Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Garroni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he
writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant –
‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine,
figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per
un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla
filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di
riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo
artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi
d'arte. Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai
margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma,
Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo
Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di
giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche
(l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni,
Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e
collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche
Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto,
Bottari, Melis, Fieschi, Vacchi, Greco
ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito
non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il
bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una
"costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il
sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e
non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico
delle scienze e vivono operanti nel
meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte
di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed
estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari,
Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza);
“Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia.
Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni);
“Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna,
Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari,
Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e
il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari,
Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro
Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo
letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà
di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti
sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini,
Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet);
“La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma,
Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori
riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere
alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana,
Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e
Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius Presentazione della mostra dell'Autoritratto;
Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come
"filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia
multimediale delle scienze filosofiche. Treccani
L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo
Bufalo, in Studi di estetica, Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a
Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese
Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali,
figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di
Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito
Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L.,
Ippolito. È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a
Collodi, dove risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per
le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il
sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val
d'Elsa. Decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio
dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S.
Giovannino a Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria
Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi
mantenere agli studi. La libreria, anche casa editrice, era fra le più
importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra
i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato
dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di
redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle
novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore
dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato
tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura
dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le
prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico
musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca,
dove apparve il primo articolo firmato
del L., L'arpa. L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti,
proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e
combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle
Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione
e descrizione. In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un
altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del
padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi
fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e
arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a
diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione di cui fu
tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i
quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la
serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura
incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli
contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso
volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì
Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da
Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto"
(G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi
collodiani). Con il ritorno dei Lorena nel Granducato, L. dapprima
rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma
la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno
dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La
figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico
milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo giro tra Emilia e
Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a
collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi
impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo impiego.
Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò
ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico
artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel
periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e
letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che
anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G.
Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una
battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei
macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi)
incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile
rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del
linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Contemporaneamente, fondò
e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato
collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni
(Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick. Ormai dedito
a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio
delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui
collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale
umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi
(nell'articolo Coda al programma della Lente). Il L. coltivava
anche ambizioni di scrittore teatrale e compose il dramma in due atti Gli amici
di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi
del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano di farlo
rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté
pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Pubblica Un
romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come
opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia
Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e
stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al
modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere), il genere
"popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di
viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente
caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è
inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il
viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia. Confortato dal
buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla
stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di
Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata
dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il
romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume,
intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue
(I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del
romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e
politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e
satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali. Durante la stesura
di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di
pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di
segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio,
facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e
intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della
Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì
improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la
primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del
periodico L'Italia musicale. Nella capitale sabauda si arruolò
nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo
l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo
e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come
"cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A.
D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E
proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di
scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo
toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la
falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del
1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i
plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno
dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a
Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha
ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla
fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore
bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come
sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico
Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il
fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione
del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo
del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo
annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di
essere collocato a riposo. Le non onerose incombenze del suo
impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità
delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di
cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per
contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come
segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era
collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante. Nel
1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso
(probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica
Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in
occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze.
L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva
di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era
anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo
("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di
vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il
Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con
il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno
trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli
amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di
commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime
consenso ricevette la vivacità linguistica del testo. Al teatro il L.
continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio
(fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia
apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia)
sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre
atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini,
rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la
vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia
italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro
atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale
inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi,
rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo.
Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a
puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal
vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con
cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e
dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero"
che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello
nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della
contemporanea pittura toscana. Del resto, anche nell'intensa attività
giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in
particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua
attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò
concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei
problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi
sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come
M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul
macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e
soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme
paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M.
Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla
ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle
ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la
Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.
A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato,
in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi
dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di
orizzonti. In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante
subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in
volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache)
nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano
1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna
revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva
non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più
tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature
e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto
"alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal
vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei
"profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).
Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai
fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più
chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato
dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione
del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso
contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi
con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la
letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà
fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la
possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente
pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo",
dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della
superficie" delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due
diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della
letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella
svolta fu offerta al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli
Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli
propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole
della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione,
condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile
piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate
e le illustrazioni di E. Mazzanti. Da allora, pur riprendendo la
collaborazione al Fanfulla e continuando la sua attività di critico teatrale,
il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e
per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri
di lettura Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo
pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di
bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle
famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello
di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo
della Firenze contemporanea). Ormai accreditato tra i più ricercati
autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere
pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e
ricevette da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di
compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita
metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una
sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca
scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie
di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino:
Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia
centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di
Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino; fino a
La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula innovativa questi testi
costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre
apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica
Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline, infatti, erano esposte in
forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica
nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere
l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale". Al
centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa
vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque
per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i
collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e
che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura
infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando
all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino
(dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una
bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli
successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si
concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino.
Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia,
il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui
seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di
un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La
pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in
volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di
nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite,
una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore),
una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione
uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad et figlio
concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto
personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo
consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato
da refusi e banalizzazioni. Se ci si limita alle sole circostanze esterne
della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare
fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P.
Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica
la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della
"bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa
carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il
suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni
teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del
giornalismo della seconda metà dell'Ottocento. In realtà,
nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del
capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente
coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita
e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore
satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano
l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi
scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è
condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e
mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la
celebre fiaba è narrata. Di tutto ciò non si accorsero né i
contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo
crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre
la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne
il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della
critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e
A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro
della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita
e la carriera del suo autore. Negli anni della composizione e
pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e
assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di
cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha
coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo
scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e
memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre
pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi. L'anno prima era morta la
madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non
riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della
vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se
stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.
Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo
purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni
critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse
del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e
il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue
carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento
politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti
viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon
nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le
non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito,
alla Biblioteca nazionale di Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca
nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di
carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad
Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra
l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti
del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso
l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e
presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi
giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio
e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini
- M. Zangheri, Firenze). Tra le testimonianze biografiche contemporanee,
i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica
e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive
edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I.
Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi,
in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze;
inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre
di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a
Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi,
Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto
Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze);
la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di
D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle
numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori
(narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica
della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze. De Le
avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le
due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata
sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori,
Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma
corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti
dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate
a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari;
infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con
ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di
S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P.
Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura
critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare
con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata,, alla consultazione
del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli
su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione
nazionale Carlo Collodi di Pescia. La storia degli studi critici sul L. in
gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da
Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di
Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica
collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno,
Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli
della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine
en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio, in Id.,
Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in Id., La
letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di Pinocchio,
Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano Fazio
Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion politica di
"Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e
minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id., Scrittori
d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della
personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a
Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani.
Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico,
Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del Convegno La
simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani del tempo
del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano; Pinocchio fra i
burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio
sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale, a cura di G.
Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi cur.
Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur. Bernacchi, Firenze;
Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca. Per il centenario
della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C.
Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L.
Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate pubblicazioni
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre
l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel
centenario. Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica
in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives,
Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura.
Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a
un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano -
G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di
Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel
tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti
di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due
fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in
Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato
Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate,
Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti,
Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a
cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio et C., Milano Toesca, La
filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di
burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio"
alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La
"Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv.
italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova
Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi
cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di
Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D.
Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la
tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi
d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da
Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra
Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un
messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro,
Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in
Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi
piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a
Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo,
Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, Geymonat, Una grammatica di buon senso, in
Collodi, La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La
dubbia efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al
fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di
Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho
intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso,
insieme al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G.,
molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha
fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi
c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica,
in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima
di estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA,
l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e
questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel
vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per
farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano,
dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più.
Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si
strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce
analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e
quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana
nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi, nella
musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché
resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto
meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera
d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera
d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte.
Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa
intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA
in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a
Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di
Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e
l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE
insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI
SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali
analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un
accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi
dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho
sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che
permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro
struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora
adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli
come SEGNI (per esempio,
nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato
invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si
dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di
produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si
conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non
materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità
formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una
autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua
costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera
a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra
cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera
d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho
intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono
accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma
non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di
tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi
teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo
ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una
dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più
decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri
orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di
semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento
di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi
non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE,
nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che
neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte
codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il
linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono
convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi
semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto,
Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi
non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione
della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi
chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio
figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della
filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in
particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di
lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e
sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non
siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con
strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di
inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi
riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi
sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più
significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della
terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che
invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare
anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO,
che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio
come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un
ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei
riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti
riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte
opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a
Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo
punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si
sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci
sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e
io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo,
soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico
della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti
sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del
Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr.
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di
Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu,
Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo
non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho
scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio,
ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo
parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi
interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo,
chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che
stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della
capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare
alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato
uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci,
Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant,
recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella
stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per me
leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per
fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre
che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio
stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e
chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della
facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da
quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI,
che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’
complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è
uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione,
che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed
epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma,
con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed
estetica in Kant, Physis. Amoroso, Senso
e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro
Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes,
Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente
all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica,
Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo.
Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni,
Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani, Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco,
Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono
state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività
del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique
de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg.
H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio,
a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura
di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza,
Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia; Desideri, Il passaggio estetico. Saggi
kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti
personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o
cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio
che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma
anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il
perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti
di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia
dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in
considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per
un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici,
rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi
fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA
DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente
di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire
dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in
modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non
presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è
costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni
opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso
molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi
chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo
tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità
parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui
quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non
si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che
però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche
modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella
e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è
nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai
problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni
ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e
dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di
opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di
tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma
coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di
Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a
chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una
vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma
perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G.,
Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La
serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana
Biblioteca di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza
naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano
alquanto diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e
differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia
dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma
piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e
che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio
soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio,
l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei
suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad
essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una
reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi
cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni opposte a
questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire perché...
Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte,
occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni,
compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si
sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi
interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo.
Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in
saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il
giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con
l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido.
Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so
dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una
invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte
nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente,
attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni,
per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso
la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps,
e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è
significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini,
Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G.,
L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista,
G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il
suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi,
Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e
combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo
scambio delle arti, Venezia, poi in: G., L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G.,
Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio Latino-americano de Estética y
de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo,
poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari; G.,
Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e
utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito
negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6
acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte
internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi che si volesse richiamare
l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra
è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non
conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi
che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del
nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo
molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto,
ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di
degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte
mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti, ma
piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai
quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o
telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e
Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più
circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per
quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come
esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi
filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e
Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio
estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono
tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più
in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti,
ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato
entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e
con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una
volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è
stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese
nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del
testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche
coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di
preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono
a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a
quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza.
Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un
estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non
un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma
certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello
del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla
esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con
l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo
in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una
crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è
stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma
soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese,
Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica,
cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti
filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo
schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere
d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera
eccetera, per rendersene conto. Da
sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata
un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi
imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei
miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa
attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse
un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei
lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una
convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora
lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può
non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa
storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni,
cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia
ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi.
Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire
i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una
spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una
posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi
deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi
in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole
nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza. Ebbene i
miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la
vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione
sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della
vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile
guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti
metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura
elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte
intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono
fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che
non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi,
Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi,
Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca:
Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio,
Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani,
Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G.,
Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G.,
Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo
alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel
libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni
Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il
guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del
genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a
quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei
filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale
complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai
suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di
questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui
suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali
quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando
tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da
specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica),
l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti
visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani,
settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande
impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A
questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo
qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo
un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo,
ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione
dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano
Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di
capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci
mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo
sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La
bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo-
nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e
Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma
2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?,
testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi
psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il
corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e
mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale
prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia –
è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza”
che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da
intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo”
dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella
prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una
dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona
volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo
acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso
dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma
per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima-
mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso.
Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la
sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare
che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con
un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di
possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle
ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte,
semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G.,
infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non
empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività
empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano
a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di
guardare-attraverso le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere
del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti,
Milano (seconda ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo
presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi
semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena). Cfr. G.,
Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il
termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso
tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90
delle Philosophische Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad.
it. di Piovesan e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se
dovessimo guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la
nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei
fenomeni. Velotti risalire alle loro condizioni di possibilità
intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica,
come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e
indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come
questo guardare- attraverso i fenomeni per comprenderli, cogliendone le
condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con
un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava
e le cui tutoriale frequenta da pupilo alla Sapienza – è infatti per G. un
problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè
il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un
tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio
altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. Vorrei partire, però, da
qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette
di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di
quella passione per il capire stesso, che G. non considera affatto un’esigenza
contingente. G. lavora per diversi programmi televisivi della RAI, in parte
dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (si ricorda, per esempio, un
bel documentario su AOlivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista.
Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora
fosse culturalmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi
che potrei citare a cui G. lavora: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei
d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scienze, Le tre arti, e soprattutto
L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione
di Seroni e Piccioni, diventato programma televisivo come settimanale di
lettere e arti, più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui
comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettuali
dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti, a cui bisognerebbe
aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non menzionare, nella RAI, la
presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo
Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo: storia di
un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme
di divulgazione, Johan et Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica
come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI (si veda),
coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante
interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante
intervista da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma
credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al
capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti –
dice lì G. – deve essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel
campo della letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto,
anche intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi
culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire.
Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far
vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire
qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui
quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la
semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto
costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una
prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa,
controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica
che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente,
dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima
particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima
riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente –
di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo
compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed
etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica
come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA,
COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma
obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto
con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati,
rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e
profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle
modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le
stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di
racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino
Velotti a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera
singolare, La macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer,
riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che
indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là
dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore,
direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo
a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro
filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso
soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo
autoritratto di G., un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti
anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in
chiusura. I curatori della collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono
due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e
LUZI (si veda), i quali presentarono
giustamente questa notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore
da quasi-giovane, come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che
suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di
provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la
passione domi- nante di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e
approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia,
tanto più che certa piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue
tenerezze. Si è accorto che anche la sua formazione culturale è caratterizzata
dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso
tempo lacunosa e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la
Facoltà di filosofia a Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo,
con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito
dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G. 12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di
un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di G. (Il circolo estetico e il
guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando
anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, si puo affermare, in
proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte e senso, è una parola cara al
pensiero di G., almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo
statuto quanto mai incerto e problematico. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non
speciale con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Pubblica
saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su
riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro
dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla
mancanza di tempo. Da molti anni collabora infatti alla televisione dove fa un
po’ di tutto dedicandomi prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione
e presentazione di rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi.
A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del
Manifesto, che aveva invitato ventisei personalità della cultura a raccontare
la propria esperienza personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria
nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA
LICEALE imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa,
volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di
livello assai modesto che un museo o una galleria d’arte potessero essere
immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono
perlopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente
tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e
di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un
atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è
riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in
balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta
borghesia romana cui essa apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi
zii, che si riteneno intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna.
Vuole solo dire che quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il
fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già
preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite
sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e
dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo,
non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria
nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante
dei miei zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di
copertina. Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità
indimenticabile, come andare in bicicletta. Abbandono ora queste incursioni
biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in
cui G. si situa nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività
filosofica per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua
rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e
interessi anche eterogenei. Ha ricordato CARABELLESE (si veda) – che, al di là
degli esiti del suo ontologismo critico, G. considera uno dei pochi insegnanti
che ho avuto all’università che fosse anche un grande filosofo perché è
probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per
il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI (si veda) per l’inter- pretazione di Kant
– e poi, su un altro piano, a BRANDI (si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE
(si veda) ad aver criticato sia GENTILE (si veda), sia CROCE (si veda) (come
poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO (si veda) per non aver colto il
problema interno della filosofia, la domanda, cioè, con cui la filosofia
diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità,
le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega così l’incomprensione da
parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da lui sollevato: Il vero è
che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a
porre il problema della filosofia come problema del suo oggetto, cioè non
pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il
suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello.
Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente,
come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo) d’accordo fanno,
non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure,
ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure,
che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra. G., Il
piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta del museo.
Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli, Il
mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la
filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come
filosofia non speciale Il problema della riflessione sul senso, per
Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia
nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non
speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno
snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo
saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere
un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la
filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la
filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza
e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare
l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della
parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si
compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della
filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una
antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno
della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un
suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da
Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e
questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese insignificante.
G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un
problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello
di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema interno, come
una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio oggetto già
compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era per lo stesso
Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista proprio quel
paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un
paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE
(si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come
risalimento, o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei
fenomeni, dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro
condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia
da qualche parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti però
neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso»
deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un
semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then
why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua
posizione. Una
filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del
tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo
paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla
tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica
accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo
ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il
suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo
specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che
aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse
esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive
metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un
lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa
di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno
“veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse
che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o
intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa
situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di
chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari –
come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per
confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o
escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato.
Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e
complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista
Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè
inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali
storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano
pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire,
Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e
Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale rare
piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica:
Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo
quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere
metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato
poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare
sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento
alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella
stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in
volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso
i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti
nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di
affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende
le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza
nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in
Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la
filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma
che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo
paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e
può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in
particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più
schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si
fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante
prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica.
Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a
diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con
il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga
(per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli
esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi:
il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le
differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare
l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può
irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma
compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si
tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora,
la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa
a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo
per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta.
Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della
struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone
poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo
individuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di
possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa
fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È
qualcosa di più, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro
esclusività – fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata
cadere. E infatti poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia
kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte:
Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole,
prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non
potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del
linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft,
in Id. Werke in zehn Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmastad Trad. it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della
facoltà di giudizio, Einaudi, Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di
estetica e di critica, Laterza, Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel
volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari.
Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale la
sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non
potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci.
L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e
così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo
nella sua totalità possibile indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un
verso il linguaggio richiede come una sua propria condizione l’indeterminatezza
e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue
determinazioni: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate
di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella
loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità
indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto,
determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il
linguaggio o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE],
l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o
la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello
studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui
dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una
pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste
riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che
per questo motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa
antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si
ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto
determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che
Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio
della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la
ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e
tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti alla conoscenza
empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì,
intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato,
mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto
leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto
nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili
conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in
genere, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel
caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza
forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile.
Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in
genere della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma
nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla
intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della
facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza
possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una
conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne
sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono-
sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune, che
abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale
delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e
indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può
soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità,
viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di
giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè
mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del
determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF
IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso
fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una
riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano
linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è
determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre
a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento
all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza,
che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in
Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle
parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in
molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi
pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il
titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il
senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come
anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono
significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso
che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo
infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di
sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’
nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo
punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso
condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i
significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi,
convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo
problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia
in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia
moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di
parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole
“serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano
però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio
questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre,
ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena
svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che
si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del
paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si
potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato
proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last
Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro
serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune
di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash
of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi
di estetica Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire: che
il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso,
in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse
il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo
– come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del
senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della
sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è
strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte,
della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che
non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola
indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere,
appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un
esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine
Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di
decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora
di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a
ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso
affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a
cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso
l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è
confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della
percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella
testa. Distinte dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non
possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini
interne, l’immagini interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per
scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni
riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi
ogni obiezione legata alla presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G.,
Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine
linguaggio figura. Il senso dell’esperienza:
G. e l’estetica come filosofia non speciale sizione indebita
e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure
nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche
temi antichi come quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già
introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È
l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto
il titolo di metarappresentazioni, ma che in G. si estende già all’intero
ambito dell’operare umano un operare che è senso-motorio, pragmatico e
corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio,
così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un
linguaggio di primo livello G. introduce la nozione di metaoperatività come
interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante
esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo
“stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione umana
contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili
qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno schema operativo. In
Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene
reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G.
chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle
sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle percezioni (le immagini
interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione
nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o
ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte
«immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o
figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G., Ricognizione
della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations.
A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei
rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione
all’interno di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia
riconducibile per molti versi anche quella proposta da G. è possibile
riscontrarla nei saggi di NOË (si veda). Per un confronto, su questi temi, tra
G. e NOË (si veda), cfr. S. Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte
contemporanea, Meltemi, Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque
distinte dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è
invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur
sempre capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali,
evanescenti, eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di
questa dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a
scopi senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo
«ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano
questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa
a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se
non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come
quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di
uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il
costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e
proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo
percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti
effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un
aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima
somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra
disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente
di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di
eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si
esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una
infanzia dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora
oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle
considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e
paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari,
che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur
intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini
diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più
risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra
incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro
richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e
non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi,
e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G.,
molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con
«acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle
pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua
importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni –
dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che
formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni
comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti
estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di
affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate,
come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo
romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel
dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la
passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a
questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in
un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova
ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G. un’occasione per elaborare, anche
operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e
intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire
soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover
essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere
in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le
corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra
determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è
possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere
l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il
determinato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di
apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva
intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non
riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo
aggrovigliato. Forse vedremmo, per così dire, solo l’indeterminato e ci
sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di oggetti?
Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di patologie gravi,
quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno
perfino il senso della nostra identità ma parimenti dovremmo escludere il caso
estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti, il riconoscimento
non G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta
interpretazione di quest’opera è stata avanzata da Olivetti, dice. Primi
appunti su un Autoritratto di G., pubblicato nel catalogo della mostra G. Un
Autoritratto, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del
Comune di Roma. G., Immagine linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale viene meno neanche nel caso
di un risveglio depresso e confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di
estraneità degli oggetti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come
oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità
modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro
piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il
nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene
depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe
esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia
cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose
del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito,
languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato
di G., tendente piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si
lascia andare anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del
ventennio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a
cambiare i parametri della vita pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è
istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte,
di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma
soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di
cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo
politico di trista attualità ho messo termine a questo saggio. La facoltà
dell’immagine di G. e il suo contributo alla ricerca sulla percezione, i
contenuti non concettuali e l’immaginazione . Il saggio di G.,
Immagine Linguaggio Figura, è in parte una ripresa e un ripensamento di
alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in Ricognizione della
semiotica Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo
volume, e grazie a un’assidua interpretazione e rielaborazione del
pensiero kantiano, G. arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni
irriducibili della sensibilità e dell’intelletto in termini
di facoltà dell’immagine, da un lato, e di linguaggio e concetti,
dall’altro. Nonostante Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal
titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma
kantianamente irriducibili dell’esperienza umana, lo statuto del
linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva
all’interno di tale esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine
interna», che deve essere considerata «la premessa e la garanzia della
realtà del significato delle parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione
tenuta al convegno di studi “G.: determinazioni e dissonanze, Chieti, G.,
Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione
della semiotica. Roma, Officina. Immagine Linguaggio Figura, dove G.
precisa. Chiamo complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine,
sensazione, sia l’immagine in quanto attualmente prodotta, percezione,
sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione,
per distinguerle complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio,
mediante un disegno. Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è
responsabi le facoltà dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione,
percezione, immaginazione. Immagine Linguaggio Figura. non bisogna cadere
nell’errore di considerare l’immagini interne come figure (Bilder,
pictures) che avremmo nella mente. G. conosce bene la
critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi,
si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna come una lunga e
meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di
attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività
percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto
è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente
l’articolo che G. dedica a Minisemantica di MAURO (si
veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica,
una questione liminare. Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia
su quello del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti in
quest’articolo quella correlazione di determinato e indeterminato che è
forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici
articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche dell’esperienza
comune di cui G. parla prima nella voce i paradossi
dell’esperienza scritta per l’enciclopedia Einaudi, e poi
in Senso e paradosso non è altro che un’antinomia inevitabile,
modellata sull’antinomia della facoltà di giudizio della
terza Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e
indeterminatezza è al centro sia della trattazione della facoltà
dell’immagine, sia della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un
verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto nell’ultimo libro certi
problemi già impostati in Ricognizione della semiotica creando
MAURO [si veda], Minisemantica, Roma-Bari, Laterza; G.,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, in Ai limiti del
linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE,
Bari, Laterza, poi in G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica
e di critica, Bari, Laterza. G., I paradossi
dell’esperienza, in Enciclopedia Einaudi, Sistematica, Einaudi,
Torino; Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non speciale, Bari,
Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla
ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido
confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in Immagine Linguaggio
Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con
qualche riferimento anche all ’ambito della psicologia cognitiva e
discipline affini. Con il corrodersi della filosofia linguistica, infatti,
o, se si vuole, con l’apertura della linguistic turn al non
linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire il problema della
percezione e dell’immaginazione, creando ambiti disciplinari anche molto
specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della
natura della mental imagery a quello dei cosiddetti contenuti non
concettuali della percezione in cui un ruolo di rilievo assume anche la
percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente
da G.; da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle
numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico
all’immaginazione. A lungo considerata in area analitica come una
“facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa
parte l’immaginazione è al centro di molte aree di ricerca: se ne parla i
n relazione ai giochi di far finta games of make believe sia nel campo delle
arti che in quello più generale dell’esperienza comune 9 Cfr.
l’ampio contributo di THOMAS, Mental Imagery, The Stanford
Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/ archives/ win2011/
entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che
proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio molto ridotto, e
limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della
prima Critica: aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo
cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui
vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare alla natura per
esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema
concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the
nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves
the process of image formation, and the nature of image itself, deeply
misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta,
Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una
patologia dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA e sulla simulazione,
ai cosiddetti paradossi della finzione, della suspense o della resistenza
immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria
di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr
oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa,
e così via 11. Immagine Linguaggio Figura è stato scritto
senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche
contemporanee. Ma è tutt’altro che un libro estemporaneo o isolato.
Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente, quasi di getto, solo perché sono
almeno trent’anni che anda elaborando quei pensieri. Abituati ormai a
pensare, come è d’uso nella filosofia analitica, sotto l’ombrello
di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di
fondo nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso
della mental imagery, per esempio, il primo discrimine che troviamo è
quello fotografato dall’annoso e fuorviante dibattito tra
sostenitori delle teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI,
la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta difficile
da collocare sotto un’etichetta univoca. Mentre non credo che le
etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei
problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e
quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli
schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G.
in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto,
specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a
chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono
contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive,
della percezione e delle Per il nuovo interesse suscitato
dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni, e le
relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI, La filosofia e le
arti. Sentire, pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il
cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto
a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO
PROPOSIZIONALE). Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti,
il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie
della percezione, delle immagini mentali, dell’immaginazione
nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico,
artistico è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in
relazione al problema dei cosiddetti contenuti non concettuali della
percezione, cominciando però dallo sviluppo interno al pensiero di G.
stesso, e in particolare dall’insoddisfazione per la semiotica
denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente a se stessa, G. rispondeva di no, perché la semiotica non
poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un qualcosa diviene SEGNO.
Lì G. invoca la costruzione di una semantica trascendentale come metateoria di
una semantica empirica e di una semantica logica, e indica il suo oggetto
specifico nei significati trascendentali, cioè negli schemi dell’immaginazione,
affrontati in sede di schematismo trascendentale nella Kritik der reinen
Vernunft. G., d’altra parte, avverte avendo pubblicato Estetica ed
epistemologia l’insufficienza dello schematismo trascendentale della
prima Critica, valido solo per le condizioni de)la conoscenza in
genere überhaupt, ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata,
e rimanda al principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo
indagato da Kant nella terza Critica. Nella Premessa a
Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, G.,
Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla CRITICA
DEL GIUDIZIO di Kant, Roma, Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano,
Unicopli. G., Ricognizione, vero e proprio tema centrale del saggio, ha
preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano.
Dunque, una continuità con l’opera, ma certamente anche un’importante
discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri
dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a
venire in primo piano sono lo schematismo empirico - quello cioè che
permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla
percezione, che Kant nella terza Critica chiama esempio - e lo
schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in relazione a
concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle
cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro
linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla
distinzione - disponibile solo a partire dalla terza Critica tra uno
schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella
produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere
distinti a livello analitico. Nella Ricognizione della semiotica G.
mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni
concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una
direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non
è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle
e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a
sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può essere
disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre
manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli
immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e
parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI
GIUDIZIO, ed. it. cur. G. e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione
dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio
riflettente in Kant: l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione.
È evidente, mi pare, che l’operazione di cui si parla include anche la
nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema
della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne.
Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni,
esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono
innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre
diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un HOMUNCULUS
(cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di
figure nella testa. Figure nella testa non ce ne sono. È invece questa
operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso
all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare una
spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca
qui la nozione di metaoperatività introdotta in
Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in
tutta la sua importanza, solo trent’anni anni dopo. È interessante
come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in
ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni, ma che in G. si es
tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico e
corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di primo
livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione
che può essere solo interna al linguaggio di primo livello G. introduce
la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò
che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione, Cfr.
Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford
genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione
umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni
possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema
operativo: piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi
in generale, cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a
quello volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di
variabili operative; e il piantare chiodi in generale suppone ul teriormente
l’operare in generale in vista d i possibili variabili operative, cioè un
comportamento specificamente metaoperativo. Persino l’operare per prova ed
errore tipico del comportamento animale non umano - suppone nell’uomo un
piano, una consapevolezza di operare per prova ed errore. Sappiamo che
proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di
questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione metaoperativa
non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza
scopo. La terza parte di ricognizione della semiotica è tutta
incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON
SONO, non solo in quanto PRIVI DI UN CODICE, ma in quanto strettamente
condizionati da un’operatività e da una meta-operatività irriducibili a
linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì parla dall’architettura alla musica,
dalla poesia alla narrativa alla pittura sono indagate a partire dal modo in
cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé
inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti umani,
e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di stile viene
riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema
sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una
condizione G., Ricognizione nozioni diverse, quali gli oggetti
che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli che Dummett ha chiamato
proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi
a partire da Evans chiamano contenuti non concettuali della percezione (c
ontraddicendo, dunque, l’idea fatta valere da FERRARIS (si veda) secondo
cui la tradizione kantiana decreta l’equivalenza tra epistemologia e ontologia,
cioè l’assimilazione di tutto il reale, di quel che c’è, a quel che
possiamo conoscerne grazie ai nostri schemi concettuali, gettando così le
premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo nietszscheano
secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, e di qui del
postmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui
niente è fuori dal testo, e così via . affidata a un principio estet ico
che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme
un’anticipazione distanziante di questa. Già in Senso e paradosso, G.
s’è riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott
mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni
oggettuali, obbedienti a quel principio di confusività che violerebbe appunto
il principio aristotelico di non contraddizione accostandoli da un lato all’
Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di
determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica
una sua manifetsazione esemplare. Non c’è esperienza ben determinata,
apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di
transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti
transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si
legittima anche la creatività che viene esemplar mente e più tipicamente
esibita oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica,
da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins of
Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della filosofia
analitica, Torino, Einaudi. Il proto-pensiero si distingue dal pensiero
vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne
è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e
circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della
nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando
il livello dei proto-pensieri. EVANS, The Varieties of Reference, Oxford.
FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da
ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza. Per una
discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come unità
costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in
dichiarata corrispondenza a quell’unità estetica delle rappresentazioni
di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft. A questo punto
abbandono il saggio per vedere come queste problematiche vengano
riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo strumento
teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio di una
conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il
Gemeinsinn kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a
partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza
Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione
importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e
specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama
complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle
sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le
immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia
dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto
riprodotte o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più
operazione è qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal
livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai
concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur
sempre all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra.
Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte immagini interne
costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale,
e abitate da qualcosa di non sensibile, dunque distinte dall’immagine
SEGNO materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e
che è invece sostanzialmente statica. G. Ricognizione, G. Immagine
Linguaggio Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge
subito assente, direi, negli scritti precedenti è quella di
aggregato. Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di
fatto il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi.
Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli
oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe che presuppongono
appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di
note concettuali. Un aggregato è invece costituito solo percettivamente –
GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e costituisce un insieme di casi
effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero
finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito da
oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna
somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono
tra loro un’unità non chiaribile intellettualmente di tipo affettivo,
emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate,
preoccupanti, esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar
conto, con una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una
sintesi dell’apprensione, ancora priva di un’unità conc ettuale, della
comune radice di G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G. segnala una
revisione tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un
livello molto più radicale e produttivo, già da Senso e paradosso. Con
la riflessione estetica della Critica del Giudizio, il problema
dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione come
capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a
ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché
la stessa logica trascendentale, della Critica della ragion pura.
Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma
anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che
uno degl’esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci
adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il
linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione
di un’intelligenza prev alentemente senso-motoria, si può
ipotizzare che si producano, nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti,
usi e aggregati di oggetti in essi variamenti disposti. Un burattino può
essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un
vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o
un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per
coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo
abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non
ancora propriamente conosciuto e dominato; e così via. In questi casi
l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia
intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non
fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e
riconoscimento sono però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e
all’organizzazione concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili
anche senza questa teleologia evolutiva e se non siano per caso da
pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle
rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani.
A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come
quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente
distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von
Uexküll. Forse la distinzione vale per l’ambiente sensoriale della zecca,
ma sarebbe diff icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi
scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI, Storia filosofica
dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine
Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e
accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e
delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche agli animali non-umani.
Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento,
in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e
non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta
immagine del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione
infantile e degli animali non-umani perché è diventato forse l’argomento
più forte portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della
percezione. Questo confronto tra le posizioni di G. e quelle dei
sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa
mai) richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione
tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio
per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio,
proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo
che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON
DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I
HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare
pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i
possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità
della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione
analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta
al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo
interesse. Il fatto è che G. mette in luce spesso senza portare fino in
fondo i dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del
problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca
contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non
si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse,
ma di confronti concreti G., Immagine Linguaggio Figura Non
solo in EVANS, cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does
perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e
Phenomenology and nonconceptual content, in “Philosophy and Phenomenological
Research”, e già anche in DRETSKE, Naturalizing the Mind, MIT che
potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove
acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda
proprio i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece
l’indeterminatezza delle immagini mentali A. È indubbio che le
principali ragioni che hanno portato la filosofia della linguistic
turn a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di
contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che
trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonost-ante
la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti
della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta a
scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non
concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato,
di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da
un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:
l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della
cascata di Crane, ma l’aggregato di G., come abbiamo visto
rapidamente, coglie questa possibilità percettiva innanzitutto al livello
dell’immagine interna, e nella sua necessità non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un
secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il
contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza
CRANE, The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura,
in cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di
alcune figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia
interpretabilità del percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva
propria delle immagini interne in relazione al mondo
reale. PEACOCKE, Analogue content, Proceedings of the Aristotelian
Society, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover usare
un’unità di misura. E queste rappresentazioni sono irriducibilmente
nonconcettuali. G., di nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant,
usa un’argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia
legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla
di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori
oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere poi
esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle
cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori oggettivi
è nostro [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia]
e, tanto più, la nostra misurazione non sta nelle cose,
ma dipende da un’unità di misura da noi stabilita idonea per
l’esplicitazione concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei valori
quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non
concettuale estetica, direbbe G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e
concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è
la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei
contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a
G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione
agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee
estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso
designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico
l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una
copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,
nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,
centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un
riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni di idee
estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,
Immagine Linguaggio Figura . KANT, Critica della facoltà di
giudizio si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti
empirici. G. precisa infatti che lo stesso schema lo schema empirico,
l’immagine schema o, nel linguaggio della terza Critica
kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera
immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti
caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici percepibili
di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo
di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c
onfusi nell’indet erminatezza della totalità. Non si tratta, è vero, di
una percezione non relazionata ai concetti (dato il rapporto
dell’immaginazione con l’intelletto), ma è anche vero che qui nessun concetto
determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un
concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una
totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire
e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o
il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente
contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti),
oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La G., Immagine
Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study of concepts, MIT, e
Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience, concepts, and content: objections
to Davidson and McDowell, in SCHUMACHER, Perception and Reality: from
Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G. delle
considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo Kant e L’ORNITORINCO (che
a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la formazione dei
concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di
aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla
costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al
secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza
analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia
dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un
tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di
determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa
argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo
indeterminate, sono più simili a descrizioni che a figure. L’argomento di
Dennett è abbastanza noto, e rig uarda il numero delle strisce del manto
di una tigre: in un’immagine mentale il numero delle strisce di una
tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere
numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle
strisce può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul
manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle
figure. Un’autorità sulla mental imagery come Thomas insieme
a molti altri sostiene che questo argomento non è valido, perché
un’immagine mentale di una tig re potrebbe avere un numero determinato di
strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché
l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una
figura di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto
sfocata o sommaria, e G., Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri,
DENNETT, Content and Consciousness, London, Routledge et Kegan Paul;
PYLYSHIN, What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of
mental imagery, “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa
argomentazione, TYE, The Imagery Debate, MIT, anche una tigre reale
– presente alla percezione attuale e non immaginata -, data
la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti
dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri
autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o
interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le
contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano
sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione,
ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da G. tra determinatezza
e indeterminatezza dell’immagini interne e il loro rapporto con
le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così come viene
pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o
addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di
esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e
indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è
un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva,
mnemonica, affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun
modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente. È
piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso della percezione
visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è
sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai movimenti saccadici e
di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine
retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente e
selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo
di un contesto oggettivo e soggettivo che si allarga da quello visibile a
quello non visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti
(associazioni con altri oggetti e memorie percettive). Il problema
dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine interna non è tanto se
possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un
resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si 45
THOMAS, Mental Imagery, 1illuda di poterla considerare come
l’immagine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti,
dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della totalità
dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire
modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di
macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali
nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la
percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che nota G. nel
già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso
stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a
proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la
percezione e i percettologi, come suggerisce l’ultimo esempio che ho
portato: Si mette in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti o
puri percettologi, potremmo dire. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi,
se l’antinomia che essi inevitabilmente incontrano e si sforzano di
comporre è sempre presente esteticamente in loro e in tutti noi,
linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso,
del linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse
addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia si inscrive
necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del linguaggio. È
infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca
da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio,
consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande
maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di
una comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria. Ciò
comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne,
di filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una
determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in
negativo, nell’esclusione che principi e metodi possano essere qualcosa
di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla
determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere più
nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio non è solo
un uso particolare ma contiene una componente di indeterminatezza che lo
fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio
come quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo, in tutti i
sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante,
da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla
promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza
[cf. GRICE, INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords:
l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin
cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” –
Do not multiply senses -- mentire/mentare/meinen/mean
-- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente,
mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to
‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.


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