Grice e Gerratana: all’isola – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto sociale – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli). Filosofo italiano. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione tematica. G. mette in luce lo stile "frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di G. nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, G. Essenzialmente noto per aver curato l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, G. e in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale. Il convegno è stato organizzato dalla Societea Gramsci – di cui Gerratana fu co-fondatore, assieme a Tortorella, Baratta e Liguori. Le giornate, divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di G., emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori. L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci G. non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio. Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su G. – figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di G., anzitutto perché questa facoltà contribuisce a "formare i formatori": ed è stato forse fra i più grandi meriti di G. l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di G. riguardo la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e "poli di eccellenza" privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti. L'impegno di G. come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e dell'impegno di G.. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale» (Q). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di G.: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Ha fatto seguito l'intervento di Demurtas, che ha illustrato i criteri e i temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di G. assieme alla collega Salvatori (di cui è stato letto un contributo), e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di G.. I documenti archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono circa 300 fascicoli, che si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Musci (studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di G., in particolare quelli degli studi universitari e della polemica con Croce, sottolineando una tendenza di G. a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma G. non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Reichlin e Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin incontrò G.; con Pintor formarono una cellula, e G. divenne loro dirigente, nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno. Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. G. fu dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di Prestipino –, quando cominciò a scrivere su "La voce della Sicilia". Prestipino ha raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che non firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico, marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò G.. La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Voza ricorda come si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della "lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una "tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità. Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del "documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore Italiano”), G. stende per "Società". De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel De Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio desanctisiano, più volte citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente estetica» (Q). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza artistico-culturale, cosicché G. condivide l'appello gramsciano del «ritorno al De Sanctis» (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva De Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come sempre nel '53 Gerratana abbia steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. Gerratana mise in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di G. per il realismo, conclude Voza, alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle nozioni di "progresso intellettuale di massa" e "riforma intellettuale e morale". Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Burgio ha affrontato la lettura critica da parte di G. del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come G. e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che G. scelse di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre "diverso" a seconda delle diverse fasi della ricerca di Gerratana, che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico. È degli anni '40 la Prefazione di G. al Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a G. storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea G. , «non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a Gerratana di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e Bobbio – G. prende parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da Della Volpe come ispiratore dello stato democratico e socialista). Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di «massimizzazione della democrazia», non di "anticipazione" del socialismo. Il discorso di G. muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Riuniti), sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel moto studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro della riflessione di G., ma il secondo Discorso. G. stende un saggio con al centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “Studi politici in onore di Firpo”, Angeli): Rousseau è ancora il padre della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di G., facendo perno sul testo rousseauiano: se gli scritti privilegiano il Contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota Burgio – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68 trova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di G. del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche. Infine ricordiamo il contributo di Savorelli sul “Labriola di Gerratana”, che si è soffermato sull’intento di G. di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 G. riconsidera Labriola alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – G. si preoccupa per le degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni corporative di interessi locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura pragmatica» di spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»), destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli sottolinea come le attualizzazioni cui G. volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (V. G., Labriola e la politica, “Studi storici”). Diniha concluso la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno. Dini ha letto una pagina dedicata da Racinaro a G. nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di G., secondo Dini, sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che G. riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto G./Colletti un esempio del minimo “rigorismo ideologico” di G., della sua concezione “aperta” del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni. Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di G. come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di Frosini e quella di Michele Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di G., l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti ed un lungo articolo di G. sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di Stato. Ma è stato soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee del marxismo di G., a partire da Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno» (Ricerche). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di Gerratana pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi» (p. X), che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di G. che emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa. G., politico (e) gramsciano La terza sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra G. e l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Gramsci dall'altro. Presieduta da Vacca, la mattinata si è aperta con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di G. alla Fondazione Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di G. all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44 egli era considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a "Rinascita", fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Fu, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni Rinascita” e dopo la fusione fra queste e i Riuniti” cominciò la sua collaborazione con la "Fondazione Gramsci" (fondata a Roma) come studioso di filosofia. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 – anno della "svolta" del XX Congresso del PCUS, degli eventi di Ungheria e del «Manifesto dei 101» – Gerratana resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Sono per G. gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere, impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. G. divenne poi direttore del "Centro studi gramsciani" dell’Istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme e dal '77 l'attività "gramsciana" ebbe soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni '80-'90 i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). La crisi giunge all'apice: G. vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero G. all’abbandono dell'Istituto Gramsci. É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con l'edizione dei Prison Notebooks (curati da Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di Gramsci come cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità. Negli scritti di G. che Coutinho prende in esame emerge la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione» (V. Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”). A questi due concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo G. – viene adoperato da Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per «concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito). Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione» (Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”), in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo Gerratana sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la teoria dello Stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che Gerratana offrirebbe il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti. Sviluppando l'elemento del "consenso" proprio dell'egemonia gramsciana, G. distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo (o manipolato), e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Aldo Tortorella e quella di Chiara Meta. Tortorella si è concentrato essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in G. non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di G.. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo di G., al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo “rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui G. fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e G. scelse questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di G.. Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come G. abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto ("Critica Marxista"). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, G. ricorda che Gramsci – in Q 10 dal titolo emblematico «Che cosa è l’uomo?» – argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti» (Q). D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini «organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi». Così lo sviluppo e costituzione della "personalità" di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento». Ed è proprio G., secondo Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei Quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente. Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di "memoria", ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di G., che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto fra G. e Calvino (Durante), G. e Rousseau (Ausilio), G. e Colletti (Liguori), al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Caputo), alla dialettica fra organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra G. e Calvino risalisse ai primi anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio G./Calvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di G. a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i Discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i limiti. Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di G. per il recupero di De Sanctis non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori è intervenuto sul rapporto fra G. e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei Quaderni di G. nella sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione gramsciana dei Quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del “frammento” come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di «braccia e cervello» (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di G. serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di G. come lezione viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per G., dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla memoria) la riflessione di G. come frutto della contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino Gerratana ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Geymonat: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del temperamento romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a
neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” –
Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of
Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ –
Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer
essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of
probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni
Battista, un geometra liberale di origini valdesi. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi
l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale
fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in
linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.
Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto
Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti
intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute
separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella
gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura
umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza,
creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra
l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da G. e la
sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese
anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi
algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al
partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così
preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire
la dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca
fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione,
assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra,
e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di
studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di pensiero razionalista ateo. La
sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neopositivismo (ebbe diversi
contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del
marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi.
Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda
fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza
concetti caratteristici del materialismo dialettico. Interpreta la
concezione della matematica di Galilei come un strumento d'interpretazione della
realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il
fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali
nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista
Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria e
successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione
Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione,
a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo
Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul
teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”,
spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo
strumento della ragione. Per fare
questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema
di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente
numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo,
che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo
un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e
l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per
storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur
condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più
manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia
popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale
dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I
nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo
mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora
il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente
che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è
questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore
della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.
Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La
nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo
razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei,
Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della
scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato
Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo
dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi
e rivoluzioni. scienza e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano,
La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti
di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza,
Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I
sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La
Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis,
Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen,
Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità
del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, Boringhieri, Torino. Regny, «Corrado Mangione:
breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale
Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non
fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su
«Il Mattino di Padova», lincei. G. Mario Quaranta, Geymonat filosofo della
contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore
di Geymonat, Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano.
Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in
Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e G. . Bobbio,
Ricordo, "Rivista di Filosofia" Merlo, Consuntivo storico e
filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf
(Cnr), Genova, Minazzi, “La passione
della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione
inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat,
La Città del Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione
epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini
Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti
sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi,G., un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni
Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi
sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G.
epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano
Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai,
Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa
italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di
G. (Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico
di livello scientifico molto superiore a quello delli
precedenti. Per la verità non tutti lo storici della
filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia
nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio
movimento di pensiero scientifico-filosofico come il di J. L.
Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente
critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la
maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo
sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define
polymathés, erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei
Crotonesi ai Veliani rappresentata da Filolao. Pitagora si
trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria,
dove e fiorita un’ importante scuola di filosofi medici medic.
A Crotona fonda una setta che ha un notevole peso, essendo legata al partito aristocratico. La
setta e organizzata sulla base di regole
rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio
prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea
la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici,
partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere
i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e
circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui
si rifere l’”ipse dixit” (autòs efa). Una sommossa provocata dal partito
della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge
a Metaponto e muore. Sul grande filosofo sorsero numerose leggende,
alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano
il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio,
e sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante,
attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici
è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette.
Esse hanno lunga vita e danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono
la scuola di Filolao e quella d’Archita, che
fiore a Taranto, dominando anche la città.
Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,
che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,
e che costituiscono la base per ricostruire
la dottrina di Pitagora. Archita, uomo di
straordinaria va- stità di
interessi, fu legato da amicizia con Platone.
Platone ricorda Archita
affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran
influenza sull'Accademia. Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente
fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.
All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo
esplicitamente si richiama Policleto, amico
di Fidia, che nel Canon sviluppa una teoria artistica basata sulla
concezione del del corpo bello
come giusta proporzione delle parti. Legato a
Crotona e pure Ione di Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero
fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero.
Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il
significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.
Alla fine del capitolo accenneremo al
valore intrinseco della teoria, e al
significato della crisi scientifica formatasi
nella scuola prima ancora della
cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le
mosse dalle ricerche ioniche sul principio
e in particolare dalla teoria dell'àpeiron
d’Anassimandro. Una più acuta sensibilità ai
problemi etico-religiosi (quali l'opposizione del
bene e del male nel mondo, la
vicenda della colpa e del riscatto),
stimolata probabilmente dall'incontro in Italia con
i culti misterici, e d'altro canto una
maggiore attenzione per le leggi formali
e modali della realtà, cui diedero impulso
le sue prime ri- cerche acustiche,
dovettero però fargli apparire inadeguato
il principio unico dei naturalisti ionici.
Per rendere conto di questi più
complessi problerill, Pitagora sdoppia
il principio in due opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta
l'ordine, il cosmo, il bene; dall'altra
il principio dell'il- limitato,
dell'infinito, che raffigura
il disordine, il caos, il male. La sua grande intuizione consiste
nel vedere nel numerola chiave e
la struttura ultima di un assetto della
realtà. Col termine “numero” i crotonesi
intendeno soltanto il numero intero. Non fanno particolari
indagini sulla natura di queste unità,
limitandosi a rappresentarle con un punto,
circondato da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione spaziale
facilita il passaggio, caratteristicamente
arcaico, dalla concezione del numero come
chiave e rapporto alla sua concezione
come costituente fisico elementare delle
cose. Il problema essenziale diventa
allora, per i crotonesi, quello di
cogliere il modo con cui dalla
collezione di più unità si generano
tutti gl’esseri. Le leggi della formazione
dei numeri venne considerate come leggi
della formazione delle cose, e. si ritene
di poter trovare in esse la vera
ragione esplicativa del mondo fisico e
morale. La più importante di tali
leggi e costituita - secondo i crotonesi - dal-
l'opposta struttura dei numeri dispari e
di quelli pari. L'antitesi dispari-pari venne
cosi assunta a principio di una serie
di altre opposizioni, che spezzano il
mondo in due: limitato-illimitato (opposizione
che e stata il problema iniziale, ma puo
ora venir spiegata sulla base dell 'antitesi
precedente); uno-molti; destra-sinistra; luce-tenebre;
buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo;
quadrato-rettangolo. Alcune di queste opposizioni
hanno palesemente un carattere fisico (quella
per esempio di luce e tenebre; da
essa scaturiva la raffigurazione del cosmo
come costituito da un fuoco centrale,
immerso in un'estensione illimitata di
nebbia); altre invece un preciso carattere
morale. Questa presenza di significati
multipli finiva con l'infondere ai numeri
in generale, e a certuni di essi
in particolare, un vero e proprio
valore magico-simbolico. Così “V” veniva assunto
a rappresentare il matrimonio, essendo la
somma del primo numero dispari, il III,
con il primo numero pari, il II
(l'I veniva considerato come « parìmpari
»servendo a generare sia i numeri
pari che i dispari); il IV e il
IX venivano presi come
simboli della giustizia; il VII
dell'opportunità; e così via. Di
derivazione crotonesi è un trattato di
medicina intitolato “Sul numero sette,” “Peri
hebdomadon,” che cerca appunto nei rapporti
settenari la spiegazione della struttura
dell'organismo e delle sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni è pervenuta fino
a noi, onde si attribuisce per
esempio a VII un significato speciale etico
e fisico (VII sono i ·vizi capitali,
sette le opere di misericordia, in
varie malattie si ha la «settima», ecc.).
La purificazione religiosa, che forma - almeno
in un primo tempo il fine principale
dell'insegnamento pitagorico, era cercata essa
pure attraverso la contemplazione dei
numeri. Questa venne pertanto a possedere
un doppio aspetto: filosofico e mistico.
La peculiare nobiltà dell'ascesi pitagorica
consisteva appunto nel fatto che a
ogni sua tappa doveva corrispondere la conquista
di un più alto gradino del sapere.
Il carattere mistico delle ricerche
matematiche costituì per molto tempo un
notevole impulso al loro sviluppo, e
insieme un im- pedimento al loro
caratterizzarsi come ricerche puramente
scientifiche. In particolare, la concezione
ora spiegata spinse i pitagorici a
studiare la geometria per via aritmetica.
Ne sorse una disciplina che, per il
suo doppio ca- rattere, e chiamata «
aritmo-geometria ». Essa e fondata sulla
convinzione che da un lato. fosse
possibile ricavare le principali caratteristiche
delle figure a partire dal numero dei
punti (supposto, in ogni caso, finito)
che le compongono, e dall'altro fosse possibile-
viceversa- ricorrere alla forma delle figure
per illustrare le più recondite proprietà
dei nu- meri. Di qui la distinzione
dei numeri in vari tipi. Per esempio:
triangolari polig6nali quadrati c~ bici. Al
numero triangolare X venne attribuita
un'importanza speciale, come somma dei
primi quattro numeri naturali. I dispari venneno
chiamati « gnomoni», per la possibilità
di rappresentarli informa di gnomone (cioè
squadra). Questa rappresentazione permise di
scoprire che ogni numero dispari è la
differenza di due quadrati; per esempio:
• • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze
·- tra cui quella di Proclo ·- ci
dicono che Pitagora e il primo a
comprendere la validità generale del
teorema che ancor oggi porta il suo
nome, e che, per taluni casi
particolari (per esempio quando i cateti
valgono III e IV, e l'ipotenusa V), era
noto già prima di lui. Non sappiamo
però quale ragionamento servisse a Pitagora
per provare l'importante teorema. Certamente la
dimostrazione riferita negl’ “Elementi” d’Euclide non
fu ideata dal filosofo di Crotone. IV
La dottrina che i numeri sono il
principio di tutte le cose » trovò
pure conferma negli studi di acustica.
Stando alla più antica tradizione dobbiamo
infatti ammettere che Pitagora riuscì a
scoprire i principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a questa notevolissima
scoperta dallo studio sperimentale delle
corde sonore, e dalla constatazione che
nei principali accordi il rapporto fra
le loro lunghezze è espresso da
numeri interi molto semplici. L'acustica
venne in tal modo a costituire una
specie di« aritmetica applicata», come l'astronomia
costituiva una «geometria applicata». Il
quadro delle ricerche scientifiche risultò
pertanto suddiviso in quattro rami
fondamentali: aritmetica, musica, geometria,
astronomia. 1 L'astronomia pitagorica - - parte
dall'ammissione di un fuoco centrale
immerso in una sconfinata nebbia di
tenebre. Intorno a tale fuoco si
pensava ruotassero dieci corpi (notiamo
l'intervento del numero 10): la Terra,
l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole,
i cinque pianeti allora conosciuti, e
il cielo delle stelle fisse. I
movimenti ciclici di questi corpi
produrrebbero - secondo Pitagora - una
meravigliosa armonia, che noi però non
riusciamo a percepire a causa della
sua continuità. La loro ciclicità sarebbe
la causa del ritorno periodico di
tutte le cose. Questa ripartizione
costituisce il lontano antecedente del celebre «
quadrivio », che starà alla base
dell'istruzione nelle scuole del medioevo. successivi
l'astronomia pitagorica portò a concezioni
di grande interesse scien- tifico; degna di
particolare menzione l 'ipotesi eliocentrica,
ideata per la prima volta da
Aristarco di Samo. Ricordiamo infine la
teoria secondo cui tutto il cosmo
sarebbe sorto dal fuoco centrale e
ritornato in esso per poi nascere un'altra
volta. Con riferimento ad essa, i pitagorici
chiamavano «anno cosmico» l'intervallo di
tempo impiegato dal cosmo per nascere
e ritornare nel fuoco. La teoria
pitagorica dell'anima, malgrado la sua
ambiguità, ebbe notevoli riflessi sui
filosofi posteriori. Da un lato alcune
testimonianze ci dicono che l'anima veniva
concepita dai pitagorici come «armonia» del
corpo, nel preciso senso in cui si
parla di ar- monia dei suoni emessi
da uno strumento musicale. Secondo questa
interpreta- zione, l'anima doveva venire
necessariamente pensata come mortale, poiché -
spezzato lo strumento - anche l'armonia viene
a cessare. D'altro lato sappiamo però
che uno dei cardini della filosofia
pitagorica era costituito dalla trasmigrazione
delle anime (metempsicosi), e questa
suppone ovviamente che l'anima non muoia
con il corpo che la ospita. Un
frammento del medico Alcmeone (che visse
a Crotone e fu legato ai circoli
pitagorici) afferma che l'« anima è
immortale per la sua somiglianza con
le cose immortali ... la luna, il
sole, gli astri ». 1 Come risolvere
l'apparente contraddizione? Probabilmente bisogna
ritenere che i pitagorici ammettessero due
specie di anime: una costituita dal
tempera- mento psichi co, legato
indissolubilmente al corpo e destinato a
morire con esso; l'altra da un principio
immortale o « anima-dèmone ». In ogni
vita si avrebbe una stretta rispondenza
tra le due anime; questa rispondenza
verrebbe però a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone
dal corpo. Tale uscita sarebbe da lei
de- siderata per raggiungere la purezza di
una vita interamente spirituale. A tali
dottrine si ispirava il « modo di
vita pitagorico », altamente lodato da
Platone per la sua unione di teoresi
e di ascesi; la metempsicosi in
particolare determi- nava il più famoso dei
divieti rituali pitagorici, quello di
mangiare la carne di certi animali,
nei quali potrebbe essersi incarnata
un'anima. Anche dio veniva concepito dai
pitagorici come anima; e precisamente come
« anima del mondo » che circola
continuamente in esso e perciò è
presente in ogni luogo. Il rapporto
dio-mondo restò tuttavia molto incerto
nella filosofia pitagorica, sicché non
possiamo cercare in essa un vero e
proprio sistema teolo- gico. Ad Alcmeone si
deve la notevolissima sco- perta che il
centro della vita organica e mentale
va localizzato nel cervello. Quanto abbiamo
finora riferito basta per farci comprendere
la complessità dell'insegnamento pitagorico. Se
in taluni punti esso può apparirci
ingenuo, in altri casi contraddittorio, ciò
non deve farci sottovalutare l'importanza
dei temi ivi abbozzati, che ricompariranno
ampliati e sviluppati nei più diversi
indirizzi filosofici e scientifici. Notiamo,
per esempio, che l'idea di cercare nei
numeri, cioè nella matematica, la
spiegazione di tutti i fenomeni, ricomparirà
potenziata nell'epoca moderna e formerà per
molto tempo la « spina dorsale »
di tutta la ricerca scientifica. Vi è
chi sostiene, esagerando forse le cose,
che le più celebri teorie della fisica-ma-
tematica moderna (per esempio la teoria
della relatività generale) non costituirebbero
altro che il proseguimento del programma
pitagorico. Ma, a parte ciò, noi
troviamo nella matematica di Pitagora un
carattere speciale che la differenzia
notevolmente da molte altre concezioni
posteriori, pur esse accentratesi sulla
ricerca matematica. Il carattere cui voglio
riferirmi, suol venire indicato col termine
«discontinuità». Si dice che la scienza
di Pi- tagora è una matematica del
discontinuo, perché essa si fonda
esclusivamente sui numeri interi e su
ciò che può venire espresso con i
numeri interi (per esem- pio sulle frazioni
ordinarie, e non, invece, sui numeri
irrazionali). Secondo essa, l'accrescimento di
una grandezza procede per «salti
discontinui», essendo im- possibile aggiungere
qualcosa che sia minore dell'unità. Taluno
giunge a riconoscere nelle teorie
quantistiche moderne una soprav- vivenza
dell'antica eredità pitagorica sotto forma
dì concezione discontinua dell'energia. Lasciando
da parte le reminiscenze pitagoriche
presenti nella fisica moderna, va detto
però ben chiaramente che l'aritmo-geometria
di Pitagora non ebbe vita lunga nella
scienza greca. La sua fine fu
provocata, per l'appunto, dalla crisi di
quell'idea di discontinuità che costituiva -
come s'è detto - uno dei suoi cardini
fondamentali. La grande crisi fu causata
dalla scoperta che le figure geometriche
sono co- stituite non da un numero
finito, ma da una infinità di punti.
(Le teorie moderne, che tornano ad
un'idea rinnovata di discontinuità, sosterranno
implicitamente che la geometria classica -
proprio perché parla di una infinità
di punti - non trova esatta applicazione
nella realtà.) Il primo « fatto
geometrico » che costrinse i pitagorici
a riconoscere che le figure sono
costituite da infiniti punti, è proprio
connesso a quel medesimoteorema che porta
il nome di Pitagora. Ed infatti,
applicando detto teorema ad uno dei
due triangoli isosceli in cui è
diviso un quadrato, si dimostra facil- mente
che il lato e la diagonale di
tale quadrato non possono avere alcun sot-
tomultiplo comune, cioè sono incommensurabili.
Orbene proviamo a supporre che un
segmento sia generato dall'accostamento di
una serie finita di punti (pic- coli
ma non nulli, e tutti eguali fra
loro, come allora si immaginava): ne se-
guirebbe che uno qualunque di questi
punti risulterebbe contenuto un numero
intero, e finito, di volte (per
esempio m volte) nel lato e un
altro numero in- tero, e finito, di volte
(per esempio n volte) nella diagonale.
Lato e diagonale avreb- bero dunque un
sottomultiplo comune, e non sarebbero -
come si era dimo- strato - incommensurabili.
La loro incommensurabilità esige pertanto
che es- si siano costituiti da una
infinità di punti. La leggenda racconta
che il fatto scandaloso, ora riferito,
fu gelosamente custodito per vari anni
tra i segreti più pericolosi della
setta. Esso fu rivelato fuori della
scuola pitagorica da Ippaso di Metaponto,
una delle figure più notevoli dell'antico
pitagorismo. Pastosi a capo degli
acusmatici per la moderna irre- quietezza del
suo ingegno che mal tollerava il dogmatismo
della setta, egli sarebbe stato vicino
ad Eraclito per l'idea che il fuoco
è il principio di tutte le cose,
e si sarebbe schierato dalla parte
dei democratici nei moti che condussero
alla cacciata dei pitagorici da Crotone.
Per avere rivelato la natura delle
grandezze incommen- surabili, Ippaso sarebbe
stato cacciato ignominiosamente dalla scuola,
ed a lui anzi i pitagorici avrebbero
eretto una tomba come ad un morto.
Secondo la tra- dizione su di lui
sarebbe caduta anche l'ira di Giove,
il quale lo fece perire in un
naufragio; la sua triste morte non
impedì tuttavia che lo scandalo si
diffondesse rapidamente tra i cultori di
matematica e finisse per scuotere dalle
fondamenta l'intera concezione
pitagorica. Questa crisi verrà resa ancor
più acuta dalla
scoperta delle antinomie di Zenone sul
movimento e sulla divisibilità. Per uscire
da essa, i maggiori scienziati greci
non troveranno altra via se non
quella di scindere completamente la
geometria dall'aritmetica, interpretando la prima
come studio del continuo e la seconda
come studio del discontinuo. Il rapporto tra
continuo e discontinuo resterà, per tutta
la storia del pensiero umano, un
problema molto difficile e molto dibattuto;
verrà, anzi, considerato come uno dei
più astrusi «labirinti» della ragione. L'averne
intuito l'esistenza e la difficoltà va
dunque considerato come un merito, e
molto notevole, dello spirito greco. Il
primo passo della ragione umana si
compie, in ogni ricerca, col porre a
nudo le difficoltà ivi esistenti, per
gravi che esse siano, non col
nasconderle. Solo chi le conosce, non
chi le ignora, può sentirsi spinto a
cercare i mezzi indispensabili per
risolverle o, comunque, dominarle; e questa
ricerca è la molla più decisiva del
progresso scientifico. Oggi si riconosce quale
autentico fondatore della scuola eleatica
il grande Parmenide, nato ad Elea. Parmenide scrive
un poema allegorico, “Sulla natura,” “Perì physeos,” di
cui ci sono pervenuti alcuni interessantissimi
frammenti che, integrati da varie
testimonianze, ci permettono di ricostruire
con sufficiente sicurezza il suo pensiero.
Data la vicinanza di Elea ai maggiori
centri del pitagorismo, è indubitato che
Parmenide subì, in forma più o meno
diretta, l'influenza di questo indirizzo di
pensiero. Taluni storici, accentuando questo
legame, giunsero a presentarcelo come un
pitagorico, distaccatosi
dalla scuola di provenienza per divergenze
di ordine filosofico. Tale interpretazione ci
costringerebbe a vedere in gran parte degli
argomenti eleatici, come ad esempio nelle
aporie di Zenone, un intento polemico
soprattutto antipitagorico. La gravità di questa
conseguenza lascia tuttavia perplessi molti
autorevoli critici. Si ritiene oggi
piuttosto che la critica di Parmenide
fosse rivolta in generale contro tutte
le filosofie ioniche ed italiche del
molteplice e del divenire, di cui egli
rilevava acutamente la contraddittorietà: nel
tentativo di spiegare razionalmente la realtà,
e di modellare la ragione sui dati
dell'esperienza, tali filosofie dovevano
ammettere una serie di opposizioni e
di alterità di cui però si assumeva
la coesi- stenza. Ora - osserva Parmenide - se
di una qualsiasi cosa si dice o si
pensa che « è », di ciò che
è diverso od opposto ad essa si
dovrà dire o pensare che «non è»:
e com'è possibile riconoscere realtà alcuna
a ciò che non è, se non si
vogliono violare le leggi immutabili del
discorso e del pensiero? La grandezza
della filosofia di Parmenide, quella
grandezza che costituì un fecondo punto
di partenza per il pensiero successivo
e anche un difficile problema la cui
soluzione era tuttavia indispensabile per
poter progredire, sta proprio qui:
nell'aver cioè individuato nella sua radice
filosofica l'ambiguità della speculazione ionica
edita- lica, e nell'aver posto in primo
piano il problema della verità del
linguaggio e del pensiero, il problema
della « via », cioè del metodo,
che linguaggio e pensiero dovevano
percorrere per giungere alla realtà. Il
metodo vero costruisce cono- scitivamente la
realtà, l'essere, perché elimina gradualmente
dal pensiero tutti i contrassegni di
irrealtà, di non-essere, che vi si
erano infiltrati: la molteplicità nello
spazio, intesa come differenziazione di
parti, la molteplicità nel tempo, intesa
come differenziazione di momenti, il vuoto
inteso come assenza di realtà, la
generazione e la distruzione intese come
limiti dell'essere. Partito dal riconosci- mento
logico e metodologico delle esigenze del
pensiero e del discorso, Parme- nide giunge
al culmine della via a dichiarare
l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza
del non-essere, e la parimenti assoluta
esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità
di pensare e di dire il vero.
All'essere non potrà venir riferito -
sempre per l'opposizione or ora ac- cennata
- alcun attributo, che possa in qualche
modo diminuirne la positività, assimilandolo
al non-essere. Ci si dovrà limitare a
dire che esso è uno, invaria- bile,
immobile, eterno. Qualche critico moderno
però (come Untersteiner) ha ritenuto che
Parmenide avesse concepito l'essere come
«totalità>> e non come «unità».
L'erronea interpretazione del suo pensiero
sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di
Teofrasto che attribuisce a Parmenide il
sillogismo: « Quello che è oltre
l'essere non esiste; quello che non
esiste è nulla; dunque l'essere è
uno.» L'attributo dell'unità, con cui
polemizzò Aristotele, risalirebbe solo a
Melissa. Come possiamo conciliare la
concezione parmenidea dell'essere col fatto
incontrovertibile che l'esperienza ci presenta
ad ogni piè sospinto degli esseri
molteplici, variabili, temporanei? Di fronte
a questo stato di cose - risponde
Parmenide - non vi è altro da fare
che respingere la nostra spontanea fiducia
nell'esperienza, riconoscendo che essa
costituisce per l'uomo una via di
conoscenza fallace e illusoria. Al mondo
dell'esperienza è appunto dedicata la
seconda parte del poema di Parmenide.
Confutate « le opinioni dei mortali
», quali si erano espresse nelle
precedenti cosmologie naturalistiche basate sul
divenire, Parmenide non rinuncia tuttavia a
costruire una propria spiegazione di questo
mondo, di cui aveva di- chiarato la
radicale inconsistenza di fronte all'assoluto
essere. Molto si è discusso fra gli
studiosi sul significato da attribuire a
questo sconcertante aspetto del pen- siero
parmenideo: fra le più recenti, le
due posizioni estreme sono quella del
Raven, secondo cui l'eleata, impegnato
nella polemica contro l'indebita confu- sione
di razionale e di empirico tipica dei
suoi predecessori, avrebbe voluto costrui- re
una cosmologia a base puramente empirica,
da affiancare alla dottrina logico- razionale dell'essere
in modo da isolare ancor più
chiaramente i due momenti; e quella
dell'Untersteiner, che ritiene che il mondo
dell'essere e il mondo del- l'esperienza
siano unificati nel pensiero di Parmenide
dal medesimo metodo ra- zionale, in grado
di individuare il fondamento di realtà
presente anche nel se- condo: una realtà,
tuttavia, che si differenzia da quella
assoluta in quanto immersa nel tempo,
e che ne costituisce perciò soltanto
una immagine. In ogni caso se ne
può concludere che per Parmenide solo
la ragione è un mezzo di conoscenza
veramente efficace; solo essa, rompendo la
crosta delle ap- parenze, può farci
cogliere l'unità profonda del reale.
L'opposizione tra razio- nalismo ed empirismo,
che tanti sviluppi avrà nella storia della
filosofia, trova proprio qui la sua
prima radice. L'essere di Parmenide è
stato interpretato da taluni in senso
idealistico, da talaltri in senso
materialistico. Enttrambe queste interpretazioni
svisano, però, il pensiero del grande
eleata, non tenendo conto che esso
antecede, in realtà, ogni consapevole
distinzione tra idealismo e materialismo.
L'affermazione di Parme- nide che più si
presta ad una interpretazione materialistica
è quella che ci presenta l'essere
come sferico (cioè come una sfera piena). Evidentemente
Parmenide pensa alla sfera, perché la
superficie sferica non è limitata da
alcun perimetro né inter- rotta da alcuno
spigolo. Non si può tuttavia negare
che la sfericità ora accennata vada
accolta con la massima cautela; se
infatti la interpretassimo alla lettera, ca-
dremmo in contraddizione con tutto
l'insegnamento di Parmenide, perché sa- remmo
costretti ad ammettere l'esistenza di un
non-essere (o vuoto), che è al di là
dell'essere sferico, e lo limita. Essa va
intesa invece come identità e assolutezza
dell'essere lungo tutte le direzioni; come
è stato recentemente osservato, la sfera
di Parmenide è più simile allo spazio
curvo einsteiniano che al solido euclideo
che siamo portati a raffigurarci.
L'interpretazione idealistica è d'altra parte
esclusa perché se il pensiero scopre
l'essere, certamente non lo crea; anzi
è piuttosto l'esistenza dell'essere a
rappresentare la possibilità e la
condizione del pensiero, che in esso
culmina e con esso deve identificarsi.
Parmenide ha due grandi discepoli: Zenone e
Melisso. Il contributo da essi arrecato
all'affinamento del pensiero del maestro
assicura loro un posto assai ragguardevole
nella storia della filosofia. Entrambi si
adoperarono a difenderne le tesi sia
pure svolgendo in direzioni opposte la
tensione che vi era implicita: Zenone
cioè approfondendo la problematica dellogos
nella sua crescente autono- mia, Melisso invece
sviluppando il tema dell'essere nella sua
assolutezza sostanziale. Zenone di Elea e un
ingegno acuto, sottile, e vigorosamente polemico.
Per gl’argomenti ideati a difesa dell'unità
(intesa come omogeneità e con- tinuità non
divisibile in parti) ed immobilità
dell'essere, e per il suo metodo di
discussione, Aristotele, che li discusse a
lungo nella “Fisica”, lo considera il
fondatore della dialettica. L'originalità del suo metodo consiste
nell'assumere a punto di partenza la
tesi da confutare e nel dedurne
rigorosamente tutte le logiche conseguenze,
per mostrarne la contraddittorietà e di
conseguenza l'assurdità della tesi. Si occupa
di politica e contribue notevolmente al
buon governo di Elea. Muore con
grande fierezza per aver cospirato contro
il tiranno della città (Nearco o
Diomedonte). Sullà sua fine si tramandano
vari particolari che ne confermano
l'eccezionale coraggio. I celebri argomenti di
Zenone a difesa della filosofia di
Parmenide mirano a provarci che, se la
negazione del movimento e della molteplicità
può a prima vista apparire assurda,
l'ammissione di essi conduce tuttavia ad
assurdità ancor più gravi, nascoste, ma
non risolte, dal linguaggio ordinario. Il
perno di tali argomenti consiste nella
dimostrazione che, sia nella nozione di
movimento, sia in quella di pluralità,
si annida il delicato concetto .di infinito.
Immaginiamo che un mobile debba spostarsi
da un estremo all'altro di un I
Ecco, per esempio, una versione dei
suoi ultimi istanti: « Antistene, nelle
Successioni, rac- conta che Zenone, dopo
aver denunziato come cospiratori gl’amici del
tiranno, fu da questi in- terrogato
se c'era qualche altro complice. Egli rispose:
" Tu, la rovina della città.
" E poi, rivolto ai presenti,
esclamò: "Mi meraviglio della vostra
viltà, se siete servi della tirannide
per timore di questo che ora io
sopporto." Da ultimo, mozza- tasi coi
denti la lingua, gliela sputò addosso.
I cittadini allora, incitati da questo
esempio abbatte- rono il tiranno. »dato
segmento: prima di aver percorso. tutto
il segmento, dovrà averne percorso la
metà; prima di questa, la metà della
metà, e cosl via all'infinito. In
modo ana- logo, se il «piè veloce»
Achille vuole raggiungere la lentissima
tartaruga, che lo precede di un
tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi
tutto quella distanza s, poi il
tratto s' percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s, poi il tratto
s" percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s', e così via
all'infinito. Nel- l'un esempio come nell'altro,
il fatto- in apparenza semplicissimo - del mo-
vimento, si frantuma dunque in infiniti
moti, sia pure sempre più piccoli ma
non mai nulli. Proprio questa loro infinità
è causa di profonde difficoltà concettuali,
che non possono non rendere perplesso
qualsiasi uomo disposto al ragionamento.
Quanto all'argomentazione di Zenone contro
la molteplicità, essa si svolgeva così:
supponiamo che esistano due entità A
e B distinte; per il fatto di
essere distinte, queste due entità devono
risultare separate da uno spazio intermedio
C. Ma C è distinto tanto da A
quanto da B, e quindi esisteranno altri
d).le elementi D ed E che separano
rispettivamente C da A e da B,
ecc. Poiché ciò può venir ri- petuto
all'infinito, se ne conclude che l'ammissione
di due entità distinte conduce di
necessità all'ammissione di infinite entità.
Al fine di porre luce sulle difficoltà
logiche di quest'ammissione, Zenone passava
poi a dimostrare come, partendo da essa,
si debba giungere a negare l'esi- stenza di
qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti- così
ragionava- se gli elementi che costituiscono
un segmento AB sono infiniti, o essi
sono nulli, o non sono nulli; nel
primo caso la lunghezza del segmento non
può essere che nulla (perché la somma
di infiniti zeri è zero); nel secondo
non può che essere infinita (per- ché a
suo parere la somma di infinite
quantità diverse da zero sarebbe infinita).
É ingiusto considerare questi ragionamenti
zenoniani
(e gli altri che, per brevità, siamo costretti a
tralasciare) quali semplici sofismi o
pseudoragionamenti. In realtà, essi attirano
efficacemente la nostra attenzione su
talune gravissime difficoltà dei due concetti
di movimento e di lunghezza, dovute
all'inevitabile in- troduzione dell'infinito, sia
allorché si scompone un intervallo di
tempo (o il moto attuantesi in
qtJ.esto tempo), sia allorché si scompone
un segmento. Questi argomenti - che
venivano ad aggiungersi alle difficoltà già
ricordate nell'ultimo paragrafo del capitolo
III, connesse alla scoperta delle grandezze
incommensurabili - suscitarono presso i greci
una tale diffidenza nei confronti dell'infinito,
da persuaderli a compiere qualunque sforzo
pur di escludere tale concetto- per lo
meno nella forma di « infinito
attuale » 1 - da ogni seria
costru-I Si dice che una grandezza
variabile costi- tuisce un infinito potenziale quando,
pur as- s~mendo sempre valori finiti, essa
può crescere al di là ~i ?gni
limite; se per esempio immaginiamo di
suddividere un dato segmento con successivi
di- mezzamenti, il risultato ottenuto sarà
un infinito pot~nziale perché il numero
delle parti a cui per- ventamo, pur
essendo in ogni caso finito, può
crescere ad arbitrio. Si parla invece
di infinito attuale quando ci si
riferisce ad un ben determi- nato insieme,
effettivamente costituito di un nume- ro
illimitato di elementi; se per esempio
immagi- niamo di avere scomposto un
segmento in tutti i suoi punti, ci
troveremo di fronte a un infinito
attuale perché non esiste alcun numero
finito che riesca a misurare la
totalità di questi punti. zione scientifica.
Oggi noi abbiamo imparato, con l'analisi
infinitesimale e con la teoria degli
insiemi, a trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infi- nito
potenziale sia quello attuale); proprio
perciò tuttavia ci rendiamo conto che
le difficoltà incontrate dai greci erano
effettive, non artificiose, e possiamo affer-
mare con piena consapevolezza che non
erano certo dovute a volgari errori
di logica, non erano dei « sofismi
» nel senso usuale del termine. Dal
punto di vista dell'eleatismo, il metodo
scelto da Zenone per difendere le posizioni
di Parmenide poneva tuttavia la premessa
di una loro crisi e di un loro
superamento. Lo spregiudicato uso
logico-matematico che egli faceva del logos
non si muoveva più sulla via di
una identificazione del logos stesso
all'essere, del riconoscimento di una
realtà scoperta dal pensiero ma in
cui il pensiero doveva confondersi; Zenone
poneva piuttosto le premesse per uno
svincolamento del discorso logico-matematico
dalla realtà, e lavorava quindi
oggettivamente alla rottura di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
«vera via» proposta dal grande maestro di
Elea. La figura di Melisso è assai
diversa da quella di Zenone. Nato a
Samo quasi contemporaneamente a Zenone,
egli trascorse tutta la vita nella propria
isola, ove ricoprì importanti cariche
politico-militari. Basti ricordare che fu
capo della flotta con cui Samo
sconfisse gli ateniesi. La sua permanenza
a Samo co- stituì, in certo modo, il
ponte ideale attraverso cui l'insegnamento
eleatico per- venne dalla Magna Grecia
nell'Asia Minore. La lunga lotta fra
Mileto e Samo può del resto
contribuire a spiegare l'abban- dono melisseo
della tradizione ionica; una tradizione,
tuttavia, che continuò ad operare
indirettamente nel suo pensiero condizionando
in senso realistico la sua riforma
dell'eleatismo, in contrapposizione all'indirizzo
prevalentemente logico che quest'ultimo aveva
assunto in Zenone. Più che alla
difesa delle teorie del maestro, Melissa
si dedicò infatti al loro sviluppo e
alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale
carica logico-verbale e metodica, Melissa
si propose una più coerente deduzione
dei caratteri sostanziali e antologici
dell'essere. Egli fu il primo ad
insistere sul suo carattere di unità,
che rappresentava più adeguata- mente in
senso spaziale e temporale la «totalità»
dell'essere parmenideo, e so- prattutto sulla
sua infinità. Melissa afferma in proposito
che non è possibile interpretarlo come
sferico (per le difficoltà accennate alla
fine del paragrafo n) bensì lo si
deve concepire come infinito o illimitato
sia nello spazio sia nel tempo. Per
analoghe ragioni egli negò che si
potesse ammettere,. nell'uno, una qualsiasi
sofferenza o dolore o altra passione,
perché ciò provocherebbe in lui una
specie di perturbazione e quindi ne
diminuirebbe l'unità e immobilità. Quest'ultimo
argomento sembra mostrare come Melissa,
sulla traccia della teologia di Senofane
e della tradizione ionica, dovette
interpretare l 'unico essere come dotato
di vita: una vita, probabilmente, identica
al pensiero, secondo l'equa- zione parmenidea
che abbiamo già esposto. Secondo la
tradizione, Melissa avrebbeanche definito l'essere
come incorporeo, il che contrasta con la
sua infinita esten- sione spaziale e con
la negazione eleatica del vuoto : ciò
mette a nudo in realtà una profonda
contraddizione dell'eleatismo, che non poteva
concepire la realtà come puramente
intelligibile ed incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle tutte le
caratteristiche di pura intelligibilità richieste
da un pensiero filosofico ormai maturo.
L'incorporeità dell'uno melisseo significava
dunque soltanto che esso era invisibile
e illimitato da qualsiasi forma o
corpo tangibile; e significava al tempo
stesso il portare al limite una
contraddizione già implicita in Parmenide
del cui superamento avrebbe grandemente
beneficiato il pensiero posteriore. L'avere reso
l'essere infinito nello spazio e nel
tempo impediva a Melissa di accettare
la bipartizione parmenidea tra realtà
atemporale e mondo sensibile temporale: a
quest'ultimo doveva venir negata qualunque
sia pur secondaria sussistenza, ed è
infatti alla negazione dell'esistenza e della
concepibilità delle cose sensibili che
Melissa dedica alcune delle sue
argomentazioni più suggestive. Perché una
cosa qualsiasi, egli dice, possa essere
conosciuta, pensata ed esistere, essa
dovrebbe essere sempre identica a se
stessa, assolutamet?-te immobile ed immuta- bile
nello spazio e nel tempo, giacché una
minima modificazione ne farebbe una cosa
diversa e così via all'infinito; dovrebbe
dunque avere le stesse caratteristiche
dell'uno. Proprio questo argomento, che egli
intendeva come una sfida contro il
pluralismo, sarebbe stato rovesciato e
raccolto dalla corrente estrema del plura-
lismo, quella atomistica: si può dire
infatti che l'atomismo attribuì alle sue
in- finite unità fisiche proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo, ad eccezione
dell'immobilità che non era più necessaria
dato il riconoscimento del vuoto. Con
Zenone e con Melissa, l'arco dell'eleatismo
si conclu<i.e così, sia sotto la
spinta di contrapposte esigenze logiche e
naturalistiche che esso aveva cercato di
stringere in una compatta unità, sia
per l'insorgere di problemi che esso stesso
aveva per la prima volta portato in
luce e chiarito, ma che non potevano
essere risolti nel suo ambito. L'eleatismo
era comunque destinato a restare una
pietra miliare nel pensiero greco, un
imperativo richiamo alla soluzione di
alcuni fra i più profondi problemi
filosofici. La sua importanza fu enorme
anche nella storia del pensiero
scientifico, soprattutto - come abbiamo più
sopra spiegato - per quanto riguarda l'affi-
namento delle esigenze logiche. Vale la
pena ricordare le parole con cui
questo contributo degli eleati è
sottolineato in una recente, autorevolissima,
storia della matematica, Eléments d'
histoire des mathématiques del gruppo Bourbaki: Il tenore degli scritti filosofici subisce un
brusco cambiamento : i filosofi affermano o
preconizzano (o tutt'al più abbozzano vaghi
ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe
analogie), a partire da Parmenide e so-
prattutto da Zenone essi " argomentano
" e cercano di ricavare dei
principi generali che possano servire di
base alla loro dialettica: appunto in
Parmenide si trova la prima affermazione
del principio del " terzo escluso
"; e le dimostrazioni " per
assurdo " di Zenone di Elea sono
rimaste celebri. » Anzi, il richiamo so-
pra ricordato di Aristotele a Zenone
come fondatore della dialettica, sembra
appunto riferirsi all'attribuzione all'eleate
della scoperta e dell'impiego della
reductio ad impossibile in metafisica
(suggerito peraltro a Zenone, probabil- mente,
dall'impiego che di tale forma di
ragionamento veniva fatto dai mate- matici
pitagorici. Nato ad Agrigento intorno al49o
e morto verso H 430, Empedocle riassunse
nella propria vita tanto la ricchezza
di umori della sua terra natale,
quanto la grandezza e l'ambiguità del
suo pensiero. L'entusiasmo per la natura
e la varietà dei suoi fenomeni, il
profondo senso religioso che connetteva
uomini, dei e fysis in intimi legami;
la violenza delle passioni politiche,
l'ansia della salvezza e il senso del
tragico: di questi caratteri della Sicilia
greca Empedocle fu, prima che interprete,
pienamente partecipe. Capeggiò la fazione
democratica della sua città; esiliato nel
Peloponneso, si recò in seguito ad
assistere alla fondazione di Turi, dove
poté probabilmente incontrare Protagora, Erodoto
ed Ippodamo; non è da escludere un
suo contatto diretto con gli eleati.
Seguendo l'uso ar- caico, scrisse in versi;
uno dei suoi poemi, Sulla natura
(Perì Jjseos), trattava argo- menti cosmologici
e naturalistici, l'altro, le Puriftcazioni
(Katharmoi), aveva ca- ratteristiche spiccatamente
mistico-religiose. Il rapporto cronologico fra queste
opere e quelle di Melissa e di
Anassagora è incerto; sembra tuttavia che
egli le abbia composte prima di
quest'ultimo. La tensione fra i due
aspetti della perso- nalità di Empedocle -
tuttavia, come vedremo, profondamente interrelati
- ap- pare già dall'argomento dei suoi due
poemi; e si riflette in quanto ci
è noto della sua vita, pur attraverso
le molte leggende di cui fu ben
presto ammantata. Stu- dioso di fysis,
amava presentarsi come profeta e capo
religioso, e vagava per le città di
Sicilia seguito da turbe di seguaci entusiasti;
teorico di biologia e di micina -
anzi fondatore di una scuola di
medicina scientifica - si considerava però
guaritore e iatromante alla stregua di
Apollo, e vantava la capacità di ope-
rare miracoli; conoscitore attento ed
esperto delle technai, si atteggiava
tuttavia a mago. Interessante è il
caso del suo intervento a Selinunte:
la città soffriva di un'epidemia, dovuta
alle acque infette del suo fiume, che
veniva attribuita agli dei; accorsovi,
Empedocle risanò la città con incantagioni
e magia (di fatto rea- lizzando la
confluenza di altri due fiumi a monte
di Selinunte per purificare le acque
del primo). «Sciocchi! giacché non hanno
pensieri di larga veduta; essi credono
che possa nascere ciò che prima non
era o che qualcosa possa perire e
andar del tutto distrutta ... E
un'altra cosa ti dirò: non c'è nascita
alcuna di tutte le cose mortali, né
alcuna fine di morte funesta; ma solo
mescolanza e cangiamento di cose commiste,
e nascita si chiama fra gli uomini.
» In queste parole Empedocle esprime
limpidamente la misura della sua
accettazione dell'eleatismo e insieme le
prospettive della sua soluzione. L'impossibilità
che ciò che è derivi da ciò che
non è o vi si dissolva si
impone al filosofo di Girgenti come il
requisito fondamentale della realtà e della
pensabilità del mondo; e perciò egli
non può considerare se non come follia
il pensiero pre-eleatico. Tuttavia, proprio
in Melisso egli trovava la chiave del
riconoscimento della molteplicità del mondo;
giacché bastava riconoscere i caratteri dell'
«uno» melisseo -l'identità nello spazio e
la permanenza temporale - a un certo
numero di realtà distinte, perché da esse
si potesse dedurre l'intera varietà del
molteplice. Certo, tale soluzione cozzava
pur sempre contro gli imperativi
logico-metodici di Parmenide; ma, come si
è visto, Melisso aveva già avviato la
loro ontologizzazione, cioè la loro
trasformazione in realtà spazio-temporale: aveva
insomma avviato, nel linguaggio dell'epoca,
la trasformazione dell'essere in «pieno».
Da questa prospettiva melissea prendeva
propriamente le mosse Empedocle - come ha
messo in luce il Calogero - giacché
essa corrispondeva alla sua esigenza di
dar conto del mondo, nella sua
varietà quale si offre ai sensi,
nella sua segreta unità quale è colto
dall'anima, nella sua realtà cui il
pensiero non può rifiutarsi. Nel suo
presentarsi alla nostra osservazione, la
realtà appare indefinitamente diversa eppure
connessa da ritmi, da cicli, da
permanenze che ne formano la struttura
unitaria; così come accade per l'organismo
vivente, mutevole eppure uno, la realtà
appare un tessuto variegato di poche
sostanze semplici, un divenire scandito dal
ciclo delle stagioni, della generazione,
degli astri. Fedele per istinto alla
verità dell'osservazione, Empedocle concepiva
dunque il mondo come un organismo
unitario vivente e senziente, del quale
nessuna parte poteva venire arbitrariamente
amputata e tutte dovevano avere una
loro profonda giustifica- zione. Se questo punto
di vista ilozoico doveva trovare una
spiegazione non mitica, una più universale
razionalizzazione, occorreva infondervi i
requisiti melissei del vero; occorreva, una
volta reso molteplice l'« uno», trovare
un'armonia tra questo vero molteplice e
la molteplicità dell'esperito. Da questa
esigenza nasce il sistema cosmico di
Empedocle, una delle più potenti sintesi
teoriche del pensiero greco. Alla base
del sistema stanno i quattro elementi,
o piuttosto « radici » come li
chiama Empedocle stesso con un termine
che meglio corrisponde alla sua vi- sione
vitalistica del mondo: la terra, l'acqua,
il fuoco, l'aria (o meglio l'etere).
Tali elementi non sono nuovi nella
filosofia presocratica: si pensi all'acqua
di Talete, al fuoco di Eraclito e
così via. In tutti questi pensatori il
processo era consistito nell'assumere una
zona dell'osservazione empirica alla funzione
pri- vilegiata di principio o arché di
.fJ'Sis; nel rendere quindi assoluti alcuni
dati dell'esperienza per usarli come chiave
di comprensione e di spiegazione dell'e-
sperienza nella sua totalità. Identico è
l'approccio fondamentale di Empedocle: un'analisi
dell'osservazione lo porta a scoprire in
ciò che è osservato alcune costanti
fondamentali, che una volta generalizzate e
rese assolute, valgono a spiegare
l'osservato - di cui sono costituenti
essenziali - e l'osservazione stessa - di
cui sono canoni imprescindibili. Merito
specifico di Empedocle è tuttavia quello
di aver isolato, sia dall'osservazione
diretta sia dalla precedente riflessione
naturalistica, tutte e solo quelle costanti
che potessero valere da ra- dici, senza
che si fosse costretti, contro l'imperativo
eleatico, a postulare il mu- tamento di
una radice in qualcosa diverso da sé
(come avevano dovuto fare i monisti
ionici), né ad immaginarne un numero
eccessivo, che avrebbe ostacolato la
semplificazione e quindi la possibilità di
comprensione dell'esperienza. Ad ognuna delle
quattro radici Empedocle attribuiva dunque
lo status del- l'« uno» melisseo:
l'infinità e l'immutabilità nello spazio e
nel tempo, l'essere ingenerati e
imperituri, e di conseguenza l'assoluta
realtà e intelligibilità. Ciò non
significava tuttavia negare la realtà degli
infiniti altri oggetti dell'esperienza: ogni singolo
ente è il risultato di una mescolanza
delle radici, la sua nascita è la
formazione della mescolanza e la sua
morte ne è lo scioglimento; benché in
tali mescolanze le radici entrino sotto
forma di porzioni frazionali, neppure nella
minima di esse perdono alcuna delle
loro proprietà. L'individualità specifica di
ogni composto gli deriva dalla diversa
proporzione dei componenti (così ad esempio
le ossa sono formate da due parti
di acqua, due di terra, quattro di
fuo- co; il sangue dal miscuglio perfetto
I :I :I :I). Si è visto in
questa dottrina di Em- pedocle un'anticipazione
della chimica, il che può anche
essere accettato qualora non si dimentichi,
però, che le radici empedoclee non
solo erano concepite come viventi ma
anche come divinità creatrici, in stretto
rapporto con la cosmogonia orfica. Se
le quattro radici potevano spiegare, nel
loro vario comporsi, la molte- plicità del
mondo, esse non davano tuttavia conto
del suo infinito divenire, del formarsi
e dello sciogliersi dei composti;
unificavano cioè il reale in senso sin-
cronico ma non diacronico. Empedocle
introdusse quindi altri due principi,
questpiù spiccatamente dinamici: « amicizia»
e « discordia». Come le quattro
radici rappresentavano una generalizzazione
dell'osservazione naturale, così queste due
«forze» rappresentano una generalizzazione dell'esperienza
psichica, e perciò allargano a tale
settore la capacità di comprensione e
di spiegazione del sistema. Nel mondo
di Empedocle non era tuttavia pensabile
una distinzione radicale delle due sfere,
come abbiamo osservato in sede
introduttiva, ma piuttosto una diversa
funzionalità della medesima realtà: come le
radici sono a loro volta viventi,
così « amicizia » e « discordia
» sono coestese e coeterne ad esse,
e dunque non meno di esse «reali».
«Amicizia·» simbolizza nel sistema l'attrazione
del dissimile, cioè l'impulso che spinge
le diverse radici a fondersi reciprocamente
dando luogo a composti sempre più
stabili; «discordia» rappresenta invece
l'attrazione del si- mile, cioè la forza
che spinge ogni radice a restare
coesa a se stessa, sciogliendo qualsi.asi
composto. Questi due principi sono stati
interpretati come cause in senso
aristotelico e anche, modernamente, come le
forze elettromagnetiche di attrazione e
repulsione. Benché anche questi siano
possibili sviluppi del pensiero empedocleo,
va ribadito che nel suo quadro
«amicizia» e « discordia» rappre- sentavano
soprattutto le funzioni essenziali di una
realtà vivente, in cui causa e
causato, forza e materia non potevano
essere distinte se non in modo
simbolico, non erano che aspetti
profondamente connessi di un unico mondo;
mentre poi esse rappresentavano l'aggancio
più immediato, come vedremo, alle vedute
religiose e morali, che a quel mondo
non potevano certo essere eterogenee.
Funzione primaria delle forze nel sistema
era comunque quella di promuovere il
divenire. Poiché tale divenire non poteva
dar luogo ad alcun mutamento dei suoi
contenuti fondamentali, secondo il divieto
eleatico, esso non poteva pre- sentarsi che
come ciclo: solo nel ciclo si dà
infatti ripetizione perpetua dei me- desimi
eventi e delle medesime strutture, solo
il ciclo concilia le sembianze del
divenire (l'esperienza umana non può
carpirne che una piccola frazione e
ha dunque l'impressione del mutamento) con
la verità del permanere, rivelata a
chi penetri nell'intimo della natura. Nel
periodo cosmico di assoluta prevalenza di
«amicizia», ognuna delle radici è così
strettamente congiunta alle altre che
nessun singolo ente sussiste di per sé:
«Non v'è discordia né infausta contesa
nelle sue membra ... Non più si
distinguono in esso le agili membra
del sole, né la forza villosa della
terra, né il mare, tanto fortemente
sta legato nei fitti segreti del-
l'armonia, d'ogni parte uguale e per
tutto infinito," sfero "rotondo che
gode della sua solitudine circolare. »
Nello « sfero » è facile individuare
l'« uno» eleatico, non tuttavia visto
come unico possibile assetto della realtà,
ma conquistato dalla vittoria di un'armonia
di schietta derivazione pitagorica; qui
emerge anche il valore religioso e
morale di «amicizia», che significa
concordia e pace nel cosmo e fra gli
uomini. Agli antipodi sta il trionfo di «
discordia», che vede ognuna delle radici
ritratta in se stessa e ostile alle
altre, il che parimenti significa la
fine del mondo quale noi lo esperiamo
e comporta la negazione dei valori
etico-religiosiFra i due opposti regni,
stanno le vaste regioni in cui «discordia»
viene prevalendo su «amicizia», e quindi
scioglie le radici dal loro complesso senza
tuttavia contrap- porle del tutto; qui si
situa una prima generazione del molteplice;
e l'altra dove «amicizia» si a.dopera
a ricomporre l'unità senza poter ancora
scacciare del tutto «discordia», sicché il
processo di unificazione è ancora frammentato
in una mol- teplicità di enti: ed è
questa la seconda generazione del mondo
che noi osser- viamo. Va detto che
mentre il ciclo nel suo insieme è
determinato dalla neces- sità (ananke), la
formazione dei singoli composti è affidata
al caso (ryche) e che quindi la
natura che noi esperiamo consta della
sintesi di necessità e di caso.
Questa veduta è importante per la
comprensione di molte posizioni della
scienza naturale greca. Come si articoli
concretamente il ciclo nelle due fasi intermedie
è mostrato più chiaramente da Empedocle
a proposito degli organismi viventi, cui
andava il suo prevalente interesse (non
a caso è possibile paragonare l'intera
vita cosmica alle sistole e diastole del
cuore, e lo « sfero » appare
assai vicino all'« uovo » origi- nario
presente nel culto orfico ). All'inizio
del ciclo di «amicizia», in un mondo
ancora dominato da « discordia», si
venivano formando membra ed arti separati:
« Sulla terra spuntarono teste senza colli,
ed erravano braccia nude prive di spal-
le, vagavano occhi soli sprovvisti di
fronti»; poi queste membra si congiungono
a caso dando luogo a mostri d'ogni
specie: «e molti esseri nascere con
doppie facce e petti, e buoi con
facce d'uomini, o invece sorgere busti
umani con teste bovine, e forme miste
di maschi e di femmine, provviste di
membra villose. » Ma la gran parte
di queste forme viventi perivano,
sopravvivendo solo quelle più adatte alle
condizioni di vita perché meglio
organizzate nella propria strut- tura. È interessante
notare che in questo processo è
assente qualsiasi idea di finalismo
preordinato; i viventi si aggregano a
caso, ed è la selezione naturale che
decide della sopravvivenza di alcuni di
essi. Nell'opposto processo di «di- scordia»,
che viene disgregando l'unità cui
«amicizia» era finalmente giunta, si
formano dapprima creature complete, omogenee;
ma una separazione successiva dà luogo
alle creature del mondo in cui
viviamo, differenziate per sessi e per
la prevalenza in esse di una delle
radici (così nella costituzione dei pesci
prevale l'acqua, ecc.). Abbiamo già visto
come la struttura del nostro organismo
fosse interpretata da Empedocle mediante la
composizione delle radici in diverse
proporzioni. A spiegare la compenetrazione
reciproca delle radici, e i maggiori
fenomeni vitali, quali la respirazione 1
e il movimento del sangue, Empedocle
concepiva I Il resoconto della respirazione
va ripor- tato per la sua originalità
e tipicità. Il sangue si muove entro
pori i cui fori terminali sono abba-
stanza piccoli da non permettergli di
fuoriuscire, sufficienti però per lasciar
entrare l 'aria nel corpo. !utta la
spiegazione è costruita per analogia con
ti funzionamento della clessidra o pipetta
per il travaso dei liquidi da un
recipiente all'altro. Al- lorché il sangue
si ritrae dai pori, esso attira
l'aria che irrompe nel vuoto così
formatosi: si ha così l'inspirazione.
Quando il sangue torna ad af- fluire,
esso espelle l'aria dando luogo all'espira- zione
l'organismo come percorso da una fitta
rete di pori o canaletti (una teoria
in parte derivata da Alcmeone), la cui
struttura e le cui dimensioni giocavano
altresì una parte importante nel meccanismo
della sensazione. Esso è spiegato dal
filosofo di Agrigento mediante gli efflussi
materiali che ogni corpo emette e
che, giungendo a contatto del senziente,
possono o meno penetrare attraverso i
pori nel suo organismo a seconda
delle reciproche dimen- sioni; g~i efflussi
sono determinati dall'attrazione del simile,
che spinge le radici a ricongiungersi
attraverso la varietà dei singoli enti.
La spiegazione è da un lato meccanicistica,
dall'altro vitalistica perché appunto fondata
sull'intrinseca «ani- mazione » del corporeo;
di conseguenza Empedocle attribuiva la sensazione,
sia pure in gradi diversi, a
qualsiasi ente, perché ognuno, anche quelli
ai nostri occhi inanimati, era in
qualche misura partecipe della grande vita
del cosmo. Il pensiero non è per
Empedocle qualitativamente diverso dalla sensazione.
Contro le scoperte alcmeoniche, ed
introducendo una veduta destinata ad eserci-
tare profonda influenza, egli pose la
sede del pensiero e dell'attività razionale
nel sangue, esattamente in quello più puro,
prossimo al cuore che ne è la fonte.
Poiché il sangue, come si è visto,
consta di una mescolanza perfetta delle
radici, esso è il più atto a
riflettere la struttura del mondo,
essendole più omogeneo. Non v'è ovviamente
per Empedocle opposizione tra pensiero e
sensi, giacché entrambi convogliano, con
meccanismi fondamentalmente analoghi, il messaggio
profondo di una natura che non può
essere fallace in alcuna delle sue
manifestazioni. Poiché l'uomo è omogeneo al
mondo, la verità della sua conoscenza
del mondo non di- pende né dai metodi
né dai linguaggi che egli impiega; in
tal senso, sparisce il problema della
«via» parmenidea e del suo sempre
difficile rapporto con il reale. L'uomo è
generato dalle stesse radici e animato dalle
stesse forze che generano e animano
il mondo nella sua totalità; egli
riflette il mondo in se stesso, lo
« com- prende» proprio perché ne ritrova
dentro di sé l'immagine rimpicciolita. Il
san- gue è pensiero perché il sangue è
principio vitale e secondo Empedocle conoscere è
propriamente vivere fino in fondo la
vita dell'universo, sperimentarne la molte-
plicità e l'unità, l'eternità ciclica, gli
intimi legami che tutto quanto lo
connettono. Sparita così la tensione tra
vero e reale, tra uomo e mondo, tra
mondo e divi- nità, sparisce anche la
presunta contraddizione tra i due aspetti
della personalità di Empedocle, quello «
fisico » e quello « magico ». Ragione
e mito non sono che due forme di
un identico conoscere, due funzioni di
un'unica realtà. La conoscenza razionale è
esposizione discorsiva ed analitica della
molteplidtà del mondo quale essa risulta
dall'azione di« discordia?> e ci è rivelata
dai sensi; ma il suo scopo è
quello di rivelarci la verità di
questa molteplicità dando conto dell'unità
che la informa e della necessità che
la domina. D'altra parte, la conoscenza
mitica è penetrazione intensiva di questa
unità e necessità, è il porsi per
così dire dal punto di vista dello
« sfero » che simbolizza l'unità da
un punto di vista sia fisico, sia
religioso, sia morale; è drammatica
consapevolezza, tuttavia, della necessità del
ci-do e dd molteplice, nel loro
decadere dall'età aurea e nel loro fatale
tornarvi. 1 Di qui le « purificazioni
», di qui la dottrina pitagorizzante
della metempsicosi che adegua la sorte
dell'anima al ciclo cosmico. E la via
alla purificazione etico-reli- giosa è ancora una
volta, per Empedocle, quella di vivere
fino in fondo la vicenda -per il singolo
uomo, il dramma- dell'uno e dei molti, del
tempo e dell'eterno, della necessità e del
caso; la via della purificazione è quella
che conduce nel cuore profondo della
natura che sola giustifica l'uomo e
il suo destino, che sola gli. concede
conoscenza e potenza nel tempo, salvazione
nell'eternità. Sicché la leg- genda della
morte del filosofo sparito nella voragine
dell'Etna bene esprime, sotto questo
aspetto, la vocazione del pensiero
empedocleo. Si intende così anche il senso
dell'ambiguo atteggiamento di Empedocle verso
le technai, e del suo interesse profondo
per quelle che consentissero un immediato
controllo della natura (la. medicina, le
tecniche manifatturiere, la fisica; mentre
la matematica gli doveva sembrare
irrimediabilmente lontana dal mondo della
vita e quindi sterile). Non v'è nulla
di più ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla
tradizione di un Empedocle abile medico
e tecnologo che ciarlatanescamente am- mantava
di magia i suoi successi per
guadagnarne in prestigio. In realtà, l'oppo-
sizione fra technai e magia sarebbe
sembrata assurda ai suoi occhi. Al
culmine della sua capacità di penetrazione
e di controllo, la techne aderisce
così compiutamente all'intima vita del
mondo da diventarne, dall'interno, una forza
agente: il «mi- racolo» è una possibilità
di fysis che techne porta alla luce
(non troppo diverse dovevano essere le
vedute degli alchimisti rinascimentali). Techne
si situa dunque al crocevia di
conoscenza razionale-discorsiva e conoscenza
mitico-intensiva; come il problema del
rapporto tra uomo e mondo, tra
conoscenza e realtà s'era tendenzialmente annullato
nell'unità della vita del cosmo, così a techne,
allorché muova dalla consapevolezza della
struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza
della natura per poter penetrare sempre
più profonda- mente in essa, per paterne
acquisire un sempre maggiore controllo.
Disvelandosi all'osservazione dell'uomo, la
natura gli aveva donato la conoscenza;
offrendosi ad una techne che ne
sappia comprendere i segreti, essa gli
concede l'accesso alla potenza: sicché alla
fine, nel volgere del ciclo, l 'uomo
diviene « profeta, bardo, medico e
principe », pari agli dei immortali,
come Empedocle proclamava di se stesso.
Data la natura della conoscenza e delle
technai, è chiaro come per il filosofo di
1 «V'è un oracolo del fato, antico
decreto degli dei, suggellato da larghi
giuramenti: se mai alcuno dei demoni
(anime) che ebbero in sorte lunga
vita, macchi le sue membra di sangue
col- pevole, o seguendo la "discordia"
empio spergiuri, vada errando tre volte
diecimila anni !ungi dai beati, nascendo nel
corso del tempo sotto tutte le forme
mortali, permutando i penosi sentieri della
vita ... Uno di essi sono anch'io,
fuggiasco dagli dei ed errante, perché
fidai nella folle "di- scordia" ...
Da quale onore e da quale ampiezza
di felicità, così bandito mi aggiro
fra i mortali! » (La traduzione di
questi frammenti, come di quasi tutti
quelli empedoclei citati, è del Mondolfo.)
Ma v'è la via del ritorno: « Ma
alla fine essi vengono sulla terra
fra gli uomini come profeti, bardi, me-
dici e principi, e poi assurgono al
rango di dei degni d'onore ... Io vengo
nelle vostre città quale un dio
eterno, non certo mortale, coperto d'ogni
onore. Agrigento non si ponesse il problema
della logica e del metodo. Il metodo
che egli in effetti usa va era
essenzialmente analogico: acute inferenze
dall'osservazione quotidiana, sia biologica (il
palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo,
il meccani- smo della respirazione), sia
fisica 1 (la riflessione, l'evaporazione, il
ciclo stagiona- le), sia tecnica (il
travaso dei liquidi, la manifattura dei
vasi, la miscelazione dei colori), gli
offrivano lo spunto per audaci
generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi occhi
queste estensioni non avevano nulla di
arbitrario, basate com'erano sulla certezza
di una fondamentale unità e significatività
di tutte le manifestazioni della natura (una
certezza, come abbiamo visto all'inizio, a
sua volta ricavata dall'esperienza immediata,
sia sensoriale sia psichica). Allo stesso
modo, l'espres- sione linguistica di Empedocle
non poteva che tentare di riprodurre,
grazie ad una poesia potentemente sintetica
e visualizzante, la vita del mondo nella
sua ricchezza; anche qui, l'immagine
poetica (la trasvalutazione delle radici in
divinità o in «membra» del mondo,
l'affiorare ovunque dello psichico, del
vivente, dell'orga- nico) riposava sulla profonda
verità che per questa via si tentava
di rivelare. Tale dunque la risposta empedoclea
al nodo di problemi che si sono
esposti in sede introduttiva: una delle
più grandiose sintesi mai elaborate dal
pensiero greco ed anche una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio
che Empe- docle si assumeva era d'altro
canto totale quanto il suo sistema: o
quest'ultimo si rivelava davvero capace di
spiegare l'intero universo, o sarebbe
crollato tutto quanto, perché l'agrigentino
non offriva - né, date le sue premesse,
avrebbe potuto farlo - alcuna regola di
pensiero e di metodo esterna al
sistema ed atta a modificarlo, a
criticarlo, a renderlo più comprensivo. La
potenza del genio di Empedocle, in
tutta la sua ambiguità, si esercitò
sul pensiero greco ed oltre; e «
dinanzi a lui, » ha osservato il
Bignone, « le prospettive del mondo
greco si scompongono stranamente: è già
un antico rispetto a Tucidide, che è
di pochi lu- stri più giovane di lui;
e sarà, dopo più secoli, quasi un
contemporaneo rispetto a Platino e Porfirio
». Subito rifiutato dal miglior pensiero filosofico-scientifico
del v secolo, da Anassagora ad
Ippocrate, che vedeva nel dogmatismo
dell'esperienza, nel vitali- smo mistico, nel
rifiuto di ogni strumento razionale di
tipo logico-metodologico il più mortale
pericolo per un libero progresso della
ricerca, il sistema di Empedo- cle apparve
tuttavia a lungo come l'unico che
potesse garantire una sicura base
speculativa alle scienze nascenti, dalla
biologia alla fisica, l'unico che ne
assicurasse l'universalità. Così all'inizio del
rv secolo la dottrina dei quattro elementi,
la con- cezione organicistica dell'universo (che
presto significò anche visione finalistica),
il prevalere della qualità sulla quantità,
finirono per trionfare della scienza ionica
e passarono in gran parte al
platonismo del Timeo, all'aristotelismo, alla
medicina I Il sole è il luogo
dove l'emisfero terrestre, che agisce come
una lente, riflette e concentra il
fuoco emesso dall'emisfero etereo; il mare
è il «sudore» della terra: sotto
l'azione del calore; la terra stessa
è stata disseccata dal calore al pari
di un vaso d'argilla; e così via.
siciliana di Filistione. Tramite questi
canali, e sia pure con aggiustamenti progres-
sivi, tali vedute percorsero un lunghissimo
cammino, fino ad affacciarsi al rinasci-
mento e alle soglie dell'età moderna. Qui
tornarono a scontrarsi con il meccanici- smo
di tipo democriteo, e risultarono questa
volta soccombenti senza però lasciar del
tutto il passo. Poco sappiamo della vita
di Filolao: nato a Crotone attorno alla
metà del v secolo, e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si trasferì a
Te be dove sul finire del secolo
lo troviamo a capo di una fiorente
scuola pitagorica, in rapporto con il
gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa
presenza di Filolao a Tebe, congiun-
tamente all'esilio peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un rifluire della filosofia
italica nella madrepatria greca, localizzato
non a caso nelle poleis che combattevano
Atene nella guerra del Peloponneso: il
pensiero ionico-attico si trovava così in
qualche modo circondato non meno di
quanto lo fosse, in senso
politico-militare, la sua metropoli. Come
abbiamo già avvertito, i frammenti di
Filolao sono stati a lungo con- testati
per vari motivi filologici, alla cui
base stava tuttavia la constatazione che
essi anticipavano un importante aspetto del
platonismo, e dunque la preoccu- pazione
che questo potesse risultarne sminuito
nella sua originalità. L'autenticità dei
frammenti è stata per fortuna rivendicata
dal Mondolfo e dalla Timpanaro- Cardini; ed
è chiaro, secondo una più corretta
visione storiografica, che il genio di
Platone risulta tutt'altro che diminuito
dalla consapevolezza che egli seppe fondere
in una sintesi critica gran parte dei
risultati del pensiero filosofico-scienti- fico
del v secolo, pur conferendo ad essi
la propria originalissima impronta. D'al- tra
parte, già questa considerazione impone di
dare alla figura di Filolao il posto
che gli compete fra i protagonisti della
filosofia preplatonica. Il problema centrale
di Filolao è analogo a quello di
Empedocle, ma i suoi punti di
riferimento speculativi sono meglio definiti, e
il suo approccio alla realtà è più
chiaramente delimitato dall'eredità pitagorica di
cui egli si faceva portatore. Certo, il
pitagorismo originario era stato travolto,
in campo matematico, dalla crisi degli
irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla
critica parmenidea al molte- plice e dalla
sua incapacità a soddisfare i nuovi
requisiti logico-metodici. Vedremo all'inizio del
capitolo xn come si svolse, attraverso
il v secolo e fino ad Archita,
il processo ricostruttivo delle matematiche
pitagoriche, al quale Filolao stesso diede
un importante contributo. Qui ci interessa
piuttosto il suo sforzo di ricostruzione
del pitagorismo come sistema globale del
mondo, compiuto innestando sul tronco di
quella tradizione la più matura
consapevolezza posteleatica. Si trattava
innanzitutto di salvare entrambi i termini
della diade costitutiva di uno e
molteplice, di limite e illimitato, dove
il primo termine assicurava la verità e
l'intelligibilità del secondo ma dove il
secondo garantiva l'estensibilità del primo
al mondo del reale, la sua presa
sull'esperienza, conferendogli quindi una
concretezza e una funzionalità sepza le
quali esso sarebbe stato confinato alla
sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma non
bastava più, dopo Parmenide, con- trapporre
la serie dell'uno e del limite alla
serie dei molti e dell'illimitato; giac-
ché su quest'ultima sarebbe poi gravata
la dichiarazione di assurdità e di
irrealtà, che avrebbe vanificato la
tensione insita nella diade. Il problema
di Filolao era dunque quello di calare
il principio di unificazione e di verità
profondamente all'interno della struttura
molteplice dell'esperienza, in modo da
garantirne con ciò stesso la realtà;
era di trasformare i termini della
diade in modalità e struttura intima
di un unico mondo, di cui essi
potessero dar conto nella sua to- talità.
La chiave più ovvia per la soluzione
del problema era, agli occhi di
Filolao, quella offerta dal numero.
Generato dall' «uno», e governato da leggi
che sempre all' «uno» potevano riportarsi
senza contraddizione, il numero era
tuttavia atto a fungere da limite al
molteplice perché ne rifletteva in sé
la struttura; ma la riflet- teva in
modo tale da renderla omogenea all'«
uno» e alla sua legge. Si consideri
ad esempio la decade (il numero
dieci): secondo l'analisi di Filolao, essa
comprende in sé tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità
ed è perciò stesso atta a comprendere
e ad organizzare il molteplice.! Ma
Filolao non poteva più arrestarsi alla
generica veduta pitagorica del nu- mero
come natura delle cose. Occorreva che
fosse davvero possibile, leggendo il libro
della natura, scoprirne i caratteri
aritmo-geometrici; da un punto di vista
complementare, occorreva dare una più
precisa dimensione spaziale al numero e
concretarla di una sussistenza corporea.
Perciò, partendo dall'assioma aritmo-geo- metrico
secondo cui l 'unità rappresenta il punto,
il due la linea, il tre la superficie, il
quattro il solido, Filolao diede un
impulso originale e deciso alla geometria so-
lida, giungendo a costruire un certo numero
di figure semplici che si potevano age- volmente
riportare alle modalità fondamentali dei numeri.
Queste figure si assicu- ravano una prima
realizzazione grazie alla loro applicabilità ai
movimenti e alla con- figurazione degli astri, e,
tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso
assetto del divino. x Più efficaci di
ogni spiegazione critica sono le parole
di Filolao sulla decade: «L'essenza e
le opere del numero devono essere
giudicate in rap- porto alla potenza insita
nella decade; grande è in- fatti la
potenza (del numero) e tutto opera e
com- pie, principio e guida della vita
divina e celeste e di quella umana,
in quanto partecipa della po- tenza della
decade; senza questa, tutto sarebbe in-
terminato, incerto ed oscuro. Conoscitiva è
la na- tura del numero, e direttrice e
maestra per ognuno, in ogni cosa che
gli sia dubbia o sconosciuta. Per- ciò
nessuna delle cose sarebbe chiara ad
alcuno, né per se stessa, né in
rapporto alle altre, se non ci fosse
il numero e la sua essenza. Ora
questo, 74 armonizzando tutte le cose
con la sensazione nel- l'interno dell'anima,
le rende conoscibili e tra loro
commensurabili secondo la natura dello
gnomone, in quanto compone o scompone
i singoli termini delle cose, così
delle interminate come delle ter- minanti.
Né solo nei fatti demonici e divini
tu puoi vedere la natura del numero e
la sua potenza dominatrice, ma anche
in tutte, e sempre, le opere e parole
umane, sia che riguardino le attività
tecniche in generale, sia propriamente la
musica» (trad. Timpanaro-Cardini). Da varie
testimo- nianze risultano le ingegnose deduzioni
di natura sia aritmetica e geometrica,
sia fisica, dalle quali Filolao traeva
conferma al dominio della decade. A questo
punto tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza
di una semplificazione del mondo fisico
che era assente nella tradizione
pitagorica, e riconosceva nel si- stema
empedocleo il più potente strumento in
questo senso. È propriamente nel- l'assunzione che
ne fece Filolao che le radici di
Empedocle si trasformarono in «elementi»,
avulsi ormai dalla vita del cosmo ed
inseriti su di una più fredda strut-
tura numerico-geometrica. Nei quattro elementi,
infatti, e nello « sfero » che
li riassumeva, Filolao vide il veicolo
ideale per la conquista del mondo
fisico da parte dei suoi solidi
geometrici. Per via analogica, il cubo
trovò il suo equivalente nella terra;
il tetraedro nel fuoco; l'ottaedro
nell'aria; l'icosaedro nell'acqua; il dodecaedro,
infine, nello « sfero ». Da un
altro punto di vista, ciò equivale a
dire che gli elementi trovarono il
proprio limite, la propria forma, la
propria armonia, infine la propria
razionalità nelle rispettive figure. I
molteplici oggetti dell'espe- rienza e le
loro mutazioni si presentavano ormai come
aggregati degli elementi e dunque come
composizione di forme geometriche semplici;
ma, imbrigliati dal limite, armonizzati dalla
figura, il loro variare nulla più
aveva di misterioso o di irrazionale,
sempre riconducibile com'era, sia pure per
vie complesse e non tutte esplorate,
alla legge del numero. Filolao giungeva
dunque a modificare così l 'assioma
pitagorico che i numeri sono le cose:
« Tutte le cose hanno un numero;
senza questo, nulla sarebbe possibile
pensare, né conoscere. » Le cose
hanno un numero perché, come in un
universo cristallografico, hanno una figura-forma
che le delimita e che è riconducibile
a rapporti numerici; 1 e perché sono
inserite in un'armonia cosmica che ne
ritma il divenire e che è anch'essa
riconducibile al rapporto (logos) numerico.
Nel frammento che abbiamo ora citato
Filolao compie un'altra fondamentale deduzione:
poiché la nostra conoscenza, se vuol
essere ve- ra, non può che muoversi
dall'« uno» e seguirne la legge, poiché il
nostro pensiero non può che essere -e
di fatto, nella tradizione pitagorica, è
-logos mathematikòs, ecco che il numero
instaura la sua suprema armonia fra
pensiero e realtà, fra uomo e mondo;
ecco che il linguaggio dell'uomo è
identico al linguaggio di fysis, e basterà
affinarlo nel medesimo senso per decifrare
fysis tutta intiera. Così egli
ristrutturava il pitagorismo in modo da
adeguarlo alle esigenze posteleatiche e insieme
ne allargava l'orizzonte fino a includervi
le necessità di spiegazione naturalistica.
Più rigoroso, sebbene meno ricco di
quello empedo- cleo, il suo sistema si
prestava a brillanti deduzioni cosmologiche,
ma, posto a confronto con i problemi
del significato e della vita, era
spesso costretto a sce- I È interessante
a questo proposito la fi- gura di
Eurito, un pitagorico del v secolo
spesso associato a Filolao. Eurito era
famoso fra i suoi contemporanei perché,
assegnato a qualsiasi og- getto reale un
determinato numero (non sappiamo come lo
ottenesse), egli dimostrava in un modo
caratteristico la necessità naturale del
rapporto fra l'uno e l'altro: si
provvedeva di un pari numero di
sassolini, tracciava la figura dell'oggetto in
que- stione e incastr11va lungo il suo
perimetro tali 75 sassolini (il numero
atto a definire la figura del- l'uomo
era per esempio 250). Variando le dimen-
sioni dell'oggetto, il numero di sassolini,
che ne esprimevano i rapporti essenziali,
non cambiava. In tal modo Eurito
voleva stabilire visivamente la relazione,
tipica anche del pensiero di Filolao,
tra numero e forma limitante gli enti
reali: il nu- mero, tradotto in forma,
era quindi il principio di individuazione e
anche di intelligibilità della na· tura.
gliere la via del superamento mistico
alla maniera del primo pitagorismo; oscil-
lazione riconoscibile lungo tutto l'arco della
riflessione naturalistica di Filolao. L'«
uno», ipostatizzato fisicamente nel «fuoco»,
sta al centro del cosmo; dal suo
rapporto con l 'infinito circostante- un rapporto
paragona bile al processo del- la inspirazione ed
espirazione - si è generato tutto quanto il
cosmo, che, come ab- biamo visto, consta
di una sintesi inscindibile di « uno
» e molti, di limitante e illi- mitato.
Rinnovando la meccanica celeste della
tradizione pitagorica, spinto a un tempo
dall'esigenza astronomica di spiegare le
eclissi e da quella mistica di asse-
gnare all'« uno-fuoco» il posto centrale
dell'universo, Filolao fece audacemente della
Terra un pianeta eccentrico e mobile
come gli altri, anticipando così di se-
coli la veduta di Aristarco. La
medesima ambiguità si riscontra nell'ipotesi
di un decimo pianeta, l' Antiterra,
in aggiunta ai nove conosciuti: si
trattava, da un lato, di costruire un
modello di meccanica celeste atto a
spiegare fenomeni quali la maggior
frequenza, in uno stesso luogo, delle
eclissi di luna rispetto a quelle di
sole; e, dall'altro, di trovare un
'ulteriore conferma al valore universale
della decade. Analogamente ad Empedocle, Filolao
riteneva poi il sole percepito dai
nostri sensi un semplice riflesso
focalizzato del «fuoco » centrale. Filolao
fu anche attento cultore di biologia e
di medicina: operando nel solco della
tradizione alcmeonica, egli accoglieva da
un lato alcune posizioni del sistema
vitalistico di Empedocle, dall'altro, grazie
proprio a quella tradizione, appariva più
vicino all'empirismo esprimentesi nella medicina
cnidia; né poteva riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti di vista
aritmo-geometrici al campo della vita.
Proprio per questa complessità di
approccio, appaiono nel filosofo di Crotone
germi interessanti di teoria medica; essi
passeranno in Platone e in alcune
opere del Corpus hippocraticum, e per
un altro verso nella scuola siciliana
di medicina, ma non troveranno una
diretta continuazione per il progressivo
abbandono, da parte del successivo
pitagorismo, delle ricerche più propriamente
naturalistiche. Un primo movimento analogico
permette a Filolao di ravvisare nel ritmo
della vita organica una stretta affinità
cosmogonica. Principio costitutivo della vita
è lo sperma, il calore originario;
principio del corpo è dunque il calore,
così come il «fuoco» lo era del
cosmo. D'altra parte la respirazione
introduce nel corpo l'ele- mento freddo
necessario ad equilibrare tale calore,
proprio come l'inalazione del- l'illimitato
circostante da parte dell'« uno» originava
l'universo. Gli stessi organi principali
del corpo sono racchiusi in uno
schema quaternario analogo a quello degli
elementi, ed essi sono visti come
rispettivamente egemonici nelle varie classi
di viventi. Il cervello, cui corrisponde
il pensiero, è così egemonico nel- l'uomo
(qui è chiara l'eredità alcmeonica); il
cuore, cui corrisponde il principio della
vita sensibile, è egemonico negli animali
(prevalendo qui l'ispirazione empe- doclea);
l'ombelico, che presiede alla crescita
dell'embrione e alla vita vegetati va,
contrassegna la classe delle piante; i
genitali, infine, da cui proviene il seme
fecon- dante, individuano tutti i viventi
in quanto tali. In senso più
propriamente medicFilolao costruì un'eziologia in
cui i maggiori agenti patogeni, di
derivazione cni- dia, erano la bile (vista
come siero delle carni), il sangue e
il flegma o catarro che si originava
dalle urine ed era comunque il
prodotto di una infiammazione. I fattori
scatenanti i processi morbosi erano poi
ravvisati, alla stregua della dottrina alcmeonica,
nell'eccesso o nella scarsità di alimenti,
di esercizio fisico, dei fattori ambientali
necessari alla vita dell'uomo. La teoria
dell'anima era in Filolao strettamente
connessa alla concezione del- l'organismo:
l'anima rappresentava infatti da un lato
il respiro vitale, il principio di
refrigerazione che temperava il calore
corporeo e dava luogo alla vita; dall'al-
tro essa era l'armonia che scaturiva
dalla tensione degli opposti elementi fisici
- come dalle corde di uno strumento
musicale - e li teneva connessi nel
miracoloso equilibrio della vita. L'anima
era dunque la presenza dell'armonia
universale nel corpo vivente, e d'altro
canto l'espressione intrinseca dei diversi
fattori che si componevano armonicamente a
dar luogo alla vita stessa. Così
strettamente legata all'equilibrio transeunte
della vita organica, l'anima individuale
non poteva sopravvivere al dissolversi
nella morte degli elementi corporei che
essa armo- nizzava; ancora una volta, per
giustificarne l'immortalità secondo il dettame
pitagorico, Filolao era costretto ad un
trascendimento religioso della propria dottrina.
Al contrario di Empedocle, Filolao veniva
così offrendo al pensiero sia filo- sofico
sia tecnico-scientifico uno strumento d'indagine
dotato di una enorme po- tenzialità: quello
cioè dell'analisi formale e modale della
realtà, e della sua tradu- zione nei
termini della logica aritmo-geometrica. In
questo senso, era fondamentale il suo
apporto allo sviluppo della matema- tica,
che poteva ormai procedere sulla via
della specializzazione arricchita della certezza
che qualsiasi sua scoperta avrebbe
comportato oggettivamente una più vasta e
profonda comprensione della realtà, avrebbe
comunque rivestito un signi- ficato universale.
E parimenti fondamentale - anche se destinato
ad un meno im- mediato successo - era il
suo contributo alla fisica, che per
la via della matematiz- zazione era avviata
ad una intelligibilità, ad un rigore
nuovi; un rigore persino superiore a
quello della fisica atomistica, che, come
ha osservato il Rey, avrebbe dovuto
basarsi sulla meccanica, una disciplina
molto meno progredita nel pensie- ro greco
di quanto non lo fosse l'aritmo-geometria
pitagorica. Se in epoca moderna
matematizzazione e concezione atomica della
fisica erano destinate a riunirsi, dando
luogo al « sistema del mondo »
proprio della scienza a partire dal
Seicento, nel mondo greco pitagorismo ed
atomismo restarono però a lungo
contrapposti. Ciò è dovuto anche
all'ambiguità che abbiamo visto sottendersi
a tutta la speculazione di Filolao.
Il logos mathematikòs non era soltanto,
e non tanto, un metodo del pensiero
quanto la struttura essenziale, garantita,
dell'universo; il numero non era tanto
uno strumento euristico dell'uomo quanto
una realtà originaria, primale, che garantiva
la validità della scienza, ma soprattutto
la condizionava al riconoscimento di sé,
principio dogmatico del conoscibile prima
che del conoscere. Già per la
matematica, questa natura del numero creava
una situa- zione di privilegio necessariamente
ambigua: giacché essa veniva trasvalutata
in una sorta di teologia razionale,
secondo un processo che sarà comune a
Platone vecchio e a tutto il
successivo pitagorismo, sempre più alieno
dalla ricerca empi- rica, sempre più
portato a rifiutare il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e naturalistiche. Nel
senso di Filolao, assolutizza- zione delle
matematiche voleva dire dunque anche loro
isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e
contemporaneamente condanna ad uno status
non scientifi- co delle technai di controllo
della natura, dalla meccanica alla
biologia. L'accen- tuarsi della natura mistica
del numero - che all'origine aveva anche
significato l~ preoccupazione di una
saldatura tra uomo e mondo, tra
conoscenza e realtà - avrebbe scavato un
solco sempre più profondo tra il pitagorismo
e le tendenze più vive del pensiero,
conducendo da ultimo alla fusione tra
un pitagorismo teologiz- zante ed un
parimenti infiacchito platonismo. Filolao, con
tutta la sua ricchezza di interessi
metodici .e scientifici, era certamente
lontanissimo da tali esiti. Ma la sua
impossibilità di liberarsi da talune
ambiguità di fondo lo poneva già, nono-
stante tutto, su questa via. Gorgia nacque a Lentini.
La tradizione ci raccontà che e discepolo
vuoi dei pi- tagorici vuoi di Empedocle.
Senza dubbio riuscì a conquistarsi la
stima dei suoi concittadini, tanto è
vero che fu da essi inviato come
ambasciatore ad Atene per chiedere aiuto
contro Siracusa. Viaggiò per tutta la
Grecia, facendo ovunque sfoggio della sua
sottilissima arte dialettica che era basata
su una tecnica analoga a quella di
Zenone. Scrisse varie opere, fra le
quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e
il trattatello Intorno al non ente o
intorno alla natura (Perì tou me
ontos é perì Jjseos). Nella prima viene
svolta, con molta abilità, la paradossale
difesa della celebre eroina, scagionata da
ogni colpa per l'abbandono della casa
del marito, e viene intessuto l'elogio
dell'onnipotenza della parola, specie quando essa
è guidata dalla retorica: « La parola
è un gran dominatore, che con
piccolissimo corpo e invisi- bilissimo,
divinissime cose sa compiere; riesce
infatti a calmar la paura, e a eli-
minare il dolore, e a suscitare la
gioia, e ad aumentare la pietà.» Nell'altra
opera Gorgia espone, una triplice tesi:
a) nulla è; b) se anche qualcosa
fosse, non sa- rebbe conoscibile; c) se
poi fosse conoscibile, non sarebbe
esprimibile, «poiché il mezzo con cui
ci esprimiamo, è la parola; e la
parola non è l'oggetto, ciò che è
realmente; non dunque realtà esistente noi
esprimiamo al nostro vicino, ma solo
parola che è altro dall'oggetto». La
critica della vecchia filosofi di Parmenide
è qui evidente; essa si fonda
sull'equivocità del termine « essere» usato
ora nel senso di « esistere» ora invece
nel senso puramente copulativo. Ma più
ancora di questa critica è impor- tante
la chiarezza con cui si pongono i
problemi della conoscibilità e dell'espri-
mibilità (cioè i problemi se tutto
ciò che esiste possa, per il solo
fatto di esistere, venire conosciuto e
venire espresso). Abbiamo parlato, a
proposito sia di Protagora sia di
Gorgia, di critica al- l'eleatismo. Tale
critica investì certamente il tentativo
dell'eleatismo di stringere in una rigida
unità l'ordine del pensiero e del
linguaggio con quello della realtà percepita
e vissuta, e vi contrappose la
relativa autonomia di questi due momenti.
Ciò premesso, la critica moderna tende
tuttavia a non sottovalutarei legami che
connessero i maggiori sofisti all'eleatismo,
e non solo nel senso che la
situazione di crisi creata da quest'ultimo
rappresentò il loro punto di partenza. Nell'ordine
logico, i sofisti accettarono infatti i
requisiti di verità imposti dall'eleatismo,
quali l'identità tautologica (di cui la
orthoépeia protagorea sarebbe una versione
raffinata) e la pregnanza di significati
esistenziali e copulativi del verbo
«essere». La rivendicata autonomia
dell'esperienza vissuta si tradurrebbe pertanto
in una sizioni professionali variano da
individuo ad in- dividuo, sicché ognuno,
possedendone alcune, è privo delle altre,
la capacità di contribuire a con- 93
servare e perfezionare l'organismo sociale
deve essere considerata presente in tutti
gli individui normali. rinuncia a controllarla
con strumenti logici, e in un suo
abbandono alla psico- logia dell'individuo a
sua volta stratificato nella convenzione
sociale. Questo atteggiamento si tradusse,
da un lato, in una certa incapacità
della sofistica di comprendere l'originale
rapporto di logica ed esperienza che
si veniva realiz- zando nella scienza
contemporanea (di qui la polemica di
Protagora e di Gorgia contro la
geometria, la fisica e, indirettamente,
contro la medicina); dall'altro, nella
tendenza a considerare il momento
irrazionale del profitto e della forza come
primario nell'ordine sociale, trascurandone le
esigenze etico-storiche. Questo non toglie
nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma certamente sottolinea
la vastità del compito di ricostruzione
scientifica, filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero greco dopo il
fallimento eleatico, l'esaurimento della
filosofia della natura e la critica
sofistica. Non sappiamo se a Crotone,
quando vi approdò Callifonte, l'asclepiade
di Cnido, cui abbiamo fatto cenno nel
secondo paragrafo, già esistesse una scuola
di medicina o se la sua fondazione
si debba a questo scienziato venuto dall'Orien-
te. È certo, tuttavia, che la scuola
conobbe una rapidissima fioritura. Già il
figlio di Callifonte, Democede, si guadagnò
la fama di miglior chirurgo del mondo
greco, e, fatto ritorno alla nativa
costa ionica, impose alla corte del
re di Persia la supremazia della
nuova scuola ellenica su quella
tradizionale d 'Egitto. Toccò al crotoniate
Alcmeone, nato verso il 540, di
portare la scuola al suo massimo
livello scientifico. E soprattutto toccò ad
Alcmeqne -che il Wellmann ha definito
a buon diritto pater medicinae grecae -
di rinnovare profondamente il pensiero
scientifico ellenico, condizionandone lo
svolgimento lungo tutto il v secolo.
A contatto attraverso la sua scuola
con le esperienze maturate dalla historle
ionica nel VI secolo, egli entrò
d'altro canto in relazione con le
filosofie i tali che che sullo scorcio
di quel secolo si sviluppavano rapidamente:
il pensiero di Senofane da un lato,
il pitagorismo dall'altro. Dalla critica
senofanea al sapere umano, Alcmeone derivò
la consapevolezza, via via affinatasi, che
l'osservazione empirica non può immediatamente
offrire la chiave della conoscenza, che
la verità non si rivela tutt'intera a
chi si limiti a descrivere la natura.
Con il pitagorismo, Alcmeone mantenne
rapporti su di una base di autonomia,
da scuola a scuola; insofferente del
carattere settario, dogmatico, della dottrina
e della prassi pitago- rica, egli rivolse
contro di esse la sua critica teorica
e la sua azione politica demo- cratica. Fu
tuttavia profondamente interessato non solo
dai progressi che i pi- tagorici facevano
compiere alle. scienze naturali, ma
soprattutto dal loro tentativo di scoprire
leggi dell'esperienza che fungessero da
principio di organizzazione e di
interpretazione dei fenomeni osservati. Ecco
dunque che sul tronco dell'empirismo
ionico, cui per altro restava solidamente
ancorato, Alcmeone veniva innestando una
problematica e una consapevolezza nuove, la
cui carenza aveva sempre frenato, come
s'è visto, i progressi di quell'empirismo.
Proprio con la dichiarazione di questa
acquisita consapevolezza si apre l'opera di
Alcmeone: «Delle cose invisibili, delle
cose mortali gli dei hanno immediata
certezza, ma agli uomini tocca procedere
per indizi (tekmdiresthai). » Bastava un
tale punto di vista gnoseologico ad
infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza
dell'esperienza, ad aprire la via ad una
osservazione critica dei fenomeni e ad
un più attivo intervento dello scienziato
nella loro interpretazione. Alcmeone si
valeva del principio così scoperto nel
vivo della propria ricerca scientifica, e
d'altra parte era la ricerca stessa,
divenuta criticamente più vigile, a
confermargliene la validità. Nel campo dei
fenomeni naturali egli non vedeva più
alcun « elemento »alcuna coppia di
contrari, alcuna arché che di per sé
valessero a spiegare la natura e la
vita. Da biologo, egli riconosceva
piuttosto nell'empirico una indefinita
molteplicità di principi attivi o «
qualità », vale a dire di stimoli
capaci di de- terminare nell'organismo una
certa reazione fisiologica (l'amaro, il
freddo e così via); di conseguenza,
non v'era continuità fra organismo
senziente e il suo ambiente, ma il
rapporto fra l'uno e l'altro era
quello di stimolo e reazione (questo
è il significato della « sensazione
per contrari » attribuita ad Alcmeone,
in contrasto con la «sensazione per simili»
che, come s'è visto, fu tipica di
Empedocle). Parallelamente, Alcmeone scopriva,
grazie alla pratica coraggiosa- mente scientifica
della dissezione, che la funzione del
percepire è nell'uomo bensì diffusa nei vari
organi di senso, ma che essa viene
poi coordinata da un organo centrale,
e precisamente dal cervello. Con questa
scoperta Alcmeone non solo compiva un
progresso di fondamentale importanza per
tutta la biologia greca, ma trovava
altresì una decisiva conferma al proprio
punto di vista gno- seologico: la funzione
del cervello spezzava di fatto il
legame immediato fra uo- mo e mondo,
fra conoscenza e realtà. Ed Alcmeone
rendeva esplicita questa con- seguenza
dichiarando che, se la «sensibilità» è
una proprietà di tutti gli organi- smi
viventi, la funzione del « comprendere »,
cioè del ridurre a sintesi significa- tiva
l'esperienza, e del «prender coscienza»
della sensibilità stessa è propria
esclusivamente dell'uomo. Il valore di
queste asserzioni si po.trà intendere appie-
no ove si ricordi che ancora una
generazione più tardi la dottrina della
centralità del cuore conduceva Empedocle a
conclusioni estremamente antitetiche. In ogni
modo, profondo era il solco così
apertosi fra l'uomo e la realtà che
egli vuol comprendere e trasformare. Il
mondo dell'esperienza riacquistava la sua
concretezza, e l'esperienza stessa veniva
riconosciuta incapace di dare spontaneamente
conto di sé. Così, lo scienziato
riconquistava un'autonomia e una possibilità di
comprensione e di controllo sul mondo, scoprendo
un punto di vista ad esso eterogeneo.
Ma Alcmeone si avvide di una
conseguenza decisiva di questa situazione:
la realtà si faceva a un tratto
opaca agli occhi dello scienziato; la
sapienza, intesa come perfetta trasparenza
di tutto il mondo all'uomo, restava
ormai solo una proprietà degli dei.
In termini di metodo scientifico, la
sapienza doveva allora venir sostituita
dall'indagine, la rivelazione dalla congettura,
l'os- servazione e le analogie che essa
sembrava offrire dovevano essere integrate
dal metodo dell'indizio e della prova.
Quando Alcmeone poneva il tekmdiresthai, il
proceder appunto per indizi, congetture e
prove, come metodo tipico della conoscenza
umana, egli conferiva una consapevolezza
teorica alla prassi della me- dicina, che
doveva interpretare l'esperienza per ritrovare
in essa un significato, un valore di
sintomo, e risalire così all'unità della
malattia e delle sue cause: una consapevolezza
che, come s'è visto, fece sempre
difetto ai cnidi. Sulla base di
queste prospettive teoriche, Alcmeone poté
anche offrire alla medicina una dottrina
fisio-patologica e un'eziologia unitaria cui
i cnidi non avevano potuto pervenire. Le
infinite «qualità» (4Jnàmeis) agenti
nell'organismo, formano nel loro stato
normale un composto (krasis) omogeneo ed
armonico (isonomia). La malattia nasce
dalla rottura di tale equilibrio e
dal prevalere patolo- gico (monarchia) di
uno solo di questi principi, oltre
che per l'azione di una mol- teplicità
di fattori ambientali. È importante notare,
per l'influenza che questa veduta ebbe
su Ippocrate, che Alcmeone lasciò
indefinito il numero delle 4Jndmeis, senza
irrigidirle né nello schema quaternario
degli elementi proprio della scuola
empedoclea, né in quello degli «
umori » sviluppatosi nella tarda scuola
di Cos. Queste determinazioni negative, le
uniche che ci restano delle 4Jndmeis
alcmeoniche, sono tuttavia importanti, perché
gettano il seme di una embrionale
chimica fisiologica, consapevole della
molteplicità degli elementi e dei composti
(come ribadirà anche Anassagora) e attenta
soprattutto alla loro sempre variabile
funzionalità nelle sintesi organiche. D'altra
parte, rompendo anche qui con tutta
la tradizione della_bsiologia, Alcmeone affermava
l'irreversi- bilità dei processi biologici e
dunque l 'impossibilità del ciclo: « Gli
uomini per ciò periscono, che non
possono congiungere il principio con la
fine. » Troppo innovatrici erano tuttavia
le sue intuizioni, perché Alcmeone ne
potesse trarre tutte le conseguenze. La
via del metodo scientifico era stata
indicata, ma un lungo cammino doveva
essere ancora percorso perché quel metodo
potesse essere sviluppato e consolidato. Il
problema del rapporto fra pensiero e realtà,
fra teoria ed esperienza era stato
posto senza che le strutture di quel
rapporto potessero essere compiutamente
analizzate e rese esplicite. Questa
mancanza di una chiara elaborazione teorica
spiega come l'eredità alcmeonica si sia
suddivisa in due filoni diversi e
contrastanti. Da un lato, infatti, essa
fu riassorbita dalla fysiologia italica e
siciliana, che utilizzò alcune delle sue
conquiste scientifiche contestandone altre e
soprattutto annullandone via via la carica
innovatrice dal punto di vista del
metodo. Attraverso Empedocle, questo filone
dell'eredità alcmeonica passò, sul finire
del v secolo, alla scuola italica di
medicina, di cui diremo più ampiamente
al capitolo xr. L'altro filone ci interessa
qui più da vicino: tramite l'autonoma
ricerca medico-biologica, esso rifluì
nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque
nel suo crogiuolo ateniese, destandovi
immediatamente l'interesse delle più vive
correnti di pensiero. Ad Anassagora la
lezione alcmeonica apportava la veduta
dell'alterità del conoscere rispetto al
conosciuto, dell'inesauribile concretezza del
mondo empirico, del tekmdiresthai come
metodo della conoscenza; agli scienziati
che si raccoglievano intorno al filosofo,
ai medici come lppocrate, Alcmeone
insegnava l'importanza metodica del sintomo,
la centralità del cervello, le basi
fisiologiche della patologia; agli uomini
di cultura, agli storici come Tucidide,
egli trasmetteva analoghi spunti metodici,
e ancora il suo rifiuto della ciclicità,
la sua concezio"ne - così suggestivamente
trasferibile alle vicende umane- dell'armonia
come salute, della monarchia come sua
rottura patologica Seguendo questo secondo filone
dell'eredità alcmeonica, occorrerà quindi tornare
nell'Atene della metà del v secolo,
dove si venivano intrecciando i nodi
di tutto il pensiero scientifico greco
e grazie a ciò si ponevano le
premesse per le sue conquiste più
alte.Nel seguire al capitolo vn il
filone alcmeonico che si svolgeva
attraverso Anassagora e culminava in
Ippocrate, accennammo anche al permanere di
una scuola medica in Magna Grecia e
in Sicilia, nella quale l'eredità di
Alcmeone doveva però esser ben presto
sopraffatta dal prepotente influsso della
fysiologia di Empedocle. Quest'ultima era
in effetti tale da condizionare sia
nelle premesse sia nei metodi la
ricerca medico-biologica, promuovendone a un
tempo lo svi- luppo e indirizzandolo verso
esiti estremamente insidiosi. La concezione
del inondo come un organismo vivente
pareva infatti assicurare la fondazione più
universale e più valida alle scienze
biologiche; e la riduzione del mondo
stesso a quattro elementi primari, o
archai, sembrava a sua volta offrire
uno strumento decisivo per la comprensione
della struttura del corpo e delle sue
affezioni. La metodica da porre in
opera era pure esemplificata da Empedocle:
si trattava di battere la via
dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè co- stantemente i
fenomeni organici alla struttura di fondo
del corpo e la struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando in
quest'ultima una garanzia di ve- rità e
una premessa per ulteriori spiegazioni. Entro
tale orizzonte la scuola italica si
sviluppò lungo la seconda metà del v
secolo, finché sullo scorcio di quello
stesso secolo e nei primi decenni del
IV, Filistione di Locri la condusse
al suo definitivo assetto dottrinale e
metodico. Importante in senso dottrinale
l'elaborazione della teoria del pneuma o
«respiro», principio vitale che animava la
struttura elementare sia del corpo sia del
cosmo, e che valeva a spiegare molti
fenomeni patologici quando la sua
circolazione or- ganica risultasse anomala. Ma
soprattutto importante, dal punto di vista
metodico, era la traduzione in senso
biologico degli elementi empedoclei, che
certamente Filistione derivava dalla scuola
ma cui egli conferì una forma
destinata a domi- nare per lunghi secoli
il pensiero naturalistico. Non immemore
della lettera al- meno dell'insegnamento
alcmeonico, e impegnato più direttamente di
Empedo- cle nell'osservazione dei fenomeni
organici, Filistione trasformò gli elementi
in « qualità » o principi organici
attivi (c!Jndmeis): così la terra veniva
espressa dalla djnamis «secco», l'acqua
dall'« umido», il fuoco dal« caldo», l'aria
dal« fred- do »: queste c!Jndmeis erano
secondo Filistione la forma specifica con
la quale la struttura elementare
dell'universo si manifesta nell'organismo umano;
grazie tuttavia alloro legame univoco con
gli elementi, esse non potevano diventare,
come in Anassagora ed in Ippocrate,
stati relativi e mutevoli degli oggetti em-
pirici, bensì restavano principi stabili e
necessari dell'empirico stesso. Il processo
analogico con il quale Filistione giungeva
alle quattro qualità era strettamente affine
alla deduzione empedoclea degli elementi, e
non occorrerà tornare a descri- verlo; e la
sua critica più pertinente, dal punto
di vista del metodo della medicina empirica,
fu del resto anticipata dallo stesso
Ippocrate in Antica medicina, come si
è visto al capitolo vn. L'importanza
storica della rielaborazione di Filistione e la
ragione del suo duraturo successo stanno
da un lato nell'aver offerto alla biolo-
gia uno strumento di spiegazione e di
semplificazione dei fenomeni pur sempre
dogmatico ma tuttavia assai più
riconoscibile nella concretezza dei processi or-
ganici di quanto lo fossero gli
elementi empedoclei (ad esempio il «calore
vitale» e il suo eccesso patologico
rappresentato dalle febbri si spiegano
meglio con le vicende della qualità«
caldo» che con la materia «fuoco»);
d'altro lato, toglien- do dalla fysiologia
empedoclea quanto vi era di materialistico
e in fondo di mec- canicistico, Filistione
ne troncava i pur possibili legami
con l'atomismo e la ren- deva assai meglio
accetta al prevalente indirizzo qualitativo
del pensiero platonico e soprattutto
aristotelico. Un'altra importante evoluzione egli
faceva poi subire all'organicismo del
filosofo di Agrigento. Mentre quest'ultimo
non aveva mai compiuto esplicita- mente il
passo che portava dalla concezione
vitalistica del mondo al ricono.sci- mento
di un finalismo in esso operante,
Filistione trovava, ad esito delle sue ri-
cerche anatomiche sull'organismo, proprio questo
grande principio esplicativo: che la
natura, e soprattutto la natura vivente,
è organizzata in funzione di un si-
stema di fini, che questa organizzazione
si ritrova allivello di .tutti gli
organi, e che dunque l'indagine biologica
non deve vertere tanto sul « che
cosa » e sul «come», quanto sul
«perché» finale dell'assetto dei fenomeni
studiati. Nel trattato sul Cuore (Perì
kardies) - dove tra l'altro, nonostante la
sua grande dottrina anatomica, egli rifiuta
Alcmeone per Empedocle e pone l'intelli-
genza nel cuore stesso - Filistione
concepisce quest'organo come la costru- zione
mirabile di un « buon artefice »,
che tutto ha predisposto affinché la
vita potesse aver luogo nel migliore
dei modi. L'incontro di queste dottrine
con il platonismo, concretatosi in quello
fra Filistione e Platone avvenuto in
Sicilia ver- so il 36o e dunque
all'inizio del periodo di elaborazione del
Timeo, doveva ave- re conseguenze incalcolabili
per la scienza della natura greca.
Attraverso Platone, passarono infatti ad
Aristotele, che le adottò ancor più
risolutamente del maestro, e grazie a
lui conquistarono una egemonia per lungo
tempo quasi incontrastata. Ma prima che
tutto questo avesse luogo, le posizioni
della scuola italica fa- cevano sentire la
loro pressione sulla stessa scuola di
Cos postippocratica, e oc- correrà ora
seguire gli estremi tentativi di
quest'ultima di salvare la techne, «l'an-
tica medicina », da così agguerriti
avversari. Già si parlò nel capitolo v
dell'opera di Filolao,; qui vogliamo ancora
accen- nare ai progressi compiuti, nell'ambito
della matematica, dal filosofo e scienziato
Archita, vissuto a Taranto tra la
fine del v secolo e la prima
metà del IV, ultima figura di
statista pitagorico. Egli resse per lungo
tempo la sua città incrementan- done la
prosperità e la potenza militare, facendone
la prima della Magna Grecia. Si
ritiene che Archita abbia applicato la
propria dottrina matematica alla mecca- nica
militare, e, poiché sappiamo pure che
fece uso di strumenti meccanici per ri-
solvere problemi geometrici, si può dire
che per primo (e sfortunatamente con pochi
imitatori per molto tempo) egli intuì
la fecondità teorica e pratica di una
rela- zione fra matematica e meccanica.
Profonda fu l'impressione che la
personalità di Archita suscitò in Platone
in occasione del suo soggiorno a
Taranto nel 3 89. In campo
matematico, Archita riprese il problema di
Delo secondo le linee tracciate da
Ippocrate di Chio, e lo portò a
soluzione mediante la rappresenta- zione
strumentale di figure geometriche in
movimento. La soluzione di Archita è
troppo complessa per essere qui riportata:
da essa risulta comunque che egli era
familiare con i processi mediante cui
si generano cilindri, coni e altri
solidi di rivoluzione, e che fu il
primo ad usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico. In questo modo,
Archita offriva il primo esempio di
applicazione della geometria dello spazio
alla soluzione dei problemi di geometria
piana, e insieme dava inizio alle
ricerche che concluderanno alla teoria
delle coniche. Ma quello che va messo
in maggiore rilievo, è lo spregiudicato
coraggio con il quale Archita faceva ricorso
- nonostante la polemica·platonica - a tutti
i metodi e gli strumenti che
permettessero di far progredire la ricerca.
Parimenti ardite le sue impostazioni in
aritmetica e in acustica: quanto alla
prima, egli contribuì a sviluppare il
concetto che il numero è essenzialmente
un rapporto, perciò in- dipendente dalle
condizioni di commensurabilità e razionalità,
e poté quindi tor- nare a rivendicare la supremazia
dell'aritmetica fra le scienze matematiche;
quanto alla seconda, egli scoprì che
il suono è dovuto al movimento e
all'urto dei corpi, e che l'aria è
un corpo atto a ricevere la
vibrazione e a propagarla La tradizione, che
fa di Archita uno dei maestri di
Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a
simboleggiare la funzione del tarantino nel
passaggio dalla ma- tematica del v secolo
alla grande fioritura che ebbe luogo
nel IV. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto
né di problemi speculative. Il loro interesse
si concentra tutto sul problema giuridico,
per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente.
La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato
colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,
minacciando di alterarne quei caratteri che costituie la base stessa del suo successo come
civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come Catone, se ne avvidero immediatamente e cercano
di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto
ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della
Macedonia, fossero cacciati da Roma. Atene invia
a Roma una missione diplomatica, formata da tre
filosofi (Critolao, rappresentando il Liceo, Diogene
di Babilonia, il Portico, e Carneade, l’Accademia).
Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel
Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce
a conquistare la parte più intelligente dell’elite
romana. Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra
il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di
Roma, che fonda la propria potenza sul territorio
strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I
filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare
Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a
fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni,
la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a
studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti
personalità politiche. A Roma e per oltre
un decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio
si lega particolarmente al circolo di Scipione Emiliano,
detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico
romano -- comprende oltre allo storico Polibio,
i maggiori rappresentanti della. cultura
romana del tempo: Terenzio, Lucilio, Caio
Lelio, Quinto Elio Tuberone, ecc. Roma
comincia a diventare un centro culturale
di notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che
la filosofia, con i successi ora
ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre
a Roma la propria stampa.
Che non sia stato così ce lo dimostra il
fatto semplicissimo. Mentre il greco si e
rapidamente diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per esempio in
Egitto), tanto da diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della cultura, nulla di
simile accadde a Roma. Nel campo linguistico, la
resistenza del gran Catone riporta piena vittoria. I
romani ‘filosofano’ in latino, arricchizzendo
il vocabolario. La civiltà mediterranea finì
a poco a poco per diventare latina. Nel
campo della filosofia le qualità più
caratteristiche del temperamento indigeno romano -
buone o cattive che fossero - non
andarono sommerse. La ripugnanza per la speculazione
astratta (‘scolastica’), l'interesse volto più alla conclusion
pratica che alla premessa, la spiccata attitudine
del filosofo romano all’azione, fanno sentire il
peso della loro influenza. I notevoli riflessi
di questo temperamento caratteristico dei
romani hanno conseguenze nell'ambito della ‘filosofia romana.’
Ora può essere opportuno - per dimostrare
l'immediata efficacia che tale spirito ha sugli
stessi studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi
partico- larmente significativi: Polibio e
Strabone. Polibio fu invia,to a Roma
come ostaggio dalla lega achea e vi
rimase per oltre sedici anni, nei
quali ebbe modo di assimilare profon-
damente lo spirito di quel popolo. Scrisse
in greco le Storie (in quaranta
libri) sulle imprese di Roma; opera
solitamente considerata come un grande
trattato, oltreché di storia, anche di
geografia descrittiva, per l'enorme ricchezza
di notizie riferite sugli usi e costumi
dei vari popoli presi in esame.
Orbene il modo con cui è concepita
quest'opera è una prova evidente che
Polibio intende la ricerca scien- tifica in
maniera .completamente diversa dai suoi
connazionali. Proprio nulla, infatti, lo
interessano le teorie generali e tanto
meno le ipotesi sulle zone lontane e
mal note del mondo; esse non meritano
la sua attenzione, perché prive di im-
mediata utilità. Secondo lui, ogni indagine
seria deve essere giustificata da un
ben preciso scopo pratico. Il compito,
per esempio, che egli si propone è
quello di istruire i romani intorno
al mondo mediterraneo in cui hanno
svolto e svolge- ranno le loro conquiste:
tutto ciò, dunque, che fuoriesce da
questo programma non può che apparirgli
privo di senso e dannoso allo
sviluppo della ricerca. Da un punto
di vista metodologico merita di venire
notato che la storiogra- fia di Poli
bio presenta alcune affinità con quella
di Tucidide: la ricerca tenace della
certezza, l'analogia- da lui resa esplicita- con
il metodo della medicina, la rinuncia
ad ogni abbellimento retorico. Ancora più
profonde sono tuttavia le differenze che
lo separano dal grande ateniese. Polibio
credeva nella diretta fruibilità della
storiografia come magistra vitae, nella autonoma
significatività delle informazioni riferite
quanto più possibilfedelmente, e si
ricollegava in tal modo alle teorie
sia di Isocrate sia di Teofrasto. Gli
era ignoto lo sforzo di com- penetrazione
tra ragione e fatti che Tucidide aveva
cercato di attuate nel suo me- todo
storiografico, convinto com'era che solo da
esso potesse scaturire quella essenziale
verità della storia la cui «utilità»
era certamente meno immediata ma più
fondata e più generalmente feconda. In
tal senso la storiografia di Polibio
sta a quella tucididea esattamente come
la filosofia ellenistica sta a quella
del v e del rv secolo. Strabone
visse un secolo e mezzo dopo (63
a.C.-25 d.C.). Nato ad Amasea nel
Ponto da una famiglia di sangue misto
greco-asiatico, fu anch'egli fortemente
influenzato dallo spirito romano (come ce
lo dimostra la decisione con cui so-
stenne il dominio politico di Roma).
Compì lunghi viaggi e scrisse una
Geografia (Geograftkd), ampio trattato in
diciassette libri. Ebbene, questo trattato
dimostra, non meno della storia di
Polibio, il nuovo tipo di interessi
che anima il suo autore: brevissima è
la parte dedicata all'aspetto matematico
della geografia; ricchissimeLa filosofia postaristotelica
e diffuse sono invece le notizie
sugli usi, le istituzioni, la storia
dei paesi via via presi in esame. La
differenza fra l'indagine di Strabone e
quella compiuta dai geo- grafi alessandrini
di qualche secolo prima non potrebbe
essere maggiore. L'og- getto di studio ha
conservato lo stesso nome, ma il modo
con cui è condotta la ricerca
dimostra che il significato stesso della
scienza è completamente mutato. L'espressione più
caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico
del filosofo romano nell'ambito delle ricerche, è
l'eclettismo. Non che esso sia nato
per opera del filosofo romano, né che tutti
i filosofi romani sono direttamente o
indirettamente legati ad esso. Ma nell'ambiente
culturale di Roma, l’ecclettismo trova le ragioni
del suo successo. Il
suo più illustre sostenitore e Cicerone. Per
trovare un esempio di filosofo romano
che non ha compiuto alcuna concessione
all'eclettismo, bisogna riferirsi a Lucrezio. La particolare posizione di Lucrezio non è
che la conseguenza logica della sua
adesione a un sistema o dottrina. Già sappiamo, infatti,
che una dottrinapuo essere un unico indirizzo
dmantenutosi costantemente fedele alla propria
concezione teoretica, e. g. del giardino, senza
evoluzioni interne, e questa sua stessa
staticità esclude che abbiano potuto
sorgere seri tentativi di conciliazione fra
esso e gli indirizzi avversari.
A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire
filosofi romani che non mostrino qualche venatura
di eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Espli-
citamente eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma
anche del genio militare Marco Terenzio Varrone; atteggia-
menti eclettici caratterizzeranno i grandi filosofi
romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del Liceo e l’Accademia.
del periodo del principato. Un po' di
eclettismo, mescolato con molto della “Scesi”, puo
venire
ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e
gli spiriti più raffinati della filosofia romana,
come per esempio in Orazio, che riusce ad esten-
dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche
caratteristiche degli epicurei. L’eclettismo ebbe
le sue prime affermazioni nella cosidetta Accademia
e nel Portico. Esso rappresenta
un tentativo di soluzione della crisi che la
filosofia stav attraversando a Roma, e rispecchiò una
diminuita fiducia da parte di ciascuna delle
sette - nei propri principi..
Da questo punto di vista possiamo giustamente
sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del
rigore e la gravitas dello spirito filosofico, una
profonda stanchezza e una mancanza di
originalità. Esprime anche, però,
la raffinata consapevolezza dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione
di poter
trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi
generali, la via per una comprensione e per una
soluzione a un problema più interessanti per il filosofo romano concreto. Da
student, Cicerone ascolta
con molto interesse le lezioni di filosofi
che,come Filone nell'Accademia e Posidonio nel
Portico, sostenneno la necessità di
un'evoluzione filosofica in senso eclettico,
e si lascia da essi facilmente
convincere che qualcosa di buono si
trova di fatto in varie dottrine,
specialmente nei loro precetti d'ordine
pratico, che
il più delle volte coincidono,
pur venendo fatti derivare da pri11cipi molto diversi
e in apparenza quasi antitetici. La
adesione del avvocato Cicerone
all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente
di studiare con sincero interesse tutta
la storia della filosofia romana,
sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla
accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della
eloquenza latina permitte a Cicerone in particolare, di
trovare espressioni eleganti e so-brie per
le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice
nelle Tusculanae
disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta,
e su di essa le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani
nelle faccende attive della vita, puo esserlo anche,
se mi riuscirà, standomene ozioso. Se Cicerone ha il torto di dimenticare, in queste parole, il
contributo dato alla filosofia romana da Lucrezio,egli riesce tut-
tavia
ad esprimerci molto bene l'animo con cui si
accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di
filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un
gravissimo vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che,
se anche non introduce Nessun concetto originale,
il semplice riuscire a mettere in
circolazione, tra I suoi amici, un patrimonio così
serio come lo e la filosofia costituie un merito di cui
i concittadini dovranno
essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concitta-
dini, ma tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza
gallilei) anche i posteri, poiché i suoi
scritti rappresenteranno per molti secoli
una delle principali fonti per la
conoscenza del pensiero filosofico.Tra
le principali saggi e dialogi di
Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane),
il “Delle leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male,
“La natura degli dei,” “Sui uffizi), il
Sogno di Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio,
(un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente
Agostino, e che era un'imi- tazione del
Protrettico di Aristotele), ecc. E callunniante asseverare
che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo.
Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,
le espone in modo tale da poterle
utilizzare a favore della concezione
eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,
ora invece la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso
dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di Cesare.
Proprio Cicerone aveva pubblicato, postumo, il
poema di Lucrezio, e tale dimenticanza
è dovuta probabilmente alla posizione
dichiaratamente anti-giardino da lui assunta in
sede filosofica.
con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente -secondo Cicerone
-
che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici
discussioni, non
prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e
coordinamento delle tesi,
una preoccupazione appare costantemente presente
in Cicerone: quella di rendere ogni romano consapevole
dell'immenso valore della filosofia.
Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere
il valore esatto di essere umano, delle nostre conoscenze;
solo la filosofia ci insegna a
guardare con effettiva serenità la vita, mostrandoci con chiarezza ove risiede
la vera felicità . Non v'è dubbio che,
per il senso pratico dei romani, questa
capacità della filosofia dialettica costituie la
sua più seria giustificazione: unica
giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e
da tutti accettabile Marc’Aurelio Antonino nacque
a Roma . Salì al trono imperiale alla
morte di Antonino Pio di cui era
figlio adottivo; E convertito al portico dalla
lettura di Epitteto. Scrisse il “ad seipsum,” una
delle più interessan i opere filosofiche
della sua epoca: Colloqui con se
stesso (Ta eis heaut6n), ordinariamente
nota col titolo di Ricordi (in dodici
libri). Le note dominanti della sua filosofia-
nella quale emergono sempre più chiari i
caratteri dell'ultima Stoa - sono un disprezzo
ascetico di tutti i beni esteriori e
una profonda religiosità. L'essere divino
non è semplice fato, ma è soprattutto
provvidenza universale. Il rapporto dell'uomo
con dio è un rapporto di effettiva
parentela, che di conseguenza viene a
legare fra loro tutti gli uomini.
Oltre ai caratteri ora accennati, è
tuttavia presente in Marco Aurelio un
carattere nuovo, evidentemente connesso proprio
al tipo di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in
sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria
carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha
quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai
compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la
forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del
portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in
una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità.
Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa
sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza
dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi
edifici, ma non riuscea a comprendere l'interesse della vera e propria
ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche
direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia.
Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la
massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto
che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere
i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle
varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose
dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse
dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli
Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde
giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo
lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani --
direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di
tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale,
che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che
scriveno saggi di ingegneria di qualche pregio, il più importante è
Vitruvio, ingegnere militare di Giulio Cesare e Ottaviano. Il suo saggio
principale, “De architectura", reca evidenti gl’ultimi sviluppi
della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri.
Vitruvio ricorda infatti esplicitamente Ctesibio,
riferendoci parecchie sue invenzioni (la pompa, una balestra ad
aria compressa, l'argano idraulico, ecc.). Il
voluminoso trattato di Vitruvio s’articola in libri che esaminano una gamma
assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta
all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici
e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami
storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una
preziosa fonte per studiare la cultura tecnologica, e in generale i
costumi dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi
difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove
necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO
non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la
dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose
e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta,
onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi
l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di
esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice
pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una
profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi
aveva manifestamente studiato troppo poca
matematica. Più che di ingegneria la
cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati
di Catone, di Varrone e di Columella. Fu proprio una disciplina tecnico-scientifica
parallela all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più
originali: l 'agrimensura, detta gromatica
dalla groma, lo strumento che gli
agrimensori romani usavano nella misurazione dei terreni. Il
codice Arceriano ci ha conservato una parte delle opere degl’agrimensori
da cui si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro
importanti compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti,
fondare le città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei
fiumi nelle campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le
confische ed i tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano
per istruire questi funzionari imperiali nella geometria, intesa nel suo
aspetto pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali
religiosi che accompagnavano le loro opere. Fra i
maggiori autori agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver
condotto a termine l'opera di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata
con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto
Vespasiano e Traiano, autore anche di un'opera di arte militare sugli
Stratagemmi e di un'opera sugl’acquedotti di Roma, “De
aquis urbis Romae”. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed
with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of
“THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types
in general use it – pensée – the idea is something like science, mathematics,
philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started
philosophy is interesting. According to Geymonat it was a generational thing.
Catone did not want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat
says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is
that it attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock
knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years
later Carneade and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two
comments. For one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane –
would have something like the Americans call a Rhosdes – they would go to
Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione
Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio
Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly
interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who
called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he
quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman
ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a
fourtfold way: concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather
than the premises – prattico --. So the history by Polibio is only one that may
interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical prose! And the
geography of Strabone has no information on calculus and measures – only bits
about institutions of people the Romans might conquer – nothing about foreign
distant lands! The second most notable remark is then that Scipione Emiliano
paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is
seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano
– unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of
the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins
survived this fashion for things Hellenic! – Geymonat spends enough time on
what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and
Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis,
and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and
Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti,
and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty things about the
four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at
Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of
Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia
of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic
origin, and is molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat.
Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano – concretto – pratico –
Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la gioventu romana
entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore
familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di
Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Geymonat” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ghersi: filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa
Grice, Liguria, Italia. Ghersi
has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s
something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi
appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s
inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi
enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite
humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just
fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s
personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly
appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s
favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a
frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none
otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in
all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.:
Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide
SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ghezzi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei tordi ubriachi – diritto artificiale – filosofia italiana
-- Luigi Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love
Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but
also a count who was condemned by the church; he has explored the history of
masonry – in Italy it started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il
segno del compassso,’ – and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ –
among many other topics – also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia
della volonta --.” Grice: “Typically of Italian philosophers, he has explored
Italian history, ‘ceneri del diritto,’
and a confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del
Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia. Marginalità
e Società, ell'Università degli Studi
dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism
giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del
pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità,
devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto
Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con
particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico",
introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza”
sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del
nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come
“l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice”
e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico
o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi
contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo.
La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto
come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi
saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente
riferiti a G.. Altre saggi: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro
lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella
sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo, I e II, Patera Palermo Editore, Diversità e pluralismo. La sociologia del
diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina,
Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso
simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La
dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di
Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della
Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio.
Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano Federalismo laico e democratico, Mimesis,
Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano, Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis,
Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della
volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della
morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e
mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti,
alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come
valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno
al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di G, e Arduino,
C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U.,
edizioni Raccolto, Alle origini
dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine
pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica
contro politica”; G., edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e
libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè,
Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger, G.,
Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis,
Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto
penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità
organizzata, CParano, Giuffrè Editore, Stefano Carluccio, In ricordo di G.,
anima della Società Umanitaria, su Critica Sociale. 1 Dei delitti e delle pene.
Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli
Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis,
Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro
lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia
del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel
pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia. Etica contro politica, di Elias Diaz, G.,
edizione Iesi, L' immigrato
extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese,
in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Gallini, Giovani E “Violenza:
Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. di
G. in “Marginalità e Società, II”. Le
ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis,
Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario Minna in Crimini associati, norme
penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè, G., Federalismo Laico
e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in
Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al
Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto
diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra
formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»
Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia",
richiama G. in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E.
Bruti Liberati et al., Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di G. “Alle origini della labelling theory e del
concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Balboni, Mimesis,
Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di G.. “come sostiene G. essa
svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di
stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella
marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e
crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi
e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca,
Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole di G., in
Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute
sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di G. (Il
Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero
dell’autore. Giorello si intrattiene sul
testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il
pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma
dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da
"Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo
di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come
estetica, Furio G. e Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica.
Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del
dubbio, G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Mazzullo, ‘’Prefazione’’,
“Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora, Riflessioni di una criminologa
prestata alla filosofia del diritto, Dorado, El devenir del derecho:
reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de Ghezzi, Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni
giuridiche di G., Metodo di ricerca sul
rischio sociale, Vitale, Esistenzialismo e Nihilismo come confini
aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto
come Estetica, Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò
che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio
S. G., Mimesis, Milano, “Prefazione” di Mazzullo, “Introduzione” di Giorello,
In “Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Vitale, Damiani
di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una
ricerca, Bolognini, Mimesis, Vincenzo
Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto,
Fascicolo, ed. F. Angeli, Rinaldi e Saitta, Devianze e crimine, Antologia
ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario
Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici,
Giuffrè, Sociologia del diritto
Filosofia del diritto Criminologia. zi Le doverosità statutarie
ritualirischianoc, on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione
rilevanza originaria, per trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi
quella dimensione creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a
nascita. Dunque, anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si
rischia di far scivolar e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei accomandarono
I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure moltopiacevolee,
comunque retoricamente orientata riempire semplicsi paziscenograficei non ad
essere strumento di autoriflession inedividuale di riflessione collettiva per
la fratellanza tutta sul passato, nonché potente strumentodi stimolo creativo per
affrontare con consapevolezzale realtà future. Pur troppopiù che un rischio tale
situazione si e negliuliimi tempi manifesta t ac o m e avvenimento. Conseguentement
pea r e necessario, prima di entrare direttamente nella sostanza delle questionsiulle
quali riflettere, ricordare brevemente il significatto tradizional e profondo
della relazione morale propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia.
Per comprendere tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di
chi e preposto alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione
Regolament di el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe
assoggettar ma il volere del destino. Johann Wolfgang Goethe
assegnano al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico
(ex art. 119 Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente
as volgere queste stesse funzion ainche ex art. 36 Reg., funzione i competenze che,
per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo,
nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la
relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art. 28, letter ad, Cost., in
quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex
art. 38, lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non
può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle
funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione storica
all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e facile comprender
ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio criticodelle attivita svoltee,
soprattutto, della loro incisivita sia all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione,
nonché un programma ed un impegno di attività per il futuro. Dunque, da un
lato, il Grande Oratoree tenuto nella propriarelazionemoralea richiamare l'attenzione
della Comunione sui temi, che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando
nael meno uno,e, dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi
componenti, dei fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza caomportamentale,
che non può essere intesa come mera correttezza giuridica. Conseguentemente la presente
relazione morale verrà idealmente divisa in due parti, l’una riguardante la
situazione morale e giuridica della nostra comunione, e de credo, a tutti
evidente quanto sia necessario un generale richiamo in questa direzionem, entre
l'altra rivolta aite mitrattatei da trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale,
sociale. Per meglio svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale
ho reputato opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero
lavoro solitario dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle
riflessioni della Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente
proficuoai fini dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di
aspettative in materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul
territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione dell'organizzaziod
nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie della nostra tradizione.
A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i Fratelli che avessero desiderio
di partecipar vai, Massa Marittima presso la R. L. Vetuloniae colgo questa
occasione per ringraziare i Fratelli della R. L. Vetulonia per la loro calorosa
accoglienza, nonché tutti i partecipanti all'incontro per i preziosi contribut
fiorn i t i alla discussione. L'incontro ha visto la partecipazione numerosa di
molti Fratelli come singolic, ome rappresentandti associazion ciol legate alla nostra
lstituzione e come operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent
pier tuttii partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose
ed utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora, dunque,
tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita dell'iniziativa,
posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa strada anche in future
ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo modello di incontro.
L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine profana della Libera Muratoria
per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata offuscata dai pregiudizi, dalle
calunniee, talvolta, anche dalla congiura del silenzio perpetrate contro di noi
dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci di integralis meidi totalitarism piolitici,
religiose, i FILOSOFICHE dii ogni colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso
per insipienz ai gnoranza o d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche
dal nostro stesso seno e si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un
masochistico cupio dissolvoi adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo,
peggio ancora, ad una profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di
fratelli, che erano e sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi
fenomeni, sebbene ancora presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat
di a lunghi anno negli antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il
nostroVenerabilissimo Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica
profana grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze
a di impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo
dire, la battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella
società democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica
positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor etra
Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano fedelmente,
anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e le nostre
iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene da
estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le istituzion piubbliche
hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti, riconoscendo cin taluni
ambiti, che storicamente ci appartengono, come interlocutori qualificati
(partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici, etc.); i messagg di elle massime
Autorità dello Stato alle nostre manifestazion si ono ormai diventa te una
felice consuetudine, sempre piu frequentemente politici ed amministrator piubblici
partecipano alle nostre iniziative culturali e le Comunioni massoniche estere
guardano alla nostra realtà con rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società
civile ci ha restituito il ruolo che storicamenti en ltalia e
sempre stato nostro. Poiché, però, nessuna Conquista nella storia umana e
definitiva e quandoci si ferma a contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi
rischiadi perdere quanto si è faticosamente conquistato, non solo è necessario perseverare
nell'impegno sino ad ora profuse nella costruzione della nostra imagine pubblica,
ma e altre sì indispensabili entensifica ruelteriormente in modo operare attraverso
un radicamento sempre piu profondo sempr epiù rigoroso tale impegno e,
soprattutto, della nostra imagine nell'azione sociale effettiva, nella nostra reale
presenza storica, nelle azioniche quotidiana menctei ascuno di noi deve compiere
per essere degno della maestranza cui appartiene. Nelle attuali societa postmodern
e l'immagine è molto, talvolta quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin
serve anche la sostanza da cui tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio
nella via iniziatica liberormuratori all’immagine non dovrebbe essere il vuoto
simulacro di irrealistiche aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della
realtà, di cio che vogliamo esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil
Grande Oriente d'ltalia. Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio necessarie
in una societa come la nostra, per corsa da apparenze sempre più invasive m, a eproprio
la nostra natura iniziatica e tradizionala e imporcdi i essere cio che desideriama
opparire P. erraggiunger qeuesto obiettivoe indispensabil perogettared, a bravi
architetti, una fattiva presenza nella società in cui viviamo; una presenza che
sia significativa, ttraverso le nostre opere.dei valori che da sempre rappresentiamo.
La arepresenza avrà la prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore
e chiamatoa fare come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio
comportamento il buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor retta anche
dalla presenza dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare
maggiormente incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più
istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza sociologica
d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion liazzazion deeisingoil
comportamenti. La situazione interna della nostra Comunione si presentaa, d una
analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e ricca di prospettive per il
futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di taluni fratelli, più animat
di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe o, tre b b ef a r pensare il
contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci onsegui tpiarlano più e meglio
di qual sia spiette golezzo o d i qualsi assi composto dissenso. La Comunion es
i present ai n costante quantitativa, crescita sia sia qualitativea segna I'affermarsdii
un deciso ringiovanimendto eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon deve essere trascurato
non soloe non tanto perch eil futuroe dei giovani ma soprattutto perche sono le
vecchie generazioni che manifestanmo aggiori difficoltà ad abbandonaruen
modello di Libera Muratoria non consononé alla nostra tradizione iniziatica ne
alla realtà storica attualment esistente. Nel generale panorama, non solo
nazionale, di diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico (Rotary Club,
Lions, partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello liberomuratorio
conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in contro tendenzae
riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei qualificate forze giovanili.
O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon rinnovatoi mpegno per garantire al
nostro interno un ambiente semprepiù favorevole ad una crescita iniziatica comune.
Le adesioni scatur i sconod a aspettative e l e aspettative piu diffuse sono
proprio quelle che hanno caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica
qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop,
urtroppole note iniziatich deel Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart sono troppo
frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen atinimati
dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La Libera Muratorianon
puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion pi rofanee neppure
un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera Muratoria è una
scuola di perfezionament ion dividua l e finalizzato a l bene dell'Umanita d; i
questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a memoria a pena d
i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e necessario stigmatizzare negativamente
quei comportamentci he, nascendo da uno smisurato narcisismo personale p,
ongono il proprio io in posizione assolutae tentano di imporre il proprio modo
di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni on solo contrastano con il
nostro basilare principio di tolleranza, manche con quella visione relativam,
olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabil si ono quei profani
comportamenti che mercanteggiancoarriere, grembiulie riconoscimenti, prescindend
do a capacità, convinzioni i d, e e e progettoi perativi. Deve risultar eb e n
chiaro a tutti che le funzion iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in
Loggia e nell'lstituzionien, genere, sono servizi prestati alla comunitàe non
orpelli, gerarchieo privilege di a esibire, se non ancheda ostentare.
esibizionei d ostentazionsi i configurano come veri e propriabusi delie
funzioni ricoperte. Se vissute correttamente tali funzioni debbono essere intese
comeonerie, per tanto, non dovrebbero da readito ad alcun litigio in sedeelettoraleo
di nomina alle medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun interesse
personale a ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito e
quellodi servire la comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài
giungonop,oi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti
interni alla nostra Comunione. Questo comportamento, certamente favorito dai moderni
mezzi di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.) , induce prendere
posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta pausa di
riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Risponda elvero quanto
affermo? E'opportunaoffermarloF? Accioilbene della nostra Comunità affermandolo?
Etc. L'azione dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così immediatcaheprecede
il pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t reiflessione I . danni d'immagin
peernoi tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà razional deeipochis, i diffondono
profani, trai che leggono iunquele nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea
capirle, ma sempre comprendend cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania,nche
peggiori dlquellpi roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare,
poi, I'uso ormai diffusodi giuridicizzarie contenziosi . -giuridica, interni,
abbandonand lao noslra tradizionme orale i,niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei
tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli
nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano all'interno
della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare direttamenatei
Tribunadliella Repubbliclataliana Della illegittimiatà nche giuridicadi tali comportamenst
ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le degrade moralede-lltaradizionme-uratoria,
l comportamen dtei scritti sono decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic,
on estrema algradodi Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo
dovere è di praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele
loro necessità, d i a lleviar e le loro disgrazie e d i assiste r l cion i
vostri consigli e co l v ostro affetto. e ueste virtù, che nel mondo profane sono
considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un dovere
gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei
Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non dovrebbe
rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo ilmeglio c,he inessagiàvive,
pe riniziareun percorsodisempre crescent peerfezionamento. ll Libero Muratore non
può rappresentare il cittadino medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della
società. Fortunatamenltae maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli
meravigliosi, che si distinguono per profondità iniziatica e generosità civile.
Poche piete gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di
Massa Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad
unanumerosaseriedi temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare
momentostorico C. ertamentie temi individua eticheo raverrannoes postni
onsononuo viallanostra Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati
da tutti. In convergenz caonlei stanze che da piirparti della Comunion leibero muratorisailevanol,
apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed all'etica della
responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come ilnostroc, henon
dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi chiaîezzi al
rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che anima questo tema. Weber fu,forse,
il più illustre sociologioedesco della prima metà del secolopassato efucertamente
-postindustriale un acuto osservatore critic dellasocietà e burocraticac'hein
quegli annisi stave formando all'ombra della minaccia dellegrandi dittatur europee,
allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse ociologeo videnziava, primo
poterec'hetendevanao spersonalizzare le decision piolitichien dividuali e
lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona enchesullasolitudinde ell'esserue
mano di fronte alcrescent peoliieismdoei valori del mondo modernop;oliteismo,
chetuttorain esorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa fronte di un
politeismo dilagantenell'estremo soggettivismo, Weber concentrl a apropr i a
analis si u l comportam enrtao zional e e sul momento etico, per matéiializzar
e dei valoriun comportamento orientato ad un relativismo operativoi ,spirato a
à una organizzazione tutta umana e democraticda ellèsocietà W. eberaf frontail tema
fondante delle società moder Àec:omepossano funziona rele società industriali
di massanel rispetto delleindividualit pàersonaluimane? E',dunque,in questo quadroche
I'etica dellalibertàr, i volta allatuteladel singolo essereumano, deve coordinarsei
conciliars cion I'etica della responsabilità, fìnalizzata gli interessci ollettiveid
istituzionalNi. ulladi più attuales, oprattuttoa, llalucedei present pi
roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t tutela dellelibertà individuaeli
di sicurezzad, i partecipazione democraticea di esigenze di governo p,er citare
solo pochi esempi. Al di là,. comunque d, eg L sipecificciontenut ciulturali eberianiiil
sempiice richiamao questo Autores prime un elemento fondante della Tradizion leiberomuratoria:
a a parlare da trasmettere cheessi rivetano. in luogo,i mèccanismi burocratic diel
incalzae rischiadi sprofon darnel nichilismlo e dalnulla I'impegno
civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura
iniziatica, ossia individuale, personale, propriadi ciascun LiberoMuratore. La nostraTradizione
iniziatica ci assiste ed accompagna nelle impegnative prove, che I'attuale realta
storicaci presenta e, noi, peressere all'altezzadita leTradizioned, obbiamo essere
capacidi re interpretarla a l presente, non d i ripeterla al passato. La
Tradizione e tale perche si pon e fuor i dalla storia in un a perenn e
attualitan, onin un richiamo cristallizzato ad un singolo attimo del tempo passato.
La centralitaeticadel nostrolevigarela pietra grezza di noi stessisi impianta sulle
due colonne DI UNA PROFONDA CONOSCENZA FILOSOFICA e di una altrettanto profonda
consapevolezza morale. lgrandi insegnamenti che ci giungo nodai simboli, dai
riti, dalla sapienzae dai lavori dei nostri Fratelli passatae dalla nostra
lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE FILOSOFICA e morale. Dunque, ciascunodi
noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei nostri insegnamentim, a anche
come un ferreo e rigoro soportatoredi comportamentisi pirati alla nostrapiu
rigida moralità.Troppo spessosi sentono talun i Fratelli vantarsidi conoscenz esoteriche,
poi, il loro comportamenteo paragonabilae quello dei peggior pi rofani.Troppo
spesosi assiste alleiamente ledi talunifratellpi erl'assenzad insegnamenti poi,
massonci, e loro persistenta essenza non solo a dibattitei convegnim, aanchee soprattutto
agli stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano taluni fratellli amentarsdii
quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae non domanda rsciosaessidanno allaLiberaMuratoriaT.
Uttiquesti comportamenti rivelano una assenza di vera e profond amorale libero
muratori a Dell'assenz da i conoscenza non e ne p pure il caso di parlare.
Fortunatamen ta efronte di queste degenerazio nl ai gran parte dei Fratellsi i
distingu epe r i mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict a radizional
deella Libera Muratoria. Per favorire la crescita della nostra lstituzione necessario
in, una societa dimassa, giuocare suigrandi numerie, quindi, selezionare dai
grandi numerii migliori uomini, per inserirlai l nostro interno. Se si
raffrontano quantitativamenite Massoni dell'ottocento italianoa quelli attualied
entrambi alla rispettiva dimensione numerica dellasocietà, nella quale viviamoe
vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto sotto dimensiona Nt i on credo
che si poss a pensa r ec h egl i italian di i oggi siano peggior di i quelli d
i ieri, forse , come sembra no testimoni artealunenostre realtainterne al Grande
Oriente è, vero il contrario E.dallorae nostra carenza non dare la possibilitai
migliori di entrare nella nostril stituzione. questa Su comunicazion è ecentral
e e molto s i e fatto in tale direzione si a attraverso incontr pi ubblici, sia
grazie ad un a ricca pubblicistica, sia, in fine , attraverso la presenza sui
mass media. Non si deve r a l lenta r s l’impegni on queste direzioni, ma tale
impegnopotrebbetrovarefattoridi moltiplicazionaet traverso un sistematico
coordinament noazionaledegli interventiI. noltreil moltiplicarscio ordinatodi
una rete associazionistica sul territorio nazionalepotrebbedivenireun utile strumentoa,
l contempod, i diffusione dei nostril principei di informazion ientornoallenostre
iniziative, ma anchedi selezione di coloro cheintendono avvicinarsai noi. A
questa selezion esternadeibussantdi eveanche corrisponderuena selezioneinterna dei
Fratelli. Non casualmentegli insegnament liberomuratorvi engonoim partitsi u
tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro) p, ertantonon puo essere il
mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i grado. Solola
conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc,
omebene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s caturisce dalla somma
del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola selezione non puoche avvenirea
seguito di una costantepresenza in Loggiae di un sistematico lavoro personale di
ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii gradi, nonsoloin quello di
Apprendista e ,d, in particolare, i lavori in terzo grado dovrebberoessere valorizzati,
affinchesi possaconstata reche il Grande Orientee composto da Maestri c, he
lavoranonel loro gradoe non in gradodi Apprendistal.l grado di Maestro e il
vertice della nostril stituzione, pertantod , eve informarela maggioranza dei
lavori ritualidi Loggia per evitare che le ritualitadi altri gradi prendano il
sopravvento, snaturando nlea forza iniziaticail: avorida Apprendistra estano
per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi anni il Grande Oriented'
ltaliaha promosso una crescent organizzazion deella Comunio neal fine di
potenziar nela presenza socialee la capacita internadi creicita qualitativae quantitative
In.fattis, emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii convegnil, etavolerotondee
gli i n cont r si i a pubblic si i aprivati; l a nostra p resenz a sul
territorio e stataraî forzata da consistent i impegni per fornire a i fratell s
i e di dignito sem; a necessi t a ancor a s i a una maggiore partecipazioni
enterna a i lavor i della Comuniones,iaunapiu adeguata organizzazione storiche.
Rispettoal tema della partecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debba insisteremoltoper
costituzionalech, e megliorappresentlei attuali esigenze evidenziarnela
doverositaolt realla necessità T. uttaviapare opportune ribadire come la
radiceprofonda della Libera Muratori ari si e dane i tre gradi dell'Ordine e
non negl i ulterior gir a di dei Riti , i quali, al massimo , possono essereconsiderati
delle articolazionsi pecificheD. unque, nessuna camera rituale puo sostituire
sopperi realla carenzadi lavori nei primitre gradi. Questa riflessione dovrebbe
convincere tutti i Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incrementodi
lavoriin cameradi Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita
iniziatichdei dettacamera. Riguardo, poi , alla nostra organizzazione costituziona
l ei nterna , pa r e necessario constatare com egli episod i cei d occasio n a
li in terven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di
disposizioni spes Ào si constatala stradala contraddittorio
carente, abbianoormairesa evidente la necessitàdi una organicae completari scrittura
della nostra Costituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir, isultasubitochiaroa
chiunque studila nostril stituzionceome alla struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae,
tc.) della nostra Comunion sei sovrappongaper dalla nostra appartenenza precisa
ad una realtà storicau, nasovra struttuar associazionistica di inevitabile
sapore profanoP. oichenone possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla societàc,
uisiappartienae pieno titolo, la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci
on l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei
. di pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo delloconfederale
originarivo ersoun modello federale piùo meno centralizzaìo. neirecentpi
rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte allealsociazioni
civiles, i a d ella Liber a Muratoria , sia del rapporto che intercorre
pertanto traquestedue realtàstoriche. Dobbiamo stupircci heancheil
nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi percarriere,
grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di prevaricazion Lea. Libera
Muratori saialimentadiidealie di spirito diserviziofraterno. In ultimo, ma nonultimo.
A chiusuradi questa relazionme oralemi sembra opportuno
ricordardeuespecifichtematiche, sono dovuteaffrontarein
questoprimoannodellanuova Gran Maestranza. prima intorno allatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria
ed al degradocomportamentale, derivato e, mersi in occasion ed el rinnovodelle
cariche di é iunta e continua tpi ervicace mente anchenel Corso delcorrenteanno.
La seconda investe irapporttira Ordine Corpi Ritualei dhaportato allastesuradi
nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on ordine. ll primotemaaffronta I'ormadi
iffuso mal costum dei ricorrerealla giustizia ordinaria perpresuntedisarmonie
in materia libero muratoria, prima anche di esperire il foro domesticeo di
cercare concordiafraterna,come dovrebbe essere nostro dovere fare. Inolt;e, tali
scontrigiudiziarisi connote naoncheper la violenza, la ripetitivite à la
caparbiareiteraziondei atti,citazionei, sposti, richiest de i accertamentin via
preventivaed in via risarcitoria, querele,richiestedi prowedimentiourgenzae
quant'altro consenta I'articolato ordinamentgoiudiziario si sommaancheun
corrispondente di massa (giornalil,eúere,siti internet, esigenze socialei
giuridichdeipendenti etc.) ai e giuridic armonicae,ntrola qualesvolgereinostri architettonici
finedi costituireuna unità istituzionale lavori D' el resto tale problemaha naturaTradizional
peo, ichenon nasceoggrm, aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della Massoneri
OaDerativa. La Tradizione costituzionale della Muratoria Universale, Infattil, e
Loggesovranesiunisconoc, onservandlaopropriasovranitàp,erformareuna Gran Loggiam,
ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale.
comeperaltroè awenuio anchenellecostituziosntiatal (iSvizzera, U.S.A., In
sintesis, i è materialealla Costituzion feormaleorigtnariaC.iòha sovrappost uana,
cosìdetta dai giuristi C, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d
esempiointorno all'autonomidaelle Logge, comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano.
Maanchea presclnderdealleantinomied, allelacunee dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo,
comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec,
ristallizzate nellaloro immobilitàIn. Questi ultimai nniabbiamo assistit aollerapidetrasfor,
Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuove esigenze. Owlamente
I'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe, nendo anche conto
delle dimension ci rescendtiella nostral stituzioned, elle regolamentazioni,
che si sonodate le altre Massonerie stranieree, delle normative degli ordinamengtiii
ridici statalie sovranazionali. .. Una ultima riflessjonmei portaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò
divenireuna organizzazion perofana. Essa è e deve restareuna lstituzione TradizionaleIniziaticaper
il perfezionamento dell'essere umano. CiÒ, erò,presuppone non iniziatico, simbolico
e rituale, debb a ancheche i Fratelli avivanoinquestospiritoe, italianoP.
eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione e-mails,
ms, etc.), perlo più anonimo, tendentea screditare la nostra lstituzionaédín, particolaie,
alcunsi uoi esponendtii verticeN. Onpare necessariso offermarsui llaprofaniteà,
spessoa, ncheilliceitàgiuridicdaitali comportamenstie,mbra,inveceo, pportuno sotlolineare
comeessirendanodi dominio pubúicole nostre conte sei n terne, violando non
certo il segreto massonico, poiché non viè nu l l ad i segre i oi n simili
miserie umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei fratellai d una
immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle proprieproblematiche
f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità ed ancor più I'accanimenntoel la
litigiosità -una sono pessimbi igliettdi a visitae forniscono immagine Oriente d'ltalia.
finedi evidenziar qeualidebbanoessere i comportamenti correùiinialematerianella
nostra Comunioneln. Nostra lstituzioneT.utti possono percepire idanniche questsi
considerati Poiché il Grande Oratore traipropricompitiistituzionali quello
haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio
precisidoverecompiereun lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l
chesi La riguardala riflessione chène è connessoe deteiioratdaella
comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima breve, risulta evidenteche
la nostraTradizione non consente un facile ricorso alle giustizie or6inariein
materia liberomuratorie, comunquen, on tollera una eccessiv animosita neldifenderàl"
proprie presunte ragioni. Se non e possible parlare dell'esistenzna el nostro ordinamento
giuridicodi una vera e propria clausolacorx promissorai assimilabil ae quelletipichedell'associazionism
proófanoe, tuttavia evidente come il ricorso alla grustizia ordinaria venga costantementv
eistoe vissuto comeun comportament poatologicoe talvolta anchecomeuna vera e
propria colpa massonica L.asituazionesi aggravaper I'attoiequalorail giudizt o
massonico o anche solo quello profano di aalui torto; poiche in tàle caso si
evidenzia senza equivocei d incertezzeun comportamento non fraterno nei confrcnti
del convenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche ho provveduto
ad una analisi delle nostre fonti di diritto, analisiche gia evidenzia quantosopraesposto,
ma che raccomandapiù puntualmi odifiche normativenei nostril regola menta il
fine di rendere esplicita a, nche sul piano associazionistico,
nostroordinamentgoiuridicodi unaclausola compromissoria. ll pareresulle fonti
del diritto libero muratorio del Grande Oriente d'ltaliae sul vincolodei
Fratellai limitarsni
eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondo rilevante
temaaffrontatoin questoanno massonicori guardai Protocoldl i'lntesatra il
Grande Orient ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo anche i
comportamenti che hanno costretto ad affrontaretaletematicanon sono certo
commendevolei rivelanoilmaisopitotentativo delle arganizzazioni ritual di
i costituirsciomeuna MassonerianellaMassoneria, come un livello superiore di
controllò dell'Ordine Libero Muratorio dei primi ed unici tre gradi,
contravvenendo in tale modo alle regole massoniche internazional mentrei
conosciute. Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati
all'applicazion delle normative internazionali in materia ed hanno inteso pericolosa,
correggerela anchese tra Ordinee CorpiRituali nuovi Protocolli di'lntesasifondanosu
quattro forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al
finedi ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriented'ltalia,
svolgeuna indiscutibiled originaria' funzioni eniziaticamente fondantee
giuridicamente legittimante regolarizzantreispettoai Corpi Rituali. | Corpi Ritualihannotuttiparidignitadi
fronteal Grande Oriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit
daovutead oggettive differenze storiches, onougualipertuttii Corpi Rituali.
Ordinee Corpi Ritual gi odono della più assolutae reciproc autonomiaE. ',
quindi, fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi
interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavita dell'Ordine ed in modo
particolare nei momenti istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi
governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenere incompatibili
dell'Ordine de I Corpi Rituali. l-e normative interne dei Corpi Rituali devono
essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtie conosciute
particolare, ed, in a quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia,nonche,
ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei
Protocoll di 'lntesatra Grande Oriente d'ltaliae Corpi Rituali viene riportata
per esteso nell'alleganto. A conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare
con profondo doloree fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia
Grande Oratore Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato
all'Oriente Eterno. La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli
idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hanno avutoil privilegiodi
conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare quanta nobilta generosita e d amore
fraterno albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed
amicoscomparsovoglio dedicareal suo ricordo queste mie brevi riflessiondiiun tempogiovanileormaiperduto:
RINTOCHI Se le campanesuonanos, egnando il miofato; seilgiornoe
lanottecircolarmente si avvicendano; Conil triplice fraterno saluto. se il mare
arrotola cadenzatriicciolbi ianchi; se i montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe
piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonte guida alla madre, ma tu sei un rigido
segmento. IL GRANDE ORATORE. Prima di formulare alcune precisazioni intorno
alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio
scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad
Agostino Carrino ed a don Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente
hanno voluto de- dicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state
rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la
conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche,
severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche,
divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo
di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria
negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non
piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così
dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò
non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del
monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun
fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un
paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone
Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano,
è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em-
pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel
pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il
ponte tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo,
che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità
divina. Afferma, infatti, Cacciari,
commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire
nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si
tratta, tuttavia di una Resurrezione/ rivelazione di natura puramente
spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas-
sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il
modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a
nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed
amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz-
zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino,
nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se
non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre
anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria)
Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono
essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te
possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come
asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in
evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno
natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici
qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura
esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie
mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte
possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le
affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla
struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di
conoscere e, comun- que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce,
salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso,
pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista
un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere
anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di
percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 Cacciari,
“Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. G. - P.S. Trappola
senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato
dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento
euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano
e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul
medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori
indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura
originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a
questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto
e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende
permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare
che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il
medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo
dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere
negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi.
Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale
di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella
sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di
fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana
del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria
(strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande
e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non
kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di
libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed
ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero
arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel
dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero
arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria
strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non
ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e,
pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha
compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si
attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione
teleologica; ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è
proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei
valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema
teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura
prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui
prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con
affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare
superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto
al Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di
scien- za fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si
muove il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto.
Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo.
Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo,
penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente
data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si
muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel
solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento
lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad
esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà
visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero
essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza
prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà
dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il
vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa
pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo:
“L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col
tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma
della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso
dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto
perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo
ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della
negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione
cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già
implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme
all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua
situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la
cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza
sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che
Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo
dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con
estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e
neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto
compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente
pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos
kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. Emo, op. cit., p.39.G.
- P.S. Trappola senza uscita: una
riflessione sulle critiche ricevute 141 καλòς καì αγαθός degli antichi greci,
nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A
mero titolo esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne
fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi,
che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che
agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune
convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie,
soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na.
Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede
di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma
soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e
direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita
non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre
sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure
prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di
salirvi; non conoscono il luogo nel quale si tro- vano e non sanno neppure
nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in
soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti.
Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza,
oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure
non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa
fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine
deve pur esistere come riferimento sia del sog- getto, sia dell’oggetto,
affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia
oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria
vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa con- tinuamente nella forza,
come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in
se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che
osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e
l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza e forma, due volti del medesimo
fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non
esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un
vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea
l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due
enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se
stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte,
tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha
identità fissa. Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore,
che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni,
che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia
dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce
oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è
materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere
umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o
un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia
in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed
aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici
sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si
dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte
(forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un
essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del
nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4).
L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena
cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato,
salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco
del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce
abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria
avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere.
L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni,
fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi
stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre,
non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede
un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del
dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non
possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica.
Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si
decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio
e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene
separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di
cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo
esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue
deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde
e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a
questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della
creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento
costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è
usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e
metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che
non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza. 16 Il diritto
come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita
per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed
incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva
e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la
metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di
Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non sapere2. Può la psicologia
umana accettare un verdetto tanto duro sul senso della propria vita?
Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate,
articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato
il loro corso senza aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento
di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e
metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio
questa loro collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la
definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di senso la domanda
stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana
tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi.
Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con l’essere umano
come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale dell’antropologia.
Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime
problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale
ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla
giustizia ed alla legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do-
ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la
tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In
particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal
diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover
essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane sono 2
“Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione
assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece
proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato
che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un
non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui
l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a
cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e
al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato –
ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe,
pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione
ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le
meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del
monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 14-15.Premessa 17 guidate dal
piacere e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover
essere e piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e,
contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo
purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere,
la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del
comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti
conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni
demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile
illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia
assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la
dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto
sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo.
Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare
ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e
disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il
fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto,
evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i
moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica
amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La
frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della
scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita,
che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo
ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può
apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia
che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti,
compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il
giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso
terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica,
presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di
responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della
conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio
comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una
divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna
per azioni commesse 1 Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio
aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse
il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi;
inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza
del bene e del male”. Genesi, 2, 8-9. da esseri inconsapevoli, per così
dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza,
in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di
bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da
cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la
ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può
essere definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a
statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del
male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che
statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il
concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la
conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero.
[...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male;
sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo
sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è
questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma
è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere
umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e
quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito
dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente
l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in
profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del
bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone
apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una
disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai
atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a
condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della
mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere
come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come
nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare
simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del
brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma
sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni condanna
prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla consapevolezza e
dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della norma, che la vieta:
so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H. Kelsen, Il problema
della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91. ciò che non si può fare;
ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male
possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male
universale e quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce,
del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti.
Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto
tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e compor- tamento
umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf Ross
(1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne
mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale
dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione
di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche
e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di
un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario
risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una
situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma
comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che
permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque,
erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale
situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo,
perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo
luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso,
come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando
il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare
la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma- zione
dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono,
del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace,
perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a
fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo, sua
immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia,
cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già
in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque
quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di
Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una
conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura
e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e
la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti
dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross,
Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19. plarla
nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono
conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica
giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È
con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli
occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si
amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e
con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della
conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si
incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria,
quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare
prendere5. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di
equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden,
era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e
somiglianza). L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno
visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo
completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i
caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione.
Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di
responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della
conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta
della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché
l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai
scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la
necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio
nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui,
finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La
conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era
universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella
dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni
evento7. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si
presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik,
Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp.
227-228. 6 M.I. Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito
assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la
religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della coscienza
divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74. ed
Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che
avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede
il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come
condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò
che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto
commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe
simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla
leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una
conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di
abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata,
individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e
prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale,
la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè
dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con
Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col
ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza.
L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto,
ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo
interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà
dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è
l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più
un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri
come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso
dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione
spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere
ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma
nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto,
soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto;
abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una
soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato
originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue
molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura
nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa
fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non
identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo.
Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234. Mandò dunque il Signore
Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una
delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva
tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse
Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa
sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il
padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo
solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché
frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad
unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo;
rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato
in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed
ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva
verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente
sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la
separazione (diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della
materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia
omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si
separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di
Albert Einstein (1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della
compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la
visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato:
E=mc2. Henry Corbin (1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio-
ne, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità
molteplice: 9 È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la
visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano
l’un l’altra necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto
Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità
nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la
differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi, 2,
21-24. quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno
– senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione10. I
nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza
divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque,
divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la
comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal
Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con
le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo,
dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza
l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esi- stere
senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una
nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è
indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata
dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed
Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden,
dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti
dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire
umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma
conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale
a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire alla morte.
Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Friedrich W.
Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non
verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della
conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita11. Alle
considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora
essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più stret- tamente
filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra
parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a
trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e
di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito
(535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei (πάντα ρει), a quello
di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un Essere che non può non
essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non 10 H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F. Nietzsche, Umano,
troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p. 797.
essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema
facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel-
lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e
l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a
sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata
ai nostri giorni da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co-
struisce una logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla
logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo
metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente
verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin,
Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la
modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha
costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica).
Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica
occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) –
nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra
indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono la
verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni
logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo
escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto
partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione
dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che
conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi
nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la
constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un
dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del
Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della
conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più
indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva
umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte.
Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste,
quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella
quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo
Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed anche
del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C.
Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso
del monoteismo, cit., p. 12.
[...], nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale,
come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente,
l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo
l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci
innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre
ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la
speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad
ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte.
Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che
avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da
quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente
portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare
dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile
dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos
avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante
il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente
limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa
intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla
posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso
medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del
male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire
teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben
due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima
conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del
divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di
possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a
principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori
necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono
essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a
posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si
potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi.
Quest’ultima lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e,
come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche
realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica
dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione
sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e
del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata
dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene
ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del
nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.attraverso un’opera di
architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo
asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella
sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice
universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...].
Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo
stavano edificando, e disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per
tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero
sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e
confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del
prossimo suo”15. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà.
Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in
esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una
volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze
de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto
parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che
si separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare
un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente,
l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico:
così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione
più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della
Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa
da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la
punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco)
o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è
che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle
lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in
lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e
delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico,
una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel
mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro
che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza,
Roma-Bari 2007, pp. 134-135. è relativo e non assoluto; è finito e non
infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di
queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro
come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella
concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa
consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto
responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente
espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che
esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità
giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene
collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama
riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una
responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu
commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta
accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a
quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso
dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non
solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa,
responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il
divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere
che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia
una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo,
un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni
mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata
come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a
dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua
stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu
neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece,
responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva
avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve
essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.
dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio.
Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste
condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature.
Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata,
nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e
differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur
imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno
dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio
genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio
esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa
del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui
quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di
comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare
prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di
natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione
prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed
anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle
lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo
attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia
empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri-
co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una
consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e
non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben
diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la
consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto
e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della parte
non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può
essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed,
inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle
caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia
sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza
uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia
individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di
consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici
articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e
l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno
in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono
con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o
come entità ulteriore, può, e secondo quali modalità, percepire se stesso?
Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia
che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in
qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di
sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è
solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una
dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un
bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo
polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono
o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici
manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la
distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel
dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e
valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i
secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione
relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule
valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le
esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un
contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure
vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad
esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique
suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda
per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che
potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio
o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può
essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono
queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può
incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se
non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia
della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico,
in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la
conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è
sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro
dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e
metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di
una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo
comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità
alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta
anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di logica, come risultato
dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio,
oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464)
con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha
nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per
accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità,
perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19.
Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra
la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino,
l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche
l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile,
misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura
e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non
appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico
alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile
abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti. 19
N. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37. Carcharias
Taurus è il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale
possiede una caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della
natura biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il
cannibalismo intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e
degli altri embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire
nel mondo biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico
(salvo la fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente
legata alla morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione
latina mors tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la
possibilità di sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il
ciclo vitale si esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in
tale modo l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona-
lità esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di
morte, nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la
lotta per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si
dispiega all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si
concretizza in una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al
loro interno, poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e
parassiti vari) combattono continuamente, senza sosta contro le difese
immunitarie dei corpi, che li contengono, per la propria sopravvivenza.
Talvolta, pur nelle loro ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so-
pravvento, dimostrandosi più forti del loro ospite, ma, più frequentemente,
soccombono, eppure non si estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità
riproduttiva e sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano,
dunque, come la struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se
non fosse troppo compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del
biologico. Non si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili
moralismi legati a forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o
vegana, poiché anche il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come
non si comprende la discriminazione etica tra animali sacrificabili e non
sacrificabili, così non si comprende la sacrificabilità a fini eduli della
vita vegetale, ma non di quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo
in una ipotetica gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano
al vertice e il vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale
gerarchia debba saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle
sacrificabilità gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il
mondo biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza,
la quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello
sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere
delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la
nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e
dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso
del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico
verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale
del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino
d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle
(1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter
faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una
cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una
fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro
uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla
morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per
chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona-
mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo
dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico disvelamento della triste
condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente
in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in
un mondo non più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di
sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma
anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità
intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del
mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei
confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in favore dell’essere
umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del biologico umano e la
sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il sacrificio del Cristo1.
Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se Cristo ha ripristinato il
sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è accaduto a lui e non a un
fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema legge e mangia il corpo
del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del biologico, per
aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio2. Il Cristo dovrebbe
risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte crollato,
riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La struttura
del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Baruch Spinoza
(1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole
della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno
è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per
esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi mangiano i
più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni
dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la natura,
assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e
cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la sua
potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha pieno
diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura non è
se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun
individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il
diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza.
E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere
per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma
soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno diritto, e
cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è naturalmente
determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e
tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e
gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani.
Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura,
questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne ha
riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione.
Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per
cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai
la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a
ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni
illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus,
Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il
pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se
avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua
assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il
colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo
figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò
in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi
dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è
ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr.
anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S.
Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico,
Mimesis, Milano 2004. in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla
natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la
grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è
chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria
natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma
anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una
particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a
ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice
della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più
potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento,
per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento,
dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa
visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per
ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma
la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la
mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto
in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata
da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe
facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla
luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione
etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e
dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le
parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un
islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo
è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di
ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare
a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che
distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello
che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che
lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino
1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p.
288. La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il
grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio
di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non
si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma
di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale
unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione
(Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si
richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe
appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe
esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse
est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo
senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che
tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni
specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e
la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di
Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che
le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo
stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo
sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è
posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo
del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile
trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale,
verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a
verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello
dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo
esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita
eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di
tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo,
la si può trovare nell’opera di Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7
si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato
l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il
non percepibile sensorialmente. 5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico,
cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino
1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano
1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul
piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente
evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non
dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una
qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non
empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di
incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è possibile definire formule
logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si
tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito
matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema
formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte
sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla indimostrabilità
di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza, ossia la coerenza si
presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse già contengono ciò che
si deve dimostrare) e/o di tautologia (af- fermazione vera per definizione)
indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti anche le parole di
Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali della filosofia della scienza
sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad ambedue tutti ci
crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede cieca che non poggia
su alcuna prova raziona- le. [...]. Se noi sottolineiamo il fatto che la nostra
credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che
non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro essa
potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per amor del
quale essa ci piace8. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello
proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile
ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione
pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la
distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema
immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come modello di
unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad identifi-
carsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e
spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono
vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico.
Martin Heidegger (1899-1976) va oltre nella critica e sottolinea come Descartes
dualizzi il mondo, presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B.
Russell, Saggi scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp.
37-38. Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente intramondano
da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non disoccultata nella sua
origine e non dimostrata nel suo diritto (essere =
esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere
autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una scienza, guarda caso
particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del
mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso
come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa
in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la
commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica
moderna e sui suoi fondamenti trascen- dentali9. Del resto anche Werner
Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici- tà euristica della divisione
cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione. In realtà
non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche posizioni
filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio, del- la
divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo, e
un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto con
le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella divisione
nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio, prescindendo dalla
ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via d’uscita dalla sua
malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche un altro strumento
mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono divino che come una
conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente
occupato in modo completo dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche
talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire
di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle
brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 143. 10 W.
Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore,
Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una negazione implicita o
violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma,
fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare
queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una
affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della
realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci
a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come superiore
alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. A. Emo, Il
Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio, Venezia 1989, p. 5.
degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da
assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da
prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema
filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come
l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli
informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli
arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione,
immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del
mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e
provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico,
metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta
celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il
concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione
razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né
mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il
co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità
stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile,
contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è
scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito
d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima
cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso
mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a
che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante
questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e
contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che
varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere
che veramente è12. Il mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla
roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che
può presen- tarsi completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto
e con- quistare la luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è
quella sostenuta da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una
falsa conoscenza. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con
l’entrata aperta alla luce [...], pensa di vedere degli uomini che vi stiano
dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e collo, [...]. Alta e lontana
brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra
rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza,
Bari 1967, vol. I, p. 755. pensa di vedere costruito un
murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone
per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]. Immagina di vedere uomini
che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine,
[...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi prigionieri. –
Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di
sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co sulla parete
della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero
religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del reale: la realtà
divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella costante tensione di
quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del Padre. Esempio
particolarmente significativo in questo senso è il pensiero gnostico. Sono
molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo antico ed altre
fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma comunque tutte hanno in comune
alcuni caratteri identificativi. In pri- mo luogo, il mondo umano rappresenta
un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo spirito, la scintilla
divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa, come in una prigione,
dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo, è aspirazione comune
di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di risalire al cielo per
ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La dottrina di Simon Mago
(I secolo d.C.), descritta con spirito critico cristiano da Ireneo (130
d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici
più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano
chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli [= arconti] verso Dio e verso
l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano
estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite
della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una
specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo;
redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di
Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento
dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo,
creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio
femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto
che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti
tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha
l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e
proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone, Repubblica, in Tutto
Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura di), Testi Gnostici in
lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp.
6-7. Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di
una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico
cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno
probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi
concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del
concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le
visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre,
finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso
carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già
insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma
anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità
dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del
resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo
con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente
l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità
dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico
prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in
precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti
dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente
significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga
generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra
giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione
di David Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere
predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli
giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di
giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a
verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente
evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro
dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra
valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre-
supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a
sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere
anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e
religiosa. Immanuel Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e
pratica pone anche una dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción
entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad
Externado de Colombia, Bogotá 2007. Nell’antinomia della ragion pura
speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo
regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.]
fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo.
Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed
anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve
fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo essere, agente come
fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo
sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo
stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come
noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo
il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo
leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori
assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico,
appunto17, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo
umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità
noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura
soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una
ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità
universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al
nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la
distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di
valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di
sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi
sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche
sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni
sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria della
conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta
oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello
culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se
si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come
entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio
ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp.
139-140. 17 “[...] la realtà oggettiva della legge morale non può esser
dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion
teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse
rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire
confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia
essa è stabile per se stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59. collettivo18.
Una ulteriore difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della
percezione umana: le unità di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in
particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck
costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica,
al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato
procedere19. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore
difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un
mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo
sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di
valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati
come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo
sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da
particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e
dei suoi 18 “[...] l’incosciente razionalmente comprensibile [...] consiste per
così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato
superficiale, e [...] sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che
non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe
un’attività psichica autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli
strati superiori dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile –
dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un
incosciente collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un
incosciente superficiale, relativo o personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema
dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19
“[...] la gravità quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti
infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello
spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di Planck, perché non
esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà
non è come ci appare. La struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2014, p. 201. “Analogamente a come, secondo la teoria della
relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi
quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente
di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di
0,5. 1013 cm”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit.,
p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente
una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine
di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti
usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto
alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere
qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni
nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno
dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato
soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe
perciò appartenere a queste minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e
filosofia, il Saggiatore, Milano 2015, p. 165. valori scaturisce da preferenze
personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive
(consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali
attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di
ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se
stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di
un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una
scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di
vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un
appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza
al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento
più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta,
il concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di
significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più
immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso
Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e
ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul
sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche
sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo
determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni,
deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il
primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo
determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura
pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere
altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una
forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad
un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione,
del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche
alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della
bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un
arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come
un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione,
disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il
concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni ordinamenti giuridici,
che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal tenere, in una data
situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p.
90. prescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle
medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori21, che comunemente dai
divi- sionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di
superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori,
in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono
assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empi-
ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo,
sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle
azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si
prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifi- ca,
con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera
e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e
morale (entrambi causa di orgo- glio), se non questo potere di produrre
piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è
l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e
chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione.
L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni
specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima
analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre
questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in
quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte
umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente
anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti,
sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brut-
to significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo,
ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale
empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle
strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’e-
ducazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della
razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en-
tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene,
divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per
spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane,
ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G.
Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover
essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura
umana, Bompiani, Milano 2001, p. 599. uno dei suoi due termini) e non
produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una
sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità
oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande
Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di
fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il
primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo,
come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il
secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto;
ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo
giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione
di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a
questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per
propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una
realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica
dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né
l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto
verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da
una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è
dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come
sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor
più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale
energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come
potrebbero essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare
significativo il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la
conservazione dell’energia da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale,
e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due
aspetti opposti (complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre
compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in
modo predominante23. La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra
riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico
del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia
in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma
una mera 23 W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24
“Laddove il vecchio tipo di spiegazione della natura, partendo dal presupposto
di un osservatore indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato
dei possibilità oscillante continuamente a pendolo tra dualismi
indissolubili tra loro, quali soggetto/oggetto, determinato/indeterminato,
assoluto/relativo, visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure
una logica dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe
comunque il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una
visione del mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di
metamor- fosi continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43
a.C. – 18 d.C.): Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu
trasformato una sola volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne
sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo,
abitatore del mare che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale
giovane, ora quale leone; ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente,
al cui contatto si provava paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso
riuscivi ad apparire pietra e spesso anche albero; talvolta, assumendo
l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta, l’opposto delle acque,
fuoco25. Ovviamente ad una tale visione si accompagnerebbero inevitabilmente le
domande intorno alla illimitata variazione delle metamorfosi o alla loro natura
evolutiva o non evolutiva oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca
secondo il principio dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il
futuro ci riserva la necessità di una profonda revisione dei no- stri processi
logici, ad iniziare dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere
atto almeno di quanto la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente
appurato: Con l’aiuto di queste particelle [particelle α] Rutherford riuscì nel
1919, a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare
un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al
nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il
primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei
processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi.
Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un
nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la
probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche.
Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo
essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta
del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge
di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa
concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi
naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le metamorfosi, Bompiani,
Milano 1992, vol. I, p. 453. Monismo e dualismo del mondo 51 progresso
fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo di
congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione
nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt,
e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare
nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio26. Il sogno antico
degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si
presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono
sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio
d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il servo
ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i pensieri
dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presun-
zione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’ar-
gomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche
precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque,
pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546), rispettivamente sostenitori,
il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua
negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: [...] noi
qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù
del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna
salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La contestazione di Lutero non si
fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata
esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere
umane: 1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma
anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo
sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro
cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente questi due punti, siamo
obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati
creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci
piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di),
Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci Editore, Roma
2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in F. De
Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., p.
57. libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa
accadere secondo il suo proponimento e il suo potere infallibili ed
immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza
spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso,
teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di
Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire o di
inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a
contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile,
proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime
posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere
umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la
conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di
libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto
autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso;
autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e
detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori
esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di
fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono-
mia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti
(eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di
condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per
necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o
sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in-
termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una
libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai
limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che,
per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è
assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto,
l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal
fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso
che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per
soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi
entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali,
piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata
parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro
esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin
Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), trio.
Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una forma,
una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per volare,
può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere
talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia,
etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller- gie,
etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente
esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato
dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il
conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e
dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il
momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio,
forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non
può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica
del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della
reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito
platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddi- smo,
etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano
riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo
costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica [aristotelici],
le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo.
Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora
vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso
i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco
trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero
terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione
del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa
si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza
uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza
siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo,
l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali
involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento
di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle
sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è
chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di Scipione, Bompiani,, Milano
“I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire.
Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore.
L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né
davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di
ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma
che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno
del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i
mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono
capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi
sono il rapporto lecito il paragone, siamo come una entità di forma
predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un
grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare
ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della
caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa domanda converrà ora
approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo
comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando
si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si
possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross,
individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire
attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le
costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire
che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la
volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è
necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua
(occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo).
A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero
arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di
condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le
condizioni soggettive (capacità) ed oggettive (occasioni) dell’individuo.
Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare
queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può
presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: 1) la scelta non è
riconducibile al soggetto agente (volontà divina); 2) la scelta è condizionata
da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o
collettivo, psicologia, etc.); 3) la scelta dipende dalla struttura biologica,
biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La
Mettrie (1709- 1751) ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella
struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di
condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più
opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di condizionamento
metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su quella umana
presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo (fisica e
metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”. M.
Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di), La questione della brocca,
Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p.
264. senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto
ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in
altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu
compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e
di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un qual- siasi
collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le
azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà
divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la
dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente
sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore,
data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano
potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella
onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu
lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue
sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla
certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è
strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione
il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla
concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima
considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua
stessa esistenza. Già Auguste Comte ne metteva in evidenza la natura metafisica
e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento degli eventi: Se, più
tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni in proposito, è
unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la riflessione, dalle
illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il mistero del modo di
prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono-
scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi,
con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per il più semplice
fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato sotto
l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto
di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare
qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura
logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si
limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma
richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte
l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo
esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le
intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò
significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo
un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano
2005, p. 154. tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo
causa generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a
realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime
teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma
semplicemente contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di
ripetitività negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e
pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia
possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il
fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio causale si
presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la
ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in
via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio
caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em-
piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli
studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni,
trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza
variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali)
ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter
conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a
pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben
presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare,
quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in
parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al
libero arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze
1969, pp. 182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato
probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto
provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono
gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo
trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio
logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano
1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti
nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in
un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere
determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B.
Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione
subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia,
il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità
decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”.
W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101.
Il nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale
nell’alternativa determinismo/ indeterminismo, sino al punto da relegare il
tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle
questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si
esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere
organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e
immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il
pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i
sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo
senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa
di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza
legami col prima e col dopo. Dunque, la
fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico,
che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e
allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere
organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto
ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del
volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali
dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12. Estremamente
interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e
neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche
elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è
loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile
misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale
flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del
cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio
(PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per
il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un
esperimento specifico, condotto da Libet (1916-2007) e finalizzato a misurare
il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento elettrico
cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti
volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il
distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva
550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un
impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di agire diviene
consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno
dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere 1870/1881,
cit., p. 529. Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con
iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente
quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per
diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che
non compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che l’esperimento consente
anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del
soggetto nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il
vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è
possibile obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non
coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di
conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere
consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non
comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere
liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in
relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia l’origine
dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale
dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la
verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti
causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi
non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione. Soprattutto non
possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti
e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo
empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150
msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un
nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o
ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici
condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella
coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano “Nessuna libertà assoluta dunque,
bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo
e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle esperienze familiari,
dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione
differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio di manovra
limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte costruita da noi”.
I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo,
neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E.
Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino 2013. L’Autore affida lo studio
delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza, la
psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere anche
P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano 2003. Vi
è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica
dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di
nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò si-
gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta-
zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni
empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non
può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a
realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo-
lontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera
solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore-
ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una
volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta
soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua
psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia
ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una
indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di
un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità,
si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel
corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo-
mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia
conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico
– è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non
migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi
naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella
deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di
vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che
compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette,
almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi
convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo
possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere
assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo!
Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema
da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia
conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un
livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo
fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la
necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto
focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza,
cit., p. 160. discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed
effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le
probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il
fattore con- dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il
fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa
tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in
movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di
movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al
determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore
forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso
causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie
qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali.
Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte
si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità
della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge
al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene
causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si
potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono
che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta
di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e
conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono
dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno
giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il
suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di
distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica
di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal
seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non
sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per
il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi
predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è
addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non
possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i
predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata
con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti, alla natura di una cosa
non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della
causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della
causa efficiente accade necessariamente”. certo scherno e si diranno
probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li
amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza
che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di
sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di
nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla
debolezza che essa si manifesti come forza 17. I rapaci e gli agnelli di
Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di
Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della
forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il
vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali,
animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed
esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro
assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da
quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la
pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si
moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque,
vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono
opporre il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente
non possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività
artigianali limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se
respira anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare
esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo
determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i
propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi,
ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani
nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del
vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo,
cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia
proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei
due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di
poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi-
nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla
volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a
questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La
prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi
causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma mondo programmato in via
di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico,
privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima
ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può
essere presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un
Essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo
che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole
catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è
usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva
la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà
ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste.
L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata
dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti
filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle
affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema,
verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico
o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si
delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti
della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e
numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle proposizioni
rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra
l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi
un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una
determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura Il panorama del tempo
heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si
manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro
il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. È
solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa
intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio
dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione
fondamentale: l’essere-nel-tempo. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono
anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la
memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova
dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il
passato, ma, a parte Heidegger, Essere e tempo, Heidegger. De libero o de
servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo
dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere
determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra
conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso
risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente
gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La
differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una semplice con- fusione,
dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare
i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento
alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra
ignoranza rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni significato importante
deve essere compatibile con la conoscenza più completa. La nostra conoscenza
del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in
parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. Si
deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto
la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell costruisce il
proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e
di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre,
nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad
un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un
filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a
questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i
tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che rappresenta
una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo, poiché non è
pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la
scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta,
ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere
nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il
divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica,
nel se- colo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo
scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più
diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme
molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di
questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica
diventa l’estre- Russell, La conoscenza del mondo esterno, cit., pp.
224-225. ma estensione della teoria della struttura atomica e,
simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni
possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni sono quanto mai
profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del mondo che noi
chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta anche di
Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la meccanica quantistica, che
necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega, per
descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce De
Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa-
mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la
funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo
poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana
della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del
tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma
anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di
cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente
espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente
intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere
un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si
può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo
presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto),
nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti
libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre
quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile.
In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti,
ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di
eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante
dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non
esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere
o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola
cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della
successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si
preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della
quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi
alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J.
Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi,
Torino. Cfr. anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di
Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano 2006. De libero o de servo
arbitrio? (salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa
totale assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire
esattamente a quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema
può chiarirsi con la storiella del ladro, il quale si difendeva dicendo che,
essendo egli determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli
alcuna possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della
causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli
rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non
ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale
però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è
determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo
una pena. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un
condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad
un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e
tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e
per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa
acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del
proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro,
poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica;
pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere
considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica
del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile
a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per
l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si
presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie
l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non
dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere
questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa
volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso
non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia
rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per
la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da
mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da
sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere
l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta
impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., pp. 184-185. presente pare possibile accedere
solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione
assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce
di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a
posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre
all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si
presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il
determinismo descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla
struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura,
essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta
deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e
delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di
sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è
deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le
convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è
indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero
essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno
al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo
a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico
si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo
compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del
sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono,
ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve
conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che
impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento mentale risulta valido
solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto
newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il
tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della
relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato
inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale, il tempo non
c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore
solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il
mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La
struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina, Milano. “Il tempo non è che
un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è
l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza”. DIRITTO
ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo
rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale,
diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal
modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma
perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al
particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al
relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa
specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto
positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto
assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo potrebbe essere
interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità,
ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo
ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace,
rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata
intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si
tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti,
rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come
propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la
Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che,
sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il
necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio, a fronte della
duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà
dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al
mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel
mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura,
che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il
corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi
nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe
alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui
personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura
immanente e procedere con lo strumento della constatazione empirica. In
questo limitato ambito si incontrano due diversi significati dell’espressione
diritto naturale. Da un lato, si intende descrivere la costanza di
comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità, le condizioni che
fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire
un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è semplicemente
descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione
acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti
o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero
arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono
come inderogabili, necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà
coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità
assoluta sul piano morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come
le leggi naturali, descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante
passa attraverso il libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è
necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la
differenza tra i due significati dell’espressione, che resta solo descrittiva.
A livello empirico è facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono
omogenei, uniformi, ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò
che è bene per gli uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è
stata portata da taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del
diritto naturale in quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una
sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia
che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere
come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni
diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una
contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione essere
buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca-
rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le
innalza sottraendole alla forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente
la porta alla libera fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in
tutta la sua validità, ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica,
e come tale, non può escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma,
bensì, pluralista od, addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi
la contraddittorietà dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro
inesistenza, ma semplicemente il loro carattere variabile in dipendenza da
fattori a noi ignoti: tempo, luogo, individui inte- 1 A. Ross, Diritto e
giustizia, Einaudi, Torino 1965, p. 246. ressati (perché mai il diritto
naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria,
tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale vive l’essere
umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente immorale agli
occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul debole, il
cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico risulta
indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e la morte
trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non vi sia
alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché
mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali
anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i
quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro?
[Perché fu data la luce] all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato
di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta nello
sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque,
stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal
diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che
ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento,
modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di
questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse
deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il
dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in
passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Leibniz, quale
sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in
quanto creato da Dio, e François-Marie Arouet, detto Voltaire, che contesta
tale posizione da un punto di vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si
presenta evidentemente metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la
critica di Voltaire si muove in ambito filosofico ed empirico, ossia a
posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la affida anche ad un rac- conto
satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3, 20-23. Signori – disse
Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto bene, nulla è
più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il diritto naturale
ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si agisce in tutto il
mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché abbiamo altro per
fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse risorse; certo è meglio
mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto della propria vittoria a
corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici 3. Si
ripresenta il solito dualismo ontologico, umano/divino, e valoriale, bene/male,
di cui il dualismo diritto naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In
ambito immanentista monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso
l’artificialità dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e
solo, pur sotto sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali
caratteristiche dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed
immateriali, oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua
particolarità congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in
particolare animali. Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità
coincide con l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale.
La mano impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il
proprio corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti
interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale
per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione
umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche
tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica
pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione
della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la
coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo
fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali
intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo
invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di
stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R.
Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto
rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un
tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi,
relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo,
Publidue, Bolzano Novarese Searle, La mente, cit., p. 104. in cui sorge.
In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come
il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti
artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali,
poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere
umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con
l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone
un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta
l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in
cosa si diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che
manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la
speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed
immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha
prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene
posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì
sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del
diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il
contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come
soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non
si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di
un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato,
carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si
dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere
l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i
suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel
soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del
giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente
gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che
potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in
comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino
d’Ippona, all’Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella
(1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure
di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl
Marx, al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G.
Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck,
Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980. solo
esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra-
verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela-
tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui
valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio
instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o
quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione
di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen-
sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di-
versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli
individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga-
nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie
visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo,
possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di
sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo
dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali
dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad
un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale,
dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento
metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico,
al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati
e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto
naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai
concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim:
[...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con-
dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non
sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor-
mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un
osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa
distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire
poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia
l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo
qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei
modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti
e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7.
In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei
gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C.
Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia, il
Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198. dualizzazione si manifesta all’incirca
il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed
anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane,
relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è
solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e
chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto
naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza
politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino,
come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il
diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella
storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere
eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene
meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa
fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili-
smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere
perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa
perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed
una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la
forza. Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la
maschera e si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali
dominanti, che possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la
violenza, il convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo
profilo le differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul-
tano marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio
maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente
dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore
tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la se- parazione del
concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto
potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il
supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo Stato
potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha generate. Si è ancora
in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura
trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za e trascendenza
continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed
eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è
destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di prove né
empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili,
incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico- razionali non
possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da
quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria, affidata ad assiomi, a
fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale
convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in
generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al
soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in
una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale
incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò
scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una
propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero
impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione
del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta
permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la
compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico
e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere,
anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di
duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento
dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico
istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si
applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal
diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici
linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi
diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione
del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative
sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno
alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per
l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente
materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe
dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno
ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà
anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di tale
opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto
natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in
quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti
solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al
diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia
si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle
procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri
dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe
consistere nella realizzazione della giustizia, ma si è già detto che,
purtroppo, il concetto di giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque,
relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la
burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la
tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il
capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare,
da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori-
camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da
mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra
forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri-
guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il
capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per
incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà
giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo
ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto
e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8.
La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed
ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi
per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo
modello espansionista e diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur
sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re
riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in
quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con
il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato
tecnico-scientifico è incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere
scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e
determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia
forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in
se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il
cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La
risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero
estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per
sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a
proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino,
Atto secondo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni
Laterza, Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino,
Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21. al metafisico, ma la
risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est
solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste
tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati
preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche,
forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai
ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma
lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co-
dici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la
clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la
prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia-
logo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei
sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso
sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto,
in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più
ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i
reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche
frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil-
mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti
possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa
velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia
l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a
soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro
lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un
nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere
umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire
risposte; le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina
il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di
disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi
della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque,
si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione
decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in
fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione,
che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene
diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto
positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere,
ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale, trascendente
l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il metafisico sembra
potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto
naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova
dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente
descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà
coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non
si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare.
Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede
il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni,
della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non
manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione
dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica,
attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il
libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse,
nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo
umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto
positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed
al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà
non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze
prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della
prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma,
per usare una espressione di Thomas Kuhn (1922- 1996)10. Del resto anche
Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza
umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la natura] si
rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte. Uccide
perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse più
essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla
contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo, del quale egli
esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente con-
dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il
rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co-
munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10 Cfr.
Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee
della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.Anche il concetto stesso
di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del
relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta
come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana),
ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede
contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista
dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere
una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La
stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il
prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione
rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di
trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto
culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica. Le strade
che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la
differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal
riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e
conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella
convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo
logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi
della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo
panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che
si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non
essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e
sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è
andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi
tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo
fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo
attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto?
[...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non
sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si
putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non
dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma
più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né
a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita
incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del
divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si
vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un
sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75.
2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp.
121-122. Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca
dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un
certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse
sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di
riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia
astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del
Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta;
ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al
subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al
futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze,
nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle
sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia
la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e
prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il
punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla
nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap-
presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da
Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo
genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte,
ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si
è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del
soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa
è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla
verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla
quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con
evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o
sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica
della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e
l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è
il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede
che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come
certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più
esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e
costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una
limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale
l’uomo funge nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro.
L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini
cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della
verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si
è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli-
cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di
quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della
fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em-
pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte
relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo
verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via
soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta
l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di
sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società
priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe
strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non
appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel
dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma
questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un
fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è
che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche
l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal
Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la
pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di
quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica
e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle
proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione
di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham. Questo
principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più
adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori,
quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe
essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione
immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le
leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere
ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un
tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.
interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi,
privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per
misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità
comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti-
ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire
senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em-
piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività
dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro
immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma-
nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se
dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo-
tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo
dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile
carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare
i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se
stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e
timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una
sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la
duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una
qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è
antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente,
come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio
del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la
duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro
sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama,
conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920)
indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare
l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone
fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4
“La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber
certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la
perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la
assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la
consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di
un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di
ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si
svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del
nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C.
Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza,
Roma-Bari 2000, p. 188. Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come
cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o
estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità,
pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la
sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa
essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni
considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il
vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola
forma di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si
tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma
di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il
demonio. [...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile
anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel
dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni
importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve
procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente
– rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima
(come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo
agire e del suo essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una
pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi
e proprie valuta- zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni
trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al
mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in
tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto
agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche
come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie
di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è
possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini
del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità
degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale
molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti
valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber,
Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6
“La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo,
l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua
espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane
ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del
razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che
non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber,
Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101. il monolitismo
sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si
presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino
intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che
nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per
Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che
il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di
contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire
nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo
concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano
immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non
sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e
nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in
questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere,
ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei
potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere
– nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra
soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste
alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E
se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale
possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può
essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che
potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare
evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla
negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare
dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la
medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno
in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia
nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di
Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità
di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi,
ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che,
consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione,
qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995,
p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di
Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2006. Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la
negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in
breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente,
ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha
identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere
niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e
l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del
niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo,
meta- fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo,
assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-
tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune
alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo
immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si
identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o
assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e
all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità
tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la
strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si
presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di
qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori.
L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la
vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit.,
p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale
del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei
[Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno
al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa
posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere
(quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi
essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso
è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura
originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si mostra
anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il decisivo è
che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità dalla
struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere. Questa
necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie
posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto
e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si
afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal
suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende,
vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa-
zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino
a questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La
distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico.
Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si
contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come
analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio,
la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà
dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine
nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti.
Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la
capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si
identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli
Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti-
mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di
rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice
e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto
abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza
e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La
volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione
ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al
confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia
la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare
alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare
l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12.
Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di
vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto
di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti,
Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso
contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto,
dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che
crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto
alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto,
Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza
che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere
1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico.
L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p.
146. Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene
sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo
capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può
semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente,
come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda
relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi
la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste
come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è
dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E
può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come
affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque
scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente
di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di
Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström
(1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La
prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il
carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di
nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za
dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è
criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori.
Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi
indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà
temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro
che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di
situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un
nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche
nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta,
in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di
operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare
vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua
volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su
discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th.
Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere
anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e
l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46. [...] la
persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può
sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la
pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali
posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as-
serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti
pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente
una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente
tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di
verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i
suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una
teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei
valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile;
Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria
esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la
veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende
soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei
valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso,
ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è
desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore
dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità
di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli
sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non
è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una
enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano
meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la
veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul
quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate;
Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è
proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16.
Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è
stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, Geiger,
op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di
unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che
pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false .
[...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla
posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non
soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è
teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142. Nichilismo e nihilismo
91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed
è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare
minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e
sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri-
ca). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg,
riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a
fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come
l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica,
essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni
possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una
combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di
significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un
criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere
considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto
quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di
assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto
l’eccezione che la regola17. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di
definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia
dall’impossibilità di verifi- ca empirica degli assiomi su cui si fondano le
teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma
Michel Foucault (1926- 1984), le parole (simboli) e le cose (fenomeni) non
coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria
quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il lin- guaggio era un segno delle
cose assolutamente certo e trasparente poiché asso- migliava ad esse. I nomi
erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del
leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato
sulla fronte degli uomini: mediante la forma della simi- litudine. Tale
trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono
separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne
anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito
l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo
non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e
nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino
ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e
dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p.
90. 18 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50. alla polemica tra
la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne sottointende un’altra ben
più rilevante e di natura politica; non è possibile, infatti, dimenticare le
simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il
nazismo di fronte alla posizione social-democratica di Geiger, sostenitore
della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo
scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute, siano esse
trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del mondo.
Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore
od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma
rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di
costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della
varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore.
Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la
convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità
in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di
guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno
all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità
di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di
valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo
capitolo. Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese.
Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp. 173-195. L’estetica è
una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé,
mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano
nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso
il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente
alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani
intorno a ciò che piace o non piace. Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.),
nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui significato è fare, creare) evidenziava
come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la
produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra
poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due
naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto
dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo
differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa
imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che
ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono
in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono
esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei
cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere
attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di
conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al
bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta
dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il
fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è
decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere
umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni
stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità
individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende
comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze
1940, p. 10. mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo
diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo
arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur
arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto
positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il
bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso
si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859):
Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che
un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se
valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il
divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una
duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il
concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del
Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed
estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale,
personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione,
tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un
divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello
individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente
dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi.
[...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en-
trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le
nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della
coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una
creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può
piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci
consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo
sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro
comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia
non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per
seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato
indotto dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più
evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA,
Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e
nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.nella visione del bello metafisico, del
Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come
mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri
letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo
dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. –
Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora,
pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di
letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche
necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico
letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé,
ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha
prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del
bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e
perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere
l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa,
cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta
completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema
interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare.
L’ulteriore duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è
probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso
estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che
una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il
libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il
principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo!
Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento nel
soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa
concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà.
Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto
della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessan- te
approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo
greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre
greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi,
ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in
continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque
sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di
ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone,
Editori Laterza, Bari 1967, p. 427. zioni interiori, sentimenti
provenienti da precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da
preconcetti, da convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può
essere considerato il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non
sono e non possono essere rigorosamente separate, poiché insistono
sull’unitarietà del soggetto che percepisce. La percezione fisica viene selezionata,
filtrata e completata dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere
indistinguibile la percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto
mentale. La questione, poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione
occupa anche il campo del sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti
di realtà empirica. Le percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un
ambito circostan- te il soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono
i sensi. Non si può, tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista
veramente fuori dal soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una
immagine, una sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire
con certezza l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giu-
dicare è una entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione
umana è impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato
che alla mente non si presentano che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni
si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva
una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle
idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguia- mo la virtù dal
vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà
tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di
preciso e di esatto in merito al presente argomento5. La percezione, dunque, è
legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre
l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il
percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché
abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella
sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è
artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la
distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché
quella distinzione ha sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione
non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa
mediata di un’azione, destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato
sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 903. ma non bisogna
pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia fal- so, possa
accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si limita a negare la
predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta anche la natura di
questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi
conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male.
La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo
agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichia- rare che
l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva
dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di
questo. [...]. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci
esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal
vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella
bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla percezione
di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esisto-
no due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria, forse
possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella mente e
quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione empiri- ca.
Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, pri- va in
questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero
linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e
conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è
un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro
e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una
forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo
caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da
percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione
strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne,
produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di
un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni
interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta
potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere, ricordare e
rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e
sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume,
op. cit., p. 931. mente la tradizione, l’educazione, le convinzioni
religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella
determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori.
Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono essere
conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una
repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si
presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale:
provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti
sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti
fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico;
le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero
arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le
sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine
dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente;
pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei
particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un
mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune
interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente
presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una
certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e
dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato
chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei
annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La
dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di
coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura
empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di
verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un
giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista.
Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione
prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si
identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire
da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo
per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere
morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo diverso si
presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da un
interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8
J.R. Searle, La mente, cit., p. 128. al mondo dell’estetica che a quello
della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di
percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la
coscien- za, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9.
Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla
sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne
rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto
percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non
rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo
soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale
cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di
piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al
desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale
fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di
adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo
considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di
soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per
i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per
i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera
soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande
Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la
descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non
esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la
sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto.
Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come
scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono
empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi
etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di
recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141.
10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?,
vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la
risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e
condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere
acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di
un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della
definizione del contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.valore, un
metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta
chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un
giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si
preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni
(piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici
(impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi
piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine,
possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi
estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma
mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere
personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del
comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa
possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto
all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per
quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del
soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il
primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva
sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si
distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu-
stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di
là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche,
pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una
preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili,
che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di
valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento
sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non
riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle
scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è,
invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la
loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può
venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di
un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto
medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il
pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un
vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un
immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente
verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere
disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile
nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere originario
della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla
verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto,
a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso
riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere
studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore
significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos
dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento
totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una
specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e
cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo,
che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come
espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e
questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così
facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia
dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di
torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a
porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante
aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo,
come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di
valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo
del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non
sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella
attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio,
che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per
continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune
considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una
compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di
giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono
evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma
fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...]
quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per
quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi
sulla società industriale, cit., pp. 452-453.La possibile indipendenza della
validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la
necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità
attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua
capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene
al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria.
Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta;
valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico
vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di
convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può
essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente
anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si
impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di
astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità
con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un
determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque,
si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la
validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico
o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca
di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere,
verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è
sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale
carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto,
con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il
primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia
tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera
forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire
gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità,
prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno
diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di
impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la
fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina
pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F.
Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103 si
vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio-
nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed
intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi
che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante
del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del
mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è
che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la
convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea
non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante
intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire
una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il
diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante,
sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario;
neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto.
Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo
dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione
procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i
problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della
tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale
rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il
diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello
che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che
ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è
trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non
si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di
attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà
umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una
preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee,
riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante,
sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il
modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro
non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi
piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si
discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere
umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp.
9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari
1987. la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche,
pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo
giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con-
temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con
la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a
parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando
l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di
norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della
maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od
altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo;
la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana19; il riconoscimento
dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che
l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta.
L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo
con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio
senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di
impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza
insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il
nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi
che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento
del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i
propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di
universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. [...] la teoria del
nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è
stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria
genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali.
A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente
si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo
di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale
adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il
pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente
pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a
vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N.
Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi
robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del
Diritto, 2001/3, pp. 5-15. morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a
causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume
si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine
giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò
produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e
da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de
gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere
gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto
piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile
architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il
soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a
qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo,
quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine
personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità
assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali
certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e
ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire
questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo
sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza
fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura
nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce
tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se
rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche
verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la
censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio
capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi
limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro
umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le
dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita
stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla
ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non
ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello
che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che
risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit.,
p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino
2013, pp. 227-228. Il diritto come estetica La partita intorno al
nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione
metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non
sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere
trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa),
potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte
estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del
determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover
essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la
prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel
secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno
condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza
del soggetto singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può
essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare
da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi
proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare
ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il
determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione
empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica
empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il
nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un
mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale
visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella
sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che
ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la
forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno!22. È bene
ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discus- sione le
proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed
estraneo al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to
autonome. L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in
autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio
verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il
prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta
evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in questa
cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22 F.
Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14. Il
diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il
senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma
solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso
di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile,
ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con
espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo
espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un
imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di
una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già
esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo
smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del
diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro
né la trascendenza universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica
della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è
interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva
sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la
conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo
concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi,
curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata
infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone.
Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca,
il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica,
tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.)
esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica
universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto
dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto
normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur
sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà
diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria,
soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido
Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi
dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi
interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.Il diritto come estetica mi tacitando
le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore.
Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto
schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito
e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi
essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere
collocata nella posizione corretta24. Il soggettivismo, di cui
l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria
potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche
non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la
fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione
appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza
fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di
illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento
fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni
fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di
performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di
uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle
convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna-
zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle
suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione
dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo
ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per
discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia,
conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di
duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il
nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una
versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e
dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in
dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente
verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene
priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al
mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere,
monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il
diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a
cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p.
210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura
di), op. cit., pp. 16-17 Il diritto come estetica 109 ad esempio, nel
Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo
alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con
una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che
si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il Nulla, se dotato di
esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già
capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche
solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse
essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi
della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de-
cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa
accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata
misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne
non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e-
spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo
nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne
è (più) nulla. Nichilismo, se non deve (e non può) intendersi come la scoperta
che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia
(senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il
nulla) in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si
indebolisce26. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia,
paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi,
capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive,
infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio. Dobbiamo cominciare con un
principio. Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque
cominciare con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione
del principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito.
Come passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine
della negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non
è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè
nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere
pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla,
quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo,
Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p.
286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp.
18-19110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente,
affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma
questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione
positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata,
individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo
di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro
Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si
connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si
capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si
presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è
metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica
negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là
della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a
sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a
comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza
assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile
riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a
livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia
non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il
diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela-
tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto
dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma
l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina-
le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat-
tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a
piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante.
Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si
possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la
volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non
sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re
sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione.
Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il
diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che,
tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma
l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione
umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la
volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla
solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura
fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione,
dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed
artificiale Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza
di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della
vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule.
Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il
sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un
processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso
l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo
sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta
iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4,
5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo processo
moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione (finito/infinito)
espressione di un processo al limite, che mai si compie, che, per sua stessa
natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti cadrebbe la
duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la tentazione
dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si
presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto,
della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure
certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se
non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici,
stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi,
comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice
alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è questa
l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come vari e
variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può essere
definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i
tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus –
sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong,
Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology,
stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia
– Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale –
assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte
Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto,
delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Ghisleri: la ragione conversazioanale e l’implicatura
conversazionale dell’atlante filosofico – federalismo contro-rivoluzione – lo
stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice: “Whereas to
many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and counter-revolution, I
treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The
pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile – as used by Ghisleri, but
his executor turns it into a metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice:
“I like Ghisleri – a typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la
penna d’oca,” and a fabulous history of Roman philosophy!” -- “He was into politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli
italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di
una nuova e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare
l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne'
suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni,
nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi
Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero Bruno) di chiare
simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente
entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e fu affiliato alla Loggia
Cattaneo di Milano. G. diede alle stampe
una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione civile e
agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale impegnata
nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta a Savona,
la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento
del G. al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di
geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a
Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole
italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la
geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di
geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era
mai stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto
rilievo all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu
interessato lo stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che,
grazie al successo delle iniziative editoriali promosse da G., si trasformò in
Istituto italiano d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. G.
concepì il suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici
carte e cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di
ogni epoca. L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e
studiosi, ma suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che
rimproverava al G. superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la
storia dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione
del resto ricercata dal G. che, in polemica con il tradizionale approccio alla
geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi
scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento
della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista,
fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di
idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in
campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi
alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un
ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto
opera di Conti. Diresse la rivista
Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del
popolo. Al Congresso del Partito
Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione
meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del
primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori,
Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre saggi: “La Scapigliatura democratica:
carteggi” (Masini, Milano), L'archivio di G. fu ritrovato da Masini ed è
depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia come civiltà. Il carteggio
G.-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e
Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania
e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società
Editoriale Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie
del globo esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società
Editoriale Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire,
Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima
colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia
moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche,
Bergamo (a cura dei professori Magg. G. Roggero, G. Ricchieri, G.) Saffi. La
vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione
meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna,
Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare,
espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I
Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti
Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa,
Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of
Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra G. e Belloni,
Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani, L'Italia risorgimentale di G., Milano,
Angeli, Benini, Vita e tempi di G., con appendice bibliografica, Manduria,
Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in G.: con una scelta di lettere inedite
dell'archivio G., Pisa, Nistri-Lischi, G.: mente e carattere: L'Italia e la
rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. G., su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di G.,
su Liber Liber. Opere di Arcangelo
Ghisleri, su openMLOL, Horizons. ANTROPOGEOGRAFIA. Antiobb oe.sti b
vicbndb storiodb DBLL'I- TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. Avanzi di armi e di
strumenti di pietra primitivi, preistorioi (punte di soioe» epeoie di
asole oon.) e poi di bronzo e di ferro» nonobè avanzi di palafitte, di
abitazioni umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In più
luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia settentrionale fu abitata
nelle età più remote, anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era
io gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma di oodesci
primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla Allorché si oominotano ad
avere documenti sto- rfoi sulle popolazioni dell* Malia
settentrionale questa si trova abitata in qualche tratto delle Alpi
centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬ sciarono il loro nome alle
Api Retiohe; ma per massima parte del resto, sopratutto nel
bassopiano Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la LombardÌa»l'Bmilial»
dal OtltioÒollif da ouÌ venne appunto il nome antico éìOallia ei$alpina.
Nella attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore- dono
afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orientale 1 Kensff» di stirpe
Illirloa, il ouÌ nome sioon- Borva appunto anohe attualmente. l
Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti e li assimilarono; non
oosl però ohe non si distinguano anoora» soprattutto nei dialetti» le
tracce delle antiche genti nel vari oompartimenti. Pinal- roente
nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬ bariche. Ma i Oérmanici
invaoori, rolatlvamento I>oohl di numero» invece di far soomparire ia
popolazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottandone la piviltà e la lingua o
lasoiando di sO appena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia
dai Longobardi). Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl,
vinti i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato Imperatore
Augusto, considerato cioè quale erede dell'autorità e dei diritti
dell'impero Romano d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino
al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli. H}' in baso a tali
diritti ohe Carlo .Magno e i suoi Huooessori pretesero al dominio
dell'Italia e spooiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della centrale» mentre
'l' Italia meridionale oontfnuò per oiroa due seooli a
oonslderarsiinolusaneirimpero d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo
raen di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di- Noendenti dì
Carlo Magno ai ro Germanioi anche l'Italia settentrionale e oentralo fooe
parte del oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione Germanica e
fu divisa in feudi, assegnati ai vassalli dei sovrani tedoaohi. Questi però si
trovarono in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma, quanto
oolle popolazioni» soprattutto delle città; le quali, cresciute in
potenza e rionhezza oon le industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi
e governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni di ouosti, oome
Milano e le città marittime di Ve- nesia e di Genova acquistarono, colla
libertà» una importanza e potenza, una gloria e prosperità sempre
maggiore. Disgraziatamonto. però» le lotte fra oittà o oitt.à o quello
intorno tra lo olassl scoiali, prepararono la trasformazione dei
oomuni in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e militarmente debole»
proprio nel moatroaldi là delle Alpi, in luogo del frazionamento dei
feudi e del oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e
nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa» giunta allora al colmo
della floridezza eoonomioa e oivile. Cosi fu ohe dalla fine
del 1400 Tltalia fu Invasa Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl.
Bonza ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza D'allora
In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa di Savoja e la repubblica di
Venezia poterono oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato
di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli nitri stati minori
(Ducato di Parma, di Modena, Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi
indiret- laiuonte soggetti. Dulia metà del 1500 fin al
prlnoipio del 1700 do¬ minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna»
a oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d- l'RmiUa (la
cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ravenna» Ferrara) apparteneva alto
stat^/dolla Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Francese e quindi
l'epoca Napoloonioa portarono anohe nell'Italia settentrionale grandi
mutamenti. Pur troppo però il Congresso di Vienna del 1815 assegnò la
tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬ bardia airAustria, mentre la
Casa di Savoia ag- U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna, le
derivava il titolo del itegno. tla l’e- rimento per la liberaiione
nazionale trovò nel Piemonte e nell* Italia settentrionale mtri e
focolari maggiori e s’iniziarono le ria unità e l’indipendenza, l’ultima
delle . tra coronata dalle gloriose vittorie del li Vittorio
Veneto. (Ved. Atl. tav.). 22. Sdpbbfioib b popolazionb. Sopra
una superfloio ohe si può oaloolare, entro ai oonfiiii fisioi, di circa
132 000 kmq., ha ora una popolazione che ei calcola di circa 18
700000 di ab. pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'
devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre ora ne inoludono IZ7
000 ; e includevano otre» 16 milioni 0 >/z di ab., mentre ora la
popolazione, per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il
oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 milioni. Tale popolazione
tende continuamente a crescere, nonostante la forte emigrazione di
alcuni compartimenti, soprattutto del Veneto, del Piemonte e della
Lombardia. La densità dunque dell’Italia Bettentrio- nale
entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬ sulta in media 141 ab. per kmc^.,
mentre entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’Italia settentrionale ha
perciò una densità superiore alla media di tutta Italia, che nei
1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è fra le regioni d’Europa più
popolose. La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe
province supera 200 e In quella di àlllano arriva fino a 002 ab, per kmq.
mentre in altre e speoial- mente nelle regioni montuose può soendero
a mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da osservare ohe, aehbeue la
popolazione per le indusirie tenda ad aumentare nello città, anche la
popolazione eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa e
vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe dànno alle sue campagne un
aspetto molto dille- rento da quello dell’Italia meridionale e
della Bioilia. Delle città deli’ Italia settentrionale
consi¬ derate nella cerchia del comune, una supera ormai i 700 000
ab-, Milano — una e^cra già '/; milione, Torino — una supera 300000
ab., Genova — due superano 200 000, — Trieste e Bologna — una vi
s’avvicina, Venezia — due superano 100000, Padova e Ferrara, mentre
altre due vi si avvicinano, Brescia e Verona. La popolazione di
quasi tutte le città dell’Italia settentrionale tende a
crescere. 83 Gruppi ni liroua
kazioràlitX btraviera — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine
Pie¬ montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli dpi
Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS mila individui : i quali
sono però di eentimenti nazionali perfettamente italiani. —
Ugualmente legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬
lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros- soney. Alagna,
Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto- piano dui Sette Comuni in provinola
di Yioenza, oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre
inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^ oompatta nelle valli
superiori, oaloolata circa ZOO mila Individtii.ò stata finora delle piò
ostili contro l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬
vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila Sloeeni
ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi nazionalmente fedeli
all’Italia : ma oltre ad essi si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini
del regno d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬
troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume oiroa i/i milione di
Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora molto ostili agli Italiani.
24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI
PBO- DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav.).L’agricollura occupa il
maggior numero di abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬
tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^ monte) ed orti e veri giardini
per la colti¬ vazione dei fiori (in Liguria), — con campi ohe dànno
un prodotto por ettaro pan a quello dei paesi più progrediti
dollaTerra, — con risaie (speoialmonte in provinoia di Novara), —
con prati irrigui (mar- oite) specialmente nella bassa Lombardia,
ohe permettono il girando allevamento del bestiame e l’industria pel
cas«i;?cto (nel Lo- digiano, come pure nel Parmigiano); — fi¬
nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬ milia, — con la coltura della
barbabietola da zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e altrove).
Gli olivi dànno copioso prodotto nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto
il bassopiano permettono uno sviluppo della bachicoltura, che rendo
l'Italia unode^aesi di maggior produzione dellaseta nella'Terra.
La Venezia Tridentina darà all’Italia grande quantità di
tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu- nbe in altri luoghi, ma non
eooossivamonte al>- londanti nulla zona alpina. — La pesca t>
fonte abbastanza importante di guadagni lungo le coste
dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio eco.); ò pooo frutti
fra invece nel mar Ligure. Ma l’occupazione che subito dopo all’
a- griooltura ha raggiunto nell’ Italia setten¬ trionale uno
8vilup(K) grandissimo ò Tindu- sfria nelle sue svariatissime
manifestazioni. Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale
supera senza confronto il resto d’Italia e può gareggiare con le regioni
più industriali dol- Pestero, nonostante la mancanza di mate- ' rie
prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io è uno degli ostacoli maggiori
alla prosperità eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza di carbone
mal si provvede con le ligniti o con il poco petrolio dell’Emilia e molto
più efficacemente, invece, ma sempre in modo inadeguato ai bisogni,
con le energie elet¬ triche ottenute dai corsi d’acqua. Iva
le industrie piti importanti e sviluppate sono quelle metallurgiche o
mecoaniohe per fusione e lavorazione di metalli e fabbrioazione di
maooliine, di automobili, di navi, specialmente a Milano, a Torino,
a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Savona eoo.), a Venezia, a Trieste ed
anche in altre località, come nel Bergamasco e nel Bresciano.
Non meno importanti sono le induatrie teeaili: soprattutto della
eeta, a àlilano. a Como e altrove, in modo da gareggiare con I piu
progrediti paesi della Terra sotto questo riguardo ; del ootone,
pure nel Milanese e nelle province di Torino, di Novara, di Como,
di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno acquistato fama soprattutto i
dintorni di Biella (prov. di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza).
Delle induetrie alimentari ha preso grande svi-
gliingova dalla qua foioo mo' appatj»^ { •uoi 06
^crre pe quali fu 5 Piave e d luppo negli ultimi anni quella
iJello xùcchero di barbabietola specialmente nell’Elmilia, nel
Veneto o in Liguria. A (lenora sono anche numerose le fabbrlohe di
pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le t alum trix di Modena e di
liologna. Terzo grande ramo d’oootipazione degli abitanti
nell’ Italia settentrionale sono il commercio e la navigazione ; il primo
age¬ volato dalla posizione goograflna, e dalla rete ormai assai
svilupjjata ui strade, e spe¬ cialmente di ferrovie, ohe s’intrecoiano
in tutti i sensi e_ traversano, come abbiamo veduto, le Alpi e gli
Appennini. Ad esse s’aggiungeranno Io vie d’acqua interne,
specialmente quella Padana. La navigazione ò occupazione delle
pili antiche per gli abitanti dei litorali della Liguria o del
Veneto, dove sorsero nel medio evo le più potenti città marinare di
quei tempi. Uenclib superati ormai sulla Terra e nello stesso
Mediterraneo da altri d’altre regionij i porti di Genova, Venezia e
Trieste gareggiano con i maggiori od è a crederò furmamente che
avranno uno sviluppo commerciale sempre più intenso. Por
tutte questo ragioni l’Italia setten¬ trionale supera le altre parti
d’Italia in ricchezza e in generale anche nelle varie formo di vita
civile. Wistruzione vi è no¬ tevolmente sviluppata, d’ogni ramo o
grado: gli analfabeti, sebbene pur troppo non manchino, sono in
generalo in numero mi¬ nore ohe altrove, soprattutto nel Piemonte
tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬ bardia (13 su 100) e nella
Liguria (17 su 25. Rboio.vi stobiohb b divisioni aumini-
STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I- tiilia settentrionale si divide
in 8 compar¬ timenti 0 regioni storiche : Piemonte. Liqu- ria ool
Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino, che costituisce la parto maggiore
della Sviz¬ zera italiana, Venezia propria, Venezia Tri- dentina,
Venezia Giulia con lo Stato di Fiume, ed Emilia, con la piccola
repubblica indipen¬ dente di S. Marino. Di questi
compartimenti o regioni sto¬ riche (delle quali il Canton Ticino o il
Niz¬ zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte del Regno d’Italia)
diamo qui sotto la su¬ perfìcie e la popolazione, secondo il cen¬
simento del 1921. Si noti, però, ohe tale superfìcie e popolazione
corrisponde alla somma di quelle delle provinole (che sono le
maggiori oiroosorizioni amministrative del Regno) ; ma i uonfìni di
queste non sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬ nici 0
storici dei compartimenti. In fìne al volume diamo in una
tabella i dati statistici particolari per le varie pro¬
vinole. Si noti poi ohe la popolazione che indi¬ chiamo fra
parentesi per le varie città nella | descrizione dei vari
compartimenti corri¬ sponde a quella della cerchia del comune, non
del centro principale abitato, che h la città vera. Tra l’una o l’altra
di tali cifre vi sono assai spesso differenze gran¬ dissime, ohe
rileveremo a mano a mano quando l’occasione se ne presenterà.
Dati statistici relativi alle ragioni dell’ Italia
settentrionale. Entro 1 nuovi confini politioi e
amministrativi. Superficie Popol. nel 1921
In km> assol. relat.
l’iemonto 29 8b6 3 88S 000 116
Liguria . . . . S 280 1 S'IO flOO
248 Iximbardia 24 180 S uo ooo
211 Vanesia propria . 28 010 4 2IS
OOO 150 Venezia 'Tridentina . 18 800
645 000 47 Venezia Giulia 8 iOO
OiO flOO 103 Emilia . . . . 21
848 3 012 000 138 RepubhItQt di 8. Marino
00 12 OOO 200 Nizzardo ool Principato
di Monaco . 600 200 OOO
290 Svizzera italiana 8 8J0 170
000 43 Dati piò speolfioati, soprattutto
per lo'province. Si trovano in aopendioo at fasotoolo.
lo - IL PIEMONTE. r Confini e nosloni generali. —
Il Piemonte (In S latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si
T può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla { crosta
dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1 tuli 0 t'entrali fino alle
sorgenti dolla Tooe e al 4 lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide
soloiJ in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <| perohò
a questa appartrngono la Lomellioa o il I cosi detto Oltrepò Pavese,
formante il curioso ou- 4 neo di Bobbio. '4 Pisioaraento
ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL nura piemontese da Ounoo ai Ticino,
Il paeso ool- J linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y
Divisione in province. — II Piemonte, di oul / sopra abbiamo
indioato la suporfloie e la popole-'V alone a>soluta o relativa, ò
diviso in t province: ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione)
ohe 'I abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè gran parte
delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- . liane e parie dolio Cozie, un
tratto piano luogo il Poe le colline sulla destra del fiume; —di
Cuneo (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo' SW ; —
di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’ laz.) por niussima parto
formata dal Monferrato;! — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a
NE, , par.e alpina e parte piana. Occupazioiij degli abitanti
e prodotti. — I vi-, gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo] risaie
aoì Vercellese, dànno i prodotti più caratteristici del Piemonte. Il
quale ha ' grande sviluppo anche industriale a To¬ rino e dintorni
(industrie metallurgiche e > meccaniche), nel Diellese per la
tessitura di • lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J silura
di cotone, in Valsesia per cartiere^ Città principali. — Torino
6'20) capitale de l Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j 1885)
già capitale del regno d’Italia, o entro] deU'tilt.i valle del Po e delle
relazioni cora-J meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1
cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale] città d’Italia. Si
distingua da tutte le^altrej grandi oitt& italiane per la re^olarith
delle vie o le sue costruzioni tuoderno. Torino Tu oiilU 'Ini
risor|;irapnio itahiiiio r pa¬ tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U
ih'ranso, Kali'O, liio- (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo
(;.i- yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe
oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola flno a Carlo
Alberto. Impila provincia di Torino sono da ricordare an-
oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città d'orisine romana
di notevole importanza storica _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e
capo- luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome. Cuneo
(30), allo sboooo delle etrmle dei passi di Tenda e dell' Argenterà.
Sostenne oon esito felice otto assedi dei Francesi. Nella sua
provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo di un Uarohesato, patria di Silvio
Pellioo. Novara (60), molto commerciante. Sotto le sue mura
avvennero importanti battaglie nel 1613 e nel 1849. Grande centro di
pro- iluzione di riso. Nella sua provincia: ttirl/a (13),
soprannominata la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-
renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città sulla ferrovia
Torino-àlilano, in territorio fertilis¬ simo: centro del mercato del riso.
Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬ barda contro Federico
Barbarossa alla con¬ fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella pianti
rar di Marengo : ebbe in passato no¬ tevole importanza strategica.
Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima, repubblica dei
medio evo; centro vinifero del Pie¬ monte. patria di Vittorio Autori. —
Aeaui (15), fa¬ mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome. —
Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già oapiiale del ducato di
Monferrato. Importante centro vinloolo. 2o . LA LIGURIA.
Confini e nozioni generali — La Liguria fl- slonmente oooupa il
versante dell’ Appennino e delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a
W en¬ tro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle della
ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce della .Magra.
Etnograficamente però ed anche am- inliiistraciraraente la Liguriapassa
in qualohepunto al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò
con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto oon la lx>mbardia,
in causa del cuneo di Bobbio, oon l'Emilia e oon la Tosoana.
Divisione In province. — Ni divide in duo pro- rinoe : di Oenova a
E (la maggioro per sup. e par popol.) e Porto Maurizio a W.
Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo ristretUL moatuoso e
naturalmente poco fertile. Gli abitanti però seppero trarne il
maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed orti, che dànno, per il
clima, fiori e legumi primatiooi, ohe si spediscono in altre regioni
d'Italia od all’estero. Altri prodotti abbondanti sono : olio, castagne,
vino e a- riimi. Le industrie prinoipali sono quelle el
ferro e dei cantieri navali a Genova, a S. Pier (l’Arena, a Savona ed
alla Spezia; poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi), del cotone, eco.. Ma la
riochozza di Genova b il commercio marittimo, che supera quello di
tutto il resto d’Italia. Città principali. — Genova (300), sorta
nel punto della costa ligure pili opportuno per le oornunicazionì
ool bassopiano Padano, è il primo porto e insieme una delle pili
belle citth d' Italia. Edificata ad anfiteatro su per il monte, ohe
salo subito dal mare, manca di spazio por allargursi ; e le
costruzioni anche per l'ingrandimento del porto furono assai
difficili e costose. Un tempo ora pure piazp forte ; ora non pili. I
molti e son¬ tuosi palazzi le meritarono il nome di Su¬ perba.
Decaduta dalla sua prima potenza e dal suo splendore dal 1600 in poi,
riacquistò tutta la sua importanza nel secolo passato con l’unità
d’Italia, oon l’apertura del oanale di Suez e con i trafori del S.
Gottardo e del Sempione. Ora Genova è rivale di Marsiglia e si sviluppa
sempre più, anche por le industrie Vi nacquero Cristoforo Colombo e
Giuseppe Mazzini. Nell.a sua (Tovincla: 8. J-Her d’Arma (SOI,
ò quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM fon¬ derie ed oltloiiio
sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon- deporto della Riviera, molto
ingrandito; si può oon- siderarooome ti porto del Piemonte — Npezia(
90), pruno porto militaru d'Italia, si trova In fondo ad un golfo
ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬ tagne, o«ronato da forti,e
chiuso danna diga a Ror d'acqua ^sta diventando anche centro
industriale. — Molte altre cittadine minori, amenissime, Af- bmga,
Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni olimatloho di fama
internazionale.j Porto Maurizio (9) è il (piooolo c^oluogo
della provincia a cui dà il nome. E’ diviso da Oneglia{S) quasi
somplioemonte dal tor¬ rente Impero, alla cui foce;fe il
piooolo,porto comune.Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me'
città ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome la Tlolna
Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii' km. dal oonflna franoese;
grande mordalo di (lori. Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante
filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana –
classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo,
rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato
federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia
romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.
Grice e Giacchè: la
ragione conversazionale e l’implicataura conversazionale dell’altra visione
dell’altro – Barba, Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like
Giacché; for one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should
appreciate!” Grice: “Giacché is what I would call a philosophical
anthropologist.” Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision
dell’altro,” for example – difficult to translate, but genial nonetheless, or
perhaps genial because uneasily translatable!” – “He has philosophised on
spectator and participant, which is conversational in tone – there’s no
monologue, but dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of
performances like traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si occupa di varie problematiche
socio-culturali quali condizione giovanile, devianza, comunicazione di massa,
solitudine abitativa, politica culturale. Saggi: Una nuova solitudine. Vivere
soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo spettatore partecipante.
Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano, Bene. Antropologia
di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione dell'altro. Una equazione
fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo, Napoli, Ci fu una volta la
sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino, Roma. CURRICULUM
di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a contratto (incarico
gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio culturale immateriale”
presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno- antropologici,
Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di Castiglione del Lago,
PG) - anni accademici TITOLI DI STUDIO E INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere
(indirizzo moderno), con tesi in Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70
presso l’Università degli studi di Perugia, con voti 110/110 e lode.
Abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole medie
inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con voti 100 su 100. Borsa di studio
quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per “ricerche nel campo sociale”,
usufruita presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale
dell’Università di Perugia. Titolare di contratto quadriennale presso la
Facoltà di lettere e filosofia della stessa università. Addetto alle
esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della stessa Facoltà, per gli
anni accademici Ricercatore confermato dal 1° settembre 1981 al 28 dicembre
2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università
di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli di lezione, moduli
didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della devianza, della
condizione giovanile, della società dei consumi e dello spettacolo,
dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc. 1994-95, in cui è
divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale (unico corso attivato
in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni accademici. E’ stato
altresì docente affidatario del corso di Antropologia culturale presso la
facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Perugia, nell’anno
accademico 1998-99. Professore associato presso il Dipartimento Uomo &
Territorio – Sezione antropologica ; docente di Fondamenti di Antropologia e di
Antropologia del teatro e dello spettacolo presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università degli studi di Perugia, Professore a contratto,
docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione
della L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio –
anni accademici Professore invitato, nel
quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Libre de Bruxelles -
facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere Visiting Professor presso
l’Università di Malta, Facoltà di Scienze della Formazione. Professore
invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII –
Département d’Etudes théâtrales Professore invitato dall’Université Paris VIII
per un seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia della
Maison de l’Homme – Paris Nord Membro della Commissione per la Procedura di
valutazione comparativa per il reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà
di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline
demoetnoantropologiche. Docente del Dottorato Internazionale in Antropologia ed
Etnologia (A.E.D.E.) CONSULENZE, COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI
Consulente socio-antropologico per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale
dell’Umbria: “Decentramento e sviluppo urbanistico”; “Anticamera” (novembre
1980 - aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982). Consulente antropologico
del Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978
(Ricerca sulla “popolazione reale”). Consulente del Comitato Regionale Umbro
Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul sistema dell’emitttenza
locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al 1989). Consulente e
collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo
di Romagna . Consulente e collaboratore del Teatro Studio 3 di Perugia,
Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna Internazionale del Teatro di
Strada (Montecelio di Guidonia). Consulente artistico e scientifico del
festival di teatro, musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno (edizioni 1985,
1986, 1987). Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi centro teatrale
“Dramma Teatri”. Consulente e
assistente, in qualità di antropologo del teatro per il periodo 27 settembre-
30 ottobre 2013, della rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y
la escena de la escuela jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel
quadro del congresso De los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas
jesuitas y sus relatos cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana
de Ciudad de Mexico (Città del Messico). Membro del comitato scientifico
dell’International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con
sede a Holstebro, Danimarca. Membro del gruppo di lavoro internazionale di
Sociologia del teatro, con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio
(dal 1992 fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della
Maison de Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines”
Membro del comitato scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations,
Pratiques, Publics” della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal
2002). Membro del Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di
Psicosomatica Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de
Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la Société d’Ethnographie de Paris” (dal
2002). Collaboratore della rivista “Lo straniero. Arte Cultura Società” diretta
da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione – 1997 – ad oggi); già redattore della
rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e co-direttore de “La terra vista dalla
luna” Collaboratore della rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”,
diretta da Luigi Monti, dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato
scientifico della rivista trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla
sua fondazione – 1996. Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle
“Théâtre Public” (dal 2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di
Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005). Membro della Commissione Consultiva per il
Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2005 al 2007).
Membro della Commissione di valutazione dei progetti di cofinanziamento per lo
spettacolo – Ministero per i Beni e le Attività culturali. Consulente della
Regione dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione
ed esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 –
settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero
per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato
Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal
2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale
europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in
qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la
formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione
umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e
aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di
prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna,
27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore
del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione
professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno,
febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati
di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico
regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione
professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di
biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali”
(Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni
di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier:
centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23
dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”,
seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori
(Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4 • Corso di Formation
Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris
VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia
della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo
dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione “Teatro, gioco, narrazione”,
progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e Città di
Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario
teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio
1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per
gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università
Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia
(Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41
dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario
di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte
drammatica “Paolo Grassi” (Milano, Corso Universitario Multidisciplinare di
Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”, organizzato dall’Unicef
di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro: culture del mondo a
confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del teatro nella scuola
- Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21
ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie
superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996). • III Corso
Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, organizzato
dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del Teatro
Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro
contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio
Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia
e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana
- organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre -
novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro”
(Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e dirigenti
di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal Provveditorato
agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola” (Forte dei
Marmi, Convegno-seminario “La musa fra i banchi di scuola. Esperienze e modelli
di relazione / incontro fra teatro e scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997).
5 • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla formazione
dell’attore e intitolata “Apprendere ad apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1
- 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo! Tecniche originarie
e tecniche nuove nel teatro d’attore” - seminario interno al Corso di
Sociologia dell’Educazione dell’Università di Parma (Parma, 19 marzo 1998). •
“Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione dell’educatore teatrale”, organizzato
dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole, dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro
Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola
Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso
d’aggiornamento per insegnanti degli Istituti medi e superiori su “1968 - 1969.
Gli anni della contestazione” (Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del
verso », seminario di e con Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale
Italiano (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Criticando criticando.
Laboratorio d’analisi dello spettacolo”, organizzata in collaborazione con
l’Associazione Nazionale Critici di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi
- Bagnacavallo, 4 giugno 1998; sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio
Emilia 29 giugno 1998. • “I mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di
autoapprendimento per operatori dell’area penale esterna, organizzato dal
Teatro Kismet e dall’Università di Bari, con il patrocinio del Ministero di
Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza
della Compagnia della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo,
in collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri
organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia
(ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68
e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di
aggiornamento per insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”,
Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti
delle scuole elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile
1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel
quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro
Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”,
seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24
novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del
1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come
disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000) 6 • “Divenire teatro”,
incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di
Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile
2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri di formazione
politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e
movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio
2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia”
(Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla
compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione dell’Università di
Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia” “L’utopia
del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di
incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena attorno ai “Cinque
sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro”
(Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per favorire l’inclusione
sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del corso organizzato dal
Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna Teatro (Modena, 19
ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione della sezione di
ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de Sciences de
l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza sul Living
Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che
hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo
“Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo Bene o
delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli
uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo”
organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). •
“Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal
Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata). • Corso
per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro
Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del teatro e
spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005). •
Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato dalla
Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce (Lecce, 19
marzo 2004). 7 • Dimostrazione-conferenza “L’attore compositore:
Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro Internazionale
Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia,. • Quattro giornate di lavoro teatrale:
incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera, Teatro di via
Manzoni), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”, organizzazione e cura
della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en
Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le visible”, coordinato
da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 8
novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du Sud des Saints,,
15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati dal Teatro Due
Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). • “Arte dello
spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal Teatro Stabile
d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004 –
aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo, organizzato dalla
Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica
“Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di lettere e
filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di studio
nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e visioni
dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune di Roma
(Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005); comunicazione
L’ultimo Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro seminariale “Parole
chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato dai Cantieri
teatrali Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza dibattito sul
libro di C. Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei Priori, 23
novembre 2005). • Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro: confronto su
un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S. Margherita,
Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione della ASL 2
di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana,
17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la nuova
barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal
Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T.
(Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen
conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de
Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18
febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8
• “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini
organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio
di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che facciamo, nel
quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato dall’Istituto di
Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia
psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio
2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura – Seminari di
studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio –
aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della cultura
(Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”,
conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della
Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). •
Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche
culturali”, a cura del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche),
Modena, ottobre 2007- gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una
prospettiva antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). •
S.P.O.T. II (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre
culturas: La adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master
Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université
Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28
gennaio – 8 febbraio 2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del
teatro e dello spettacolo. • Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali
(III edizione in collaborazione con l’International School of Theatre
Anthropology, organizzata dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26
ottobre 2008); comunicazione su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. •
Seminario – Convegno “Omaggio a Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo –
Dipartimento Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di
Roma, 12 – 14 novembre 2008); Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A
scuola da Bene, 12.11.08. • “Il potere di tutti. Conversazione su Aldo
Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi, 14 febbraio 2009), organizzata
dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso e
dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di studi “La religione
dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata dalla L.U.M.S.A. di Roma,
Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda Ducci”, Piazza delle
Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni. Prospettive etnografiche
sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento Uomo & Territorio –
sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Palazzo
Manzoni, 16 aprile 2009). 9 • “Voler Bene al cinema. Omaggio a Carmelo
Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di “Bellaria Film
Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la ricerca
invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare la
casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre
2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura
di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes
Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production,
performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su
“Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire
“SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA,
Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour
quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito”
(Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo.
Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI
edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa
nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel
quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la
celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e
partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su
“La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). •
Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto
“Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio
per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25
giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare
dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita
Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism:
Piergiorgio Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia,
Padiglione Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della
performance THE INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione
spagnolo, 54th International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27
novembre 2011). • Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare
dell’Istituto Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo
dell’anima? (Perugia, 11 giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un
antropologo e un avvocato su Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze
di teatro in carcere 2011. Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia
Romagna” (Modena, Teatro delle Passioni, 29 ottobre 2011). 10 • “La
congiura della creatività”, seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini,
organizzato dal collettivo Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio
2012). • Incontro con Marc Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato
dal Circolo dei lettori di Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). •
Incontro con Piergiorgio Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di
via Rovello, Milano, 12 luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce,
teatro, cinema, televisione secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. •
“Memorie del sottosuolo. Il teatro raccontato da spettatori speciali:
Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene” (Giardino del MUSAS, Santarcangelo di
Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di Santarcangelo 12 – Festival
Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio ’12. • “Raduno degli artisti
della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia alla scena”, incontro
seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal Teatro Metastasio
Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea 12: le arti della
scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). • Incontro-Lezione – TITOLO -
per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini nel quadro di
“Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia aprile 2014) • Seminario su “La
parabola dell’animazione teatrale” nel quadro della seconda edizione della
Summer School di Arti performative e Community care (Carpignano Salentino, 20 –
29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Alessandro Leogrande
condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi privati e pubbliche virtù, nel
quadro della decima edizione del “Festival Lector in fabula: Privato, Pubblico,
Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014 (Conversano, BA, Auditorium di San
Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza Orizzonti e vertici del “viaggio del
teatro” nel quadro della XVII edizione de “IL TEATRO VIVO. Progetto di
promozione e diffusione del teatro contemporaneo”, organizzato dal Teatro
Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). • Conferenza Dal Living
Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti collaterali. Ciclo di incontri
per la formazione degli operatori e del pubblico”, organizzato dal Teatro di
Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18 dicembre 2014). • Incontro-Lezione
“Essere giovani, essere attori” (Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11
aprile 2015) per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini
“La cultura di massa dall’emancipazione all’alienazione”, nel quadro di
“Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia 9-12 aprile 2015). • Corso
residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze etiche tra globale e
locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del presente: il globale e il
locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto Spring organizzato dalla
Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste Gli asini e Lo
straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al globale e
ritorno”. 11 • Corso di formazione per docenti presso l’Istituto Omnicomprensivo
“D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento formativo di due ore sul tema
“Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d formazione per docenti “Teatro come
cultura delle differenze”, organizzato dal 1° Circolo didattico di Marsciano
(PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di Confine; conferenza “A scuola da
Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14 giugno 2016). Curatore e ideatore
dei seguenti progetti o seminari speciali: • “La casa de l’Odin”, Ciclo di
conferenze sulla cultura teatrale e sull’antropologia del teatro (Valencia,
Barcellona, Castellon e Madrid, marzo - aprile 1983). • “Apriamo un salotto:
appuntamenti di restaurazione culturale” - tre cicli di conferenze sulle
attività e sulla politica culturale (Perugia, marzo - giugno 1984). • “Storia &
Geografia. Corso effimero di educazione permanente” - cinque incontri dedicati
a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per favorire l’integrazione degli
studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio 1985). • “La parte dell’altro.
Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di conferenze e seminario
conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile 1989). • “Altro e Teatro” -
ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli ambiti contigui al teatro
(Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro. Per un teatro giovane” -
incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali (Parma, 17 - 20 aprile
1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” - convegno/laboratorio
sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la pedagogia del teatro
(Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario “L’infanzia
ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma, 14 gennaio -
25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore del
seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale. Un
percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000),
all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di
incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di
Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del
Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per
insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In
Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione
(Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore
(assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il
Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio
2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di
Perugia. 12 • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di
osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival Internazionale
ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di
“Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni, Officine Ex-Siri,
22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di innovazione
“Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. • Ideatore e
curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo Bene”
(Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN) luglio
2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione
dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le
ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti
italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato dall’E.R.T.
(Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e conduttore del
meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore teatrale, nel
quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15 ottobre 2011).
• Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per allievi attori
delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione teatrale), nel
quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte Ospitale – Modena,
Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e coordinatore dei sei
incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il piccolo spettatore” a
cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia e del
Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica – dell’Università degli
studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2 maggio 2013). • Curatore
di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e attori per il Cantiere delle
Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea Festival 2013 (Modena, Biblioteca
“Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). • Curatore e coordinatore del
laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”, organizzato dal Teatro Stabile
d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia nell’occasione delle repliche degli
spettacoli del Progetto Interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo
“Teatri del presente” (Teatro Brecht di Perugia e Teatro Clitunno di Trevi,
novembre e dicembre 2013). • Curatore e direttore scientifico de “Il Centro
della Visione. Per un’accademia dello spettatore”, progetto organizzato da
Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal dicembre 2013 a luglio 2014. •
Ideatore e curatore del progetto “Verso Capitini, per un Colloquio corale”,
prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione “Fontemaggiore” di Perugia (da aprile
2014 ancora in corso: prima sessione presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19
ottobre 2104; seconda sessione presso il Teatro Brecht di Perugia 23
dicembre.2014). 13 • Ideatore e curatore del convegno “Il teatro della
critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il
Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su
“L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di
ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). • Convegno internazionale su “Droga. Dalle
esperienze ad una proposta concreta. Aspetti terapeutici, sociali e
legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro seminariale “Musica,
Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 - 17 maggio 1981). •
Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of Theatre Anthropology
(Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Improvvisazione
e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Vedere ed
essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno di studi su “Come
si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). •
Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno
1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali e
creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come
titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel
quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile
1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile
1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea
Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e
costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze
in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986).
14 • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro
delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno
Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987).
• Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello
spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su
“Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). •
“Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della
scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes
Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas
para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). •
Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17
- 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente”
(Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro
(Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un
espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta
sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della
rappresentazione e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth
World Congress of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di
fondazione di “Mantis. Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento
funzionale” (Palermo, 15 e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate
e teatro in Europa. Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e
culture europee” (Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della
Università del Teatro Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno
internazionale su “Teatro Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17
maggio 1992). • 3° Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione
Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza
nella storia. Eventi, liturgie, rappresentazioni” (Università di
Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). • Seminario-convegno della Università
del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993).
• Giornate di incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio
1994). • 1° Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma,
28 - 30 aprile 1994). 15 • Convegno “L’identità collettiva e la memoria
storica: un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata
d’Italia e dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). •
Convegno di studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza
Università di Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e
Carcere - “Immaginazione contro emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994).
• Convegno su “I sommersi e i salvati. Come, perché, dove e per chi fare
teatro?” (Terza Università di Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno
internazionale per la fondazione del Centre International d’Ethnoscènologie
(Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su “Pacifismo, disobbedienza civile,
obiezione di coscienza: il ruolo della Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo,
13 - 14 maggio 1995). • Congresso Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics
- “Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). •
Convegno su “Teatro antropologico e Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno
1995). • Convegno su “Tradizione e modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto
1995). • Convegno Internazionale su “Teatro e Scuola: Università ed Educazione
al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra
espressività e percezione” (Modena, 15 - 16 novembre 1996). • 5ème Congres
International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20 - 23 marzo 1997). • Convegno
Nazionale su “Arte del narrare, arte del convivere. Incontro tra immigrati,
educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 - 5 aprile 1997). • Convegno di
studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività nei possibili percorsi della
riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16 - 17 ottobre 1997). •
Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti
teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello - Università di Salerno, 21 - 23 novembre
1997). • Convegno su “Il gioco del teatro. L’animazione trent’anni dopo”
(Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno “Processo federalistico delle
istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina, 24 aprile 1998). •
Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio. Sulla verticalità del
verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting, Life, and Style”,
convegno per un progetto internazionale di ricerca organizzato dall’Italienska
Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal Teatervetenskapliga Institutionen della
Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 - 13 settembre 1998). 16 • 3°
Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso il Duemila, il cammino di
un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998), tavola rotonda su “Il
costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno “Io sono la prima
attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap” (Milano). • Convegno “Un
teatro per domani”, all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra
mercato del libro e della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria
Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti
della scuola “Il Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero”
(Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À
partir de la Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité”
(Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de
l’Homme, Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. •
Encontro Internacional de Novo Teatro para Crianças e Adolescentes –
“Percursos” (Lisboa – Portugal, Centro cultural de Bélem). • “Per un teatro
popolare di ricerca”, convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23,
24 e 25 giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle
diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto
–Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione
Arte Natura nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo –
1 aprile 2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di
studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001,
organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno
“Il cinema al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001),
organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri
della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti
non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati)
a confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna) convegno
organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione Emilia-Romagna. •
Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio
2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e dall’A.I.S.E.A.-
Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un nuovo Teatro in
Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002), organizzato
dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri 2001-2002”.
17 • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di S.Agostino, 21
giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del festival “Non
voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e alterità”. •
Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino, Galleria
Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002), organizzato dalla
Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti di
Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through – Tradition as Research
at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards” (Vienna, Theater des
Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere. Pratiche teatrali.
Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze di teatro con
minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française, 28
febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo
dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia
Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International
d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) •
Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle
Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san
Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio
nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la
Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale). Controscuola. Riflessioni
ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero”
(Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International
symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared
Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy
Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile
2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en
Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée
d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa.
Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”,
convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza
Venezia, 1° Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della
recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal
Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle
Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola
Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o
l’esempio di Carmelo Bene. 18 • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su
“Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa”
(Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione
dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della
tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro
della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra,
Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore.
• Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro
da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro,
nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera
del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio
2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. •
Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato
dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro
Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence dans
le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del
progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. •
“Ricordando Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010),
organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di
Macerata. • Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) •
“Futuramente. 1° Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni”
(Pontedera, Museo Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass.
Libera Espressione e dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne
trouvez pas ça tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la
politique” (Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne,
nel quadro di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il
Living Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt
Brecht, 27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale
del Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide
della società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5
aprile 2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA
di Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19 • “Il
n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution
poétique” – incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche
artistiche e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba”
(Terni, Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab,).
• Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on
performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris
Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François
Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale
della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di
Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction
and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre
construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria
Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno
2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e
la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della
manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro delle
sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. • Convegno
“Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque International
du Projet Européen PROSPERO (Salle académique dell’Università di Liegi –
Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université de
Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul
Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris
Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre
– 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après
Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire
National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon), organizzato da HAR,
Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8
Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di
Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia
Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio,
Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e
dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro
della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18
marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative,
mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei
Lincei. 20 • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura
e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto”
(Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international
d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université
Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013)
• Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11
settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna
Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma). • Convegno
Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia,
Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre
2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle
Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da
Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di
riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro
(Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro
della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro
Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche
teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi
strutturali dei processi di criminalizzazione” La solitudine abitativa come
fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed
esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 -
1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche L’identità dello spettatore e i modelli di
fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità,
Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992
- 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del
cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques
dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe
international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de
l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e
la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli
operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea,
progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano. ricerche empiriche: • Gli
atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione
carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno
1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico
per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile
(aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di
democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 -
1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione
“reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine
sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro
per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul
comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle
elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). •
Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca
dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre
1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del
Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei
risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca
del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e
sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per
l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). •
L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del
Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 -
giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria
(ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre
1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste
religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22 • “In compagnia:
ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore
teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa
dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro
con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen
Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting
Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla
definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del
progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera
Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il
nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di
innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta
Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con
le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del
“Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi
integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo –
costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia
Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale Sull’opera e il pensiero
degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione),
“Lo straniero Arte Cultura Società”, Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo
straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 –
92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli,
Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll.,
Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il
potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte
Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109.
Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll.
con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il
territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99
- 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in
coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp.
Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13
- 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10.
Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II,
n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e
intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La
Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7,
settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014,
pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati.
Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n.
21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24 La organizzazione del consenso nel
regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in
coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5,
Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in:
G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per
ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30
Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento
elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in
coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome...,
in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49
- 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX,
n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore
culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e
naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del
vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 -
64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica,
“Linea d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del
maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n.
1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a
Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4,
giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista
dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura
da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria
della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M. Enzensberger,
Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza , trad. di
G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola del buon rettore, “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno 1998-99, pp. 56 – 60.
L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 6,
primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere, “Lo Straniero. Arte
Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63. Il laico e il sacro,
“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16, primavera 2001, pp.
165 – 176. 25 Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”,
anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto dell’università, fra la
nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 21,
marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco (per tacere di
sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 23, maggio
2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo straniero. Arte
Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa e quella
guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39, agosto-
settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp.
120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005, pp. 10
–13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco
Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un
cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La
montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n.
94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore),
In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008,
pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp.
18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini
– E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca
l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18).
Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che
viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève,
ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del
prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127,
dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26 Teatro e politica
all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento
sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168.
Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133,
luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di
Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21.
Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni
dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due
tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo
2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima
volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154,
aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista di
educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e
meritocrazia nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013,
pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp.
35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171,
agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini
Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti
autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo
Opposizione e liberazione. Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del
Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile) della coscienza, “La terra
vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto
1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista
dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 -
49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o,
Roma, 1996. L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123
– 133. Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti
pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226
pp. 27 Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009,
(www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli
amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di
chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9,
aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello
spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni
di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del
sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno
di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12,
novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie
viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9.
Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento
dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III,
n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la
identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto
1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche
anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23,
1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos
Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio
1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul
teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90.
Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini
e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero,
in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività
teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 -
76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del
teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992,
pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea
d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra
antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64.
L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3
- 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione
della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia:
eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995,
pp. 201 - 254. 28 Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per
Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra ed.,
Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie,
“Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de
Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico.
Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del
teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna
Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una
macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente
del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au
théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre
aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes
Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio
Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”,
anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo,
“Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 –
14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della
diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia”
19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77.
Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de
Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès International
de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) , Lansman,
Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato dalla rivista
“Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 - 26).
Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna Teatro,Teatro
e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno (Modena, 15 - 16
novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre 1998, pp. 126 - 136.
O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone (recensione),“Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998, pp. 55 – 59. Politica
culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di teatro e di spettacolo
dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux confins du théâtre. Sur la relation
entre théâtre et anthropologie , “Diogène”, n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110
-123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At the Margins of Theatre. On the
Connection Between Theatre and Anthropology, “Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb.
1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In
Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo
sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale
strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro,
Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64. 29 Dell’ascolto distratto e
dell’attenta lettura. I versi di Campana ripartoriti dalla voce di Carmelo
Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n. 10, ottobre 1999, p. 22. Cinque
domande sul presente di Danio Manfredini, (intervista), “La porta aperta”, n.
1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le bugie della scuola e quelle del
teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 – 45 (ripubblicato in: Abbecedario
della non-scuola del Teatro delle Albe, allegato a “Lo straniero Arte Cultura
Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004, pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo.
Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25.
(recensione) La settima volta di Riccardo terzo. Incontro con Claudio Morganti
(intervista), “La porta aperta”, n. 5, maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15.
Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il cielo. Incontro con Alfonso
Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura di), Tragicamente. Il teatro
di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano (PI), giugno 2000, pp. 63 – 75.
(testo parzialmente ripubblicato con il titolo Teatro a cielo aperto. Incontro
con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n. 6, luglio – agosto 2000, pp. 16
– 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè (a cura di), Lo spettatore e le
visioni del teatro futuro, “Prove di Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre
2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene. Incontro con Carmelo Bene, “La porta
aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp. 48 – 59. Il teatro fuori dai teatri.
Memorie di uno spettatore di provincia, in: F. Gentili (a cura di), Teatri
dell’Umbria. La storia, il gioco, la memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 –
287. L’arte dello spettatore, vedere i suoni e ascoltare le visioni, in: Città
di Palermo – Assessorato alle Politiche Educative, Arte del narrare, arte del
convivere (Atti del Convegno nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997),
Eliocopisteria “Milone”, Palermo, 2000, pp. 123 – 138. L’identità dello
spettatore. Un saggio di Antropologia Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000,
pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir les sons et écouter les visions,
“Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp. 100 – 113 (ripubblicato
nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing Sounds and Haering Visions,
“Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002, pp.77-87.) Carmelo Bene, attore
della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura Società”, anno VI, n. 22, aprile
2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro e il pubblico del rito, in: A.
Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di Penelope. Educazione, teatro,
natura ed ecologia sociale. Testimonianze e proposte a partire dai 20 anni di
esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci, Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 –
109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino, Il teatro segreto, Leonardo Arte,
Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e il Teatro: un anno senza
“stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del ’68, CUEC, Cagliari, 2002,
pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza “stagione”: il ’68 e il
teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 36, giugno 2003, pp.
57 – 71). 30 L’avventura finale di Benigni (recensione), “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31, dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 –
53. Questa non è una tragedia (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Società”, anno VIII, n. 44, febbraio 2004, pp. 59 – 63. L’altra visione
dell’altro. Una equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo,
Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di psicologia analitica”, nuova serie
n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in “Lo straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp. 68 – 75, con il titolo Perdere un
amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato in: B. Massimilla (a cura di), La
perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150).
Apparire alla Madonna, postfazione a: C. Bene, Sono apparso alla madonna. Vie
d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè
du spectateur. Essai d’anthropologie théâtrale, “L’Ethnographie. Création,
Pratiques, Publics”, n. 3, printemps 2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro
in festa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno X, n. 72,
giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più (recensione), “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo
alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura
di), La coscienza altra. Antropologia e poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni
(SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio “Antropologia e poesia”, organizzato
dall’Università di Salerno, Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212.
Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata
e ampliata, Bompiani ed., Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83,
maggio 2007, pp. 107 – 109. “Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura
del mondo, in: Teatro delle Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori),
Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008,
pp. 99 – 109. La verticalità e la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M.
Biagini (curatori), Opere e sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte
come veicolo, Bulzoni ed., Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le
mithe dans le théâtre contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV.,
Réécritures de Mèdée , (sous la direction de N. Setti – Centre de Recherche en
Etudes Féminines et Etudes de genre, Université Paris 8), “Travaux et
Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230. Saldi di fine stagione, “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp.
104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XII, n. 100, ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31 Un
soffio di teatro, in AA.VV., In cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era
– In carne ed ossa), (a cura di S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp.
118 – 126. De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de la
consommation (nouvelle édition), “Degrés. Revue de synthèse à orientation
sémiologique”, L’effetLiving. Lavisiond’Artaudparles
“Balinais” deNewYork,“Theatre/Public” (L’avant- garde américaine et l’Europe /
II. Impact), Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio
Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo
Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5
avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al
cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 –
6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109,
luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, Bene Detto. Dispensa per Oratorio e
Laboratorio, (a cura di P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G.
Fofi, P. Giacchè, J.P. Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora,
Mondaino, 2009-2010, 143 pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U.
Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma (curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del
Teatro, Hollitzer Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3
– 16. Los verbos transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a
cura di), Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp.
153 – 182. Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son
double, “UBU Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le
théâtre européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais /
bilingual English-French review, Uomini e dei in un film francese (recensione),
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, L’antropologia del teatro e il
teatro della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il
campo della cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis
Edizioni, Milano- Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si
guarda da sola, “L’altrapagina”, Lo spettatore ospite, “Culture teatrali.
Studi, interviste e scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di
Voce, a cura di L. Amara e P. Di Matteo), La parabola dell’animazione teatrale,
in: D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini.
Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, Non fare
l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata,
(trad.inglese: pp. 175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, Les Menoventi et le
Perithéâtre, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides –
territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives
théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue
“Alternatives théâtrales”), Liquidité et/ou verticalité, in: C. Hurault – G.
Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la
scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de
l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), Le public est
mort. Vive le Public! Sur la poétique et la politique du mauvais spectateur,
in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu – L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi
(curatori), Regards sur le mauvais spectateur – Looking at the Bad Spectator,
Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca, Romania, Barba e Carmelo Bene. Vite
parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova
serie, Bulzoni ed., (riedito in francese, traduzione di Cristina De Simone in:
Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre. Hommage à Georges Banu (Essais et
témoignages réunis par Catherine Naugrette), Éditions Alternatives théâtrales –
Sorbonne Nouvelle-Paris, Il pubblico troppo emancipato, “Quaderni del Teatro di
Roma”, Espectador-Hòspede, “Revista Brasileira de Estudos da Presença”, Porto
Alegre, - http://www seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le
Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er
trimestre 2013, Bruxelles, Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre
de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée
(Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29
settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, Teatro e
comunità, “Scena”, Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V.
Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto
editore, Firenze, Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di
drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, Un Pinocchio letto per Bene,
introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano,Vers la verticalité du
vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, (D’Après Carmelo Bene. Actualité), Il
combattimento tra la teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove
di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. Il teatro
piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana,
vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing,
Catanzaro, Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement d’écritures France-Italie.
Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca
Salza), éd. Mimésis, Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie
Pradier (sous la direction de), La croyance et le corps. Esthétiques,
corporeité des croyances et identités (Actes du 7° colloque international
d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux. Il
presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni. Il
sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le
dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti
ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto
autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto previsto dalla
Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae corrisponde al
vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords:
l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and education, ego et tu. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giacomo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale degl’icona -- sensibile, imagine, presentazione,
rappresentazione, formante e formato, contentente e contenuto -- l’inspiegabile
– filosofia italiana – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Avola). Filosofo. Studia estetica. Il rapporto
tra estetica e figura, immagine, rappresentazione. Si laurea sotto Garroni.
Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana d'Estetica. Nell'affrontare
il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia l'interpretazione che vede
una'immagine come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido). E necessario rifiutare
anche quella interpretazione del concetto di ‘imagine’ che la considera
esclusivamente come un segno significante di se stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’
implica qualcosa che si mostra e nel manifestarsi resta ‘altro' dalla
‘percivibilita’ della rappresentazione stessa. Così, nel ‘presentare’ se
stessa, una immagine manifesta l'altro del perceptible, del rappresentabil. Quell'altro
che si rivela nel perceptibile, nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una
immagine si fa un ‘icono’ di quello che e altro il perceptibile. Afferma la
tendenziale perdita di ‘figurativita’ di una immagine e del continuare a
sussistere dell'immagine stessa. Una immagine, infatti, è una segno e insieme
una non-segno. E il paradosso di una “irrealta reale”. Si riferisce al
tentativo di scindere la natura ancipite dell'immagine negli elementi che la
compongono. Da una parte in un “readymade” (come l’urinale di Duchamp), nel
quale la dimensione rap-presentativa si dissolve in una dimensione puramente
PRE-sentativa, e dall'altra in una pura immagine soggetiva, dotata di un debole
supporto materiale. Una immagine e una meta-immgine: l’immagine di una immagine
(homuncular regressus ad infinitum of Griceian theories of representation,
according to Cummings, but not Grice!). Di questo modo, una immagine non e
neppure propriamente immagini quanto piuttosto una ‘simul-azioni’, simile allo
imperceptibile, un “simul-acro”. Non a
caso una immagine, in quanto ri-produzione (doppia) ha uno scarso valore di
immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere dell’ ‘aspetto’ di una cosa. L’immagine perde così quella connessione di ‘trasparenza’
o ‘opacità’ che caratterizza una immagine autentica. Di qui, appunto, la questione
di realizzare una immagine vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione
epifanica che è propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di
mani-festazione di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una
concezione dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni
pretesa di esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può
essere interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’
(translation) in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è
impossibile raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non*
con la memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa
che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né
“indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a
partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine
valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile
(spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è
una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna
compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto
col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere
l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e
quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un
orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano
essere abbando il NON-senso. Altre opera: “Dalla logica all'estetica”
(Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo,
Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul
Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis,
Milano, "Volti della memoria", Mimesis, Milano,
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano,
Mimesis, "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al
Minimalismo", Carocci, Roma, Fuori dagli schemi. Estetica e figura
dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, "Arte e modernità. Una
guida filosofica", Carocci, Roma, "Una pittura filosofica: l'informale",
Mimesis, Milano, "Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio,
Milano, Media e divulgazione Art
and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo
da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra
estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra
Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle
origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”, "La questione dell'aura tra Benjamin e
Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”. Professore ordinario
di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università
di Roma e professore a contratto di Estetica presso stessa la Facol- tà. Sempre
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, è
stato membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Filosofia e
Storia della filosofia” e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in
“Filosofia e Storia della filosofia”. È socio fondatore e membro del Consiglio
di Garanzia della Società Italiana d’Estetica (SIE). È direttore della collana
Figure dell’estetica presso l’editore Albover- sorio (Milano) e della collana
Forme del possibile, presso l’editore Mimesis (Milano); fa parte del Comitato
scientifico della rivista Paradigmi, della rivista Studi di estetica, della
Rivista di estetica, della rivista Estetica. Studi e ricerche, della rivista
Compren- dre. Revista catalana de filosofia, della rivista on line Memoria di
Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean Studies e di Aesthetica Preprint,
collana editoriale del Centro In- ternazionale Studi di Estetica. Fa parte
inoltre del Comitato scientifico delle seguenti collane editoriali: Filosofie
(Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi (Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis,
Milano). È stato Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Storia dell’Arte
della Società Ita- liana di Estetica e coordinatore, di numerose Ricerche di
Ateneo dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse
tematiche filosofi- che, estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile
di diversi progetti PRIN. Direttore del Museo Laboratorio di Arte Contem-
poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del Museo
Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha
ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte
Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di
carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la
musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo
all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul
teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la
Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio).
Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a
Wittgenstein (Parma); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra
presentazione e rappresentazione (Palermo); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua spagnola
a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia, Servicio
de Publicaciones); Introduzione a Paul Klee (Roma-Bari); Alle origini
dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari); Beckett ultimo atto (Milano),
Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto
nella pratica artistica, (Paradigmi), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012),
Aura (Rivista di Estetica), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al
Minimalismo (Roma, 2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal
Novecento a oggi (Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan
Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde
principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016),
Filosofia e teatro (Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni
di estetica (Studi di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi,
immagini, suoni (Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma,
2016), 1 Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano,
2016), Nietzsche e l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti
di ricerca internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività
didattica e di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do
a convegni di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di
correlatore o tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti
istituzioni straniere sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna,
Russia e Messico: Facultat de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de
Pedagogia, Universitat de Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon
Llull”, Barcelona; Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans;
Ateneu de Vic; Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears,
Mallorca; Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears,
Mallorca; Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de
València; Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di
studi post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian
Academy for the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg
Polytechnic University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea
Coloquio (PAC), Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico;
Monografie · Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F.
Nietzsche, L’eterno ritorno, Al- boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci,
Roma, 2016 · Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale,
Mimesis, Milano, 2016 · Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal
Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di
Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas
desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid,
2016) · Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al
Minimalismo, Carocci, Roma, 2014 · Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori
italiani del Novecento, Mimesis, Milano, 2012 · Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 · Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra
Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in
lingua spagnola a cura di D. Mal- quori, Estética y literatura, Universidad de
Va-lencia, Servicio de Publicaciones, 2014); 2 · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine
tra presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla logica all'estetica. Un saggio intorno a
Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989 Curatele · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture
shakespeariane. Otello e Re Lear, «Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di),
Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61
(2016) · G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi
fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, Giacomo, L. Talarico (a cura di),
Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il
sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura,
«Rivista di Estetica», 52 (2013) · G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo
oggi, «Studi di Estetica», Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 · G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni.
In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L'oggetto
nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2 (2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini,
Mimesis, Milano, 2009 · G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett
ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano, 2009 · G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle
origini dell'opera d'arte con- temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018
Introduzione a D. Malquori, L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so-
gno fatto a Ginostra, Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, Il
problema della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura
di), Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti
Editore, Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi”
in un mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico
(a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica»,
3, 2017, pp. 85-108. 3 2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo
della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture
shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a writer and
philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”, Publishing house of the Russian Christian
Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en l’art, in “La Tradició”,
Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia, Institut d’Estudis
Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the «image» in Plato, in «PLATO
AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL CONFERENCE
«THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA-
NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di Fascia A
(in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M. (Canada),
Protopopova I. A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova
E. V., pp. 163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections on Adorno’s
Aesthetics, in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth
and Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica, “Discipline
filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, Tàpies e Bill Viola: un'arte che
sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo.
Arti visive, musica, architettura, “Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016
Composizione, costruzione, icona nella concezione artistica di Pavel
Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a cura di), I percorsi
dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini Editore,
Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco mediterraneo.
Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions filosòfiques
sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”, Col-loquis de
Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The Myth. Aesthetic surgery clearly
demonstrates what Greek myth has already taught us: beauty stems from horror,
in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books,
2015, pp. 17-29 2015 La guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic,
Societat Catalana de Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche
di Marcel Proust, in G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra
testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4 2015
Lettura dell’Amleto, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e
teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015 Lettura del Macbeth,
in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e
Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e
rappresentazione nella riflessione filosofica di Wittgenstein in Comprendre.
Revista Catalana de Filosofia, 16,2, pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G.
Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R. Menna, P. Poglia- ni (a cura di),
L'officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, Gangemi, Roma,
pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves representacions, in L'estat, Col•loquis
de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014 Dalla modernità alla contemporaneità:
l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra
il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Stu- di di Estetica»,
1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i el silenci: la filosofia com a
recerca de la veritat, prefaci a An- toni Bosch-Veciana,
"Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de Filosofia, URL, 2013
2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra “visibile” e “visivo”,
in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a cura di), Costellazioni
estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo,
Guerini e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La questione dell'aura
tra Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013), pp. 235-256 2012
Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a cura di), La
vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp. 37-48 2012
Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012), pp. 65-94
2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre.
Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de
la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat
Catalana de Filosofia, Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's
Philosophical Reflection, in “Aisthe- sis. Pratiche, linguaggi e saperi
dell’estetico”, anno VI, n. 1, pp. 151-172 (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/ article/view/12844/12158) 5 2012 L'opera di
Kafka come narrazione infinita, in A. Valentini, Il silenzio delle Sire- ne.
Mito e letteratura in Kafka, Mimesis, Milano, 2012, pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto
paradossale del museo tra globalizzazione e apertura all'alterità, in «Studi di
Estetica», 45 (2012) "Il Museo oggi", a cura di G. Di Giacomo e A.
Valentini, pp. 7-26 2012 Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in
Volti della memoria, a cura di G. Di Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano,
2012, pp. 445-481 2011 La idea d'Europa entre la cosciència de l'ocàs i
l'obertura a l'altre, in Europa, in J. Monserrat, I. Roviró, B. Torres (a cura
di), Societat Catalana de Filosofia, Barcelo- na, 2011, pp. 71-78 [Atti del
convegno, Col•loquis de Vic, XV, Vic, 2010] 2011 Arte e mondo. A proposito di
alcune riflessioni di Georges Didi-Huberman su Bertolt Brecht, in D. Guastini,
A. Campo, D. Cecchi (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia
critica delle immagini, La Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011
Intervista sulla bellezza, in Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su
bellezza, chirurgia plastica e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011,
pp. 128-136 2011 La produzione artistica contemporanea attraverso la
riflessione di Benjamin e Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp.
5-20 La relaciò entre imatge i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin
i Adorno, in I. Rovirò Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro-
pea. Estudis d’estètica: entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp.
9-27 L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati-
che, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80,
(http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010
Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2
(2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero
Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in
G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una
mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010
2010 6 2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia
Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010
Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica,
«Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi. Produzioni
artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a cura di), Il
male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e moda nella
riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici. Scritti in
onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, pp. 213-225
2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura di),
Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer,
Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della
rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo
atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera
d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto
estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La
questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle
"Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al
di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos,
Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione
estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini,
Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions artistiques
et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp. 153-171 2008
Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di), Dialettica
negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp. 195-207 2008
C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A proposito di Luigi
Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine, Mimesis, Milano,
2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura
di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008,
pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un incontro, in in F.
Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora nella relazione
analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat, Societat Catalana
de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e arte, in J.
Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del convegno,
Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7 2007 Dal cosmo al caos: la pittura
di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print Company, Roma,
2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di), Perché si
ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007, pp.
133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del Novecento,
in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia dell'arte e
beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di), Estetica e
management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der Brenner, Bolzano
- Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a Benjamin: riflessioni
sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R. Colombo (a cura di),
«Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39 2006 Il
"Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione, in G.
Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre», 2
(2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della prospettiva,
ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006 Sul corpo.
Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006), pp. 9-20
2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della
psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura
di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di
Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz,
in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla
"Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005
Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura
di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint»,
Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella
"Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004),
pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de
Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle
"Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004,
pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P.
Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino
Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della
rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp.
79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura
di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le
nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur-
go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del
Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8 2003
Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa
guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001
Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3
(2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura
di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001,
pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo
perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998
Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra
di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998,
pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura
di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione
del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, Etica ed estetica nella
filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo,
Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in
"Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile»,
5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo
nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp.
48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in
«Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del
linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna,
Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della
filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la
cultura contemporanea, Longo, Ravenna, Implicazioni e aspetti epistemologici
della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di),
Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e
cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi"
di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di),
L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp.
37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente
promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica
analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a
confronto 9 Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile
nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione
nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi;
Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e
rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici Ente promotore:
Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo:
Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente
promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; -
Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto-
Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura
dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La
Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza
nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore:
Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di
Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e
artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella
riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita
nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche
- Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di
Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at-
tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La -
Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella
riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente
promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto-
re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10
Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della
Società Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università
degli studi di Roma “La Sapienza” - Seminario sul tema Estetica e storia
dell’arte: necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema
Fine (della storia) dell'arte?; - Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual
Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto
comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; -
18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?;Seminario sul tema
Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: -
Sito Web ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it -
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ;
https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/
wiki/Giuseppe_Di_ Giacomo https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC
PAINTERS and playwrights of the nineteenth century found rich material in the
lives of the old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they
created swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries,
as well as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance
artists. At the Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his
grand entry, a large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his
beloved daughter Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the
painter and playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous
intrigue that supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father
as an artist in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in
which the aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio
Zuccato, a Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow
craftsman). The play circles around the inevitable showdown between the
arrogant count and the sincere artist, which precipitates Marietta’s death at
the hands of the entitled, privileged, and violent Alfredo. Parallel to
this love story, the reader is regaled with the homosocial rivalry between
Tintoretto and Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who
mediates a grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite
to defend the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against
Tintoretto’s commission for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria
dell’Orto. Marta’s artist was thus, in no uncertain terms, a struggling genius
waiting for recognition from his fellow artists even at the height of his
success. Indeed, the episode concludes with Titian’s transformative
endorsement—Ora non siete più il povero Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo
Robusti (“now you are no longer the poor ‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo
Robusti”).1 Loosely based on actual historical personages, the tale is almost
entirely fantasy. Such theatrical characterizations are nevertheless of great
importance, for they help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s
sixteenth-century notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth
century, Carlo Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the
artist, were the primary sources for many of these tasty morsels, and while
scholars have tried to sift fiction from reality, some myths are just too
delectable to give up. We still hear repeated, for instance, the unfounded
story that the young Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not
entirely impossible, but there isn’t a shred of solid evidence to confirm the
tale (any more than Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as
a boy so that father and daughter could wander the city streets unimpeded by
society’s strict gender expectations). The image of
Tintoretto-as-rebel would culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner
of Venice”(1964), where the artist is reinvented as an existentialist hero, a
lone wolf fighting against the stultifying rules of the system: Fate has
decreed that Jacopo unwittingly expose an age which refuses to recognize
itself. Now we understand the meaning of his destiny and the secret of Venetian
malice. Tintoretto displeases everyone: patricians because he reveals to them
the puritanism and fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he
destroys the corporate order and reveals, under their apparent professional
solidarity, the rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied
state of painting and the absence of God discloses to them, under his brush, an
absurd and unpredictable world in which anything can occur, even the death of
Venice.2 At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best
played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996),
in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum
(really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a
Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius
for painting “outside the academic convention of sixteenth-century
Venice.” Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto
myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the
celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth.
Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international
banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the
Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie
dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at
the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s
Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at
the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings
and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art. The fete
continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where
slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions
go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian
Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for
audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto
and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art
historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the
Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan
Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general
should take note. IT’S HARD NOT TO get swept up in all the
unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an
opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work.
To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a
pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as
a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs.
Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For
instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption
of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement
was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait
(with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was
called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a
court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas
to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di
San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576
during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale,
destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with
works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably
no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists
might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in
constant antagonistic competition. Many romantic myths are
dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue
essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as
“The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano”
(After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as
influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large,
powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the
Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these
achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section
labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci,
Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found
inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme
foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot
worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and
busted-out straw chairs? The oft-repeated trope that Tintoretto was an
outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born
in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and
Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by
Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon.
While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic
lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the
artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania
Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies
“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize
the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be
more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born woman.”
The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable enough to
give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to befriend
the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi, including the
notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an early supporter of
Tintoretto). Like his father, Tintoretto married up. His
father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential family of
Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di San Marco,
where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest early work,
Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping in headfirst
from the sky to protect a slave from being martyred for his faith. Current viewers
need not be intimidated by the religious matter of the vast majority of
Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and death.
According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one beholder
of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint, and the
piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt like wax
and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic doctrine in
pictures, these works were meant to move, delight, and instruct their audience.
Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive today, he would
be an unapologetic fan of action films and special effects. Looking at Miracle,
with its explosive light and tense shadows, its superhuman heroes and racially
profiled villains, and its meticulous staging of powerful, muscular, controlled
bodies, one might think he invented the genre. No wonder Boschini described him
as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4 Unfortunately, Miracle
of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic. Audiences in D.C. can,
however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing the Lame (ca. 1550) and
the always pleasing Creation of the Animals (1550–53), which the French
philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God as a referee “at
the start of a handicapped race, in which the birds and the fish leave first,
while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their turn.”5
While Miracle has been in the possession of the Gallerie dell’Accademia for
many decades now, seeing it anew, rehung next to the diminutive bronze relief
of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo Sansovino, was one of the
highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With the works placed next to each
other in a darkened room, the similarities and differences were enlightening.
Designed and executed between 1541 and 1546 for the north tribune of the choir
at the Basilica di San Marco, Sansovino’s glowing bronze panel reduces the
scene to a compact, tactile, monochromatic field of chiaroscuro with a vibrant
mass of bodies emerging from the picture plane in dynamic, agitated poses.
Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth year when he painted Miracle,
clearly looked closely at the dramatic effects that could be sculpted out of
gesture, form, and composition alone. To this art he would add the detail of
expression, the intensity of extreme lighting, the terribilità that often comes
with scale, and the incomparable power of color.WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY
audiences might think it odd for an ambitious artist to unveil a painting so
closely modeled on a recent work by another artist, the reuse of motifs was a
common Italian Renaissance practice, as was made clear in an insightful section
of the Palazzo Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and
his assistants, after all, produced more square footage of painting than any
other workshop in the Venetian Renaissance. In one instance, the painter
salvaged an old composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting,
splitting, and reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca.
1550s and 1570s); on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a
previously used figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in
San Francesco della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such
shortcuts were standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones
that had to turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological
paintings, battle scenes, and other pictures. The juxtaposition between
the Florentine sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s
connectedness with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than
once, even signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus”
(which, if you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs).
Tintoretto was an artist’s artist. His profound sense of community comes across
in a rather touching contract found in the Venetian archives and included in
the small but brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at
the Scuola Grande di San Marco. In this document, drafted and signed shortly
after Christmas in 1585, the artist agrees to provide works and forgo any
payment on the condition that the confraternity admit four people: his son
Giovanni Battista Robusti; his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband
of Marietta); the tailor Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo
Girardi. His dedication to his family, friends, and students is also borne out
in numerous workshop drawings, which are well represented in D.C.
Offering important opportunities for artistic communion, drawing had its
pragmatic as well as pleasurable purposes. In several sketches made after a copy
of the ancient bust known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands
working seemingly side by side, line by line, smudge by smudge, highlight by
highlight, with the goal of mastering the visible world around them. The
willful way that these graphic studies dematerialize carved stone and
reincarnate the male portrait head into what looks at first glance like the
image of a flesh-and-blood subject is remarkable. In this sequence, note
especially the Morgan Library drawing rendered by what the curator identifies
as a “left-handed draftsman.” The work seems almost too bold in its deliberate,
sweeping gestures to be “workshop,” but then Tintoretto was clearly a very good
master with some very capable assistants. In Tintoretto’s drawings
and paintings, one often feels that he is “sculpting” with chalk, charcoal,
watercolor, oil, and pigment, ignoring the flat surface of the paper or canvas.
This comes across not only in the speckled black-and-white patterns of his
drawings from sculptures (which he avidly collected) but in his life studies,
too. His rendering of flesh frequently seems to be rippling and quivering with
animal energy, as if the artist were trying to catch the living body in motion.
His is possibly the most atomistic rendering of the human form in the
Renaissance. The frenetic, vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm
(ca. 1577), for instance, exemplify this stylistic peculiarity: the contours of
the mythological body can never sit still but seem to be in a constant state of
flex and flux. (Indeed, Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s
Nude Descending a Staircase and every episode of “The Incredible Hulk” seem old
hat when they appear centuries later.) One of the art-historical
myths destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of
Tintoretto is that Venetians did not really draw. Some did more than others,
and Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we
find words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good)
scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk.
These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for
production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat
(1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could
be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring
grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of
the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction
of foreshortening and the adjustment of figural proportions. Of the
thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National
Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists.
The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to
map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of
light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many
Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for
example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out
his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white
gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however,
Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and
forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was
completed. PAINTERS AND people interested in the way things
are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process
is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the
didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil
sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included
in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in
New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with
flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds
these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland
Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition
catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral,
intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely
scripted. Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of
Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings
who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must
admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly
spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical
composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55): Everything is
simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single
instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the
spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but
each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of
things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated
from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works,
we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its
predecessor which returns, behind our backs, to its original status of
petrified memory.6 Time and space collapse in on the spectator’s embodied
experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as
early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described
in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and
walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a
drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These
fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart
jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7 One must
be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force
of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with
Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these
works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem
capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to
devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick
ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas,
the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently
depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to
engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form
of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but
for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous
variability and richness. In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the
difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly
figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s
schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green,
pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the
master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in
reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black
patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly
into near abstraction. Renaissance drawings are so fragile and sensitive
to light that they can be exhibited only rarely, and many Tintoretto
paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of
their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial
retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on
the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be
missed. Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e
sua figlia: drama in sei quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e
Scotti, 1846, p. 46. 2. Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary
Survey of Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo
Editore, 1983, p. 185. 3.
Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by Anna Pallucchini,
Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966, p. 280. 4. Ibid., p. 4. 5.
Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic of Sensation, trans. Daniel W. Smith,
London, Continuum, 2003, p. 7. 6. Sartre quoted in Lepschy, p. 189.
7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too good an artist for his time’s uses; he
still clamors for a proper role, seeking affirmation, four centuries later.
This thought came to me as whimsy, and stayed as conviction, at the Prado, in
Madrid, which has just opened the second-ever retrospective (the first was in
Venice, in 1937) of Jacopo Comin, who was also known as Robusti, and called
Tintoretto, or “Little Dyer,” after his father’s profession. Tintoretto
(1518-94) is the most mercurial of the five undisputed immortals of Venetian
painting—the others being Bellini, Giorgione, Titian, and Veronese—and I was
eager to see the Prado show, because I have never managed to get a satisfying
fix on him. How could someone so great, able to summon the world with a
brushstroke, be so inconsistent in style, and, on occasion, so awful?
Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls, ceilings, altars,
exteriors, and even the furniture of Venice, performing commissions for free
when that was what it took to edge out a rival. (He was not popular with his
fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest paintings—“Paradise”
(1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet long and
twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and perhaps
history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent, brimming the
Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures whose
profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to ashes. But
he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest daubs—murky
and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too late, that
my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a brilliant,
neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his behalf campaigns
that he bungled when their conduct was up to him. Nothing inferior taxes
the eye at the Prado, which augments the cream of Tintorettos in European and
American collections with a few loans from Venice, where hundreds of his
paintings—including his greatest works, such as “The Miracle of the Slave”
(1548)—reside immovably in churches, palaces, and galleries. The show more than
overcomes doubts about presuming to assess the artist outside his home town,
which he is known to have left just twice, briefly, in his life. The
well-restored canvases, shown in good light, sparkle and blaze. Some make
plungingly deep space with muscular figures of different sizes; your mind
provides perspective that the artist didn’t deign to chart. Others array action
on intersecting diagonals, along which someone is apt to be arriving from
somewhere at terrific speed. (There is an old line that Tintoretto invented the
movies; his ways of enkindling routine scenarios, with thrilling visual rhythms
that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with his brush, light over
dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous density to forms that
are hit with highlights like spatters of sun. He is supposed to have said that
his favorite colors were black and white, but he could be every bit the
startling and seductive Venetian colorist when a commission required it. With
abject competitive fury, he was not above imitating the grand dragon of the
Venice art world, Titian, and his designated successor, Veronese. “As a
matter of fact, he almost never takes the liberty of being himself unless
someone builds up his confidence and leaves him alone in an empty room,”
Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.” For Sartre,
Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind his time—as
the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan élite—and ahead
of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was too intimidated by
the pomp of the ducal republic to recognize itself in his demotic trashings of
aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s
gifts, scolded him for being too fast, careless, and insolent; when Vasari
credited him with “the most extraordinary brain that the art of painting has
ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise. (Vasari also called him
the medium’s “worst madcap.”) As a boy, Tintoretto is said to have
entered Titian’s workshop as an apprentice but was thrown out after a few days,
having either frightened the master with his aptitude or irked him with his
personality; at any rate, Titian’s attitude toward him was plated with
permafrost. Little is known of Tintoretto’s subsequent training. His earliest
surviving work, from the early fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically
sculptural and draftsmanly, embracing Central Italian influences. Then
something happened which the art historian Alexander Nagel compares to the
bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads and coming back with
scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for the Scuola Grande di San
Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of spatial, chromatic, and
kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of Michelangelo and the
coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often cited, for ultimate
greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s
literary ally, added a caveat about his lack of “patience in the making.”
Commissions came in bunches to the new hero, but solid status skittered out of
reach. He compensated by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian
refused to slacken his grip on preëminence, let alone die. When he finally
expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no
peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading painter, he
responded with pictures as flailingly ambitious and various as ever. Three from
the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,”
the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a churning land-sea
battle scene, with scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which
you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly
fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and
breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend
from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which
took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification
of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence”
is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory
whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for
Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip
IV. “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the
show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with genius and a
strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a witty man who
never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand
lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a glittering
still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty old men
(one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the canvas) from
behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into the far
background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag. But the
picture’s form is too disorienting to sustain any particular response,
including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of
the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions,
indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and
confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling
question. No other great artist before modern times, in which shifting
contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is
addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate,
and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist
encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio è che l’orizzonte
problematico entro il quale si muove da sempre la pittura faccia tutt’uno con
le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale, soprattutto nella
riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua atten- zione sul
problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi aspetti iconici.
Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale problema: l’immagine
può essere considerata come og- getto particolare, o come immagine di un altro;
nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta
un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che l’immagine rappresenta.
Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione si rivolga o al-
l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che l’im- magine
rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di distanza un
pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il problema
dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente
improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più
delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura
estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve
dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di
reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per
esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein
porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con
un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto
(un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni
hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se
io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo
rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano
davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa
mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se
stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua
propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali
termini tuttavia Wittgenstein non in- 7 tende affatto contrapporre
un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare
l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e
un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di presentare
la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto, continua
Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il
tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein queste due
modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa come fine,
sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di ‘immagine’. Che
il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo chiarisce lo
stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi la questione
relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una
proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la
stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra.
(Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel
primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti
proposizioni; nel secondo, qual- cosa che soltanto queste parole, in queste posizioni,
possono esprime- re. (Comprendere una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge:
«Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? – Preferisco dire che
questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto
del comprendere» 6. Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di
com- prensione – quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il
pensiero espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi,
rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘esteti- ca’,
caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere riformulato in
altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ –
sono imprescindibilmente connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa
interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione all’immagine. Il
fatto è che quel particolare tipo di immagine che l’opera d’arte costituisce
può rimandare all’altro da sé, soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se
stessa, ‘dice se stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in
quanto è ‘pre- sentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera
viene rap- presentato riceve la sua ‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma
pro- prio ‘questo’, grazie al fatto che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’,
secondo le sue ‘linee e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi
deve essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presen- te sotto i
nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima vol- ta e, proprio per
questo, non può che procurarci stupore e meravi- glia. Scrive a questo
proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e
le narrazioni fantastiche ci procura- 8 no piacere, tengono occupata la
nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare
che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre
cose che ti procurano turbamento [...])» 7. Già nel Tractatus Wittgenstein
aveva affermato che «La tautologia segue da tutte le proposizioni: essa dice
nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il fatto che ogni proposizione dice,
rappresenta qualcosa solo in quanto in primo luogo è una tautologia, ossia
‘dice nulla’, e tale tautologicità della proposizione è ciò che la proposizione
‘mostra’ in ciò che dice. Secondo Wittgenstein il carattere logico della
proposizio- ne in quanto immagine 9 è dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di
qualcosa, ossia dal suo rinviare a qualcosa d’altro da sé. In questo con-
siste, sempre secondo Wittgenstein, la «fondamentalità» della logica, giacché
«se segno e designato non fossero identici rispetto al loro pie- no contenuto
logico, allora vi dovrebbe essere qualcosa d’ancora più fondamentale che la
logica» 10. E tuttavia Wittgenstein si rende con- to che «Nella proposizione
qualcosa dev’essere identico al suo signi- ficato, ma la proposizione non può
essere identica al suo significato, dunque in essa qualcosa dev’essere non
identico al suo significato» 11. Questo qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire
di differente, tra la proposizione, o l’immagine, e il qualcosa che viene
rappresentato o detto, è ciò che esse mostrano o ‘presentano’. Tale
presentazione, nel suo costituire la condizione interna al rappresentato, è
anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di unicità, ossia di
individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a dire a ogni
identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del rappresentato
qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera d’arte trova
il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del Che cosa»
12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò che v’è» 13.
C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della logica 14. La
rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra, che si
manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della
rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta
l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel
visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante
l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein
sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì
all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il
silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso
mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò
che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e
rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra
cono- 9 scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a
mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua
‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e
rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della
natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme
aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi
all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua
del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della
presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale
non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una
condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di
Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del visibile,
il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal momento che
questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia del
Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che l’arte
deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è
rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo
ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera,
nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e
presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si
lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che
possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo
rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo
dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa-
ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di
ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’
dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta
par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di-
scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre-
scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché
mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta
paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale
non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un
assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij,
attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in
essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e
l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere
con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i
problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella
contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10 L’arte astratta fa
appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto
della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è
in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già
Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati
d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a
una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo,
la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra-
dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le
mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In
Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario,
l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione
della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La
concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di
interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il
«misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart,
che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in
grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere;
un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo
naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti
e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore»
si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di
un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto
rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a
quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose
rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi
dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione
delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di
Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si
pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa
la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein,
il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso
consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque
che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la
loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile
limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il
non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità.
Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da
all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere
tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11
del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno
ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato
manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»:
è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come
‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando
solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale
totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto
interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij,
come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona,
altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera
su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma
una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella
dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di
Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia
– tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva –
mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è
la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore
suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ
non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere
come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo
apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad
alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in
questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo
spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal
pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi-
ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione
logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione
dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in
relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità,
la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il
«che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra,
non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa
che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come
l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere
infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli
oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto
spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla
rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che
rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12 E,
se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa,
ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di
dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il
silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve
continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della
pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian
presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò
che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non
nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si
mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la
sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta
alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente
nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale,
nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in
rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la
‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale
ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione
pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi
riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non
del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di
Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo –
definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la
presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del
mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca
una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e immutabile,
retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera di Klee è
‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel divenire
delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito dell’artista
è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione, portando avanti
e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva, non vede nel
mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale genesi si
riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi
dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel
fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura
come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così
l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so-
miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13
no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata,
ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra
somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di
«somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana
– e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso
nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa
della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna
logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento
di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono
presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così
l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto
del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici
determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun
principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale
evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del
ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa
necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel
«che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma
Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta
insomma di quel senso che è la condizione dei tanti significati possibili:
l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione
del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque
soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per
questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della
creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine
e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A.
Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”,
Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de
Gruyter, Berlin – New York, Signum negli scritti filosofici. Wittgenstein,
Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino (ed. or. Philosophische Untersuchungen,
Blackwell, Oxford. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni
1914-1916, Einaudi, Torino (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London
1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini si equivalgono, dal momento che
«La proposizione è un’immagine della realtà» Vedi su questo G. Di Giacomo,
Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche
Editrice, Parma Wittgenstein, Tractatus..., cSi veda in proposito E. Garroni,
Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano. L’espressione è usata nel
senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, Gadamer, Verità e metodo,
Bompiani, Milano (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura;
‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona,
segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente contenuto
formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giametta:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- il volo d’Icaro e
l’implicatura di Sanctis – filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo. Grice:
“Giammetta is a good’un, but you gotta be an Italian to appreciate him fully,
or at least have gone to Clifton, as I did!” --
Grice: Giametta’s philosophy is full of Italianateness: ‘il volo
d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian heterodoxies,’ and most Italianate of
all, the Dantean reference to Nisso, Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha scritto saggi
di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche romanziere,
estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza filosofica e
morale; attitudine stilistica: la prosa
di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente incontro di letteratura e
filosofia. Nella "Trilogia dell'essenzialismo"
(composta da “Il Bue squartato” -- L'oro
prezioso dell'essere e Cortocircuiti), elabora un proprio sistema di filosofia erede
del naturalismo rinascimentale. L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata
esclusivamente sulla natura, intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans”
(cf. Grice, implicans, implicaturus) sia
come “naturata” (cf. Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata).
Grice: “The problem: ‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive
la condizione umana come determinata dalla combinazione di due elementi
eterogenei: dall’essenza di tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle
condizioni di esistenza, che sono spesso fin troppo diaboliche, a cui sono
sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento di questi due elementi
(essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo, spiega le ragioni per cui si
afferma o si nega la vita, si è ottimisti o pessimisti...". Alter opera: “Oltre il nichilismo” (Tempi
moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar, Han, Candaule
e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e i suoi
interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della fede.
Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi
nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo”
(Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano);
“Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita”
BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie
crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione
a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La
dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia,
Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli,
Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva,
Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina,
Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo;
Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci
napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo di
timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola. Contromano,
BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano. La passione della conoscenza. Pensa
Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte
in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in
Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ). Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer
Giorgio Colli Mazzino Montinari. DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28
marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al
centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di
cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva,
mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi
proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano
economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i
primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento,
perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme,
come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e
rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso"
(morale, culturale, civile). La famiglia De Sanctis apparteneva a quel
ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i
pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro, che però viveva del
reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon matrimonio"
locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più
dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro (ed anche
per costui la qualifica professionale servì soltanto a sostenere l'orgoglio del
ceto dei "galantuomini"). Come molti esponenti del
"galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro De Sanctis avevano
aderito alla carboneria (in funzione patriottica e antifeudale): dopo aver
partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in esilio per dieci anni,
serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete,
invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata
"scuola di lettere" (un ginnasio privato). Nel 1826 il D. fu
trasferito come ospite ed allievo presso lo zio Carlo. Dai
"ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco delle
discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la durata del
corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica, Poetica,
Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e inoltre
"l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una serie di
notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo
("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi
in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di
Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati
si recitavano centinaia di versi latini a memoria"). Poiché i cinque
anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due
anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don
Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni
sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke,
Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e
questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come atteggiamento
mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia dell'ambiente
familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una
cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad
Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi
paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di scarsa
chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi
giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò
ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica
giuridica liberale. Questi studi avrebbero dovuto rappresentare il punto
d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi
di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a
determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello
"zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde sulle
fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno economico
per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa,
restavano ben cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo
gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben poche gratificazioni
affettive o sociali). Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima
(1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo
ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio
Puoti: di un "maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno
dei punti di riferimento più vivi della cultura napoletana e che presto prese a
stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che nascono i primi
scritti a stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di
Giano Nicio Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul
Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti
dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite de' santi
Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari (1836). Non è
da qui però che si può ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla
fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo
magistero. Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità
alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui penetrare con
il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano allora e
restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e maestro
(questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga sottovalutazione
critica dell'eredità puristica attiva all'interno della metodologia critica desanctisiana);
ma dalla sua precedente esperienza culturale egli aveva ricavato anche un
complessivo eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio
"settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima
pratica di letture, che egli sottolinea con forza nella Giovinezza e che si
riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi",
risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre
a tanti latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile quantità
di classici italiani maggiori e minori, dai trecentisti a Metastasio, e poi
Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e
Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea"
andava rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di
lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a Richardson, da Milton e
Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo). La professione
dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie all'intervento del marchese
Puoti), più o meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima
alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della
Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con
la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli
all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua
stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti
documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si
attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima
scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella
definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il
decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto
(nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo
e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti
affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita,
e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche,
politiche. I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo
insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto
dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei
diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri
libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta,
perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a
stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e
dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il
neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello
storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni
sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune
presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D.
testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della
scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano
appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della
ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo
romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro
possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di
precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande
Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il
primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F.
Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana
("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune
caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito
postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario,
ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il
Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà
attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati
alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i
quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain,
Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si
avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in
cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro
sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione
nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante
rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi
allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce
dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica
(1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno
di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della
storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che
aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia
d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone.
Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e
ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della
"prima scuola", attestando una visione laica della storia, un
rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della
"concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione
di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della
Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono
a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il
D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista
napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange
estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si
schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello
che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La
Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta
rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato
per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini e C.
Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo
Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni
segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni
altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia
borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in
Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco
Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere
"uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e
da Ledru-Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì
due anni e mezzo di "carcere duro", e fu infine giudicato
politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito
dal Regno e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici
napoletani (in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in
esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il Piemonte,
inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi
rifugiatisi (tra i meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P.
S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz). Gli scritti
del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della
"spinta a sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal
1848. In Calabria furono elaborati due saggi (Introduzione all'Epistolario di
G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione
dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano
la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo
un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In
Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato
Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello
goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione
personale-politica dell'autore con l'intellettuale perseguitato). Negli stessi
anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale
di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua
originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici
(praticamente una sintesi completa dell'intera opera). Ma il testo più
interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La
prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si
esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di
"giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la denuncia di
ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo degli
anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica
chiaramente ispirata all'interpretazione "di sinistra" della
filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti
del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del
primo romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e
materialistica del poeta di Recanati (che offre, del resto, il modello
stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia metaforica del
pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo,
l'ingiustizia sociale). A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo
1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa,
ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico lavoro
fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della
signora Eliott (dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la giovanissima
Teresa De Amicis - che riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni
successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come Virgina
Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi
di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò, tuttavia,
attraverso due corsi di "lezioni pubbliche" su Dante: conferenze
organizzate dai suoi amici per soccorrerlo "nella dignitosa povertà
dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana. Nel
1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino
pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua
critica "militante". E allo stesso anno risale anche il primo
episodio di giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto
di Torino, di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè
contro l'ipotesi di una sostituzione "diplomatica" della dinastia
borbonica di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la
prima fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene
proposta come unico possibile strumento di unificazione della nazione, in
un'ottica di "patriottismo costituzionale" cui, in seguito, egli
resterà sempre sostanzialmente fedele). Nel 1856, sempre per
interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un
importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana
presso l'Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase
fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento (anni
di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto
importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra
miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia
cavalleresca) e il contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria
avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh,
Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare
criticamente (per esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner
e di Schopenhauer molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero
l'Italia, o cercando di capire i limiti concreti del ribellismo dei mazziniani
quando Mazzini era ancora un mito in Italia). Dei corsi danteschi di
Torino non restano manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti
di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di una non mai realizzata
pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi (undici di argomento teorico,
diciannove dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti
romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi
dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante.
Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi figure
alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata,
Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei
maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e
prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a
Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da
appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su
Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne
tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui
raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti
giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici).
Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per
LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i
"grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e
ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La
Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine
dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di
oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia
(1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella
sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta
la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più
problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857
Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del
sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto
contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D.
definitivo). Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o
d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte
raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno
"militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo
critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente
politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a
livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del
romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo
manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista:
il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi
colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa
sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della
letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza:
di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore
riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi
non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è
forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto,
i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione
rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati:
essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi
politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel
"vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi
comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della
"grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio,
e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi
ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con
parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di
poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi
"critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla
"meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del
presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e
retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa
tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi
contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la
Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la
rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco,
nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa
rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e
Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e
la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours
familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito
il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e
"Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il
recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei
grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo
ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di
"realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il
sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee
riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un
uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio
poetico". La progressiva conquista di un punto di vista
"realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai
ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi
sul Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine
"realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui
lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come
strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti
d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio
filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale
contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer
e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata
alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo
nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di
Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove",
"del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera
"un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La
filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica
dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo
Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di
stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in
Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva
riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima
vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer;
ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto
interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria)
dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza
non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo
"spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile
"inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della
retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce
come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al
progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è
scettico, e ti fa credente"). Dopo le speranze e le delusioni della
seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò
improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un
ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito
garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito
"piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di
preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di
Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della
guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso
violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo,
fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il
novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme
liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e
propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad
insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a
Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo
gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri
elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò
l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della
luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come
il periodo eroico della sua vita). Eletto deputato al primo Parlamento
nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con
Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata
a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta
e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre
una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere
con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo
del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza
teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi
reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori,
quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo
effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero
... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo
ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di
"scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché
l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate
furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella
che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad
insegnare fisiologia nell'università di Torino). Dopo questo incarico
ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un
anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione
rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via
via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea
mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si
pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al
gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio
nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai
tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un
importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo
ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della
sua partecipazione politica. Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria
Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero
figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la
sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di
réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno
inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che
gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò
in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici
dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura
italiana, i Nuovi saggi critici. Il Saggio critico sul Petrarca (1869)
ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con
"pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso
si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al
suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e
analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista
per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata
dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli
anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo,
dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti
panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita
dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente",
secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In
quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica
ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè
dalla sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico").
La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari
"situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei
momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti
dall'educazione "rettorica" e da una visione
"spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla
figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la
creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua
"realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si
spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa
"situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia
sublime"). La Storia della letteratura italiana nacque come testo
scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran
parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena
illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto
complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione
nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del
D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta.
Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della
letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio
direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi
scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un
graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi
della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa
morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché
l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso
mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione,
di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o
divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la
forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo
letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo
monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe
soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime
elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali,
muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra
fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal
familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di carattere
mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le
caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della
Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come
"scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della
corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità",
radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di
radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma
centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che
si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto
d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il
breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce
dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca
della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo
moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per
esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono
"l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che
restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo"
Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai
Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla
"maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge,
romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca
"commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui
nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base
ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto
ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa
poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di
poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di
passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri,
quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi
letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il
"Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un
"artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma
è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante,
"volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e
latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da
una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza
laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione",
"imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli,
la storia della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il
Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della
dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un
"niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo,
non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle "alte
regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede
l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni
storiche per un avvicinamento tra cultura e "popolo" (ad esempio,
nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti grandi vertici di
raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine
il Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura
"idilli" ed "elegie", "voluttà" e
"musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al
movimento della cultura europea e a tutte le lotte del pensiero",
stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano".
Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli
episodi letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori,
dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La
Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto
(L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi:
inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi
dell'intero Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso
scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo
adulto" (cioè divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà
"borghese", pur nell'accettazione di fatto della realtà
"cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza
ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto
ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato storico-culturale. Il
poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura
controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in
senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella
"falsa" religiosità, ma nell'"idillio",
nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato
al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e
Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta
alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che
riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia
opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato"
("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia
rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della
"teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la
verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza
accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti").
Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve
moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite
d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a
simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché
il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui
esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai
giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi
indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che
indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e
concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene
attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a
distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva
della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La
nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi
è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla
"scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il
miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà
intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno"
(i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire"
per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella,
Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle
spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come
s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante
ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la
scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo
autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con
dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi
vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti
negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua
tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia,
modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario
è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
"esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G.
Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale
moderna". Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei
Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti
per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e
che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico
è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che,
recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su
"pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che
nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di
autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si
contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi
sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in
cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano,
così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed
afferma che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro
interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia,
filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata
(risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia,
esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera
maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa).
Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia
risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868.
Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma,
per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il
materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e
impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la
stroncatura di un purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e
intelligente rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu
"bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione"
nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del
"metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della
fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta
storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del
1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero
in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e, in particolare,
delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di
"monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e
scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi
prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in
chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio
politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici
(Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in
questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica
"attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo
l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del
Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra
Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui
"particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale,
politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase,
di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del
Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni
passo"). Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura
comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal
1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola
napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su
Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi).
Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici,
Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli
orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe
continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il
1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle
elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in
particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale,
la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia
d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche
pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo
Un viaggio elettorale, 1876). Al 1877 data il terzo e ultimo episodio
importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno
battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e
antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto
soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D.
il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880,
riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la
"scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la
formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di
cultura "scientifica" da sostituire alla "cultura
retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del
suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento
dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla
rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave
malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni
di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando
alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della
riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883,
lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della
malattia, si dedicò sino alla fine. Come tutti i principali episodi
dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola
napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F.
Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso
(gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di
una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a
Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una
sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli
strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima
scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è
identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale":
da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza universale":
la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la
"forma" diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la
massima realizzazione della letteratura "moderna" in Italia e le
"scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte
né su quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo
svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni, dividendola
(secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da Settembrini e da
altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola
liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola liberale fu
dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di
giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione
popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno
esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi,
Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini ripropongono una dimensione
"metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato
su una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante
excursus riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco
noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con
interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica,
e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti,
Berchet, Niccolini non possono fornire il modello della "nuova
letteratura". Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico
che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione del principio
del "realismo". I saggi più importanti elaborati dal D.
nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo
(alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879).
Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da
ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878),
Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo
è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col
materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è
molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e
attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni)
"l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac
forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la
reazione, l'autoritarismo sempre in agguato. Nell'ultima fase della sua
vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità"
del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici
all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui
sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove
concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio
"familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con
estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e che,
del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica.
L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio
elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della
provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco
chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col
patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del
testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può
dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in
contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni
prima dei Malavoglia (1881). Alla vigilia della morte (sempre su materiali
autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio
familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di
un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la
prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il
frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il
frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due
nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici
della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti,
professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie
serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico"
di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo
nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della
"prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D.
(utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola")
vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando
come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la
Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e
teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma
resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la
scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le
utopie libertarie del primo '800 napoletano. Nell'ultimo anno
d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era
stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di
vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della
vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia
critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta,
chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i
grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di
Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e
fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si
giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di
"realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo
romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure
femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o
quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile",
ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del
Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era
stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti considerazioni
della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e
antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi
leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima
canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In
quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella
poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro
motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il
motivo della Nerina è il riapparire". Lasciando da parte la fortuna
del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei giovani allievi
di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D.
bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica:
lo scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli anni
'40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di questo
scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò
più meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel clima di
positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione
globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la pazienza
della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva
"difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A
sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del
tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo decennio
della sua produzione, con la dichiarata opzione "realistica" e con la
forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa della pregiudizialità
del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento
osservatore straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso
l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un metodo
critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione culturale e
ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo,
il merito di aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel
D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata cura di editore e di studioso
del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a
"rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la
riduzione a teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel
1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze della
critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più
autorevoli interpreti di questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe,
d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al De
Sanctis" di segno fascista). Proprio dall'interno della scuola
crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata,
tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero
della complessità della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il
significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua
"intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta
sottolineava l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la
sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come
"vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli
studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì tutta la
ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo
(1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel
suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la
cultura" (1942). Infine, presentando una importante antologia di scritti
desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione
di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della
"riduzione crociana" del D. e la necessità di tentare finalmente una
comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro
problematicità anche irrisolta. Ma lo spostamento ideologico dell'intero
dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci (Letteratura
e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il
tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi è offerto dal
De Sanctis". Da qui appunto si partì per un'ampia verifica
dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua
critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che, secondo
Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto correlata al
bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro il
"disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non
crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative
editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su testi di alto
livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e
dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle
"opere complete". E non a caso, negli stessi anni, apparivano fuori
d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due importanti
interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della
critica moderna del 1957 presentò il D. come autore della "più bella
storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P.
Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e intelligente
biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini
nuove e approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S.
Landucci, G. Oldrini). Alla fine degli anni '70, in un clima culturale
ancora una volta mutato, e ormai insofferente dell'insistenza
sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di
uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto
ai "valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le
diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa
esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno
napoletano del 1977 su "De Sanctis e il realismo". Con maggiore
cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario desanctisiano (F. D.
nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo
dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di
attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora
aperta e interessante) problematica desanctisiana, di tricollocazione"
storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua
ricerca si mosse. Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si
trova (tranne una parte di quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a
Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis
Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i
voll. dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883. Le raccolte degli
scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono
oggi quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di
L. Russo, incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a
cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario).
La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel
sec. XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e
la scuola democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura
di W. Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce
19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti,
1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a
cura di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini,
1954. La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume
seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G.
Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di
scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo
(scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T.
Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672;
Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo
(prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di
estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della
letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La
letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D.
Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura
di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica
(a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C.
Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici,
conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo
Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F.
Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi
dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da
discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a
cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M.
Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a
cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura
di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie
degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N.
Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961). Fonti e Bibl.: Per la bibl.
delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro
varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis,
Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia
desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne:
M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio,
Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola,
LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo
decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari
1985. Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi
d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari,
F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution
intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E.
Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener
presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia
della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo
storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola
del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia
desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in
Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80;
G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani,
L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i
generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta,
Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono
indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli
1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D.,
Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a
Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F.
D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi
(1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso
Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di
F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi,
D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture
zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono
da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo
stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del
D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un
secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico
e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e l'istruzione
tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit., pp. 451-516; G.
Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario, Milano 1983, ad
Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di F. D., nonché S.
Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E. Bottasso, D. ministro
e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali (tutti in F. D. - Un
secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri, cfr. In memoria di F.
D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast., Napoli 1983, a cura
della Comunità montana "Alta Irpinia"). Tra gli studi critici
di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura della nuova
Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del Croce, cfr. G.
Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp.
158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia 1928 (poi Firenze
1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura italiana. I minori, IV,
Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid
19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari
19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della civiltà moderna,
Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F. D., Milano 1963
(sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la risposta di S.
Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e
l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il
"diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana
(Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le
introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da
tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in
Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti
(Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971),
nonché quelle di Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella
prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal Cinquecento al
Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De Sanctis,
Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie,
Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura
italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della critica moderna,
IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le miscellanee: F. D. e il
realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della
cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura
("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino 1984; D. -
Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D., Bellinzona 1985;
F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli
1989. Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli
scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica napoletana dell'800,
Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già citate). Per
quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni, cfr.: N.
Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà moderna, XIV
(1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia (F. D., S.
Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a cura di G.
Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella storia della
cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit. Tra i tanti altri saggi,
cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D., Ravenna 1968;
F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna Moretti, La lingua di F. D., Firenze
1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F. D. deputato di
Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A. Marinari, Il
"viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi" e altri
inediti, Firenze Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza politica
di F. D., Napoli Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica,
Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra
coinvolgimento e ideologia, Roma; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro.
Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e
la questione della lingua, Napoli 1984. Per i rapporti con le altre
letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese
(ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise,
Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo
dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in
Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari
Westhoff, Schiller e D., Roma Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D.
in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo
angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in
F. D. - Un secolo dopo cit., Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F.
D. nella storia della cultura cit., e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D.
- Un secolo dopo cit., pp. 651-63. Per la fortuna critica dell'opera del
D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani
nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De
Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi,
Longo, Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma
Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate
a proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il
volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo
Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il
pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e
Montanari! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta:
cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giandomenico: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- l’apertura semantica e l’implicatura di Galilei – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Carunchio).
Filosofo. Grice: “I
like Giandomenico; he makes excellent commentary on Bernard’s controversial,
deterministic idea of life – from amoeba to man, in Russell’s words --.” Grice:
“Surely this has connections with my method in philosophical psychology, from
the banal to the bizarre, which actually starts with philosophical BIO-logy!”
Grice: “Giandomenico shows that while Bernard never thought he had to provide a
‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does propose this or that criterio: for
one he tries to prove that self-nourishment cannot be the criterion – but I’m not
sure what the positive he poes, if any!” Si
laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce,
Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia nei Licei. Studia filosofia della
comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per
la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e
Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della
storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica,
teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria
del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha
trattato il contributo scientifico di Pende. Analizza i fondamenti
dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in
evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed
informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche
nella ricerca umanistica. Le ricerche condotte nell'ambito
dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi
linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del
livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como
‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio
di software dedicati. Il primo progetto ha riguardato l'analisi della
conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di GALILEI. Usando un
software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava
un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico)
galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi
“semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi
spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con
quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.
Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento”
Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “
Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna,
Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: Laterza); “L'uomo e la macchina
trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari,
Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea
umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G.
Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa
Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo);
“La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore);
La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando. Triggiani, Cultura, un fronte
unico. Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del
Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in
Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in
L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza. Milano, Angeli. L’esperire immediato e
l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile rapporto che
s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra esperienza
diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene che le
scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento,
diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla
comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo
nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al
mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro
stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge
al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli
scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non
si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un
tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento -
perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e
della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai
complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo
proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto
si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco
un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi
esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un
astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di
quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la
fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di
complicati apparati mediatori del tipo: un satellite, un sistema di specchi,
una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che
digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e
processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un
apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un
apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer,
il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il
video, una stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la
scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie
cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la
validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero
iter della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta:
rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e
interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione
scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo
libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo,
l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a
ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per
questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto
con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione
della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante
strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica
contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata
da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue
barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la
coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna
alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione! Questo
materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) 4 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa
accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto
empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e
strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.La tesi di Husserl è,
invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette
empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle
intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci
coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta,
la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti
noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le
scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e
le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli
oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di
qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica,
ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo
esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono
attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo
circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre
esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di
validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza,
ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già
possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in
quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a
piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione,
mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto
nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in
quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci
troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati,
corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del nostro
porre problemi e del nostro ricavare soluzioni teoretiche in relazione alla
natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro
che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o,
comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o
pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi
in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità,
oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità
di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi
possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che
nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo conoscerci
reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli atti del
pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come fatti
obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione o un
rifiuto critico” (Husserl, La crisi delle scienze europee). Ogni pensiero
scientifico e qualsiasi problematica filosofica, secondo Husserl, implicano
sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il mondo esiste, che è già
sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di un’opinione di qualsiasi
tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è
e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo
mondo, il quale, però, è sempre già da prima, che è già a partire dalla vita
prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi, presuppone il suo essere; ma,
insieme, si pone come fine la trasformazione del sapere prescientifico (che è
imperfetto sia nella sua portata che nella sua consistenza), in un sapere
compiuto, conformemente all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben
determinato, e verità scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle
verità in sé. In altri termini, il suo compito è quello di attuare questa
esplicazione attraverso un processo sistematico, attraverso gradi di
compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante progresso. In
realtà Husserl tende a realizzare una descrizione dello strato precategoriale
(o antepredicativo) posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo
strato può presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la
destinazione predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un
precategoriale non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o
categoriale). In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di
interpretazione ed esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè
dell’originario d’esperienza. Il criterio che egli assume, peraltro, richiede
che ogni fondazione e chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di
vista fenomenologico, la forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo
il rapporto tra sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico
alle due “fonti della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto
tra “sensibile” e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è
collocato nella sfera del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli
atti logici superiori. di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune 3 Agrimensura empirica e geometria
scientifica Tra le pagine più note, nelle quali Husserl analizza il rapporto
fondativo del precategoriale incarnato nel mondo-della-vita ed il categoriale
consacrato nei paradigmi scientifici, quelle dedicate alla genesi della geomertia
e della geometrizzazione della natura sono particolarmente idonee per le
tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa subito che la sua indagine
“genealogica” non mira ad una ricostruzione “storiograficamente corretta” delle
origini della geometria (emblematicamente assurta a simbolo della scienza
“esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole rintracciare il senso profondo,
originario della sua collocazione categoriale. “Il problema dell'origine della
geometria (e sotto il titolo di geometria raccogliamo qui, a fine di
concisione, tutte quelle discipline che si occupano delle forme esistenti
matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un problema
storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri
che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né
quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro
interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si
è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva
per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è
presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi
presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori.
Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più
antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire
agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi
“originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti.
Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente
nell’ambito delle generalità, ma, come La rivincita della conoscenza comune
risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione
offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti
che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire,
compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La
nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni.
Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla
tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente:
noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è
costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è
spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua
precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E
tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente,
un sapere che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”.
(E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le
radici, nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei
concetti geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di
determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti
sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi.
Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo
vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro,
presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e
il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque
metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della
misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine.
Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci
problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente
disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare
una certa classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o
inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In
tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la
riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione
tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra
forme elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento
teorico, ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente
ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non
ha evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine.
In altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate
proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge
dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È
innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”,
ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un
racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione
geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione
“genetica” non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra
tuttavia, in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle
sue origini. Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione
operativa di alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme
fondamentali, in quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla
metodica esercitata già nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo,
dapprima in modo rudimentale poi secondo regole d’arte, alla metodica della
misurazione e in generale della determinazione misurativa. Le sue finalità
hanno un’origine, che è rivelatrice, nella forma essenziale di questo
mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente esperibili e sensibilmente-
intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi pensabili, a qualsiasi grado di
generalità, si connettono continuamente le une con gli altri. In questa
continuità essi riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che
è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche
quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non
è determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non
la veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a
costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato,
il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si
tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti,
degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi
rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della
somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di
grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle
distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni
presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità
di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono
concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed
empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere
scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare
intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in
sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si
capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza
“filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere
obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente-
praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico
in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare
così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la
geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl,
ibidem, pp. 57-58). Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la
guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere
documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state
anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i
problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche
stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera
motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un
“mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è
costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo
ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote
a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi
progetti. Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa
interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le
scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e,
tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua
attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche
logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio
(1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con
il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a
Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la
logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per
quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è
sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere
l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto
mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la
capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente nella
percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò, si
differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria
specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che
bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa.
Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è
l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista
della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in
logica trascendentale. Scrive Husserl: “Chiarito il contrasto tra scienza
obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale
connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali,
la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in
quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso,
di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita,
nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una
costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi,
viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri
scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma
così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di
persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone
quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni
logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo
sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche
costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono
“rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in
sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro
telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta
nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e
alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del
mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella
delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche,
sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le
formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi
originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli
scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc.
che sono state elaborate in comune (Husserl). Come potete notare, si tratta di
un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla
dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si
presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la
logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha
ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie
leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto
soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo
motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non
tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno
sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e
sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista,
Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto
alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si
configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico
sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla
logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una
forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai
fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche
storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche,
ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne
rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica
è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica,
filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in
contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della
questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e
nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Le scienze, invece, che
non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento
trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure
tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico.
Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots
karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica,
Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi,
la filosofia positivistica italiana -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots
karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura mistica – l’implicatura di Catone -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Muggia).
Filosofo italiano.
Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because I fought against
the Italians during the so-called ‘second world war,’ so-called!” Grice: “But I
would be willing to expand: if Giani developed what he aptly called a
‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his ‘mystique.’ Of
course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola di mistica,’
– and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica".
Partì come volontario di guerra e morì sul fronte. Frequentato il Liceo
ginnasio di Trieste. Si trasfere a Milano, dove si iscrive a Milano e quindi ai
Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente apertura della scuola
sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e moschetto" della scuola
di mistica. Ne divenne direttore, carica che lasciò alla fine dell'anno
seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da tenersi a Roma in occasione
dellaI iunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze che
coincide anche con il decennale della Marcia su Roma in cui enuncia i principi
della nuova scuola. Su impulso di G. si comincia inoltre a pubblicare i
Quaderni della scuola di mistica. Poche settimane dopo la riunionesi
dimise da direttore con una lettera inviata a MUSSOLINI, per contrasti interni
con il segretario politico dei Gruppi Universitari. Imputa le dimissioni al
mancato trasferimento della scuola nella vecchia sede de Il Popolo d'Italia
chiamato anche "Il covo" La richiesta di entrare in possesso de
"Il covo" punta ad ottenere il possesso di uno degl’ambienti più
importanti dell'immaginario fascista. Continua quindi a collaborare con diversi
quotidiani come "Il Popolo d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti
sull'ordinamento sociale dello stato" gli fa ottenere la libera docenza e e
quindi la cattedra a Pavia ma parte volontario per la guerra arruolandosi col
grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel Battaglione"Vercelli".
Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della
chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano.
Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di
Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione
della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e
sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista
mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si
dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca
prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore:
Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna
fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al
"biologico" La Cronaca
prealpina dopo la nomina di G. a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.
L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del covo ai
"mistici" della Scuola. Su impulso di G., con una cerimonia
presieduta di Starace, la sede ufficiale della scuola di mistica si sposta nel
medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia,
chiamato il covo. Il covo negli anni e stato trasformato in una galleria. La
palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia d'onore svolta da squadristi e combattenti. Per
esplicita decisione di Mussolini, e ufficialmente consegnata ai mistici della
scuola. L'evento e vissuto come una autentica consacrazione dei insegnanti
riuniti intorno a G.. In realtà la consegna e già stata disposta come risulta
da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il consiglio direttivo e ricevuto
a Roma da MUSSOLINI. Mussolini li aveva spronati continuare nella loro
attività. A Milano, in occasione del decennale dalla fondazione della
scuola, organizza il convegno di mistica che nelle sue intenzioni dove essere
il primo della serie. Obiettivo che sfuma a causa dell'entrata in guerra.
L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ha l'adesione della maggior parte dei
filosofi dell'epoca. Come gran parte dei mistici, partecipa nuovamente come
volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vede il presagio
di una rivoluzione in vista di una nuova era. Inquadrato nel reggimento alpini prende parte alla battaglia
delle Alpi Occidentali contro la Francia venendo decorato con la medaglia
d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito
all'armistizio torna alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra
in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere
soddisfazione. Alla fine ottenne di partire
come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca
prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della regia
aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività
di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune
azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in
Italia dove riassunge la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente
incorporato nel reggimento alpini riparte infine come volontario per la
campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la
conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa
missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco
ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi
i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico
L'Illustrazione Italiana scrive, senza riportare dove o come avrebbe potuto
registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte
avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come
un dio o un demone". Il corpo di G. anda disperso e gl’altri
assaltatori che prendono parte
all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. E
pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che e anche vice-direttore
della scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di
guerra sono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui e caduto.
In quell'occasione, richiesta un'udienza al duce, chiede che puo partire per
l'Albania il cognato Guido G. e il fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero
la salma sepolta in maniera anonima in territorio greco. Di qui la salma e
translata nel piccolo cimitero militare di Klisura. MUSSOLINI e preso
come principale punto di riferimento dalla scuola di mistica. Elabora un discorso
programmatico in cui enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica
fascista. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare,
interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola
di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori che sono nell'opera del Duce. (G. in La marcia sul mondo). Inizialmente i
principi esposti da G. fanno parte di un discorso più ampio da tenersi a Roma
in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle
Scienze. L'ampio discorsoe poi pubblicato nella serie dei "Quaderni"
voluti da G. con il titolo "La marcia sul mondo della civiltà". Si
impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo rivoluzionario, riallacciandosi
idealmente all'esperienza delle prime squadre d'azione e degli arditi della
Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una più radicale rivoluzione
coniugata al recupero di una più integralistica tradizione. Ma più che legati
agli enunciati politici del manifesto di sansepolcro i mistici di quella
esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro la borghesia affaristica del
primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante proprio di questo
mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della rivoluzione
permanente e in contrasto con gli opportunisti e i trasformisti. Individuava
nell'epoca contemporanea *quattro* principali mistiche, destinate ad apportare
in un primo tempo dei benefici ma poi a fallire: liberale, democratica,
socialista e comunista. Liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo
sono le quattro mistiche dominanti nella societa. Il bilanciolo abbiamo già
visto è per tutte negativo. Il liberalismo porta all'anarchia. La democrazia porta
all'instabilità politica e sociale. Il socialism porta alla otta civile. Il
comunismo porta alla vita primitiva. Queste quattro mistiche sono pertanto anti-storiche.
A fronte di esse l'unica mistica in grado di superare tali crisi era quella come
sviluppato nel capitolo intitolato "La marcia ideale" la cui
conoscenza e diffusione presso le masse era compito della élite. Medaglia
d'argento al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'argento al
valor militare «Volontario nella guerra d'Africa ove prese parte volontario a
diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne di essere anche in quest
guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato all'11º alpini volontario
a due azioni del battaglione Bolzano chiese di partecipare alla ardita discesa
di due compagnie del battaglione Trento effettuata in una valle occupata dal
nemico e avanzò con la prima pattuglia sotto intenso bombardamento, sprezzante
del grave pericolo di sorprese e di accerchiamento nemico, esempio trascinante
a ufficiali e soldati, e prova di dedizione alla patria, di alta fede e di
valore.» Medaglia di bronzo al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia
di bronzo al valor militare «Corrispondente di guerra presso una squadra aerea
disimpegnava il suo particolare e delicato servizio con alto senso di
responsabilità. Spesso presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente
battuti dall'offesa nemica allo scopo di rendersi conto di ogni particolare,
partecipava volontariamente a difficili e rischiose missioni di guerra, dando
sicura prova anche nelle più critiche circostanze di sereno sprezzo del
pericolo e completa dedizione al dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino
per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor militare. Volontariamente, come
aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita,
alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa.
Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a
mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e
superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si
lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi.
Mentre in piedi lanciava l'ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo
eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva
mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo
valore e di amor di Patria.» — Punta NordMali Scindeli (Fronte greco) Saggi: “La
via della gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti
su l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché
siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di
scritti, Il Cinabro, Longo, “I vincitori
della guerra perduta” (sezione su G.),
Settimo sigillo, Roma.Carini, G. e la scuola di mistica fascista, Mursia, Antonellis, Come doveva essere il
perfetto, su storia illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su
storia illustrate, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Carini,
G. e la scuola di mistica, Mursia,Carini,
G. e la scuola di mistica, Mursia, Carini, G. e la scuola di mistica fascista,
Mursia, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo,
Grandi, Gli eroi, G. e la Scuola di mistica, Cfr. a tale proposito le ricerche
di Laforgia, una cui sommaria sintesi è nel sito varesenews Archiviato. Carini
nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Il saggio,
edito da Dottrina Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale
tenuta da G. per l'inaugurazione del corso per maestri della scuola di mistica.
Cfr. a tale proposito le ricerche di Laforgia in Grandi, Gl’eroi di Mussolini,
BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani,
La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco, Varese, Longo, Gl’eroi della
guerra perduta, Settimo sigillo, Roma,
L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di Mussolini. G. e la Scuola
di mistica fascista, Grandi, Gl’eroi di Mussolini. G. e la Scuola di mistica
fascista, G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Carini nella prefazione
su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Marcello Veneziani, La
rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco, Varese, G., La marcia sul mondo,
Novantico, Pinerolo, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico,
Pinerolo, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico,
Pinerolo, Carini, G.e la Scuola di mistica, prefazione di Veneziani, Mursia,
Milano, Grandi, Gli eroi di Mussolini. G. e la Scuola di mistica, BUR
Biblioteca Rizzoli, Raido Speciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M.,
Coscienza e dovere. G. MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti. In breve: «Siamo mistici perchè siamo degli
arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini
partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi Del resto nell’impossibile e
nell’assurdo non credono gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la
volontà, niente è assurdo». (Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più
significati testi di G., tra i massimi esponenti della corrente più radicale,
oltranzista e universale del Fascismo, la Scuola di Mistica
Fascista. Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più
significativi scritti di G. È, a nostro
giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona, la sua
filosofia, e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che e
il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita
comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione.
Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe essere
coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio;
quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come
fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione
dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia, cadde sul fronte greco nello
slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostra con
la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità
tra filosofia ed azione, e della autentica rivoluzione rimane il puro
rappresentante del nuovo italiano: per questo il suo esempio e il seme fecondo
dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con
l’intransigenza insegnare l’esempio. I tesserati sono i suoi avversari. Contro
di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i
retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la rivoluzione
come atto di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali.
Il Cinabro Ufficio stampa Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della
Milizia sacra; Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra milizia politica
e meta-politica la scuola rivoluzionaria del Fascismo; Mezzasoma: G., discepolo di Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo
Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista Generazioni di
Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello spirito Aver
Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del fascismo Le
due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il Centro di
preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni della Rivoluzione
Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché siamo dei
mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò Giani:
Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima linea,
ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani,
sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come,
con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che
ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente
fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori
e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità territoriale, ma
anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra
integrità spirituale.” (Niccolò Giani) Le conseguenze derivate
dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale
delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto
precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come
l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e
civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una
deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che
modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e
nazioni. Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si
affacciava con ruvida decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto
nella Storia. L’alba delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente
europeo e i popoli si sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e
esaltanti Weltanschauung. Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi
e tra i più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si
tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente:
“Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro
quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si
produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione
radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di
potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento
dall’Illuminismo.” Il periodo che immediatamente fece seguito al termine
di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti
osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza
rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di
entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale
e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da
sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite,
attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più
annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di
una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute
utilitaristiche e mercantilistiche. Le conseguenze della fine della
grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e
un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una
esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani,
esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai
reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente
esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni
imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle
ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole
consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche,
sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche. Dalle
forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del
termine. Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda
ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo
laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e
sociali. Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che
avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita
propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del
sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una
vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata
negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una
innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un
nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più
avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali. La grande guerra di
popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e
sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che
sarebbe stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo,
il culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della
Stirpe italica. Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare
tutti questi motivi nelle battaglie di piazza. Sorti dalla guerra di
popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il
coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi. D’altronde era stato lo
stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le
migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe
stata la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del
Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma
poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana
deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che
noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento,
porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare
quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del
mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo
incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra,
rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro
naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri
popoli.” Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi
accaduto in tutta l’Europa. Tutto questo si pose, in maniera del tutto
naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello
liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione
elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la
valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente
affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario
come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la
funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante
mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica
attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente
militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso
gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata
dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie
mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio
dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche nazionali.
Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa tipologia umana di
nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del nuovo tempo: l’Uomo
Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una Tradizione
atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in Rivoluzione.
Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani seppe dare,
facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e
rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani:
“Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una
ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato
etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che
dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la
Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e
dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con
la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso
l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma
anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e
dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che
essere fascista.” Questa nuova visione della politica rappresentata dal
Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi
emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di
quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le
manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da
quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite,
genericamente progressiste e marxiste. Il Fascismo, anche nella sua più
vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un
discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società
borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia
rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme
passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il
vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente
dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato
nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle
democrazie liberali. Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva
ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione spirituale,
una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo creatore di
nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata alla conquista
del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e spirituali che
lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e popolare; nei
confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933 all’Assemblea delle
Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è
politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è
guerriero.” Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo,
capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura
rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di ricollegare
alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di sacrificio,
riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di mussoliniana
memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché cartesianamente
pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente” intese,
eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei sentimenti.
Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il discorso sull’Uomo Nuovo
si andava a concretizzare poi nell’ideale della gioventù, una gioventù non
solamente intesa in senso spirituale ma anche come dato anagrafico, poiché il
concetto di gioventù rimandava all’ansia del cambiamento e all’impeto
rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali della forza e della
bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito vitale di un futuro
tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora proponevano i
rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro desuete convenzioni
e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa rispettabilità e lasciva
ipocrisia. Il Fascismo fu quindi profondamente giovane e irruento,
meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che
anagraficamente. Il comune denominatore della più intransigente e
autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica
stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un
originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti
radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i
riferimenti alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica
evocata dalla guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di
trasformazione della società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si
nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in
nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di
quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel
mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia
più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio
rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta, letta ed
interpretata non solamente come una reazione organizzata e armata volta
all’annientamento dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto
come militanza rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione della
Nazione e alla creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che si
svolgeva anche in aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita del
governo presieduto da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma,
rappresentasse la fase risolutiva del Fascismo. In questo modo, il
Fascismo, doveva e poteva assumere una superiore valenza metafisica affermando
il suo essere come un completamento naturale e organico della storia della
Nazione italiana, andando ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e
anti-modernista – non a caso lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento
sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come
qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è
stata invece l’ostetrica della nuova storia. E sorta una nuova civiltà capace
di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.” Per costoro,
che in fondo rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche
quella intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva
assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che
in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si
adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece
mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere
in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una
rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità
e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente
dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma
che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata
bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai
margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate, controllate,
sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di rifarsi,
attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto mentite
spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere
integrale.” Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si
evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a
Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani
dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così
una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta
nella persona del Duce. Al loro fianco si schierarono altre personalità
di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo
fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica,
Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.
La Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Mussolini, il figlio
prematuramente scomparso di Mussolini. Giani, Pallotta, Mezzasoma e molti
altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo
Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla
Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta
a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva
farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna
rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove
generazioni. Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione:
“Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo
si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che
il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella.
Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed
elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica
fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del
Fascismo che sono nell’opera del Duce.” Quindi una rivoluzione culturale,
del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del
mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni
metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe
approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in
Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di
adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della
storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali
della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento
dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle
utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista.
Certamente nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era
la ferma consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale
della società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo
anche una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica
proposta non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato,
l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente
e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le
potenzialità ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere
fino a provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei
ricordi – una lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e
della memoria – che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale
che rispecchiasse le concezioni del pensiero irrazionalista,
anti-intellettualista e pragmatista dei decenni trascorsi, un pensiero
profondamente permeato di sfumature di matrice nietzschiana e soreliana.
Anche i richiami alla Mistica insita nel Fascismo erano animati dallo spirito
di rivolta, contro le mentalità borghesi ancora sussistenti, delle nuove
generazioni cresciute ed allevate nelle organizzazioni totalitarie giovanili e
universitarie, una rivolta che si manifestava con i forti caratteri di un
idealismo morale ed etico qualitativamente aristocratico esprimente
l’esaltazione di una giovinezza istintiva, disinteressata e piena di spirito
vitale, aggressiva, pura e decisa a dare battaglia a qualsiasi forma di
conservatorismo e di borghese “buon senso” pur di affermare il carattere
intransigente e le finalità rivoluzionarie sociali e spirituali del
Fascismo. Non vi era nessun punto di convergenza con eventuali nostalgie
reazionarie, mentre invece era presente una totale e coerente aderenza alle
istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo esigeva e che ancor di
più il Duce imponeva. Per questi giovani attivisti non vi era altra strada
per uscire definitivamente dalla crisi della modernità, esplosa alla fine del
primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale del popolo italiano e
una tale mutazione antropologica poteva provenire solamente da una fede ben
salda che aveva iniziato a germinare in un primo tempo con l’esperienza della
guerra nel mito della Nazione in armi, della guerra di popolo, proseguendo poi
con l’esaltante epopea della lotta squadristica, per approdare infine nella
costruzione dello Stato fascista di popolo, corporativo e totalitario, il
compimento finale del rinnovamento sociale e spirituale della Stirpe e della
grandezza politica della Nazione. Nel corso degli anni che trascorsero
dal 1930 fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica
Fascista assolse in maniera esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero
l’ambizione di voler rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e
dottrinario contro il quale si sarebbero dovute infrangere le velleità dei
nemici del Duce e del Fascismo, soprattutto i nemici interni, i più pericolosi,
quelli che si annidavano tra le pieghe del regime per minarlo alla base.
Affinché lo scudo della rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i
soldati politici dell’Idea, vollero essere loro stessi esempio di virtù
civiche, morali e politiche, di fedeltà indiscussa nei confronti della guida
della rivoluzione, il Duce, spesso descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe
che con la sua instancabile opera dava quotidianamente prova di rappresentare
pienamente la coscienza e la voce dell’anima del popolo, soprattutto di un
popolo a cui il Fascismo aveva restituito la dignità politica e sociale e
un’unità spirituale che attingeva dalla viva coscienza di appartenere
integralmente all’organismo della Nazione. Da questa chiave di lettura
emergeva, quindi, una superiore comunione mistica che legava il Duce al suo
popolo, cementata dalla comune fede fascista, una fede intensa che a sua volta
veniva elevata al rango di una sorta di religione mistico-popolare sacralizzata
dal sangue offerto in sacrificio dai martiri dello squadrismo sull’altare della
rivoluzione, una rivoluzione continua che, come affermava un giovane esponente
della Scuola, procedeva impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica
si sono irradiati tra le file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il
goccio d’acqua, il pezzo di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno
convinto i pusillanimi. La Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della
sua fase politica, ora sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle
direttive di marcia per evitare le asprezze della salita e impedire che dalla
politicità si torni alla rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e
di lotta.” Per queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica
fascista chiesero e ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del
famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione
delle camicie nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede
fascista aveva mosso i primi passi e dove il Duce aveva chiamato
all’adunata.rossi Un luogo simbolico carico di suggestivi richiami
emozionali, ben presente nell’immaginario collettivo della militanza
squadristica, che avrebbe dovuto essere la fonte di irradiamento della Mistica
fascista verso tutta la Nazione. Il cosiddetto “Covo” del fascio
primogenito rivestì sempre per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro
immaginario dottrinario, rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana,
il principio fondante del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per
riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di
ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i
simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli:
“Qui è tutta l’attualità e la contemporaneità del “Covo”. Attualità e
contemporaneità che non dovranno mai tramontare. Non solo per noi, infatti, ma
per i nostri figli e per i figli dei nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere
l’Arca dei valori della Rivoluzione, la bussola cui guardare nei momenti di
indecisione, la guida cui ispirarsi, la stella polare che il navigante dello
Spirito deve vedere sempre alta e lucente davanti a se. E ad esso oggi, domani,
sempre gli italiani dovranno salire in pellegrinaggio, per meditare, per
ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno sempre con stupore religioso
per imparare che nulla allo Spirito è impossibile.” Il Fascismo, come
spesso ripeteva il Duce, era una fede coltivata nella lotta che aveva avuto i
suoi caduti, i suoi martiri che immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera
la avevano rafforzata e sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da
mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una
dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede
abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i
suoi caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di
tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia
dello spirito umano.” Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti
della Scuola aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più
appassionati apostoli. Anche loro si stavano preparando al combattimento
– nella sua duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare
degnamente il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta
di vita versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria. Morire
all’ombra dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo
eroico – Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come
narravano antiche saghe. Che l’intensa e interessante attività svolta
dalla Scuola nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista
fosse il risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande
serietà venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo
l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il
riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li
encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a
Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi
della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti
questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in
primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la
mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando
una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata.
Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo
ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli
nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la
politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori
eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per
far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella
politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della
politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano
presenti in voi. Avete tempo di riflettere.” Il secondo conflitto
mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno
successivo. I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme
conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo
la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore
dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di
cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte,
convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile
accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno
a ruota l’esempio dei loro capi. La loro esemplare condotta evidenzierà
una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di
fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada
per chi vuole percorrerla. Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di
eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente
coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo
volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel
marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove
coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando,
altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel
cirenaico. Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi
migliori campioni. Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo
dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi
sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce
aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando
Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il
dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le
intime motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È
questa nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato,
delle battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che,
se ci consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona
fede e di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci
obbliga tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro
che agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori
compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa
perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura
la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere
oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani.
Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i
superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica
gioventù italiana.” Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai
partigiani. Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per
onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così
facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con
il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di
esecuzione. Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro
memoria, la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene
nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini
caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per
il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna
ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi
debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma
deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a
vivere tra di noi. Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è
ancora terminata. Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni
pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse
associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore
dei debitori, le distri buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli
edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e
carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi ravano tutte a
combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a
paralizzarne gli effetti, ben ché nella loro essenza e origine avessero
carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la
simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni,
sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è
il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di
soccorso isti tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo
dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la
classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i
romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade,
circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono
efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO SECONDO LA CONCEZIONE
FASCISTA. LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE FUNZIONI DELLO
STATO. LA FUNZIONE SOCIALE DELLO STATO. PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE
SOCIALE DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGISLAZIONE SOCIALE. In Roma
sino all’editto di Costantino.Durante il medioevo.Dopo la riforma protestante.
Ordinamento sociale dello Stato fascista In Italia . L’evoluzione e la
trasformazione della legislazione sociale. La legislazione sulla beneficenza e
sulla assistenza pubblica e privata. La legislazione sulla mutualità e sulla
previdenza. La legislazione del lavoro. La legislazione sull’istruzione pubblica.
La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica. La legislazione sui
servizi e sulle opere pubbliche. GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE
DELLO STATO FASCISTA. I soggetti . Gli obiettivi . Gli obiettivi
relativi ai cittadini in genere. Gli obiettivi inerenti alle condizioni
generali di vita . Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di
forma¬ zione e di preparazione del cittadino, a quella di
produttività e a quella di riposo. Gli obiettivi relativi ai cittadini benemeriti
. Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non
rieducabili. Gli strumenti . Il criterio, profondamente corporativo,
adottato dal legi¬ slatore fascista per la scelta degli strumenti
attuanti la politica sociale. La famiglia. L’associazione professionale .
42Le istituzioni promananti, singolarmente o pariteticamente, dalle
associazioni professionali. Gli enti locali. Le opere nazionali parastatali. I
limiti . LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA Di alcune considerazioni preliminari. LE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . La- legislazione
inerente alla sicurezza, all’igiene e alla sanità pubblica . Per
garantire la sicurezza. Per assicurare l’igiene e la sanità. La legislazione
inerente alla previdenza . Per incrementare il risparmio . Per potenziare la
mutualità. Per favorire la cooperazione. Per diffondere le assicurazioni
Ubere.La legislazione inerente alla assistenza di soccorso. Per l soccorsi in
natura e in contanti. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri. La
legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬ grazione culturale e al
perfezionamento scientìfico . Per favorire il perfezionamento scientifico
.... Per la propaganda e l’integrazione
culturale .... La legislazione inerente all’integrazione della forma¬
zione e dell’educazione fisica e sportiva . La legislazione inerente alla
costituzione e all’in¬ cremento del nucleo familiare . Per favorire la
costituzione della famiglia. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia
famiglia . La legislazione inerente a particolari servizi pubblici.Per
garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . Per assicurare i rapporti e
i contatti economico-sociali . Per valorizzare il patrimonio nazionale. Ordinamento
sociale dello Stato fascista La legislazione inerente al
controlla, <UVadegua¬ mento e al collegamento ielle istituzioni
dell’ordinamento sociale e alla selezione dei suoi soggetti . Per
assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬ zioni sociali . Per
ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordinamento sociale. Per assicurare
la formazione della classe dirigente mediante la selezione totalitaria del
cittadini . IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZAZIONI
DIPENDENTI.Origine, natura e funzione sociale del P. N. F . I Fasci di Combattimento ..I compiti .I
soggetti .L’ordinamento. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e
Mutilati e Invalidi per la Causa Nazionale .I compiti . I soggetti. L’ordinamento.
L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... I compiti I soggetti
. L’ordinamento. L’Unione nazionale fascista del Senato . I compiti . I
soggetti . L’ordinamento. Gruppi Universitari Fascisti . I compiti . I soggetti
. L’ordinamento. I Fasci Giovanili di
Combattimento . a- I compiti . I soggetti. L’ordinamento. I compiti . I
soggetti . L’ordinamento. L’Opera Nazionale Dopolavoro
. I compiti .I soggetti . L’ordmamento. Le Associazioni
fasciste ..I compiti I soggetti L’ordinamento. Il Comitato
intersindacale . I compiti. I
soggetti. L'ordinamento. Gli Uffici di Collocamento I compiti.
I soggetti. L’ordinamento. L'Ente Opere Assistenziali I
compiti. I soggetti . L’ordinamento. L'Opera Universitaria .I
compiti . I soggetti. L’ordinamento. Il Comitato
olimpionico nazionale italiano. I compiti. I soggetti.
L’ordinamento. Di alcune considerazioni sul P. N. E. . La
legislazione richiamata . DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO. Ordinamento
sodale dello Stato fascista. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬
ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSONALE-NAZIONALE DEL
CITTADINO . La legislazione inerente al nucleo familiare per la formazione
fisico-militare del cittadino . S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa
dei mezzi economici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune
sue funzioni. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi
della famiglia. L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELL’INFANZIA.
L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. I compiti . Per
l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta da altri enti
o istituti o da privati. Per la vigilanza e il controllo delle singole
istituzioni di assistenza. Per la propaganda e la vigilanza
suU’applieazione delle leggi e dei regolamenti riguardanti
l'assistenza materna e infantile.
I soggetti . .L’ordinamento . Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 .
La legislazione richiamata. La legislazione inerente all’istruzione e alla
formazione professionale del cittadino. Per garantire l’istruzione
professionale del cittadino sino al 14° anno di età. Per favorire e
incrementare l’istruzione professionale La legislazione inerente
all’educazione e alla formazione fisica, premilitare, morale e nazionale del
cittadino. L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E
L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIOVENTÙ’ .L’origine, la natura e la
funzione somale dell’.O.N.B. . . I compiti . I soggetti .. L’ordinamento .
161 Di alcune considerazioni sull’O.N.B. La legislazione
richiamata. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA
FORMAZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSIONALE- NAZIONALE
DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI
PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.La- legislazione inerente all’azione sociale
attuata dalle associazioni professionali . Per garantire l’azione
sociale da attuarsi direttamente dai sindacati . Per assicurare
l’azione sociale da attuarsi dai sindacati a mezzo di speciali
istituzioni. IL PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE. L'origine,
la natura e la funzione sociale del P.N.A.S. .I compiti . I soggetti .
L’ordinamento . Di alcune considerazioni sul P.N.A.S. La legislazione
richiamata. La legislazione inerente all’azione sociale attuata.
dalle corporazioni. Per garantire il produttore obiettivamente e
subiettivamente di fronte alle condizioni del lavoro. Per tutelare i reciproci
rapporti fra i produttori nella loro dualità di datori di lavoro e
di prestatori d’opera . Per favorire ii perfezionamento e l'elevazione
professio¬ nale del produttore. Ordinamento sociale dello Stato fascista.
La legislazione inerente alla conservazione dello spirito nazionale e
della preparazione fisico-militare del produttore. DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ DEL
CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VECCHIAIA
DEL CITTADINO. La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie previdenziali
per la fase di riposo-vecchiaia. La legislazione inerente a speciali interventi
statuali a favore del vecchio bisognoso. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE
ISTITUZIONI 'SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. LE
ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HANNO BENEMERITATO DALLO STATO . La
legislazione inerente alle benemerenze collettive. La legislazione inerente
alle benemerenze individuali. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI
SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI
CITTADINI MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI. La legislazione
inerente ai minorati assolutamente non produttori .La legislazione
inerente ni minorati relativamente non produttori . DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANABILI
E NON INEDUCABILI.LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL CITTADINO
NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE Di alcune considerazioni preliminari
. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NASCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’. L’anione
previdenziale e assistenziale dello Stato sino al quinto anno . Per
la costituzione della famiglia.Per la esistenza e l’incremento della famiglia .
.Per li cittadino neonato . Per Viilegittimo e l’esposto. Per l’orfano. Per iì
cittadino infante. Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e
assisten¬ ziale dello Stato sino al quinto anno. L’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno . Per
la formazione e lo sviluppo fisico, militare, morale e nazionale.
Per la formazione intellettuale e professionale . Di alcune considerazioni
sull’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal sesto al
quattordicesimo anno . L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato
dal quindicesimo al ventunesimo anno . Ordinamento sociale dello Stato
fascista. Per il cittadino che studia.
Per il cittadino che lavora. Di alcune considera «ioni sull’azione
previdenziale e assistenziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno.
DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUTTORE . L’anione previdenziale e
assistenziale dello Stato per il cittadino ohe è produttore. L’azione
previdenziale e assistenziale dello Stato per la famiglia e i suoi
membri . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . LA POLITICA
SOCIALE PER IL CITTADINO BENEMERITO. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO
MINORATO NON RISANABILE E NON RIEDUCABILE. LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA. DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO STATO ATTRAVERSO AI
SUOI ORGANI. Per la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬ sione
della rete consolare . DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE DI
CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. Le
convenzioni bilaterali e plurilaterali ..Le convenzioni intemazionali, le
raccomandazioni e le risoluzioni dell'O.I.L . La legislazione
richiamata. Appartene alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se
la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea.
Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im parò che prima di agire e
costruire è necessario ele varsi, purificare il proprio spirito, temprare il
proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà
feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e
guidare gli al tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire
inesorabilmente i propri difetti, affinare inces santemente le proprie virtù:
allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che
solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose
piccole e vili. Ciò che non costa non vale; ciò che non procura fatica e
sof ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le
cariche, le ricchezze sono effimere e ca duche cose. Quello che importa è
quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via,
neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es sere se stessi in ogni
momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini.
Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che
non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva
sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo
contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti
cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli
uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol te
vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre
vette più alte ancora. In 8 i Giani la fede nasceva da un inesausto
tormento spi rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista
per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì
fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a
cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio
di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la
gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella
dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata
dalla fede, consacrata dal sa crificio e nella sua possibilità di instaurare
un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana
delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in
Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e sponente di una
razza eletta, il fondatore di una ci viltà universale, il protagonista e
l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE,
a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando
si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9
‘1 del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel
suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo,
educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito
e nel sangue, gene rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna
va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel
sacrificio, di essere de gna del nostro grande popolo e del nostro grande
Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro
indipendenza morale — la sola ric chezza umana che non abbia un valore
misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet tuali e
fisiche che sono indispensabili per poter eser citare con dignità e con efficacia
la missione dei co mando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizio
nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami glia italiana, ricca di
onestà e prodiga di figli, sboc ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando
o com battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran de regno della
casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non
tornerà la 10 — donna lo piangerà senza lacrime perchè egli
sopravvi va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce del
suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la più
grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima
». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche cosa
se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri;
le generazioni che furono, che sono e saran no; la storia di ieri, di oggi e
di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è
fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più
vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si combatte, si vince
o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei giovani Niccolò Giani
fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una
scuola di vita, come uno strumento di educazione e di formazione. Dalle agili
colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- " T T r pina », e da quelle
della sua rivista « Dottrina Fasci sta » si battè accanitamente per la creazione
di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che
fosse in grado di svolgere una fun zione costruttiva di divulgazione, di
propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere
considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei
giovani egli fu. All'Inse gnamento si era consacrato con il religioso fervore
con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani.
All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara zione politica, alla Scuola di
Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila cultura fatta di
conoscen za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento,
Alla Scuola di Mistica diede la parte mi gliore di se stesso. «Tutto quello
che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha detto Vito
Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo
sempre e presentarlo co me un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno
vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce
». Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso, ii più
puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più
acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori
del no stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto
assertore dei principi che sono a fonda mento deiia nostra dottrina. La Scuola
sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i
«disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava no
chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf
milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni versitari:
oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua
opera è rivolta ai gio vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai
camerati della vecchia guardia che vedono con in tima gioia esaltate e
rinnovate ogni giorno, dagli al lievi della Scuola, le due più preziose virtù
dello squa drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia
guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura del
Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima
trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai
giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi
alle sorgenti genuine delia nostra Ri voluzione, cogliessero, dall'umile
grandezza delle ori gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani
fu soprattutto un fedele ed un in transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un
fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota
sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com
promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat teggiamenti; il bello, il
buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto,
il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del
febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer ra di liberazione e
c'era in tutti noi una febbrile im pazienza di decisione. Il tema del Convegno
era bru ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi dell'inteiligenza e
deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono
sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo
raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento
calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non
quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è
quella che pene tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li
Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu
oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: «
Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a
vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può
se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel
Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della
generazione del Litto rio affermarono solennemente il loro diritto al combat
timento, Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire.
C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe renza
perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla
guerra per la con quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire
per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova
prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale
lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi mento. Ma la parentesi fu
troppo breve: tornò insod disfatto, Andò in Africa settentrionale come
corrispon dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo
reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere
lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre
volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu
l'ultima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque:
potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a
raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po sizioni
del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì
oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il
cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per
lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per
un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla
testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la
luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon dato,
lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli
spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò
Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non
potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia
polla purissima della sua fede; ma egli ha chiuso la sua vita terrena in modo
degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto
qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto
insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un
italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora
col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il
cuore in questo momento acce lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo
che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è
con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce
alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro
tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro
amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro
Mae stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto
e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli.
Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana.
Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli
Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove
scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15 lo
chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la
maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per chè « dalla classe
degli agricoltori nascono gli uo mini più forti e i soldati più valorosi... e
coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi scono cattivi propositi
». Queste parole, questo saggio romano le scrive va più di 150 anni avanti
Cristo, cioè, esattamen te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva
l’ultima e definitiva partita con la semita Carta gine. Ma, a questo
proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro ma
s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie?
La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo
politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di
vita. Roma rurale, Ro ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com batteva
anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano,
ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i
suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo
stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro mano nella gente nata dai campi,
cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem prata nelle
lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma
no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16 essi, Apollonio
Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo
nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica
che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel l’interesse della
Repubblica è prova di saldi prin cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a
Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio ne « Pro Fiacco ». E
nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai
sordi in quale dispregio avessero i romani i traf ficanti di denaro. Ecco
infatti come Cicerone rac conta che Catone rispondesse a chi lo interroga va
sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale
altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E
poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè
del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi
dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat ta,
avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità
ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda
Maccabeo si iniziano i primi rapporti di plomatici tra Roma e Gerusalemme, se
è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio
Cesare e Ottaviano li tolle rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché
essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2 rio con
disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da
un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per chè, come
testimoniano numerosi scrittori lati ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio,
da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside rano come profano tutto ciò che da
noi è consi derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per chè « essi
hanno un culto particolare, leggi par ticolari, disprezzano le leggi romane »
(cfr. Gio venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto
di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva
alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in
tal mo do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or goglioso regno di Giudea
passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così quei giudei che
pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di capi e per in
comprensione ingenerosa di popolo avevano tra dito e condannato nostro Signore
Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe zia compiuta,
furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza
zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile
volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto
contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia re e ammonire le genti e il
mondo intero della giu- 18 stizia e della verità che promanano dai
sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo. Niccolò
Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico, il mistico – la mistica
del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica della democrazia – la
mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina liberale – dottrina
comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della radice italica del
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