; la coscienziosa ricerca nel
formarsele, ed il saldo proposito del sostenerle. Ora invece si
scrivacchia e si cinguetta a spro¬ posito, e più ilei nomi e
dell’autorità si fa caso, che non della verità eterna ed immutabile. Voi
siete molto opportuno nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e
gran bene potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle
nostre città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna
può spingere e continuare il movimento della italiana filo* sofìa. Qui se
ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano pochi uditori, alle altre
della mia facoltà meno che pochi, o nessuno. Per buona ventura è venuto
qua a continuare i suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia
meri¬ dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬
pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e buona volontà,
eh’è ancora più rara no’ nostri giovani. Altri vanno e vengono più per
curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di tutte le
cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che
lessi qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.
Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬ petente,
altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io non mi
sdegno dell’essere appuntato e corrotto: amo la verità più del mio amor
proprio... A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene mi sia
stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe venire, pure
io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬ segnamento di cui gode
questa Universitaria Biblioteca. Avrei bisogno di buoni espositori di
Platone e di Aristotile, perchè questo anno mi occupo della filosofia
greca, e intanto, tranne alcuni commentatori antichi, non si trova altro.
Ho fatto ve¬ nire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di
Bar- thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si
riescef ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre
prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine poteva
credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio Evo»
pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I mano¬ scritti
di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che su la
metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere, e a parer mio ili
poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Krigena, e Patrizzi, che costà
non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti questi, mi metterò a
studiare la storia della filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi
diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio
Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬
torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo. È piuttosto
una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi manderò, se vi aggrada
leggerla. Parla altresì del Vera.® Ecco quante ve no ho dette, e forse vi
avrò annoiato: ma io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho
fatto alla mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi
amo assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più
scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando avrete tempo
scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con qualche spirito privilegiato
ed amico in tanta solitudine in cui vivo. Se potessi in qualche cosa
adoperarmi per voi, mi terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque,
mio carissimo amico, ed amate Di Bologna, 12 del 1863.
Il tutto vostro Francesco Fiorentino. 1 Enrico Tommaso
Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬ sidente della Società
Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè Vedas and on thè
phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla- neous Essaj/s (London,
1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on thè relii/ion and phtlos.
of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858. 1 Tra la corrispondenza
Inedita del Cousin ci sono lettere del Fiorentino: vedi Gentile, Albori
delta nuova Italia, I, 150.La Prolusione al corso di storia della filosofia
(letta il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata nel
Progresso di Napoli (a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ; ma non venne più
ristampata. È infatti ancora un do¬ cumento della fase giobertiana del
pensiero del Fio¬ rentino, quantunque vi appariscano le prime tracce
dei nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova
riferirne qualche brano: Il pensiero, o signori, regola il mondo o
lo riempie, perché esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la
sua compe¬ netrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è
spar¬ pagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché
l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facen¬ dosi
principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e conclude, è il
pensiero, la relazione, l'identità suprema... (p. 23). Se non
che esso nel mondo inorganico si occulta inconsa¬ pevole, eil in certo
modo seppellito, comincia ad agitarsi operoso nel vegetale, si va sempre
pifi disimpacciando dal grave involucro della materia nella forma
dell’animale; e si sveglia libero e padrone di sé filialmente nella
coscienza umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso
tutto il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia
piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela am¬ piamente,
se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della natura è parola scritta,
rinchiusa, direi quasi cristallizzata: l’uomo solo è parola viva e
palpitante... (p. 24) La dualità di natura e spirito non è
insuperabile. Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù
di questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì aneli’
esso come forza individua partecipante all’ uni¬ versità del cosmo ; ma
esso si generalizza pensandosi. ...Do spirito è l’attuazione
compiuta dell’unità cosmica, e ciò che questa è in potenza, ed esso è in
atto. Or quando lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per
quella serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia, egli,
a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed in- cosoio di sé, si
rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in tre modi. Quando rigira sè
in sò, dà luogo a quel ripensa¬ mento che si dice riflessione
psicologica; e quando si ripete su la natura, partorisce la riflessione
detta dal Gioberti ontolo¬ gica. Ma sopra eoteste due guise di
riflettere, ve u’ ba una terza, che lo vince di pregio e di amplitudine,
vale a dire la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su
la sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e
10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non è il
moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬ timo grado
del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e l’ontologica, e la
logica non sarebbe possibile. V’è logica, perché v’ha un assoluto
perfettamente uno; v’è la logica, perchè v’è Dio... Da logica è dunque
l’unità finale della cosmologia e della psicologia, come la protologia n’
era stata 1’ unità primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1'
anima, 11 concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa
il pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima e la
massima, e che comprende la protologia, la cosmologia, la psicologia e la
logica. . (p. 2fi) Venendo alla storia della filosofia, il
Fiorentino di¬ chiara che il disegno della storia si deve modellare
su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa medesima un
sistema. « Una storia che non fosse un sistema ma un’ imbastitura di
fatti racimolati qua e là, non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi
la con¬ nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica.
So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione
cronologica, o della continuità etnografica; confesso che queste maniere
contengono qualche parte di vero ; che il tempo maturi ed incalzi le
deduzioni della logicn ; che la scienza alcune volte si sviluppi come un
dramma vivente in una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬
poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi angusti
cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra tanti che hanno
trattato la storia della filosofia quasi uiuno abbia fatto capo dellu
genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel in cui celesta legge si
appalesa inflessibile come il fato; e nelle cni mani la storia si
trasforma in una geometria, dove nulla viene lasciato all’arbitrio del
pensatore. Hegel accorcia e distende i sistemi come il Procuste della
favola, affinché tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della
trico¬ tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬
tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi, e leva di
mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò monotona, nell’altro
la varietà rimaue disordinata ed inor¬ ganica. Contemporaro però questi
due estremi, badare alla continuità del pensiero universale, senza
disconoscere l'in¬ fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto
mezzo, ed in postura convenevole, onde si possa portar giudicio
sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia
(f), ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla
convinzione del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della
sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali cause lo
abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29) La storia della
filosofia presuppone un sistema, che sia come il regolo con cui conviene
riscontrare e mi¬ surare le dottrine. E dalla maggiore o minore
ampiezza del criterio di una storia, dipende il valore di questa.
Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬ stema,
affermando non essere tutti gli altri se non momenti del suo, e
(singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬ tare le colonne di
Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà di lui, provando coi
fatti, se dopo la grande Enciclopedia ancora allo spirito umano qualche
cosa rimarrà da fare. Infine il Fiorentino toccava la questione di
una filo¬ sofia italiana contestata dagli storici stranieri.
Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel
tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬ lienabile,
tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il Cousin di poi, n cui non
tornava conto una terza nazione, non avendo una tripartizione a fare,
ridusse le partite, e diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania
ed alla Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si
trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1 Forse Telesio
e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬ rimentale ? Giordano Bruno
non mosse dall’unità della sostanza prima ancora dello stesso Spinoza?
Campanella non iniziò la osservazione psicologica? K Vico non partì dalla
conversione del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido
cito potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;
tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi non rimase
luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di oltremonte non ha fatto
mai nulla, non ha pensato mai a nuli», e sola, spogliata del comune
retaggio dell’urnan go- nero, ella è costretta a stare spettatrice
stupida od ingloriosa delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il
passato della Ger¬ mania o della Francia potesse diventare il suo
presente; troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità,
le venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi
manipoli hanno gli altri mietuto. Mi rincresce, o signori, di dover
prorompere in parole amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore
molta ri- vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover
rinfre¬ scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei
padri fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli.
No, io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli
allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della loro
gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne... (p. 31) Il Fiorentino
ricordava la « gran sollecitudine » che a Napoli egli aveva visto «
affaticare gl’ intelletti traen¬ done argomento a bene sperare e ad
asserire che forse la filosofìa era « deputata a maturare i fati della
patria». Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬
fondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter proseguire
l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava il suo illustre predecessore»;
cioè lo Spaventa. Infine, una patriottica perorazione : Por
gli altri, o signori, la scienza può essere forse un ad¬ dobbo ed un decoro,
por noi italiani è desiderio di riscossa, è condizione indispensabile di
vita. Noi non sapremmo pas¬ sarcene senza tralignare dalla nostra antica
fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi
grandi cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio
allenarci, che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella
infanzia dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica
possibili le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare
altri miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che non
fosse progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei; ma
esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire pensiero, si bene
fantasma vano, e passeggero capriccio. Io nel filosofo anzi tutto voglio
guardare l’uomo coni’esso è, e voglio trovarcelo vergine, schietto,
maschio e vigoroso. Io batto le mani a Socrate che combatte u Potidca,
sento un cotal orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la
fronte di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che
lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non so rifinire
di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur- tatouo, ove siete
caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬ lorosi ingegni, valorosissimi
cittadini. Sì, o giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti
noi abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli sforzi...
Per¬ corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della
scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente al riscatto
della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa indubitatamente lo
coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il cuore a piò candidi alletti ed
utlbrzando le braccia della no¬ vella ed adulta generazione. Un ultimo
sforzo ancora, e quanto prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco
dell’ inno nazionale cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le
piume dei nostri bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette
colli (pp. 32-33). Dagli studi sulla filosofia greca pel
corso universitario annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti
sotto l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla
filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il gio- bertiuno di tre
anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11 Panteismo e G. Bruno, si palesava
hegeliano e scolaro dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito
la memoria su Le prime categoi'ie della Logica ili Hegel.
Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente da’vecchi amici di Napoli
: onde nella conclusione del Saggio (p. 302) accennava: «Devoto alla
verità, non mi ter¬ ranno del certo impastoiato nè vecchie
preoccupazioni, nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti,
silenzii sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura, che fu
la prima origine della polemica scoppiata dodici anni dopo con l’Acri e
il Eornari. Nella seguente lettera ne abbiamo il più antico
documento: Mio carissimo amico, Vi so infinitamente
grado di llo coso gentili che mi dito del mio libro, o non vi nascondo
che le vostro parole mi sono valso di sprone efficacissimo a seguitare.
Voi sapete di quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo
anteponga ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V
oltre¬ mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia da non
potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un amore, e perciò
mi vi sou messo in buona fede, e senza preoc¬ cupazione di partigiano.
Non timido amico del vero, io dirò sempre aperto il mio modo di vedere;
ed in ciò debbo confessare che voi mi siete stato esempio e conforto.
Delle altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me
la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio costume;
uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero d impormi un treno,
e di vincolarmi con pastoie, che Panimo mio, non che nou comportare, anzi
disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e
epocial- nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre
espo¬ sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in
pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬ dere il
kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬ cune. Mi
vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per occuparmene in
un lavoro che ho in animo di stendere que- st’anuo medesimo. Ditemi voi
se le biblioteche di Torino, dove siete stato, ne hanno qualcuno, e
quale; perchè potrei chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno
mandati a questa hibliot«^ca por studiarli... Vi ricordo e
rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica 1-1 — Gentili:. Storia
della filosofia. Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il
tempo di de¬ dicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno
ca¬ rissimo amico, e ricordate ed amate Di Bologna,
Il tutto rostro £—5S-Svt*-- —
Addio. Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa
ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie
italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9) il Fiorentino
aveva mostrato nel Saggio di avere ben compreso il valore della categoria
kantiana. Ma poco vantaggio potè certo cavare dalla esposizione
< Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18« era stata pure
tradotta in italiano da F. Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi
studi di Napoli, avan alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne
della Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati i
primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬ sieme col Bonatelli,
che allora gli era collega a Bologna procurava di rendere possibile, con
una sottoscrizione . resto della stampa, anzi la pubblicazione completa,
con hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non ‘ S
riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n. donato il pensiero,
quantunque la sua interpretazione non sia senza difetti.
TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1
Settembrini. Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant.
Della prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬
rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando a divedere
quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso': Carissimo
amico, ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri,
appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da
Bologna. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
va¬ canze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a Bologna una
prolusione su Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. Sarà
stampata a Firenze in un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo
La civiltà italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne
avrò gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste
scrivere qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo
giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un bravo
giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi,
che, avendo mandato il mio libro ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto
neanche risposta! Che voglia dire, non so ; ma mi par barbara usanza il
voler imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e
rinunzio vo¬ lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono
con¬ ciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione
ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè egli sta aspettando che io gli
rimandi i manifesti. So come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi
non assumiamo nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico,
ed amate Di Perugia, 26 dicembre 1861. Il vostro
afet.mo sempre F. Fiorentino. La Civiltà italiana pubblicò
nei primi tre numeri (I trimestre, gennaio 1865) il discorso del
Fiorentino : Em- manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di
lui stesso il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia- 1 Cfr.
quello che se ne dice nella Filos. contemp., p. 139.
Ioghi di Rucellai; dall’aprile al giugno dello stesso anno (II
trimestre), le lettere Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio,
il discorso Dell’armonia del concelto di Dante come filologo, come
storico, come statisla (II semestre, nn. 1 e 2): lavori tutti ristampati
più tardi dall’ autore, salvo il primo, negli Scritti vari (1876).
Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina,
la quale dimostra quanto il fiorentino avesse profittato della lettura
degli scritti dello Spaventa. Ecco, per esempio, come poneva il
problema kantiano : jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita
siccome il fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne
di Ercole, di là dalle quali non era dato allo spirito umano travalicare
senza pericolo d’imminente naufragio. Kant ri¬ flette, clic la sperieuza
è tiu fatto, e ebe perciò non può essere primitivo; essendo un
risultamento, del quale si può e si deve cercare la guisa e la ragione
del nascimento. Egli adunque propone una domanda nuova nella storia della
tìlosoiìa. coni’è possibile la sperienzat E più generalmente
ancora: coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1
oriz¬ zonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi
filosofi seriamente imbrogliati. Il Galluppi, che primo in Italia giudicò
convenevolmente il movimento kantiano, si accolse di questa novità di
problema, e con la Bolita sua semplicità di linguaggio la espose così: —
Prima di Kant la filosofia era dommutio .1 o scettica: con lui comincia
una nuova forma, la critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano
la sperieuza, o no; Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come
si formai II problema così mutato non versava più sull’esi¬ stenza
del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mu¬ tazione più
sostanziale che Kant avesse recato in mezzo nella scienza
filosofica. I.a Scolastica mutuava or dalla tradizione religiosa,
or dalla storia, or finalmente dalla filologia il contenuto della
sua scienza: presupponeva l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,
la loro origine, e vi attagliava una forma scientifica per pal¬ liare
l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e sopprimendo quel vuoto ingombro,
fece capo alla coscienza, dove credette trovare il punto stabile, sul
quale puntellando la leva onni¬ potente del pensiero si mettesse in grado
di smuovere il mondo antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo
sotterra¬ tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegnò sopra
le prime linee della scienza nascente. Kant sorpassò l’uno e l’altra,
e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la coscienza di
Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬ sendoché entrambe
contenevano degli elementi variabili, ed egli, messo su l'avviso dalle
rigide deduzioni di limile] non voleva più far entrare nella scienza
nulla elio avesse sembianza di mutabilità. Esposte
rapidamente la unificazione del molteplice, onde nell’esperienza kantiana
s’intuisce il sensibile e onde si giudica per mezzo delle categorie le
intuizioni, il fiorentino dimostra come la vera unificazione ancora
non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione della materia e
della forma dell’intuizione a quella di intuizione e categoria.
Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della
sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale della
coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il nome medesimo di
coscienza, di cui Kant si vale in due si¬ gnificazioni ben differenti.
Questa coscienza trascendentale ò primitiva ed originaria; producondo gli
opposti, non può ella essere un opposto; se no, si andrebbe all’infinito.
L’altra coscienza di soconda muno vien oontraseguata con la giunta
di empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni altro fenomeno:
va costruita con la forma del tempo, con le categorie di possanza, di
causa, di relazione, e via via. La coscienza empirica, insomma, ò
posteriore assai alla coscienza trascendentale, la quale sola ò unità
originaria e feconda. L non è senza ragione se ho ribadito questa
distinzione, essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando,
il vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,
ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama energia
porlentota, vale a dire la unità sintetica originaria della coscienza.
L’illustre prof. Spaventa lia con molto aocorgimento messo in sodo questo
punto, criticando la esposizione che il Ro- smiui aveva fatto del Kant.
Non è gii che gli opposti sieno dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne
impadronisca e li vada elaborando: questo processo ci era prima di Kant,
ed egli lo ha sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché
quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella si compone,
fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf Data da uua parte la
intuizione, dall’altra la categoria, e poi lo spirito che le sforza ad
un’ unione innaturale, o per lo meno arbitraria ; non si vede che il
giudizio sarebbe un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non
già un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è
l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè entrambi
scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il riunirli è per lui una
scria necessità. Ma Kant non fu coerente a questo concetto della
sua energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale pura
con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione logica delle categorie,
che ripescò perciò empiricamente attraverso i giudizi ; stralciò il
pensiero dall’ essere, fa cendo della sua attività una forma affatto
vuota ; e finì nel noumeno inconoscibile. E la conseguenza è
giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non pensa nulla, e, di
rincontro, un essere che non può essere pensato. Se non che lo sbaglio
sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un
essere non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬ noscerlo ed io vi
replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto
oscuro. Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione,
vuotato di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’
identità pu¬ ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu
crea¬ tura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare
pienamente le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta
tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella
stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬ tembre 1865) il
Fiorentino inserì una recensione del primo di quei tanti libri che poi
Ruffaele Mariano venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo
Eraclito, € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬
sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova rilevare due
osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben determinate le due direzioni
divergenti degli scolari del Vera da una parte e di quelli dello Spaventa
dall’ altra. Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in
senso di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca
quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due illustri italiani,
quando anche si fondasse sul vero, non sarebbe certo modesto consiglio il
tenerlo. Nè veggo che l’essere hegeliano debba di necessità far avere in
poco conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e seria,
che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e dell’altro, prova il
contrario». L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬
feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra Eraclito, non
v’ha proprio nulla a ridire, specialmente su la relazione che P Hegel
pone tra Eraclito e P ultimo degli Eleatici? E forse vero che Eraclito
segni un progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato
prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬ rebbe apparsa
alla coscienza speculativa prima della dialettica zenoniana ; onde
l’andamento storico, per lo meno, sembra essere stato da Hegel capovolto.
Dico ciò, allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso la
eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi che fossero. Le
colonne di Ercole dell’ ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può
; e se si potesse affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo
Spa¬ venta era di quest’avviso. Nel 1865 il Fiorentino si
accinse al suo lavoro sul Pomponazzi, pur continuando all’Università i
corsi sulla filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:
Mio carissimo amico, È trascorso gran tempo che manco <li
vostre nuovo, non ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando
il Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬
pagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto inquieto
per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni altro per causa
vostra. Levatemi da questa iuquietitudine scrivendomi due parole che m’informassero
della vostra salute. Io sono tornato qui prima della riapertura
della Università, e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze
qualche giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi
il più del tempo in villa. Sto esponendo la filosofìa tedesca da
Kant in qua ; e ciò alla Università. Sto preparando una biografia ilei
Pomponazzi ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella
Società di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non
dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di qualche
pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬ logna. Oltre
l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse potrei farla ancora del
Cromonini, che, stato a Ferrara, può dirsi delle stesse provinole di
Emilia: del Zabarella no, eh’è stato soltanto a Padova. Io poi a queste
biografie, elle leggerò nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò
per conto mio la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei
loro libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne pare
t ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬
nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per compiacere a
De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la sua Civiltà italiana. Non
sapendo se abbiate o no avuto quel periodico, ve le mando così radunato,
come le feci estrarre; e vi prego di accettarla come
testimonianza della mia sincera stima ed amicizia. Addio
adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed amato Di
Bologna, 30 novembre 1865. Il vostro afi.mo amico P.
Fiorentino. E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui
biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione di Storia Patria
per le provincie di Romagna (1867), e poi riprodotta in capo al volume
pubblicato nel maggio 1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che
diventava sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne
notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della tua memoria]
sul Campanella, 1 perché essendomene quest’ anno occupato nel corso
scolastico, sono desideroso di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono
attorno ad una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬
però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le Monnier... Me
ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri che mi sono occorsi ». E il 26
aprile 1868: « La stampa del mio libro è finita, e sono attorno a
scrivere due parole di conclusione, per le quali ho aspettato di
ri¬ leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,
dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai di Pomponazzi un
manoscritto inedito col titolo di Quae- sliones ammostiate : * le chiesi
al Napoli. 3 Mi promise di spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi
turba non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬ ledetta
fiaccona degl’italiani! ». 1 III Saggi ili critica, Napoli,
1867. 5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509. «Federigo
Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.Uscito il libro, il
Fiorentino, mandato che l’ebbe allo Spaventa, ne attendeva con la solita
ansietà un giudizio. E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo
Spa¬ venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco
risuona anche nella lettera qui appresso riferita del Fiorentino. Era
stato col Brioschi e il Messedaglia a fare quella ispezione alla
Università, di cui parla il Carducci in Ceneri c faville ; e aveva
riferito lui al Mi¬ nistero. Mio Carissimo amico,
Ilo ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho consegnato subito al
Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano, e di cui ti ringrazio
vivamente... Non ho visto incora l>e Meis, ma fari) di tutto per
leggere la lettera di venti pagine: 1 ci dovrà essere una epopea intera.
Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: * io uon
l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto di nessuno. Mi si
è detto cose, alle quali, come puoi pensare, non ho potuto dar credito:
tra le altre cose che voi avete dato una patente d’ignoranti a tutta
l’università in massa, e che in difetto di scienza, si va in cerca di
popolarità nello associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il
detto, nou protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una
grossa dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non
no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci vorrà un
pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco male se si acquistasse
dormendo, perchè allora potrei averci delle pretensioni. Fuori di
scherzo, quello che si bucina qui, e che ha prodotte molte ire, nò senza
ragione se fosse vero, 1 La lettera al De Meis che fu pubblicala
col titolo Paolotttsmo, positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso
citata. « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al
Ministero della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in
commissione col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna,
iter ragioni d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su
questa faccenda, pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0
luglio iami. si può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, è
qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un fascio, i
professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè sapendomi tuo
amico, o si guardano di me, o mi tempestano a tutta furia.
Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il Berti lui
stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se non e stato
adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬ mezza, o non so persuadermene.
Che cosa ne dici tu! Gli hai visti! 1 Ho tra le mani pure la
seconda edizione delle opere di Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne
ho Ietto soltanto esposizioni, benché assai larghe. Il mio
libro è (inito, almeno le correzioni ultime le mandai una settimana fa, ma
ancora noi vedo. Appena uscirà, scriverò a Firenze, che di là stesso te
ne mandino mia copia, per far più presto. Tu poi leggila col tuo comodo,
e dimmene il tuo parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o
che non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere
qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa del Settembrini, fosse anche tuia
pagina. Il Siciliani spesso me ne fa premura... Io non solo non ti
ammazzo, ma ti rin¬ grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi
che inai. Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad
in¬ tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii
contenterei che fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De
Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte non ho letto libro che mi avesse fatto
rider tanto : le cause del riso sono spesso gravide di grandi pensieri.
Mi piace molto, ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi
perchè noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate
animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati
1 II Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto, si
confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo scritto
nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878. * Non saprei dire
a qual lavoro si alluda. * Il Dopo la laurea del l)e Meis
(1808-69). per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1
gli scrisse una lettera, nella quale si firmava: « l’animale domestico di
Gozzadini*. Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te
ne voglio io Di Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo
tuo amico F. Fiorentino. Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul
contenuto della famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del
Fio¬ rentino : Mio carissimo amico, Ero
capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto tutta quella roba da
chiodi di questa Università, che altri diceva, ed i pih credevano, lo
perù, come amico, mi tenui in obbligo di informartene, non per conto mio,
ma per tua regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto,
e gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto, e
potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si può, nè si
dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene, perchè mi ha
snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬ tendo, propendeva sempre a
darti ragione, e non ci era bi¬ sogno di altri eccitamenti. Io dunque non
solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi
per mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di
cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale prevalga
pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti non voglio applausi;
dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni tentazione. Ad una sola
cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro
franca, ed anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere a
quest’ ora una copia del mio Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di
Le Monnier a spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di
spedirne 1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito,
Giovanni Goz- zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G.
Carducci. V. pure Carducci, Opere, III, 369 ss.
una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo
commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die
tu possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più
istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà
chi meno me ne crederà degno, nè io ho da peccar contro la modestia per
accettarli, o per pronunziarmeli io stesso; ma chi mi mancherà di certo
sarà chi mi dica: qui hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio:
queste pagine avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio
che quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso
l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio mezzo
tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir tutto in una
parola, figurati di scrivere una pagina di quella relazione, per la quale
vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬ nistero, e poi scrivimi un
letterone quanto quello che scrivesti a De Meis. Più male parole ci
troverò, e più te ne renderò grazie. A proposito, quella tua
lettera, con partito unanime, fu li¬ cenziata alla stampa, riseoandone certi
nomi propri, e certe espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano...
Io mi oc¬ cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori.
Vorrei farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare
lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che a me
pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le lezioni, perchè tu
sai che questa rivista non è tanto facile... Addio, mio carissimo
Spaventa, e veglimi bene come te no voglio io Di Bologna, 3
giugno 1868. Ajff.mo tuo amico F. Fiorentino. La
lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬ lognese, , che allora
il Fiorentino pubblicava con l’Al- bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è
quella al De Meis, col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo
(rist. in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il
Fio¬ rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello
Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò qualche anno più
tardi in quello inserito nell’itoh'a dell’ Hillebrand. STORIA DELLA
FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe
universitarie bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il
Carducci, diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬
tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza da Bologna, dove si
serba il ricordo d’una polemica del Carducci col De Meis e col
Fiorentino: « Io sono stato poco bene, parte per la stagione
che corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale ci
siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti è pervenuto rumore. Or
dunque, hai da sapere, che il Carducci, credendo dall’articolo di De
Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli
scrisse contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-
l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis... L’ articolo
non era firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci, per aver
questi scritto le stesse cose in una lettera particolare al Siciliani. s
Risposi io, di¬ cendo... potersi combattere le opinioni, senza
insultare le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima
volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non
si stette a questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De
Meis e di me ad un tempo » (18 marzo 1868). Il Fiorentino
replicò, ed ebbe, a quel che sembra, l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi
ha irritato», egli scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De
Meis n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,
che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora * Pubbl.
nella Rivista bolognese del 1868. * Documenti dell’amicizia del
Carducci per P. Siciliani sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della
filosofia positiva in Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II,
Opere , VII, 362-68: e le af¬ fettuose parole Alla bara di P. Siciliani,
in Ceneri e faville, s. Ili, Opere, XI, 313-316. è
allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia, eh’è finita
con nostro decoro». Quegli articoli il Carducci non li volle pili
ristampati. Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬
tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia di questo
aneddoto. 1 In un’altra lettera di due anni appresso (25
maggio 1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io
sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che mi ha provocato
con una nuova lettera insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale
non ho potuto sot¬ trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi
de¬ finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬ rentino,
infatti, si fece tramutare nell’ Università di Napoli, come professore di
Filosofia della storia. Ma non aveva lasciato Bologna quando
cominciò a lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa
scriveva allo Spaventa il 14 gennaio 1869: Mio carissimo
amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò
ho avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello, che tu
eri stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato un anno nuovo, e
voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure incominciare una vita nuova.
Dalla parte mia non voglio mancare di mandarti i miei augnrii, tra i
quali non ultimo quello di scrivere un poco più frequentemente agli
amici. Vedi, che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi,
perchè so che per questo riguardo non ci è bisogno di
miglioramenti. Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza
princi¬ palmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di
Ma¬ lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori
e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. 1
Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una dimenticata potè- mica tra II
Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella Critica vili (1910), pp.
401-421. t Avrei intenzione di scrivere
quulclie cosa sul movimento telesiano, ed ho scritto per avere alcuni
manoscritti che ri¬ guardano Telesio, e che si trovano parte costà, parte
a Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro; parere,
che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti, si fa lungamente
desiderare. Ma verràf Lo spero. Hai letto che cosa ne scrisse
Franti sul Centralblatt? Egli stesso mandommi con molta cortesia un
numero di quel gior¬ nale, dove ci era la sua rivista sul mio
libro. Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado
di darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La neve ieri
si è fatta vedere la prima volta in città: tu però quest’anno non verrai
a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi sarei tentato di pregare che a
qualche professore saltasse in capo di tribuneggiare per la tassa del
macinato, per vederti comparire in commissione straordinaria. Ma non
vorrei poi il danno del prossimo: in questo sono cristiano.
Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere qualche
cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo velleità ortodosse,
n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini vorremmo tenerla in piedi,
anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so
purtroppo, non c’è neppure da far grande assegnamento. Addio,
mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire a chi mi doumnda di
te, che sei vivo o sano. Di Bologna, 14 del 1869. Aff.mo
tuo amico F. Fiokentino. L’articolo del Franti sul Pomponazzi
uscì nel Cen- tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto dal Tocco
e pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro contro
gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista contemporanea di
Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58). Del Telesio si torna a
parlare in una lettera del 9 novembre 1869 : « Tocco ti ha mandato la
prima dispensa 1 Vedi L. Settembrini, Epistolario, con pref. e
note di F. Fio¬ rentino, 3.* ed. Napoli. delle sue Lezioni, * 1 e
so che aspetta il tuo giudizio. Io ho cominciato a scrivacchiare le prime
pagine di un lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.
Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1 Quanti più ne
conosco, tanto più ti stimo e ti voglio bene. Dimmi ora una cosa; vorrei
dedicare a te ed a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio,
quando' sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non ci
sono timori di adulazione, o di altri secondi fini : è una pubblica
professione di stima e di amicizia, che mi piacerebbe di fare...». Il
primo volume del Telesio (18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa:
non solo come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬
titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva scritto i saggi sul
Bruno e sul Campanella ; di grati¬ tudine per l 'insolita luce che
scintillava da essi, e da cui il I iorentino era rimasto colpito. In
questi studi storici sui filosofi italiani del risorgimento il
Fiorentino infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello
Spaventa: da lui avviato e da lui guidato. Ecco come cou lo
Spaventa si consigliava per pre¬ pararsi al primo corso di Filosofia
della storia da tenere a Napoli : Camerino, 26 luglio
1871. Mio carissimo amico, Ti Borivo da Camerino, per
sapere come stai, poiché non mi iti dato di rivederti a Bologna, dove
sperava poter passare qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di
discorrere 1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei,
Bologna, R. Ti¬ pografia, 1889, con pref. del Fiorentino. 1
il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel era uscito nel 1869 nella Riv.
bolognese; ma l’anno stesso fu ristampalo con gli Studi negli Atti della
R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto fu ripub¬ blicato da
me nel 190-1 col titolo di Principti di Elica (Napoli, Pierro). teco
seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio, ch’io potessi
insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste Università. Tu sai
meglio di me i bisogni, i desideri!, ed anche i gusti di costà, lo per me
vorrei far poche chiacchiere sui generali, e, detto quel tanto eli’è
indispensabile come in¬ troduzione, entrare a dirittura nel tema, che
sarebbe, salvo tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo
orientale so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo,
per questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche
cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien- temente.
Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di leg¬ gere ? lo sto
rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti testualmente, uii
gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte letteraria ho il Milller
(Ottofrodo); per le religioni, la Storia di Alfredo Minirv; per la parte
filosofica, il Zeller; per arte greca forse mi gioverebbe il Winckelmann,
...a noi so, perchè ancora non lMio lotto. Da tutti questi
potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U resto è da fare. Le poche
linee di Hegel nella Filosofia Mia storia mi servirebbero di traccia: sui
tuoi consigli poi faccio largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene
qualcuno, e fa presto... Tutto tuo F. Fiorentino.
Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere o frammenti di
lettere dello stesso Fiorentino allo Spa¬ venta, di cui trassi copia
alcuni anni fa dalla carte dello Spaventa ora depositate presso la
biblioteca della Società napoletana di storia patria ; poiché anche
queste lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,
sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia in¬ torno allo
Spaventa. (Pisa). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed a
quest’ora sarà a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si trattenne con me
la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier- sera. Sta benissimo, e me ne
sono consolato tanto. Gli dissi elle ti avrei scritto stamattina ed
al solito ti mando queBta lettera col liciti. 1 K la tna
lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di cui è lastricato,
dicono, 1’ inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico
linceo Pietro Hu- cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne
guardassi le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,
perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle mie solite.
La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬ ciano tanto, che non so
a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo
letto questo articolo: mi preme sapere il tuo giudizio, e ti do piena
facoltà di mutare, e di cancellare anche qualche cosa, die non ti paia
conveniente, o inesatta. (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri
tornai da Soma, dove la¬ sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui
una lettera dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli.
Oggi P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a
Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬ sidererebbe
di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora questa
settimana... (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo
sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti.
Il tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,
ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è, che il
calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia. Kccoci ora intesi
: tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la
Tuta 3 eh’è un po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e
la Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate
meglio. Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella
Università di lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici
dello Spaventa applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel
Olorn Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal
j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe
della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise* Pelei
lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum » HestItuta
Trebbi, moglie del Fiorentino. * Isabella Scano moglie dello
Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro partito mi
ha commosso non por me, che sai quanto io stimi il genere umano in massa;
ma pe miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte
vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato, ancora è
scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro dell’Italia, e tutti,
o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano innanzi. Quanta viltà 1
Quanta corruzione! Vaie il pregio < curarsi del prossimo! E una
terribile domanda : piò si conosce il moudo, e piti si devo disprezzare:
Leopardi non aveva torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi
“ ,re “ do - con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo
tra. miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “
conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa
oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto alletto e
tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora, tess’io vederlo giovane
fatto come il tuo (.umilio Non Io perchè, mi sento ora più legato
alla vita, come non Cì iTn povero 1 Settembrini f A casa mia ci fu lutto come se fosse
morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a dell’Emilia, ed
insieme appresi la scondita di bihio. colpi in una volta. Ma Silvio
tornerà alla Camera, e al Mi¬ nistero, se il senso dell’ onestà non sarà
spento nel nostro nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .
• Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano; è
la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo tr Che3 U
rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di filosofia pei Licei: il
Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci sono piegato. È cosa molto
ardua, ed il noti poterti allargare quante vorresti, toglie gran parte
della scioltezza del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e
quel eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un
f..U, munirò ...» »». «,•«•*> fogli, ora con la spada alle
reni ni’...calza per la tonti n u azione. i n
settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non scrisse
poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto scrisse P°'
,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte (Napoli, Morano. 1873; e
V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl. uni e all'altro belle e
affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto
la tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio portato
dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto gusto, perchè la
sua autorità non è sospetta, come In mia, appresso la filosofia italiana.
Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi:
lascio la cosa al tuo arbitrio ; non cosi, il volormi bene che in mezzo a
tanti disiugauni mi preme e mi giova assai. Alla tua famiglia
di tanti augurii anche da parte della mia, e tu credimi sempre, e non a
parole. S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale
napoletano. (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra
notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto
su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione di un
uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬ tato a te
anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬ sessore de’
documenti della storia antidiluviana, non sa farsi capace della mia
polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè contro il
Fornari, e l’Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14
mesi, è venuto fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica,
e come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva
convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬ lunque sia il
libro, che ancora non conosco, se non per la receusione dell’arciprete
noetico». 1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della
fllos. contemp. in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11
Fiorentino, é contenuto in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo,
pubblicala nel Giornale napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV,
823, dov’é detto: « Vi ringra¬ zio di avermi mandato lo scritto dello
Spaventa, che io considero corno il più serio e il più chiaroveggente
degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo terminare un corso di filosofia
elementare ad uso de’ licei... mi sono creduto in obbligo di tener conto
delle dottrine di quel valentuomo, tanto più che io sono sempre in questa
persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare
puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e
dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio...
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana ». STORIA DELLA FILOSOFIA
(Pisa). — Prima di scordarmi, ae hai por¬ tata la Vita di Giordano
Urlino, 1 dalla al Betti che me la porterà: se no, mandala a Domenico
Morano, affinchè me la l'accia pervenire. li Bruno si sta
copiando, e dentro questa settimana co- mincerò a mandare il manoscritto.
Spero che tu hai con¬ certato pei caratteri, pel formato, per la carta.
Se non avessi ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il
tuo ritorno. Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si
conserva sol¬ tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi
dice neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma tra
la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è rarissima. Vale
la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a Gottinga, la copia
stampata non l’hanno neppure. L’edizione del Gfrorer ! non si trova
in commercio : il Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante
della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi
riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie
idearum. Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti :
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche
altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3 Dopo che tu partisti di
Roma, riseppi che nell’archivio della congregazione di San Giovanni
decollato c’ era la no¬ tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e
che questa data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17
Feb¬ braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei
fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬ giunge, che a
nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento
autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di quel furfante
dello Scioppio. I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia,
1888). * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati
nel 1838 (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda. *
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno, ed.
naz , I, p. XX. * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle
Opere latine del Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze.
1891). Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui
orati venute sot- t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il
Bruno: non sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne
vo¬ levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di
tornare. Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci
andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio
riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica:
com¬ parvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono
tre volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come
fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano ancor», o
tra giorni andremo in campagna, in una villa che ho trovata in iptel di
Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non
ancora: conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra
l’in¬ cudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi.
E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e dovei Vorrei
saperlo. Il Labriola mi ha mandato un suo articolo su la libertà; 3
* e vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.
Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando Bcrive. Non ha
stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed ha la pretensione di parere
elaborato, come egli mi scrive. Capisco Herbart, non capisco lui.
L’oscurità non è nelle parole, o nello stile, è dentro la testa.
Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera
all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza di
carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo moderno, ma la
lettera è di altri tempi, ed ora non tutti possono gustarla.
Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che fa lo
stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910),
allora nella Vltt. Emanuele di Roma. ’ Luigi Bàrbera,
che fu professore di Filosofia morale nella R. Uni¬ versità di Bologna.
* Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di
sta¬ tìstica del 1S78 (risi, in Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce,
M’ero dimenticato di raccomandarti il Persiani. È impaurito, perché il
relatore 1 non sei tn, ina un lombardo (forse il Teneaf), e par che dalla
Lombardia non si riprometta gran che di bene. Son certo però che tn
potrai njutarlo sempre. (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti
scrissi a Napoli, ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per
tele¬ grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per
mezzo suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬
quanto infreddato a causa della lezione d’ieri. Tu che sei la
fenice dei Presidenti, specialmente quanto a prudenza, vedi se non entra
fra le attribuzioni presidenziali quello che ti chiedo io. Ho
bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è finito, e per
continuare la stampa voglio esser certo che il ministro non adduca
cavilli : nel qual caso pianterei 11 la baracca. Premesso ciò, e visto e
considerato che il Ministero ha premura pel Siciliani, e poca o punta
premura pel concorso di Torino, visto e considerato, che sta alla
chiaroveggente perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la
convo¬ cazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi;
che, convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri
ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e son certo,
come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo meglio in questo
perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore che sempre piò s’
inasprisce. Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con
quell’occhio critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende
piuttosto singolare che raro, farai quel che crederai. Ed orn
da capo, ma su di un altro argomento, una notizia. Nell’ultima puntata
(stile mamianico) della Filosofia delle scuole italiane, il sullodato
Conte scrivendo all’amico Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta
Europa (le pelli rosse e gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di
Platouo e delle idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero
Platone ! Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti
conviti, 1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo
Tenca, come lo Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’
abilitazione all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi
l’uno) che lo ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai,
finita la digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee
non ne vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino
quello ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate
anche loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo
aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito,
o un facente funzione; ma il Finali, il Monabrea, il Borgatti, tutta
gente massiccia, chi avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle
peste il Conte ed il suo illustre oommilitonef Vista la
brutta china, direbbe il Sella, io proporrei (il raffreddore mi ha dato
un diluvio di proposte) che il Ma- miani ed il Ferri siano impagliati, e
ben conservati nell’atrio dell’Accademia de’ Licei con questa memore
iscrizione: QUESTI BIPEDI IMPLUMI ULTIMI DELLA SPECIE
ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL
PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia
prelodata a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa
perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili
furono treceuto finalmente, eppure Simonide s’incaricò di cantarne: qui
si tratta di line soli, in Europa, non contro schiere barbariche, ma
contro eserciti di dotti, e non ti paro che ci sia più materia di canto?
Ridettici bene, e poi dimmi il tuo avviso. Tu duuque hai
leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’
Istituto superiore di Magistero, allora fondato a Roma: le quali — era la
prima volta che si vedevano tante signorine in una Università —
frequentavano alla Sapienza le lezioni di D. Berti. * Su questo
pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117. * Una
critica che I.uigi Marino (che fu poi professore di Filosofia morale
nella Università di Catania) aveva pubblicata degli Elementi di flloso/la
del Fiorentino. che hai tanto tempo da marineggiare.
Io l’ho qui il suo libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed
ho una sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane!
Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo abhraccerei.
Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure risposto, ed ho fatto
male. Volevo leggere prima e poi scri¬ vere. La bestia che sono stato!
Bisogna fare il rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni fanno
precedere la scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della
moderna pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese
iu qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona : facendo poi una dottn osservazione, che cioè il Bruno or*
saltato a piè pari dentro la rocca dol- 1’ aristotelismo eco.
E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un libro, uno
tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬ mero et figura; quando
il De immenso ole. contiene otto libri, ed il De monade, che sarebbe il
contenente, non contiene nè otto, nè due, perchè è un libro solo, unico
tiglio di madre vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che
dimostrano una piccolissima cosa: il precetto pedagogico che testò avevo
1’onore di dirti, cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse
scrisse, e poi spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare
nella lettura. 11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran
capolavoro della critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al
solito, non 1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente
dnl- l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che
faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono
snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compen¬ sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia
col Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il
pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il 1 Nell’
art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese, e poi
tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».tabacco, »e tornassi
deputato, per non dovermi ingoiare quelle forti dosi di filosofia
scientifica, che mi somministrava il nostro Berti, m’imparerei a fumare.
Meglio lo stomaco sconvolto, elle il cervello come un mulino. Spero bene
però che non sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi
dicesti se Morano ti diede o no la prima parte del Manuale ili moria
della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬ chialo: invece di Marino,
potresti dure un’ occhiata al libro mio. Vorrei sapere se quel tanto è
sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi
servirebbe di norma per le altre duo parti (Portici). Ha lettera dal
Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste
insieme felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la
lettera che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla
mattina nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e
non che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta : si è fatta la
bobba, ma non li’ è venuta fuori la storia delle prove dell’esistenza di
Uio. Per un concorso a una cattedra universitaria, della cui
commissione faceva parte il Fiorentino ed era presidente io Spaventa, questi lo
aveva pregato di raccogliere gli appunti per una relazione sulla
voluminosa Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo
Bobba. Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva. Letto il
tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano alla lettura del
Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase alla prima pagina; ma ho
lasciato il poema lutino ai primi due versi e mezzo. Eccoteli:
Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm, Insipidimi
scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ; Obediain tamen
etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà
prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un pover’ uomo, e noi
uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della Legge
morale di Crescenzio: il titolo è
Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn
secondo libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa
miracoli. Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1
u in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu
sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole,
il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri
personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per ora sono
venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a
tre, secondo che P opera seguirà il processo ascensivo o il
discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1
autore dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei
pressi di Casale. La mia influenza venefica s è esercitata, per non so
quale selezione, su la provincia di Ales¬ sandria: e la tua!
Probabilmente verso Girgenti, o in quei pressi. Che non ci sii stato non
preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70
chilometri la volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei
De Cre¬ scenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre
qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare, come quattro e
quattro fanno otto, che il tal filosofo o il tal altro sovverte la legge
morale, il buon senso, o le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il
filosofo può accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon
umore del Fiorentino. Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della filosofia
contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia,
what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it
defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3
volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice –
Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation
and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gentile.
Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I love Gentile; like me, he
is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato –
but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters
wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda
il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola
padovana" di metafisica neo-aristotelica.
Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa:
Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano:
Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore
classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone,
Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione,
Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti);
“Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti
magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo,
Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola);
“Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti,
Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il
completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se
e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della
filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La
filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia,
Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico
degli italiani. G.occupa sicuramente un posto importan-te nella storia della
filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare
discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto
teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli
occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa
affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa
sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla
struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come
“problematicità pura” si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente
“classica”, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può
non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del
filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed
attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica
classica, Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine
problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione
idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro
quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una
posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani
del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista,
ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di
ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie
declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Bontadini.
Le sue opere più significative, in particolare Come si pone il problema
metafisico (Padova), Breve trattato di filosofia (Padova)
e Trattato di filosofia (Napoli), non sono tuttavia solo innovative
per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a
tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si
fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla
sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo Sent from the all
new AOL app for iOSLa fecondità della problematicità pura non è peraltro
esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto
domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è
un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi
ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita
attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare
la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono
sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni
studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa
stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura
dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore,
ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno
ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso
risulta subito evidente nell’articolo di Berti, uno dei primi e forse il
principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su
uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro,
forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si
tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti
essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per
ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza
e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in
quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare
tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del
cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il
tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio
di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia
come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di
“fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone,
pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e
l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno,
a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle
caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei
suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che
distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della
necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga
ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che
lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di
Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente
differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta
vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il
problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine
del Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico
dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una
normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità
gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del
principio, e quindi del “valore”, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come
atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto
nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio
compren-dere la prospettiva metafisica di Gentile, che si presenta come ripresa
della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero
moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice “classica”, ma non è per
questo “oggettivista”, come altre, più note, versioni della stessa. Una
particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pra-tica
pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui
è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Carla
Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una pedagogia umanista, poiché
«l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di classicità, si attua come
paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni
storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una
sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla
verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui
si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa
prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo,
anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito
scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino
manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma
della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi
possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la
voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un
necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e
a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche
l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia
period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici
antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ----
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentili: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della filosofia romana arcaica – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Valmontone). Filosofo. Grice: “I love Gentile,
and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore
he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in
Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea a
Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla
metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo
Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi
sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua
tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio"
di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito
conquistato e Perrotta lo volle come assistente. Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della
filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente
gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera
che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni
ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che
bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente,
giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava
l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli
anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso
che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui
lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide.
Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato
insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae
elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino
dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie
all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma
Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma,
Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G.,
Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione
classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo
romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della
filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco
di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e
scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci
di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche
con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi
si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova
resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica
suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non
mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre
la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per
la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga
don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita
la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca.
Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo
che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e
filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la
tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente
apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata
dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola
di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO
GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per
testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e
del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da
altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO,
come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO
GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro,
e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso
centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al
potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO
GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati
nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a
informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi
maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che,
allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una
scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici.
Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro
pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il
contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché
delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente
in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura
completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione
esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale
dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di
fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo
contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma
CICERONE. E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini
tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini,
Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ.
Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella
stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana
arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g.
a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto
da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne
ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca.
Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha
il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di
motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per
mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il
Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo
scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida
molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et
simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio
in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira,
provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia
espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che,
esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza
alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come
un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da
essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da
me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in
collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del
di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle
dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta
m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora
che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un
rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me
allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia
'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce
di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO
PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II
Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel
Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World,
ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento
delle varie ancora: puo dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio
Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da
parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo,
che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi
originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui.
Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico
dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,
(Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in
particolare della metrica, e' morto a Roma. L'annuncio della scomparsa e' stato
dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore
dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato i classici, nella Facolta' di
Lettere che insieme al rettore Bo ha contribuito a istituire. E' stato
fondatore della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica', di cui e'
stato a lungo direttore. Filologo rigoroso, G. si e' dedicato allo studio
della lirica e della metrica arcaica, curando anche edizioni critiche di testi
di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori
a Virgilio'', ''Metrica greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione
critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia.
Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta). La vasta
bibliografia di G. comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel
pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA ARCAICA' (in collaborazione con Cerri),
''Storia del mondo romano'' (in collaborazione con Pasoli e M. Simonetti), ''Lo
spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'',
''Storia e biografia nella filosofia antica'' (in collab. conCerri) e ''Poesia
e pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G.
NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein Volk der Geschichte, auch das
begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem
Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine
innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es
mit außen verbinden».(Usener). Il
senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla
quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi
abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente –
e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare».(Anceschi). G. ha visto comparire vari ampi e impegnati
ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione
e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella
carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero
la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via
via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore
innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la
fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», vera e propria officina
intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica,
senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto
serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con
discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la
sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione
che G. elabora della traduzione, nella
ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così
Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di
modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si
costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»:
il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira
l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture,
visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e
distanti nel tempo» 2 . Una prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’
dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazio- ne e risposta
alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo
antropologico appunto, degli ultimi quattro decenni del XX se-colo: una
prospettiva di ‘apertura’ nell’analisi e negli strumenti applicati
all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età
ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne
in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un
secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto
in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e
richiamato da Gentili nel famoso saggio L’arte della filologia. A
differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è
quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da
parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato
piuttosto inosservato. G. si rifà alla Rede bonnense, dal
titolo Philologie und Geschichts- wissenschaft 4 , discutendo
della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e
rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella
distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della
ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e
all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La
prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici
sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando 2
G. 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno La traduzione
dei testi classici . Teoria prassi storia (Palermo 6-9 aprile
1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991). 3 All’interno
della Festschrift per il convegno curata da W. Schmidt
(Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale
intervento L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura
orale (Gentili). 4 Usener 1907. 5 Gentili, 299. 6
Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente
connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella
postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet
nicht bloß Leistungen. In ihrer
Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem
Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der
Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen
umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley («zur Grundlegung einer
Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla
cultura tedesca, nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio
dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen
Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e
Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era
rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco
nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori
evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca (Klopstock,
Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen
Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura
e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne 7 .
L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della
Rekonstruktion des Altertums secondo l’intuizione dei grandi
edificatori e teorizzatori dell’ Altertumswissenschaft , Wolf e
soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le
nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le
discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio
di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte
dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’
Altertumswissenschaft , con diretto rife-rimento al mondo classico nelle
sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti
dalle antiche civiltà del Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener
riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta
considerazione di quegli influssi, certo determi-nanti nella genesi almeno
dell’arte greca: «heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit
den griechischen und italischen Gräberfunden jedem, der Augen hat zu
sehen, von wo jene hellenische Kunst […] ihre Anstöße und auf lange hin
nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto
mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato,
al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung
der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo
territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei
costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer vorgeschichtlichen
Geschichte»). In tale condizione appare al professore bonnense ormai
impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana.
La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica,
perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo
XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da 7 Onde se «la moderna
poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura
tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di
sorellanza» (Usener). 8 Usener è in proposito molto chiaro: «Es bleibt
also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un insieme di
discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione
di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza
storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung»
9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla
prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una
sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme
della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco
contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche in ragione degli
interessi ‘trasversali’, comparativi e religionsgeschichtlich che
l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia
dapprima protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse
anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle
religioni e di storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di
Gentili sull’arte della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a
Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi
provocatorio (in una prolusione rettorale) nel definire Kunst
l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die
Philologie nicht. Sie konnte und
mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in
ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war […]. Es war die Zeit, wo die
moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit».
9 «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen
Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche
dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die
letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt»
(Usener). 10 Così Momigliano 1985, 166. 11 A partire soprattutto
dal seminario del febbraio 1982 presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da
Arnaldo Momigliano e subito pubblicato come Aspetti di Hermann
Usener filologo della religione (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse
negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali
Usener 1993; Usener 2008; Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché
oggi di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo
bavarese I. von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed
inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa
della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano. È opportuno
ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del
Le-benswerk di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi
ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del
modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su
Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano
primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni,
vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14 Non sorprende il dissenso,
rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa
la visione della filologia presente nella Rektoratsre-de ,
prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso
Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della parola scritta
. La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili
come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni
metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15 nel cui processo
interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno
Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia,
varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà
piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con
la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia
classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e
la serie di saggi «di portata fondativa» 18 scritti da Gentili tra la
metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta
per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della
Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio
Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro
inesplorati codici delle Storie di Agazia conservati in biblioteche
italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane
studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova
edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi
l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto
Vulcaniano conservato nell’allora inaccessibile Leida 21 . Il netto cambiamento
di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot:
unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann empfinde ich, daß Philologie
doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος hat» (lett. in
Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder), e cfr. Sassi. G. «Philologie in dieser Auffassung ist nicht
eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener). 17 Sin d’ora rimando alle molte informazioni e
osservazioni desumibili dal Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini;
Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A. Privitera, commemorazione lincea dell’11
aprile 2014, ac-cessibile on line presso lincei.it/ files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_G.
.pdf ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del
testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come
chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto
appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica
ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore
effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale
manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità
di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e
quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di
poter assolvere». 21 Vd. in particolare p. 168: «occorrerebbe perciò una
nuova collazione accurata Sent from the all new AOL app for iOSso la
poesia greca arcaica» 22 si legano all’incontro con Perrotta, dal 1938
sulla cattedra romana di Greco come successore di Romagnoli e impegnato nel
rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo
e Pindaro. Due saggi critici uscì presso Laterza), ma attento
altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in
particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di filologia
classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli epodi di
Strasburgo’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su La
filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma in un
volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva
non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è
peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero
progresso» segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia
è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica
moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al
crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le
polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo
indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta
meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta
avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti,
edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato,
l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la
filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con
quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa
supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro Paese del mondo»
25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori
insieme al condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due
grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale
continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa
dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato
umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo
del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod.
Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps del testo
greco del De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri
quinque , uscita a Leida (cfr. Dewitte). B. Vulcanius (B. de Smet), e professore
nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della
successione illuminanti scorci in Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva
identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75;
Sisti 1994, 43-45; Morelli. Perrotta 1943 Sent from the all new AOL app
for iOSdegli ultimi due secoli (la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt,
di Winckelmann e di Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di
Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica
filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica,
trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei
connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani
d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un
grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la
tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il
senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età
nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la
filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il
vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche,
dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata,
come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né manca un richiamo
a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa
commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli
28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za di
filologo 29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania
26 Funaioli – Perrotta . Che punto nodale del «discorso sulla filologia»
sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in
senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione
per Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa
in rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo
italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione
del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la
finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in
Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in
cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali»,
onde «egli affermò sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al
verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente il Romagnoli, proclamò
ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni
condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore (appunto a intendere
«quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così
singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la
commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel
profilo Perrotta in Grana). È utile citare il passo: «Federico
Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione
filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste
parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli
presagì il genio. Ma un intuito profondo gli face-va scoprire in Nietzsche
qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva
assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo
impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta
immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano F.
Gugliel-mino), in particolare quando leggeva con predilezione i lirici
greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle
parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il
pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della
voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro
d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai
filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione
di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale 30 . Il
1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G.,
uscì Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei
destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del
Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione del 2007. Non fu la
prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore
scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con la riforma Gentile, più
decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie
sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio
per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio) filologia», come
vollero osservare prefando i loro Lirici greci scelti e
commentati (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a quell’andazzo
con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente
Aglaia , la nuova an-tologia della lirica greca da Callino a
Bacchilide pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini (1898-1992) 31 . In
sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad Aglaia
si sono ispirate tutte le antologie successive che si finirà sempre per
mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione
filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli giovane»
(Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella
sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459. 30 Nel
Profilo di Bruno Gentili premesso da Carlo Bo al I volume dei
ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto
a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di
spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in
modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente
collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono
riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi
primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso
come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I, XXVIII ). 31
Nella Prefazione a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i
lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il
loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini
si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’ Antologia
della melica greca pubblicata nel 1904 con pre-fazione del maestro G.
Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle
scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e
Setti oltre trent’anni dopo uscirà un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito
ristampata: Ugolini – Setti 1972 possono definire serie, a cominciare da
Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di
chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua
passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33 di
quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo
in Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili
espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie
leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni
per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità tor-nano a
riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo tra
metà del XIX e metà del XX secolo, da Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da
Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro
35 . 32 Così Degani 1995, 30. 33 Nell’introduzione alla sezione su
Saffo in Lavagnini 1937, 116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa
un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le
più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere
ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di
fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e
sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso,
sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi,
che siamo così lontani da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla
trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente
Nuova antologia dei frammenti della lirica greca (Lavagnini 1932,
171), dall’ incipit e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi
a Freud nell’individuare in Saffo «una invertita : essa trasferì sopra
creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido secondo la
termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del
sesso opposto». Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini
meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna
italiana della psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di
psicoanalisi», diretta da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e
soppressa due anni dopo: ricco di infor-mazioni in proposito, benché talora
disorganico e confuso, Zapperi 2013. 34 Per più ampi riferimenti su molti
dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto 2012. 35 Cfr.
Perrotta 1935, 28-31, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate:
«Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili,
sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la
poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi
stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo
che disser-tava dottamente an Sappho publica fuerit […] In
realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire
i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della
questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […]
Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un
pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e
perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un club estetico di
donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né
gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad
elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli
ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era
tutto». Significativo il pieno consen Sent from the all new AOL app
for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e
Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la fine degli anni ’40 e
la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come già Coppola e
Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora
208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè
la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e differenze
piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica dell’allegoria
della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in
Polinnia connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio,
tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere
nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò
scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il
messaggio in un linguaggio velato e allusivo comprensibile solo
dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia
generale, sia ai singoli poeti 39 , Polinnia riserva
particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio
e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe
e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e
apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una
nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica
greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione
per gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori
rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con
favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non
è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come
purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta
ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile
imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci
siamo presa la libertà di segnare gli ictus dei piedi, benché
agli ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento
dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile:
coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con
gli ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche
di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il
Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella
psicanalisi». 36 Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle
Allegorie omeriche del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito
dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini
marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di
Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg.
37 È il capitolo XI in Gentili Gentili Si ricordi per confronto la
collana laterziana degli Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di
qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli
poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965.
40 Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico,
che alla metrica di Polinnia dedica Di Benedetto 2001, 141
sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di
ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a
nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa
passione didattica, animano la prefazione a La metrica dei
Greci (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale
disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41
. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la
mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha
nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle
scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano
di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del
tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42
anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni
l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né
estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella
mia Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni,
quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei
metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica
testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché
metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione
reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con
pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel
loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello
studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il
valore dei metricisti antichi 43 e la visione non ancillare degli studi
metrici, da intendersi non 41 Catenacci 2014, 448. 42 Gentili
Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello
studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di
una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re
l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la
versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo
l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla
radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco
della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43 Sensibilità
critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine
‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di
Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non
solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa
costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che
ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e
azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una
sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio
fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome
meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili
innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione
«che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia
stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’ Introduzione . Lì è anche
subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione
con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo
parlare di piedi, ma soltanto di cola » 44 . Rievo-cando di recente le
lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra,
G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle
esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei
manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le
opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con
ampiezza appunto avviene in Me-trica greca arcaica , il volume del
1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della
metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta
«nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie
sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due
capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili
delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali
analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel
secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48
, a Wila- 44 Gentili 1952, 1-2. 45 G. A. Privitera, commemorazione
lincea, cit. supra , n. 17. 46 Gentili 1950. Ho consultato la copia
conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’
(Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università
degli Studi di Milano), con ex libris dello stesso Voglia-no (segn.
Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto
incompiuto La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried
Hermann . 47 La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses»
già è lodata in Usener 1907, 15. 48 Di Usener è rammentato con interesse il
trattato Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender
Metrik (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la
metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener
consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la
predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto
sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche
ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici,
slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione
negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich
nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann überhaupt das
einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische
Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett.
del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 ,
46). Dal punto di vista della linguistica
storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di
Use-ner dà Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87
Sent from the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il
successivo capitolo ( Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di
R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri
greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne
diede Romagnoli nei suoi Poeti lirici 50 , si segnala per la
riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e
musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte
nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età
ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa
sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta
nella rinascita degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli
raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio
in Italia». Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista
nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa
indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando
la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta»
con l’intera sua concezione degli studi classici («nella metrologia del
Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le
più feconde») 53 : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49 Cui
già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione
‘empirica’ dell’ observatio metrorum e il connesso «profondo scetticismo
per tutti i problemi metrici di Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg.
50 Particolarmente il secondo volume ( I Poeti Lirici. Terpandro,
Alceo, Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna
della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei
frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a
torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere
richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio
poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti
greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una
compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e
Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla
musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd.
Martinelli 2009. 52 Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche
ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul
saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70
sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio,
che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni
occasionali e delle scansioni fornite in Polinnia , i contributi di
carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se
rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli
anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53 Paratore
1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I
capitolo di Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica,
interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente
dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile,
inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi,
unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore,
«la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da
Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili. L’esperienza
di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano 54 .
Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di
metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la
metrica nell’àmbito del convegno del 1985 Giorgio Pasquali e la filologia
clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui
sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un
carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto
convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente
il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi:
«Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu
sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola
fosse in grado di superare questa difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali,
avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua
Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il
grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e
nei cantica della tragedia e della com-media del quinto secolo», in
relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli
crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro,
correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò
che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli
incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto
discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella
pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva
più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico» 57 : che
cioè, più in generale, Pasquali già avesse testo, curarono nelle loro
edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα dei cori
lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da essi
nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque,
la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua
stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del
verso». 54 «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale 1994,
77. 55 Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di
Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo
scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di cola
unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana
vd. e. g. Gentili – Giannini Così Gentili 1950, 21, in un passo e
in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con
Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del 30 settembre 1949, ma
Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si
ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi
Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia
lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di
una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie,
trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte
riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento
di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia»
15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non
di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i
suoi allievi, i μετρικώτατοι», particolarmente negli anni 1947-1951.
L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari
dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e
di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà,
soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e
alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli
anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la
precoce scomparsa di Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università
di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da
alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu
subito «figura cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub-
blicata l’anno successivo con il titolo Aspetti del rapporto poeta,
commit- lidei in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non
perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo,
difeso ammettendo la re-sponsione impura in Gentili Gentili Il racconto di
Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e
Perrotta su cui vd. Morelli; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali,
erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina
Gentili 1963 (poi nei monumentali Studi in onore di Gennaro Perrotta ).
Nella stessa Gedenkschrift non manca un breve contributo di
P. Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre
1962: Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame
delle carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60 Una quindicina
d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli
antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io
sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa
asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda
invalsa negli studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo
degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi
sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino 1997 e
più di recente la Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso
in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di
Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio –
Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro
carattere pro-grammatico 62 e introduce quell’insieme di temi che «nel
tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle
prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di
conoscenza del reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del
tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società
greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non
estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il
committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La
funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela
quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa
costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda
appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio
la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale
significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo
storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono
corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto
mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e
in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la
critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica».
Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica
pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX
secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione
pindarica in Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento
pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi,
infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia
logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione
romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione di quel
«poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65 è infine da
Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non
poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta
critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della
politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta
grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e
miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare
come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si
dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e
si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena
considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è 62 «Una specie di
manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini 2013, 16.
63 Catenacci 2014, 449. 64 La cui derivazione da Burckhardt
sottolinea Paratore Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di
onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti
impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a
caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca
(«naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura,
dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli
ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo
dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce
aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni
autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella
‘allotria’, attinente «una varia interpretazio- ne filosofica e pratica» 68
.Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento
degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse
alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, Gentili in certo modo
proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel
mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione
sociale della poesia era portato a interpretare» 69 . Discernere nella orazione
urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva
di giustificazioni, quando si pensi che il saggio Aspetti del
rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da
quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel
volume di «Studi Urbinati» contenente gli Scritti in onore di Genna-ro
Perrotta 70 aperti da una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla
quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di
Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due
varianti antiche» 71 . Significative le parole introduttive di Gentili, che
indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità
ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande
alla grecità arcaica e classica: 66 Perrotta E così prosegue: «gli uni e
gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo
incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono
l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta
di massime belle e utili». 68 Mi limito a rimandare in proposito, come
testo esemplare, all’ Introduzione di Croce 1921, che cito da una
ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69 Saranno poi i
temi fondamentali di molte, famose pagine di Poesia e pubblico
nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII
Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . 70 Gentili
1965a. 71 Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola,
ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza
umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno
a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del
nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della
grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e
civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della
nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se
dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi
della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo,
dell’uomo non come strumento ma come fine 72 . La seconda parte del saggio
discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni
destinate all’antologia Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide
Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ; il saggio originato dalla
prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a
mo’ di introduzione dal titolo Poeta e com-mittente . Nuovo è però
l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità
‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli
a una nuova lettura dei poeti della lirica co-rale greca: In un momento di
crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati,
entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad
interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura
dei poe- ti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta
non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse
limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla
tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole
della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che
animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale
caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo
rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di
conoscenza del reale […] 74 . Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’
della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche,
proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose
del se-colo, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco
dei 72 Parole che in parte torneranno trent’anni dopo
nell’introduzione premessa da Gentili alle Giornate di studio su Gennaro
Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore
del maestro, Gentili segnalava che alcuni di essi costituivano i primi
contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica
greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. 73
Gentili 1965c. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con
dedica manoscritta di Gentili datata «Urbino 18.11.1965». 74 Con l’ultimo
periodo si apre il saggio in «Studi Urbinati» clamori suscitati
dalla beat generation di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi
d’avanguardia» nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle
loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli
anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale
sviluppato sulla rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio
diretta da Anceschi, se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso
l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e
studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini,
Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto
intorno a cui nel 1961 si era aggregata l’antologia poetica I
Novissimi: poesie per gli anni Sessanta (con testi di N. Balestrini, A.
Giu- liani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo
passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla
metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della
neoa-vanguardia italiana, poetae novi avversi
contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i più) alla
destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di
espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 .
Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L.
Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della
poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta
anacoretica , o ermetica , o chiusa , non senza certe tentazioni di
involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come
estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi illuminante,
pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola»,
si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia
dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata
talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante
dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che
[…] può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione
dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una
stagione di poesia, «come accrescimento della vitalità , e nuove
tecniche, e volontà di for-me aperte, e speranze di una maggior portata di
comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso in «Studi Urbinati» fu da Gentili
subito ripubblicato 75 Nonché «uniti e avvinti (per impulso
d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica
favorevole dopo secoli – il famoso boom »: così Alberto Arbasino in
Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76 «Sganciato il linguaggio da
intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare
attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra
lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione
linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e
peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del
godimento», come efficacemente sintetizza Curi 2014, 100. Sent from
the all new AOL app for iOS appunto su «Il Verri» 78 , all’interno di un
numero monografico Classicità e contemporaneità contenente
contributi anche di altri studiosi del mon-do antico 79 . Il fascicolo era
introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi
non fortuiti una zona antica e nuova della classicità» 80 , qui volto a
riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più
inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel
secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere
dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne,
immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui
l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,
una delle sue fibre, una delle voci di una cultura che si è aperta,
aperta al riconoscimen-to delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le
tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo
scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di
questo genere […]. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e
in questo ordine recuperare i nostri antichi 81 . Particolarmente appropriati,
nel contesto del numero de «Il Verri», ri-sultano dunque sin dall’inizio del
saggio di Gentili i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente
della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e
sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica
monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da
noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato,
a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo
ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della “poesia pura”
idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale,
irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento”
conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla
importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella
letteratura italiana dalla seconda metà 77 Anceschi 1962, in
partic. 14 sgg. 78 Gentili 1965, 80-97. 79 C. Del Grande (
Grecità ); C. Diano ( Ritorno a Plutarco ); E. Pasoli ( Per una
lettura dell’epistola di Orazio a Giulio Floro ); G. C. Giardina ( Note
per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele ( Orazio e il significato culturale
del classicismo latino ). 80 Cit. in Nisticò 1997. 81 Anceschi
1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come «anti-ca madre
comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora viva pochi anni prima
testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte del «senso
della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei,
che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il
paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata dall’Umanesimo
al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra
non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di
considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non primariamente
nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari aspetti già al
Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici
greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane […] come
modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e complesso processo di
ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85
e D’Annunzio conduce sino ai Lirici greci tradotti da Salvatore
Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella tragica primavera del 1940,
introdotti da un saggio critico del ventinovenne Luciano Anceschi. A Milano
Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito segnalandosi con il volume
Autonomia ed ete-ronomia dell’arte (1936) 86 , radicale presa di
distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di
comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il coetaneo Carlo Bo
(1911-2001) per la corrente ‘fio- 82 Tra le quali per più ragioni
merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898), allora già famoso
deputato dell’ Estrema , dedicò a Canti e frammenti di Tirteo.
Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè
Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il rifiuto della
‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di ricondurre la
poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal saprebbe
giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»), e per
l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel
mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo
milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi di
Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di
Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di
cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più
sicura». 83 Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi
della Coma catulliano-calli-machea come poesia
lirica sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci
abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che
li pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo (1803): ivi il
Discorso quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude
nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti rari
vestigi a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal
commento alla Chioma di Berenice attraverso i Sepolcri
sino alle Grazie come riflessione sul nesso che lega lirica antica
e moderna vd. Benedetto 2006. 84 Nava 2007, 90; qualche utile elemento si
trae da Tomasin 1997. 85 Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare
Solon (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato
commento in Treves Un àmbito di
particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai
metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015.
86 Lo stesso anno de La poetica del decadentismo di W.
Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M.
Untersteiner vd. Lehnus 1989. 87 Sui fondamenti filosofici e critici del
precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I ( La
nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di
ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già
con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e
1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di
spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della
singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della
parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai
Lirici greci del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa
della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo,
Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce
dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico
svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che
nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici
greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia
veramente nuova e contemporanea » e soprattutto «nella
aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirica »
l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo
Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica
sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza
sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della
terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca
come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata
dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa
aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni
composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla
no-stra coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la
prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la
parola (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove
era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia
unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci
un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la
sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la
particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità
o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’ cara agli
ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati
per fragmina («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve
in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’
propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo
segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con Quasimodo e
88 Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante
frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les
cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire
rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles
sont dans les journaux» (22-23). 89 Valgimigli 1946 (1957). Dopo
aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre
la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli
Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti
epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa
traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 . Quan-do Gentili, nel
saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente
alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto della “poesia pura”
idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica monodica] quella che fu
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe- tica per eccellenza, o
addirittura la “poesia del frammento” condensata in un’immagine di pochi versi
superstiti»), i Lirici greci di Quasimodo erano nel pieno
della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma ne
varietur delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli
Opera omnia del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal
Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni in cui se ne radicava e diffondeva
la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della
Scuola media unica. Soprattutto dai primi anni Sessanta e nel successivo
decennio si può dire che in Italia nella percezione comune, anche
gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con i Lirici
greci di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta
(1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La stessa scelta da
parte di Gentili di tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più
fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in
realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente
riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino
singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti:
«ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche
dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di
temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e
poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del
casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista,
antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica
greca». 90 Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e
Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti 2012.
Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, 6 giugno 1940,
su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di Filologia Classica»)
con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di una copia degli appena
pubblicati Lirici greci : «Caro Quasimodo / Ho avuto il libro.
Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra
tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza
inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote.
Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare
con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi
giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al
nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi –
Nuti 2012, 100-101). 91 Così per primo E. Sanguineti, uno dei
protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’
Introduzione alla sua importante antologia einaudiana Poesia
italiana del Novecento (1969) accomuna in iconoclastico dileggio
antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo
Letteratura come vita (1938); appunto perché gli antichi lirici
risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo- Sent from the all new
AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale
(Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che
si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici di
Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro
Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una
pura (attuale e antica) idea della poesia perciò fu
osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche
delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la
magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile
e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza
concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza
di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo
disposti alla sentenza , all’ esortazione o alla narrazione :
a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei
Lirici greci prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava
il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere
perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da
Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio
Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale
greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi
nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende
chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi
soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello
di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità»
95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si do, con i tratti
deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da
Sanguineti tredici sono tratte dai Lirici greci , definiti «il suo
più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei
documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». 92 L.
Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 22. 93 Con
espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di An-ceschi
del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo
ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più
elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei
contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un
particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e
condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94 Anceschi – Campagna
– Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata
[…]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva
visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in
esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in territori ambigui,
d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di
riferimento per chi cercava la sua strada». 95 Anceschi 1956, saggio con
cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di quell’anno,
riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla con-dizione della
letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera
convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica,
ma tornò ad affrontare i Lirici greci e la sua stessa introduzione
dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova edizione mondado-riana.
Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere
all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già
le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende atto del de-finitivo
isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo
valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i
lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel
gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo […]. Era un
momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce
intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti
lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi
frammenti (la giustificazione della vali-dità del frammento è
sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro
forza che la poesia non sta nella struttura, non sta
nella «musica esterio-re», non sta nel «contenuto morale» o nella
«narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una
bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto
all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di
Renato Serra (1884-1915) Intorno al modo di leggere i Greci ,
pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle
contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata
dei Lirici greci del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato
97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio
classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che
aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è
andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante
lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie- manifestazioni
dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che
la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che
rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare
delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96 «Non dimenticherò
certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando
con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee
familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la
mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia
italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»:
l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me
i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di que-sto libro?
L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi
avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare
senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo
animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come
sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io
resto malinconico e dubitoso ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia
lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;» Sent from the all new AOL app
for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto fin de
siècle («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le
fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con
l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro,
romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto
sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’:
Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda
fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le
fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua
indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e
delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi a priori ;
che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della
grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le
formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati
del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a
Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da Intorno
al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare
Intervento di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul
Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e
vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che
non ha più alcuna utilità per noi una lettura assoluta dei
classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci
possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e
che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su
questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le
consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei
classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di
Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di
continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di maggior impegno teorico e
programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: in
particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo e Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo
(Gentili 1970) 99 pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del
nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che
è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra
cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’
nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli ultimi decenni
98 Serra 1965. 99 Già in «QUCC», con il sottotitolo Sincronia
e diacronia nello studio di una cultura orale : Gentili 1969del XX secolo.
Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e
per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia
‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può
avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la
storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai
sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie
dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti
noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per
un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle
neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i
suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi
caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla
lirica gre-ca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di E. A. Havelock,
muovendo dal riconoscere che «dato comune alla lirica greca, e in generale alla
poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu
affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta
modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di
comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’
rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita
affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io
idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi
moderna, connessa invece a una «psicologia della performance
poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo
immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio» attraverso
la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica
arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo
della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente,
fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di
poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e
celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita
militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi,
delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un
committente o a un uditorio di “amiche” e di “amici” di un thiaso di ragazze o
di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui
compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che
per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di Gentili e della sua scuola
sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no sottolineare la volontà di
Gentili di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una
prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti
più volte ribadita nei decenni successivi, 100 Esemplare
l’esposizione in Gentili 1990 Sent from the all new AOL app for
iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione
come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto,
all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale
della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte» sia del
‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo
tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo,
mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi
ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con
«lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo
una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le
domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla
lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia,
dalla socio-logia all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema
concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo
evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di
una costante riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente
(dell’interprete), «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il
saggio si chiude con una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che
la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920
( Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore
contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista,
accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile
tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di
renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante
frase finale: «è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo
che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano
stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray
proposte on the stage furono grandemente popolari per decenni, e
anzi «it was largely due to Murray that Greek tragedy established itself as a
permanent feature of the theatrical landscape» 104 . L’intervento fu
incluso 101 Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da
individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia
culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e
dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono
funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri 2014. 102 Con
riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti
della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103 «Abbiamo bisogno
di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite
differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto
presente a noi come il presente». 104 Cfr. Garland 2004, in partic.
161-163. Su Euripides and Professor Murray vd. ora i rilievi
di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le
letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella
costru-zione e nell’autorappresentazione del poema The Waste Land
(1922) del concetto Sent from the all new AOL app for iOSda
Eliot nella raccolta Il bosco sacro ( The Sacred Wood
), rivelata nel 1946 alla cultura italiana dalla traduzione di Luciano
Anceschi, che premise una lunga introduzione (datata marzo 1945!) 105
dove non manca di essere menzionato Euripides and Professor Murray
, da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra
Intorno al modo di leggere i Greci » per la comune avversione verso «quel
tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi
anni del secolo e che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né
tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi,
subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia
poetica di fine secolo», appunto quella « filologia poetica , che è
riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già
attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco
scomparso) nell’introduzione ai Lirici greci del 1940 107 ,
priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di
Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella
rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo
ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla
rivista di Anceschi ( Prospettive critiche nell’interpretazione della
cultura greca dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a
discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del
Novecento nel definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio
prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi
comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange
estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio»
proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia
dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in di
fragment («these fragments have I shored against my ruins»)
vd. il profilo di Martindale 1999. 105 Anceschi 1946. 106 Anceschi
1946, 32. 107 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo
1940, 24-25. Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più
adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in
reazione a certa filologia poetica , che è riuscita a ridurre i
lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento
bellissimo: Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /
Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è
natural-mente al famoso frammento saffico 94 D. = 168b V. 108
In Quasimodo 2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato
accanto a pensieri sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della
comparsa in italiano de Il bosco sacro , il richiamo al Murray di
Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra
Ottocento e Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già
in L. Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio 1945,
15-16 (dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle,
compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo,
Erinna, Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo
novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è
indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto
del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale»,
così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello
spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo
dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti»
in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di
Eliot contra Murray già citato al termine dell’articolo di due anni
prima ( L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del
nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario
intento del brano, e in genere di Euri- pides and Professor Murray
, era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo
dell’‘occhio creativo’ 109 capace di render vivo Euri-pide con una
traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione
classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray
l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella
‘filologia poetica fine di secolo’ a lungo di voga in Italia,
colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un
linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile
linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e
oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare
di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109 È
opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il
sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili
insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno
studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo
bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue
definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia
tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il
fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì,
proprio morto». 110 Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del
diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di
pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e
giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo,
come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio
sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di
Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo
bisogno di qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il
rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti
che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche
utilità per noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo
adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di
sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un
volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne».
111 Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare,
«non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo
spirito, come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e
parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti
grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112 venne dai
Lirici greci di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da
molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 ,
fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di
lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più
nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore.
Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a
quella operata da Quasi-modo con i lirici greci, Euripides and
Professor Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gli
«arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo.
Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114 o gusto della minuzia
paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo
che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei
Lirici ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto
positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello
filologico e accademico 115 . Nel caso di G. una tale presenza e un tale
confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando
si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei Lirici
greci di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Perrotta,
nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in 112 Ottime in
proposito le osservazioni di U. Albini, Prefazione , in Perrotta –
Al-bini 1972, V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno
contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E.
Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare
la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una
grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico,
richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le
riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente
indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…».
113 Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324.
114 Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso
Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe
più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei
Lirici greci . Ancora nella postuma Premessa di L.
Anceschi, Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti
2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni
floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri
professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni
dai Frammenti dei tragici greci [1925] che lessi ai tempi del
liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore
che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie
degli esuberanti traduttori liberty del suo tempo». 115 Anche
in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello
Gigante, che «la traduzione dei Lirici greci ha conquistato
un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede
in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare
errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’
meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo
quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci
modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da
contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei Lirici
greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo
post-simbolista» di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di
classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile
tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare
e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso
i Lirici greci quasimodei nonché verso significato e influsso
nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia
greca. Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle
versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il Pindaro di
Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che
il grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per
Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di Prospettive
critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici fu
l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a
ospitare Studi in onore di Leone Traverso 119 , con
Dedica di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio
La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima
degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e
letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo,
Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a
«Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come
esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta
perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di
religio- 116 Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della
Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono
molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai
Lirici greci è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta
in Studi Perrotta 1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd.
Benedetto 2012, 40 sgg. e passim . 117 Anceschi
1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.
118 Traverso – Grassi 1961. 119 Gentili 1971. 120 Cfr. Bo
1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è l’ampio
saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa
formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei
nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua
ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga
consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto
contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non
poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le
stesse ricerche dei poeti» 121 . Già coinvolto in una polemichetta con
Quasimodo ( duce Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei
Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come
giovinezza nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la luna ) 122
, Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio
1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del greco, sin
dall’ incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici
(«perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e
ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al
giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone,
Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’
estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione,
come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia
una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in
tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione
anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle
reliquie – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario)
123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra
erme-tico di Traverso, Gentili assimila Lirici greci di
Salvatore Quasimodo e Pin-daro di Leone Traverso come «prove
più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema
d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo
la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e
ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto
originale-traduzione 124 , l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo,
al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione
tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi
inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione
filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una
vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso
all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al
caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme
naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per
seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura
francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65).
121 Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un
articolo di Carlo Bo, Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere
della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122 I testi della
disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono
ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123 Traverso
1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012,
143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i
primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana,
indipendente, che ne risulta». 124 E quindi, come da molti è stato
osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare
Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica
sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha
come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca
che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una
sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un
preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il
calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto
molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli
occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana
e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una
«fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della
distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i
successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e
di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul
«problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o
intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’,
«investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si
tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità
concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle
tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche
poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali
situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al
traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur
rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite
e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica
non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma
una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una
maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre
dai 125 G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle
tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale,
torneranno in B. G., Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini –
Cingano – Giannini 1998 2 , LXVIII . 126 Gentili richiama in nota
«il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso nel numero
speciale Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la
fondamentale prolusione urbinate Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si
conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla
convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o
intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò
risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto
in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici risposte della
storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di
sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè
«sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo
fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della
traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più
ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione
come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche,
sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla poesia
o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione
totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri
linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà extralinguistica e
situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare dettagliatamente in
rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro
variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così l’interrogarsi su una
versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe
di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del
verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche segnalando le
possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia dei
Novissimi», e in effetti nell’antologia Lirica corale greca
del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il movi-mento dei metri
simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi»
129 : va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della
poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio
caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 130 . La 127
G. Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio,
nell’ Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul
problema del tradurre in Gentili1984 (2006 4 ), (e cfr. anche
supra n. 2). 128 Si ricordi la scelta del verso libero per la
traduzione delle Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi
delle Laudi del D’Annunzio, particolarmente il verso libero
della Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il
profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia
delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della
metrica pindarica» (Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli
Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 , LXIX - LXX ); e si ricordi
altresì la lunga citazione da Maia , con l’apparizione del «monarca
de-gli Inni», al principio dell’ Introduzione alla postrema fatica
Gentili – Catenacci – Giannini – Lomiento 2013. 129 Lo rileva
Bernardini 1966, 144. In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente,
dello stesso Gentili, l’importante e innovativo lavoro Cultura dell’im-
provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età
arcaica e classica (Gentili 1980), poi riproposto in altre sedi: nella
conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi,
in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il
suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi
decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla
più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del
Parry, del Lord e dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30).
130 Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che
si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla
storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per
vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel
secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il
contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più
autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento
crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per Saffo e
Pindaro (1935) 131 . Circa la più generale posi-zione critica del
maestro, Gentili tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al
canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi
filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto»,
giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul
tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da
Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio
linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca
filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di
un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva
concretezza della sua cultura 132 . Nel prosieguo del contributo, Gentili
brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di
Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il
problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel
corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca»,
il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di
E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi Gentili rimprovera un’analisi
limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali,
tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed
extralinguistici della performance della lirica pindarica».
Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica
«il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a
repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei
singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è
per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che
ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio
131 In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M.
Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto
permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i
due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole
all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra
Intorno al modo di leggere i Greci pubblicati da E. Raimondi nel
numero de «Il Verri» 1965 su Classicità e contemporaneità ; si consi-deri
anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di
Carlo Bo La religione di Serra , poi accolto nel volume
La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132
Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni
vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133 Su questi temi vd. poi almeno
Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica
estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una
critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo
del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei
lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il
significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a
sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze
critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco
oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario,
consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti
proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte
culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi
accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970, Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici è attento al
tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del
Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano
prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio
antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la
riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non
conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il
momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella
fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non
viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili 134 Gentili
1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate
di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni
di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto)
della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di
Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135 Gentili 1972, 38. Analogamente,
e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre
risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali
sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del
futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché
si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i
discorsi conclusi in questo àmbito di studi sono palesemente insensati».
Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica
della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo
dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il
tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica
crociana nella interpretazione delle letterature classiche». 136
Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano –
Giannini 1998 2 , LXIV . 137 Così in Gentili 2002, dove anche
è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non
solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti
ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa
nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il
Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte
di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo
grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore
bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a
tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei Lirici
greci e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa
seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il
numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», come espressione
del Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica latina
diretto da G. e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività
scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei
contributi e degli interventi del direttore dei Quaderni ma più in
generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro
permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a
richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati
di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per
così dire ai due poli cronologici dei Qua-derni di Bruno Gentili.
Il primo è La veneranda Saffo , del 1966 141 , che 138
Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza dell’articolo per successivi
lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd. Bernardini 2013, 16. 139
Oltre a un cenno in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto
di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te
considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici»,
cfr. Anceschi 2006, 109), si veda soprattutto quella del 2
gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da
non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.
Diari Anceschi/2 2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno
Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un
filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale
sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro” antico
(Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse
l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più
che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del
“Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140 Così l’11 marzo 1995, a
meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione
amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi
impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per
altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia
vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La
traduzione dei Lirici Greci fu una esperienza radicale alle
origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema
fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare
con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso
che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione
complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda,
costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari
Anceschi/2 2006, 92). 141 Gentili 1966 (confluito in forma
abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384
V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è
supposto) «l’ incipit di un car-me dedicato all’illustre
concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver
espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz»
a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero
intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.):
«Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto
dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né
malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare:
non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una
donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe
ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno
rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma
più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una
poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in
essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo
accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 .
Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di
Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo
articolo di Walter Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come
as-sistente di Perrotta a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito
dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione
dell’epiteto ἄγνα all’àmbito della «castità profana» 145 , caro a «tutte
le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le
«moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 , dimostrandone invece il senso
arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva
Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo
sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza
crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal Saffo e
Pindaro di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare
la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla
‘purezza’ di Saffo Gentili decide 142 Degani – Burzacchini 2005,
241. 143 Perrotta 1935, 31. 144 Canfora 2005, 216. 145
L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»
anche nella I edizione di Polinnia , 202 ad loc . 146
«Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente
responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla
personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a
partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del
Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in
occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di
Polinnia del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196).
147 Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento,
si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei
Lirici greci di Quasimodo («o coro-nata di viole, divina / dolce
ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno
precedente Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella
lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno
lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso
dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto
alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità
sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla
funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli
amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti,
scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante
l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento
dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire
ufficiali fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di
tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di
Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni
recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di
culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle
comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient
entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di
«interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo»,
come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre
1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto,
comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica
che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul
futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti
Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati
nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale.
Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della
loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane,
basi della (post)moderna sexual revolution 149 , con tutte le forzature e
gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture.
Dell’attenzione di Gen- 148 Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in
quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di
Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI
Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi in
Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai
più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149 In luogo di rifarmi alla
sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente
determinata, ricordo il capitolo Klassieken en seksuele
vrijheid nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare
riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti
epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e
implicazioni, è infine testimonianza Saffo ‘politicamente corretta’
, l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita
posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi
avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico
150 è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai
gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti,
e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue
coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun
ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso
intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il
quale una tale Saffo politically correct va respinta,
al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché
«rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti»
151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli
studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal
titolo The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione
«the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 .
Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e
condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di
attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato
nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione
di Polinnia è stato giustamente e autorevolmente rilevato che
«in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che
la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né
che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G. non ha rinnegato le
sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non
prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo»
153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Benedetto
si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della
moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due
secoli i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità -- de
klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen. – Catenacci
2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a
rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151 Va detto che in
generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di
aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e
omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare
che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e
spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel
caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni
indebite» (Michelazzo 2007). 152 Miralles 2009, in partic. 23-24.
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Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman had
to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates
and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways.
Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens
remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’
– and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin
remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the
poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie
– but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino
and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he
teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you
don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords:
implicature, il rettore latino – la chiasura della scuola di rettorica a Roma
di Crasso e Plozio – Cicerone – una
perdita di tempo che chiude le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a
roma: i primi e gl’ultimi semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura
della cittadanza agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di
Crasso. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
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