Luigi Speranza -- Grice e Casalegno:
l’implicatura conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia
linguistica del Novecento – scuola di Torino – filosofia torinese –filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino,
Piemonte. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti
della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del
linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla,
A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio,
Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla
collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è
Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in
questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi,
appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del
linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui C.,
Frascolla, Iacona, Paganini e Santambrogio. I testi antologizzati
consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle
principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è
dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da
una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il
contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre
il classico Senso e significato di Frege (di cui avevo già parlato qui),
seguono quindi Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle
descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein
(tratto dalle sue Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività
ontologica di Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e
stereotipi di Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e
conversazione” di Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Dummett, e
si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Chomsky. versazione –
afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “ massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del
linguaggio C. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in
considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere una
proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus). Poiché
comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno
concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione
di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere questo: usiamo il
linguaggio per descrivere la realtà. Una
proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale,
della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata
altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le
circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata,
dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera.
Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo
conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo di fraintendere.
Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal
sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le
due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere le
condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere,
principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una
proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere
l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del
significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità
sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che
il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme
determinato di condi-zioni di verità. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attribuibili condizioni di
verità. Ci sono espressioni sintatticamente
ben formate che non sono frasi complete, parole
singole o espressioni come ‘valigia pesante’.
Che queste espressioni abbiano un significato è indubbio, ma
che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente
for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi complete
come le interrogative e le imperative. Inevitabilmente, una
teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni
deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un
significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in
cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla,
equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle
frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è
possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa e,
più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi se non
presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).
Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si
riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di
usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra
capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si
sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci
riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle
interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o
un’affermazione, e delle frasi imperative.
La centralità della nozione di verità
sembra così essere confermata. Della seconda
obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il
linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di
informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente
arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli
enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per
concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di veicoli di
informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
troviamo, delle
informazioni di cui i nostri interlocutori già dispongono, delle loro
aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del
discorso, violando le quali ciò che diciamo potrebbe non esser compreso o
risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In
secondo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito
come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro
condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che
si contemplano gl’enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può
avere l’impressione che sia così. Ciò che si può comunicare con un
dato enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta
abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica
e pragmatica, una distinzione che risale a un saggio di Morris, secondo il
quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si
compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si
occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e
dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò
che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra,
si può dire, confonde semantica e pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler
dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione
definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica
disgiungendola dalla pragmatica sia giustificato o meno: se cioè la decisione
di isolare le condizioni di verità da altre dimensione del linguaggio rispecchi
un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, identifichi un
livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica
feconda. Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono
tenuti a rendere conto di tutti gl’usi possibili del linguaggio. Si è tenuti a
rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gl’usi linguistici del
linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo
convincerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che
la conoscenza delle condizioni di verità degl’enunciati svolga
un ruolo essenziale anche quando sono coinvolti fattori
che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è
legittimo distinguere semantica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la
pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gl’enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo Questa pagina
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l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai
elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da
parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono costituenti psichici. Usando le
parole di Wittgenstein si può continuare
a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma
non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il
senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e
che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel caso
del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che
essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è
logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente
così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del
pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben
altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche
filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare
del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e
dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si
riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono
immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una
proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in
quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il
pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù
della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una
“legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori
notizie. Una proposizione che rispecchi fedelmente la struttura
del pensiero espresso è detta da Wittgen-stein “completamente
analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna
ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere
esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia
logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge
dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che
sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si
fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che
ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime
i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. Risultato
della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di
proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa
concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I nomi che
figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti
di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano
l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai
nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati
in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso
comune è il requisito della semplicità. L’oggetto
deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione
ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire
degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche. Gl’oggetti
formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il
mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare
un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento
di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. 5 stato di
cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione
rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”.
Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è
il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa
consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una
tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che
una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P
figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo
sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa, e quindi che P ha
senso, solo se fossimo sicuri che C esiste: in altri termini, solo se
sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi
costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein,
“l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione
vera”. Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no
deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza
di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una
proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di
un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non
potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non
saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono
corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. In questo ragionamento, la
corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere
con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui
esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per
quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il
mondo reale qualcosa una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli
oggetti”. La proposizione non è dunque un’immagine vera e propria: la sua
struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti
ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco
sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a
Wittgenstein interessa. Questo però non implica che sia priva di senso. Grazie
alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente
bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a
proposizioni completamente analizzate. Si può finalmente comprendere
perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo
descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso
una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di
cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto
contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne
costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che
istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione
dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa Wittgenstein
sostiene riguardo le proposizioni complesse. La
sua idea è che le proposizioni complesse
siano funzioni di verità delle proposizioni
elementari che figurano come loro costituenti. Supponiamo che
le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano
P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a
dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità
di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per
visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita
per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni
costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole
di verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T
(1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di
un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P ∨
Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo
autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza
tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege
ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori
di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe
dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per
descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi
non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso
consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false
dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano
saputo spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una
proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di
Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al
valore di verità di una pro-posizione complessa come
determinato dai valori di verità dei suoi costituenti
elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il
senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione
rappresenta. Alle proposizioni complesse questa nozione di senso
non può essere applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è
una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa
ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha
ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di
verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa
dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò
che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle
combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per
le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
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devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE
LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es:
l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI
VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E
NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI
UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi
è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi
complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI
INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo
atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN
TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando
dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che
possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della
costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI:
studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: - conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di
mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna +
alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es:
Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità
di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =
E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO
CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI:
studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE
HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che
con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione =
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo
QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce
alla nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente
verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea
l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato =
riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna
+ alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi
propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York
*descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di
Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi
differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato
in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione= E’
SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE
EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO +
DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA
CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E
SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE
CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO
OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI
(INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI
VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e
INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI
DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa
risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative
ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è
sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando
l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per
cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti
per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio
appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di
vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo
sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise
di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. -
le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il
contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a
sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte
solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano
CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi
non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben
formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la
prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex.
“Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa
obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la
nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono
enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in
cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la
NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV
nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si
può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può
convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative
dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E
ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa
consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi
adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di
ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi
sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito.
Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono
molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto
della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del
discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono
considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo
degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà,
varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la
nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al
loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e
PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si
compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattere
che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di
circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è
tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio è legittima la
distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la
semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE
IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività
cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato;
per questo è necessario che ciascuno si avvnga a massime sotto quattro
categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA CONVERSAZIONALE
DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto
al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE:
dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare
in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione
tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo
secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE
CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa
alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è
necessario che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA
QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al
momento. QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove
adeguate3- RELAZIONI: dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere
perspicuo. parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo
Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Casanova: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del desiderio
omoerotico – scuola di Venezia – scuola veneta -- filosofia veneziana – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Venezia). Filosofo veneziano.
Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Vneto. Grice: “It is fascinating
to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural –
bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” --
Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would
not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo
Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista,
diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della
Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché di
lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento
vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e
opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato
principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir
poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave
e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato
"C.". A questa sua fama di grande conquistatore di donne
contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma
vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima
franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni
abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione
dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e
parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a
vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della
storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che
avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti
ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze
dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia,
alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di
far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo,
per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo
di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si
possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang
Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia
(ora Malipiero) Giacomo Girolamo C. nacque a Venezia, in Calle della Commedia
(ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche
battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o
letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui
origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo
XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce
relativa al C., Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo
Giovanni Giacomo C.. Successivamente, l'errore fu ripetuto nella voce su C.
dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso. Si può leggere
il nome corretto nel documento relativo al battesimo del C.. «Addì
Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe C. del q.(uondam) Giac.o
Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato
daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi
q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia
della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano C., era un attore e ballerino
parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia
tracciata dal C. all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati
originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi,
era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior
successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni
nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai
valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione
adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e C.
stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne,
di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della
tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si
presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali
rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane
praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito
la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della
Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei
suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli:
Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella
e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di
padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a
causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia
Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo
la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale,
riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza
infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la
vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti
manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu
mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; s'iscrisse
all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in
diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è
molto controversa: infatti C. descrive nelle Memorie gli anni passati
all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche
dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca
scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue,
Jacques C., docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti
risulta che il C. abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal
che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse
andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti,
il primo a dubitare del titolo conseguito dal C. fu Pompeo Molmenti, ma ben
presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che
dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le
successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento
del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (C.).
Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del
titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del
veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai
registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro
dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del C.; inoltre egli
constatò che il C. non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda,
quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per
chiunque. Terminati gli studi, Giacomo C. viaggiò a Corfù e a
Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale
ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. La nonna
Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo,
si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la
bella e costosa casa in Calle della Commedia e di sistemare i figli in modo
economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo,
togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu
rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea
dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu
un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere. Messo in
libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del
vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a
destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e
ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso
il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede.
L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti
aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una
ragazza fuggita di casa. Targa commemorativa su Palazzo Malipiero
Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima.
Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la
quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava
greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9] Fu però durante
il suo secondo soggiorno ad Ancona che C. ebbe una delle sue più strane
avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che
si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che C.
riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza,
Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per
sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in
modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la
presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo
dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle
capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò
quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il
violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla
morte del padre, avvenuta prematuramente, avevano assunto ufficialmente la
tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei
Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne
l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato
sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu
soccorso da C. e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva
potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un
figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in
cui assisteva Bragadin, C. venne in contatto con i due più fraterni amici del
senatore, Barbaro e Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e,
finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i
nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e C., su consiglio di
Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò
Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo
pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di
Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre
identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In
linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati
nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con
qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono
citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po'
modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di
avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in
generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati
corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali
hanno confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve
anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie, erano passati
molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o
appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto
l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non
rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce
a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto
casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi,
impossibile da valutare è se i rapporti che C. riferisce di aver intrattenuto
con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno
ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi
totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi
storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della
descrizione. Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di C.
con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis.
Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista
letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione
emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il
racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata
l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e
basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente
C. conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque
stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il C.
memorialista lo guadagna il C. romanziere. Rientrato a Venezia decide di
partire per Parigi. A Milano si incontra con l'amico Antonio Stefano Balletti,
figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della
capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, C. aderì alla Massoneria. Non
sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma
piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi. «Ogni
giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore
agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla
Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia
fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche
se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia
sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»
(C., Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati
nel corso della sua vita, come Mozart e Franklin erano massoni e alcune
facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici
derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i
paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò C. alla madre, che lo accolse
con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse
per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si
applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria
oltre che, in molti casi, epistolare. Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di C. era
tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, C. conduceva una vita alquanto disordinata, ma
né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava,
barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e,
quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto di C.
(illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché C. fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione
e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà,
ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo,
della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo
presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più
illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti
cardinali. Questa paternità fu rivendicata da C. stesso nel libello Né amori né
donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due
avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi al ritorno a
Venezia Presunto ritratto di Giacomo C., attribuito a Francesco Narici, e
in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista C.
(fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, C. cominciò a
organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di
cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo
piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto
praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e
successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino.
Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine
notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno
e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai
due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si
diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori:
infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di
Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per
riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz
lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove C. finalmente
si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio
1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto
ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da
Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a
dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di
meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé
nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga
relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a
disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali
magici. Assiste, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e C. venne nominato "Ricevitore" il
27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo C. fu incaricato dal governo francese di una missione
segreta nei Paesi Bassi. Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata
faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice
veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era
stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio
veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la
ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette
apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni
oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito,
i Wynne avevano lasciato Venezia. Giunta a Parigi, trovandosi in stato
interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per
aiuto a C., che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo
amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare
la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a C., dimostrando una fiducia
totale in quest'ultimo, tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e
lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani
sbagliate. C. si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per
concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in
combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in
cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, C. riuscì a
cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua
accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la
gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i
suoi interessi nella lotteria, C. si imbarcò in una fallimentare operazione
imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una
forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti
che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al
solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo
tolse dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; C. esordì dicendo che era il giorno più
felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il
suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più
onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso C. non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire doveva capire che il popolo per la pace
generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito),
e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per
il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma. Qui
viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno
presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762 ritornò a
Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa
d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in
giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche
magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo,
lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per
Londra, dove fu presentato a corte. Nella capitale inglese conobbe la funesta
Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa
circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa
scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande
amore, ma evidentemente C. non poteva accettare di essere trattato con
indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo
menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e
si diresse verso Berlino. Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì
un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente
la proposta, C. si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel
dicembre del 1764. L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò
l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione
di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni.
Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui C. aveva accesso a
personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con
chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto
della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più
esclusivi delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel
senso che in qualsiasi luogo si trovasse, C. si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma C. il
suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne. Nel 1766 in
Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente C.: il duello con il conte
Branicki. Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna
Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era
un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e
per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto
consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte,
qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; C.,
invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile
seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola.
Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria,
in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente
vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di C. a Madrid Il conte
ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare
onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era
comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio,
C. riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli
voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi,
dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il
quale, più che un protettore, era stato per C. un padre adottivo. Pochi giorni
dopo fu colpito da una lettre de cachet
del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il
provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali
intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di
famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una
qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con
motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e
approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente. Fu assistito grazie
all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta
vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare,
recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i
contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che
finalmente giunse. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, C. riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie
a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori
come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a
condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte
di C. non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si
trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento".
Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che,
avendole provate in prima persona, conosceva bene. L'ultima
abitazione veneziana di C. Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò
all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per
procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far
sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o
addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli
elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le
tirature erano bassissime. Pubblica il primo tomo della traduzione dell'Iliade.
La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era
davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in
vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San
Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così
via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva
delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista
non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che
contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni
dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, C. non era affatto un
emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del
personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella
privilegiata. In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca
Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a C.,
dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di
un'ingenuità e tenerezza commoventi, utilizzando un lessico molto influenzato
dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più
possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di C., che rimase
molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano,
rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta
corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto
della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando
ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.
Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie
che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La
calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo.
L'ultima abitazione veneziana di Giacomo C. è sita in Barbarìa delle Tole, al
civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata
da una lettera a C. di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov,
Repubblica Ceca). .L'appartamento occupato da C. e dalla Buschini (di proprietà
della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a
trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a C. ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Buschini à C.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati
distrutti a causa di due successivi incendi, l'area era rimasta praticamente
priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente
era quello dinanzi al 6673. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian. Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in
cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e
c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era
impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e C. fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio.
Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far
circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano,
intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al
libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo C.".
Ritratto del 1788 Annotazione della morte di C. nei registri di Dux
Lasciò Venezia e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario
all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi, accettò
un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia.
Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù, ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per
sempre. Da Dux, C. dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla
caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di
quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto,
oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al
corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire
de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie,
compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che
ormai sentiva vicina. Scrivendola, C. riviveva una vita assolutamente
irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita
«opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata
sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo
al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo C.,
le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che
ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse
stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma
era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal
Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla
compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale.
Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda Confutazione della
Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana
caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. Istoria delle turbolenze della
Polonia. Gorizia. Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. Né amori né
donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu
connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste
entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna.
1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della
contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda.
Venezia. Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur
Jean et Etienne Luzac. Vienna); Lettera ai signori
Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean
Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. -Histoire de ma fuite des
prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à
Dux en Bohème, Leipzig chez le noble de Shonfeld Historia della mia fuga dalle
prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione
italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard,
et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante
aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois
par Jacques C. de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à
l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) Solution du
probleme deliaque démontrée par Jacques C. de Seingalt, Bibliothécaire de
Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De
l'imprimerie de C.C. Meinhold. Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée
a Dux en Boheme, par Jacques C. de Seingalt, Dresda. Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. Lettres écrites au sieur Faulkircher par son
meilleur ami, Jacques C. de Seingalt. A Leonard Snetlage, Docteur en droit de
l'Université de Gottingue, Jacques C., docteur en droit de l'Universitè de
Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue
Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo C., Storia della mia vita, ed. Mondadori, con note, documenti e
apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo C., Storia della
mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" Ultima edizione: Milano,
Mondadori "I meridiani Saggi libelli e satire di Giacomo C., Piero Chiara,
Milano. Longanesi et C. Epistolario di C., Piero Chiara, Milano. Longanesi et C.
Rapporti di Giacomo C. con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito
"Prosopopea Ecaterina II , Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi
veneziani Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht,
Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di
Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a
Dux), Milano, Rusconi Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie
par Francis Lacassin. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia
vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton,
coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo C..
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria
Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti
et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque
de la Pléiade Gallimard. Parigi. Histoire
de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik
Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.
Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice,, 978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della
Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera
casanoviana Presunto ritratto di Giacomo C., attribuito ad Alessandro
Longhi o, da alcuni, a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità
storica dell'opera di Giacomo C. si è discusso parecchio. Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, C. non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna
notorietà e nessun successo. Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo C., ubicato in
origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione
fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per
ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia
del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la
detenzione a Barcellona, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a
ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo
stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche
incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere,
come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore
ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia
della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni,
sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di
proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che C. tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di C. stava tutto nei suoi
racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione
salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e
trascinante quando parlava della sua vita- osserva de Lignequanto terribilmente
noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra
che questo, C., non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di
non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui
ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che
nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche
contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma
meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande
successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura
molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato
tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che
costituì per decenni il cavallo di battaglia del C. salottiero, fu pubblicata
soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui
aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi
anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera
indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era
stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere
di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè
sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse
prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti
da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in
particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia, fu pubblicata,
però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non
si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo
audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore,
facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non
corrispondeva affatto alla verità storica, perché di C. si può dire che era
ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime,
come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa
Histoire. In un passo delle Memorie, C. esprime chiaramente il suo punto di
vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è
quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca,
taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare
come la pensano.[75]» Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette
attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme
all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi
curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che
era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un
cinismo assolutamente impresentabile. Quello che essi chiamarono cinismo sarà
considerato, due secoli dopo, modernità e realismo. C. è già uno
scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni,
inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e
tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente
il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore,
fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto
precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi C. non ha scritto, e chi non ha
incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]
Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo
insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana.
Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie
della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più
fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. C.
ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E
forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani,
ricordata in precedenza, C., parlando dell'Histoire, scrive testualmente:...
questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse
tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta... perché io possa
porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della
mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79] Riguardo all'uso
della lingua francese, C. vi fece riferimento nella prefazione: «J'ai écrit en français, et non pas en
italien parce que la langue française est plus répandue que la
mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua
francese è più diffusa della mia.» Certo dell'immortalità della sua
opera, se non al fine di garantirsela, C. preferì utilizzare la lingua che gli
avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali
lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché
sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne
invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo
al C., scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in
francese. L'autobiografia del C., a parte il valore letterario, è un
importante documento per la storia del costume, forse una delle opere
letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel
Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni
dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce
principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma
questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di
qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera
è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle
donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno. La
fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena
letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata
vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità
dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica
del C., Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo
lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere
ambientate nell'epoca di C. e di cui egli era protagonista. Innumerevoli
sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito
per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la
fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della
Historia della mia fuga dai Piombi fu curata da Giacomo, il quale studiò anche
i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse
un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara.
Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del C.. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono
infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per
l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua
vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura Riguardo al mito del seduttore, C., insieme a Don Giovanni, ne
è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose
opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché
ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile,
lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il
collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente
all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato
unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.
L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don
Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di
Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle
belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste,
diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra
abbia partecipato anche C.come è stato sostenuto basandosi su documenti trovati
a Dux, sul fatto che Da Ponte e C. si frequentassero e che l'avventuriero fosse
sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera
mozartiana è tutto sommato marginale. La partecipazione, comunque molto
limitata, di C. alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera
mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori.
L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una
variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi
operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart. Quel che è
certo è che C. si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più
grande, certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre Praga, Palazzo Lobkowicz, "C. v
Čechách" (C. in Boemia). Catalogo: C. v Čechách, Praga, Gema Art Venezia, Ca' Rezzonico "Il mondo di
Giacomo C.". Catalogo: Il mondo di Giacomo C., un veneziano in Europa,
Venezia, Marsilio. Francia "C. for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon".
Catalogo: C. For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi,
Bibliothèque nationale de France “C., la passion de la liberté. Catalogo: C.,
la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil,. (BnF)
(Seuil) Stati Uniti d'America
"C.: The seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts,
Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco.
Catalogo: C. The seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts,
Boston. Filmografia
su C. C. . Regia di Alfréd Deésy Il cuore del C. (Germania) Regia di Erik Lund.
Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner,
Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. C.s erste und letzte Liebe
(Austria). Regia di Szoreghi. C. Regia di Alexandre
Volkoff Les amours de C. (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo C. (Italia). Regia di Carlo Bassoli. Le
avventure di C. (Les Aventures de C.) (Francia). Regia di Jean Boyer. Il
cavaliere misterioso (Italia). Regia di Riccardo Freda. Con Gassman,
Canale, Mercader, Centa. Le avventure
di C. (Italia). Regia di Steno. Con
Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini.
Last Rose from C., titolo originale Poslední růže od Kasanovy,
(Cecoslovacchia). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze
di Giacomo C., veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard
Withing, Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W.
Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi
Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro
(Italia). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna
Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (C. è uno dei personaggi). Il C. di
Federico Fellini (Italia). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland,
Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M.
Berenstein. Il mondo nuovo (Italia). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis
Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude
Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di
Donatello per la migliore sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di C.,
titolo originale Le retour de C. (Francia). Regia di Édouard Niermans Con Alain
Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye C. (Stati Uniti, 2000). Regia di
Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley.
Il giovane C. (Francia, Italia, Germania). Regia di Giacomo Battiato. Con
Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis,
Catherine Flemming, Katja Flint. C. (Stati Uniti). Regia di Lasse Hallström.
Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani.
Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç
Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. C. variations
(Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John
Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io C. (Italia ) Regia di
Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di Benoît
Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo C.), Stacy Martin (Marianne de
Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati
alla figura di C. C. farebbe così! (Italia). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia.
Le tre donne di C. (Stati Uniti). Regia di
Wood. C. (Italia). Regia di Mario
Monicelli. Film comici La grande notte di C. (Stati Uniti) Norman Z. McLeod. C.
et Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony
Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa
Mell, Hugh Griffith. Telefilm su C. C. (Regno Unito). Regia di Sheree Folkson.
Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun
Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per uniforme
ordinariaCavaliere dello Speron d'oro Roma, 1760 Riguardo l’onorificenza, C.
nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il successivo conferimento
dell'Ordine (cfr. G. C., Storia della mia vita, Milano, Mondadori). Si è
dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto autobiografico
risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute approfondite
ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il breve papale di
conferimento, sia nel periodo di cui parla C. (dicembre 1760-gennaio 1761) sia
in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito. Il che non significa che
l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita, in quanto potrebbe
essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto
però che intorno allo stesso periodo furono conferite onorificenze ad altri
personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato
ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il
cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al
punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso C.
in un passo dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi
all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della cavalleria
romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.). Note Esplicative C. visse a lungo in Francia e conobbe
personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e
Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica
dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva
anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di
personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si
definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare
cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema (cfr. Montesquieu,
Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della
classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito
della posizione politica del C. è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (C.
politico, atti del convegno: Giacomo C. tra Venezia e l'Europa, Pizzamiglio,
fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki.) Il cognome C. è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero C. afferma che dalla città spagnola il
suo antenato, padre Jacob C., a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna
Palafox, sarebbe fuggito a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver scontato
un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti
sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in
matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di
Jean-Cristophe Igalens (G. C., Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par
Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,XL, in Opere postume) il
quale sostiene che la genealogia inserita dal C. all'inizio delle Memorie sia
del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che
facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali,
all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare
una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende
di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private
rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si
considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura
al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome,
praticamente un toponimo, estremamente comune.
A conferma del fatto che la nascita illegittima di C. fosse oggetto di
chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Chiari
(Venezia) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di C. che chiunque era
in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor
Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per
quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore
olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente
il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le
dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele
Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con C. è pacifica, tra i tanti
autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria C. e gli Inquisitori di
Stato. (Immatricolazione, iscrizione,
fede di terzeria. Fonte: Bruno Brunelli, C. studente, in “Il Marzocco Firma un
testamento in qualità di testimone.
Sull'ubicazione esatta della casa natale di C. e di quella in cui
trascorse l'infanzia all’anno della morte della nonna materna Marzia, si è
discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta C.
non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata
di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il
27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui C. nasce
con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta
della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista
Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale
civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di C.
(Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical
distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève). I coniugi C. si
trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata
tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco,
nato a Londra. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su
tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste.
L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva
corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo
punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della
commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al
secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si
sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe
corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già
Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi
concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una
casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque G. C." senza alcun altro più specifico
elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più
possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento,
Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des
Casanovistes, Genève) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette
"Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che
venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei
dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata,
in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a
ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà
e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni
contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta,
Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda,
che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era
di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la
residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche
urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza
l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali
precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la
casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata
designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico
che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto
di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i C. abitavano, per
motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani.
Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna C. comica al presente
s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co.
Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di
S.Samuele. Non nel noto lazzaretto del
Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente. Si è mantenuta la cronologia quale risulta
dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o
fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal
26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i
due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il
soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello
"Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare
solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico.
Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in
L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno 711. In tale studio
viene ricostruita la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il
racconto casanoviano con le risultanze di archivio relative ai progetti e
all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della
permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra
cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. C.,
Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes
inédits. Editore Laffont, I, Cronologia,XXX,
cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto
"Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma
(Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente
di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del C.. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché C.
riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola, le stesse
sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il
che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa delle
memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio
Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che C.
abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da più
persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in
larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro
Pasqual (L'intreccio, C. a Bologna) ha ipotizzato trattarsi non della Calori,
ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo
fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili.
La tendenza a romanzare del C. sarebbe in questo caso particolarmente stimolata
dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti,
fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo
frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta
un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o
ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo;
come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli
interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori
inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle
eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non
rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto,
sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si
veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure
of the actress in C.'s Histoire de ma vie. L'intermédiaire des
casanovistes, Genève, Barbaro, patrizio veneziano del ramo Barbaro di San
Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a C. un legato di sei
zecchini al mese. (Fonte: Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont cit. in bibl. I997, che rinvia a
Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Dandolo, patrizio
veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di
Dandolo in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo C., che mi fu in
tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme. Al suddetto C. lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate
d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Michele
Mari, cit. in, pag.29 nota 104).
L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di
"Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti.
Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale
di questi due personaggi nella vita di C.. Il nome di Henriette ricorre di
con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente
dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più
autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs, che sostenne trattarsi di
Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, sposata a Fonscolombe, nipote di
Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona
descritta da C. come quella di residenza di Henriette. Watzlawick, che sostiene
trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia. Louis Jean André, che avrebbe
identificato Henriette in Adelaide de Gueidan. Quest'ultima ricostruzione è
sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta
minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona),
conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del
castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André
corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da C. senza nominarlo,
sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un
qualsiasi manoscritto del C. stesso che consenta l'identificazione certa. Molti studiosi hanno tentato
l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a
Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti. Sul rapporto tra romanzo e
autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di
Giacomo C. Michele Mari. Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata
attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era
arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques C.,
Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, con rinvio a un passaggio delle
Memorie di Goldoni) C. fu iniziato nella
loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte:
Jean-Didier Vincent, C. il contagio del piacere). L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza
Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit”
(Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario.
Mondadori). C. riceve i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni
di Gerusalemme (cfr. Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome
I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Malgrado la diuturna applicazione, il fatto
di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia
pratica durante la permanenza in Francia, il francese di C. non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. C. riferisce con
dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa
frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti:
infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma
non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. C., Storia della
mia vita, Mondadori). L'imputazione e la
sentenza. Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di
Giacomo C. principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE.
lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto C. condannato
anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer
Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (Venezia Archivio di Stato Inquisitori
di Stato Annotazioni B. 534245) Riferte
di Manuzzi, confidente degl’inquisitori di stato Incaricata la mia obbedienza
dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo C., generalmente rilevo ch'è
figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto C. di un
carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece
col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello...
Giovanni Battista Manuzzi. Mi sovvenne allora che lo stesso C. parlato mi avea
ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi
che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva
dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta...
Giovanni Battista Manuzzi. Secondo il
casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di C. è da
ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con
Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques C. de
SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed.
Laffont. Bibliografiche C., Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A.
Brockhaus-Librairie Plon. Giacomo C.,
Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie"
de Bernardin de Saint Pierre. Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi Fonte: Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. G.C.,Storia della mia vita, Mondadori. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo C., in Padova e la sua provincia) (Fonte: P.Del
Negro, Giacomo C. e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova
secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie,LVIII in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie,LXIII
in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl.) Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano: Ma perché fu fermato? Non aveva da
scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che
voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa
paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva
occuparsi della questione. Si veda di
Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo C., L'Intermédiaire des
casanovistes. Si veda di Pierre-Yves
Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una
cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali, La
Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, in C.,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl. cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl, Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte:
Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore. Riguardo
alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs
(risalente a Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e,
allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco
Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel
1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale
sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un
biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques C. Il fatto che il
soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo C., si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di C. che è nota; il fatto
che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del
fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il
soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a
una simbologia molto affine al personaggio di C. che, pur nello stile di vita
brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò,
nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami
di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes. Il mondo di C. (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico). Giuseppe
Bignami, C. tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008,25-37.
Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui
soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la passion de la
liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition
Bibliothèque nationale de France / Seuil. Balbi, monaco somasco. Era un
patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle
famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti
a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a
Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di C., Mari. Si trattava di un
certo Andreoli, custode del palazzo, che il C. vide approssimarsi, da una
fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in
mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di
Riccardo Selvatico Cento note per C. a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri
Pozza. Sentenza di condanna a carico di
Basadonna, carceriere del C. Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de
Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne
provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e
di Giacomo C., che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con
Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione.
Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non
ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il
caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r. Basadonna sia condannato ne' Pozzi
per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo
Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535
c.83. Jeanne Camus de Pontcarré marchesa d'Urfé, sposò Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase
vedova nel 1734 (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori) G. C., Historie de ma vie. Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che C. abbia svolto un ruolo
chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche.
Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era
molto solido. Sul punto si veda G. C., Storia della mia vita, Mondadori in cui si puntualizza che la lista dei 28
ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di C. in
relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto
autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques C. ecc.. Cit. In bibl.) C. avrebbe
diretto una ricevitoria, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Éd. Robert
Laffont (con rinvio a C. Meucci, C.
Finanziere),23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo C.) e Jean Leonnet,
Les loteries d'état en France. Imprimerie nationale. Il decreto di fondazione
della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV (BnF,
Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198). Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato
di una missione diplomatica descritto da C., vi è un riscontro obiettivo: il
passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys
Lestevenon van Berkenroode, ambasciatore della Repubblica delle Sette Province
a Parigi (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento
originale è riprodotto in Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo
il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini
(che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne)
decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le
altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori). La
lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot
(Parigi). Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere
l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut
Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes)
siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi
se c'è ancora rimedio, e se potete. C., Storia della mia
vita, Mondadori, Histoire Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi)
Fonte: Frédéric Manfrin in C., la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie. G. C., Storia della mia vita, Mondadori. Augspurger,
detta La Charpillon, nota cortigiana londinese (Fonte: G. C., Storia della mia
vita, ed. Mondadori. Un riscontro del
soggiorno di C. a Berlino deriva da una annotazione nel diario di Boswell, in
cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla
locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche C.
alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un
italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare
di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London). Il nome Nehaus è la
traduzione di C. in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che C.
abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una
lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus
de Farussi, Farussi era il cognome della madre del C.. (Fonte: Helmut
Watzlawick, C. and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII
2006, pag 41). Fonte: Elio Bartolini,
Vita di Giacomo C., cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. C. passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Secondo quanto affermato nelle
Memorie, C. incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma
senza alcun risultato. Franciszek
Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si
muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui
collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio
tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in
particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia". Anna Binetti (cognome di nascita Ramon)
celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges
Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della
danza a Venezia (Fonte: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori) C., Storia della mia vita, Mondadori
2001, III, pag. 285 e seguenti, cit. in
bibl. La vicenda sollevò un clamore
notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca
sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in
una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario
del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a
Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna. La vita i
tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Cfr.
anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa
da C. (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome
I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C.. I
soggiorni romani di C. furono tre. I personaggi descritti, numerosissimi, sono
noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto
che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un
documento che certifica la presenza a Roma del C. durante la Quaresima del
1771. Documento: Stato delle anime, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle
Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni
51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni
20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40 Piggionanti
Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti
anni 37 Il signor Giacomo C....anni 46 L'immobile in questione è quello,
antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico
32. L'abitazione del C. era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri C. a Roma cit.
in bibl.) Si è a lungo discusso
circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal
titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta
dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi,
perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo
al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte
primaria delle vicende di C. sono le sue Memorie; dopo il termine temporale
delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo C.
dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, C. dalla
felicità alla morte. Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso
temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al
periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie
riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi
riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità. Il viaggio da Trieste a Venezia inizia; la
data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10
corrente è passato per qua il signor Giacomo C. di Saint Gall celebre per li
diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le
opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio
la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo
perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj
Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta
goriziana”, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso C. che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di
nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere
sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara.
Delle lettere di C. alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Buschini. Di queste, 33 sono state riportate
nel volume Lettere di donne a Giacomo C. Aldo Ravà, Milano, Treves cit. in bibl. L'edizione critica più recente
delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. C., è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo C.. Attraverso esse si vive il dramma
umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta
da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente
viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più
intollerante. Quando C. dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo
ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò
letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria
delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia
ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo C. Fonte dell'ammontare del canone: Ravà, Marsan, Sui passi di C. a Venezia. Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte: G. C., Analisi degli studi sulla natura...
G. Simeoni. Ed. Pendragon. Il testo del libello è stata oggetto di una
pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981.
Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica
Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma
fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
C. dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9). Il conflitto con la servitù del castello
divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la
permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti
rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au
sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale C. trasfuse tutto l'astio
accumulato per le persecuzionia suo diresubite.
Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. C., Storia
della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il C.
è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes) una breve nota
intitolata Lieu de sepolture de C., in cui riferisce la notizia, comunicatagli
da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento
individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al C.: Meusel,
professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua
opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda) fa il seguente commento:
«L'aîne, Jacques C., Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de
Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un
monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le
faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi
evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il
conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo
bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per C., oltre
al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che
gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso
impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni
provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi
debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia
deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento
funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non
avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da
parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco C., fratello minore di Giacomo e
famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo
biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come
sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la
contabilità del castello al momento della morte del C., cercando la traccia dei
pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento. Edizione in tre tomi basata sul manoscritto
conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati
dall'autore. Attualmente è l'edizione critica di riferimento. Archivio Alinari,
su alinariarchives. Archivio Granger New
York Opere di LonghiC.Ubication:
Firenze Miti e personaggi della
modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni
Bruno Mondadori,: Nell'arte. Di C. esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto
giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della
maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR:
oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici) Il quadro, conservato un tempo nella
collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero
in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato
eseguito presumibilmente nel 1774 allorché C. rientrò a Venezia dall'esilio.
Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato
dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Gritti
di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla
sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Il quadro faceva ancora parte
della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del C. nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, C. era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la
passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil. Su Alessandro Longhi si veda
l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In
particolare vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami
bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de
François C., «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, C.?, «L‟OEil», La
questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato
il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto
al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine
dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa
validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di
riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie
ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce
il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda:
Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914)
pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di
Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore
storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come
Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un
libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un
libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in. Emblematico a questo riguardo è il caso del
romanzo utopistico Icosameron (Praga) che costituì un tale insuccesso
editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria
del C.. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una
perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di
ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque
di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a
ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e
perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo C., ed.
Mondadori). Fonte: Elio Bartolini, Vita
di Giacomo C.. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti
elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da
parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria
dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu
sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele
influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il
sostegno a C. si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni
dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di
essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche
vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul
gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di C. ed era fautore del perdono si
veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in
L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Mari
Si veda inoltre la lettera di C. a Zulian scritta da Lugano, Epistolario di Giacomo C.,
Chiara. Il brano, un ritratto in
prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con
straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del
carattere del C.. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges
historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi). Su come C. esercitasse il suo fascino
sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza
assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da
Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma,
scrive:...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il
signor C., Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e
vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli
riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita,
successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli
fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla
veridicità del racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita
raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie
le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che
v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per C. a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. C., Storia
della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di C., il manoscritto originale
dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787
aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena.
Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda,
dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i
quattro saggi furono venduti all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio, il ministro
francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del
manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus
Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile C.). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da C. e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali C. li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. C., Storia della mia vita, Mondadori. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e
ritratti), Illuminante, a questo
riguardo, il passo di una lettera inviata da C. a Giovanni Ferdinando Opiz in
cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va
avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire
che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una
tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho
messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione
(Fonte: Epistolari di Giacomo C., Piero Chiara, ed. Longanesi et C.) Si veda in Giacomo C. tra Venezia e l'Europa,
Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki G. C., Storia della mia vita,
Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire
(Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original,....Ed. Laffont). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto
dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore
viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata”
(Pensieri libertini, F. Di Trocchio), C. dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a C. e all'Histoire cfr. Promenades dans
Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra
Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo C., Michele Mari cit.
in bibl. pag. 383. Foscolo, durante il
soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito
dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster
review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno),
che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente
inventate. Balzac si ispirò largamente
alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per
l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per
desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda
Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo C., Michele
Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, C..
Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al
padre:..mi sono comprato le Memorie di C. dove spero di trovare un soggetto. Il
soggetto fu il C. stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la
cantante (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico
Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse
varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero C.
a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di C. (ed. Adelphi). Hesse scrisse il racconto La conversione di C.
(ed. Guanda). Márai scrive il romanzo La
recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come
protagonista l'avventuriero veneziano.
Salvatore di Giacomo "C. a Napoli" in Nuova antologia. CROCE
(vedasi), Aneddoti di varia letteratura", Napoli. Di un cantastorie del
Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo C." opera il cui
autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano. Chiara cura per Mondadori l’edizione
italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il
vero C., Mursia e molti articoli sull'argomento. Scrive C. in una lettera all'Opiz Scrivo
dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno
sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero C., Mursia). Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, C.
contro Don Giovanni, ed. Mondadori, citata in.
La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques C. de
SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface). Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo
di Giacomo C., ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente
approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i
motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo C. tra Venezia e
l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Olschki). In sostanza è stato osservato che Da
Ponte e C. si conoscevano e frequentavano, che C. era certamente presente a
Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano
massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione,
costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di
alcuni cantanti, che C. era stato sempre molto vicino per gusti e
frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi
perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra
assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al
testo del libretto per puro passatempo.
Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in
L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année. In cui vengono minuziosamente
riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il mondo di Giacomo C., Venezia, Marsilio,
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Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su
www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di C.
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a C. l'espulsione del
seminario. Ma il numero di uomini con cui C. e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui C.
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di C.. L’ultimo amore di C.: Una
grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND INSIDE ai
tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva
istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e
di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale
che C. si... – Grice: “Casanova was what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with him, Bellino tells him that his name was
Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years
before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she
added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather
she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman;
his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he
(Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s
favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo
Casanova. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione
e conversazione” – The Swimming-Pool Library. Casanova.
Luigi Speranza -- Grice e Casati: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero,
dell’amicizia – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casati;
he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or
‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that
there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but
the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that
stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of
Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a
typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a
Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso
Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di
fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di
questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità
(Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza). Buchi e altre
superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando
il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il
nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e
topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico
che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando
diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione
scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa
sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi si annoverano la
teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria
'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica:
la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione spaziale
immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti
materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella metafisica
del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro
contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta
di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che
appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o
prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat",
l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre,
le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non
materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è stata
rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico, in
particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca
riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo settore sono
la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una
semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei "micro
crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei
vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato
Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di
democrazia partecipata. La sua Prima Lezione di filosofia difende una
concezione della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi
discende che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche
al di fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi
filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né
un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine.
Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia);
Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo
Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche
(Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il
pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica
(Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo
digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza); Dov'è il sole di
notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza
elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie
filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa
Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE.
L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e
causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO.
Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite:
trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di
aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL'
IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio,
il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello
spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della
somiglianza Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite. Contro
la teoria della somiglianza. La complessità della percezione dell'immagine.
Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO NELL' IMMAGINE.
Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e scorciatura. La
continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO E SCENA.
Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva. L'INDICALITÀ E
IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro ed eticheta.
Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni esempi. Quadro
nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione. Iterazione.
Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto.
Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso
del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della rappresentazione.
L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI.
Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE.
L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria dell'espressione.
La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e
contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora
euristica del segno e la comunicazione. Critica. Riferimento e
generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può chiamarsi teoria
meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un
segna-posto per candidati alternativi. La teoria di Grice e C. sostiene che un
artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto
con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione
di profferire una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di
riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di
riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione conversazionale è un
oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base
all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche
conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il campo da
possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono create con
lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte, come
per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di
pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel
segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice
che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere
d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione.
L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano
riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come
creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la
soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una
conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4.
Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto
che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e
quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto
sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per
una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di
“messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti
che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi,
anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una
sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto
all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto
di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette
di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non
dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di
un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto
probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera
deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una
conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla
struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni
chiari dell’intenzione che li ha animati. La teoria metacognitiva sembra
tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In
realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti
proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere
d’arte. La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al
tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e
comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un
messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere
riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende
dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri
generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di
generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini
della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi
come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto all’interno
di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché le opere
d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate da
comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria
spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti
artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità -
attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti
utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma
apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la
possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è
riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed
economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per
essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione
per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti
artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la
maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte
e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli
artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state
scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di
interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva
riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata
l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria
spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso
dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero
dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da C. Spiega
l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate
arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento
nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente
“conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del
loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da
spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria
spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La
teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo
per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona
dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir
messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada
a buon fine: sospensione delle routines (Bullot), esposizione in spazi
privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano
con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo
permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema dell’unità del
genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo
di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è
metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare
un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi
artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie
matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della
cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti
sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione.
Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale
permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma
degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della
visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa
dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di
rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto
artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema
varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si
situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della
riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti
artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una
teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto
che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che
quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un
altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come
oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa
funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto
è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è
certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte,
si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare
predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera
d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste
predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei
meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno
pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come
esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair
of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and
eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course,
various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni,
‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added
tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE
CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA
PASSIONE PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE
FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA
DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione
cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC,
19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are
cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two
valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have
resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one
aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed
Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus
primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir.
Aen.). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and
fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing
footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in
first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then
deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may
come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus
amorum (Vir. Aen. -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The
plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that
sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer
to a bull’s mate at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different
cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS
AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM,
QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS
AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural
‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s
love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The
two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the
camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They
succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves
both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally
wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this
description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides,
comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et
iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque
induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior,
swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to
accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s
followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at
the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love,
and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the
emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard
on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE
and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and
is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning
men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put
this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus,
amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit
perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli,
mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia
sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum, VIRGILIO (si veda), Æn. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the
shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who
did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE
was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky
above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy
friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus
and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms
befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as
sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of
Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece.
Note also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314
(mene fugis?. So too Makowski and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui?
Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et
VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene
were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to
parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as
to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see
Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp. When Nisus,
mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him
in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super
exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati
ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo,
dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus
habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through
and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful
death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you
from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the
immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The
praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring
– cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’
he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as
parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s
words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS
OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied
in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman
praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother
and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE = CIL, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI
QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 =
CIL: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA
FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT.
CLE granddaumother and granddaughter:
SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece quotes the lines as an
illustration of the fact that great writers can immortalize people who
otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for
Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one
that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and
everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so
renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5
VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO
SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes
Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and
eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context –
that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE
FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND
PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia but the relationship between ACHILEES
AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO
471-2 . In other words, although Euryalus is the junior
partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of
being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a
VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a
further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the
pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the
MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of
Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek
poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic
relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and
temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet,
while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle
poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the
Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even
as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a
much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the
Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship
between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a
seual component see e. g. Aesch. F.r.
Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50,
Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the
Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond
between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic
model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, Sergent, and
Halperin. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of
Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel
for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT
AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are
strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly,
together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric
based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the
weighty dialogue between Jupiter and June where it is agreed that Trojans and
Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic
relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this
would have been unthinkable in a cultural context in which same-se
relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it
still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus,
and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship
that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe
o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the
would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that
corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is
complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance
Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s
experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the
commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her
involvement with Aneas (aculpa, constitutes an offense within the moral
framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and
Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees
of problematization of the two types of relationships in the cultural
environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no
day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of
Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans
father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an
adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the
epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and
Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Casini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale de naturismo – il
concetto di natura a Roma – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like
Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so
did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’
rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto
Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di
natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si
sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali
nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla
diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a
proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero,
non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in
tale contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue
ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra
rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della
fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca
philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte
attorno al darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe",
Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia
newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo,
Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso
ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il
Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle
origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il
Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino). La lista di
autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo
Casini. Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito
pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita,
l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima
incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento,
alle discussioni storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni
politiche del Sette-Ottocento. Giuseppe
Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele
corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia –
Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi
postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato
Mutevolezza e instabilità Scienza», ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra -
Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la
sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione -
«Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione
mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte
e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia -
«Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra
sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra
casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj -
Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo
Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche
- Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja –
Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be
- Anni di prova) - Indice dei nomi Order Zoogonia e
"Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia
Italiana 17 (n/a). Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della
Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work
Like Recommend Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's Physics and the
Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the
Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
(review) British Journal for the History of Science The
"Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia
Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton
(review) British Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend
Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia
Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in
Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like
Recommend Bookmark 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia Newton 1
citation of this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de
Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15.
Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, British Journal for the
History of Science 17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark
Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di
Filosofia Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia
The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia Anti-Darwinist
ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati
italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia Kant e la
rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia Kant: Philosophy of Science Like
Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma; «
Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza;
Like Recommend Bookmark Newton e i suoi
biografi Rivista di Filosofia Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della
Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della
Filosofia; Like Recommend Bookmark Per
Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques
Rousseau Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia
British Philosophy, Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia
Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito
pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e
l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia; Like Recommend Bookmark
13 Francesco Bianchini und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science
and Medicine History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza
Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend
Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista
di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia Vico's initiation into
the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia
Pythagoreans Topic Order Teoria e storia delle
rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia
Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia Cheyne e la religione naturale
newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana Newton's Physics and the Conceptual Structure
of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of
Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1 Diderot and the portrait
of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie Diderot Like
Recommend Bookmark 6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes
Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi.
1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la
metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia
Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista
di Filosofia Il metodo di Foucault e le
origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot
Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de
la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia
Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di
Filosofia L'empirismo e la vera
filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like
Recommend Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista
di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A
study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana
Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia Newton: the classical scholia History of Science; 1 reference in this
work 15 citations of this work Diderot et le portrait du philosophe éclectique
Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista
di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
(review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie
de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton
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of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in
Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e
l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Topic
Order 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1
citation of this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de
Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire
Foundation, Taylor Institution, (review)
British Journal for the History of Science. 17th/18th Century French
Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read
the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be
directed at either male of female objects. If this configuration is held to be
NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as
NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played by the
discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This
question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell,
1Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is
clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices,
displays significant differenct from more recent discourses. Boswell, for
example, observes that while “what is supposed to have been the major
contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole
‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common
belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL
was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts
between friends (Boswell). ‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’
appears, in short, to be neither scientifically nor morally cogent and probably
represents mnothing more than a derogatory epithet of unusual emotiona impact
due to a confluence of historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas
about ‘nature.’”Thus, as Winkler notes, the contrast between nature and
non-nature, when deployed in ancient writings simply ‘does not posess the same
valence that it does today’ Winkler, p. 20 Moreover, nearly all of the texts
that offer opinions on whether specific secual practice is in accordance with
nature are works of philosophy. The guestion does NOT seem to have seriously
engaged the writers of texts that directly spoke to and reflected popular moral
conceptions (e. g. graffiti, comedies, epigram, love poetry, oratory). For this
important distinction between the morallyity espoused by a philosopher and what
we might call popular morality, see the introduction and chapter 1. In short, as Richinlin warns us, the question
I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and
more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome,
whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may
nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the
rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices,
particularly those between males.In other words. I would like to go a step or
two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what
they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to
the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of
‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most
public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the
rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they
as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in
arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of
crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as
no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are
transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman
text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn
sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally
appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton
therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to
me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s
condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a
reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to
us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the
point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to
condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species
Juv. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a character
argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other females. These
claims are as unsupportable as the claim that sexual practices between males do
not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who has spent time
with dogs. With regard to the academic-study of the question, the remarks of
Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in Understanding
behaviour: what primate studies tell us about human behaviour Oxford, p.are as
illuminating as they are depressing. ‘I have taked with several (anonymous at
their request) primatologists who have told me that they have observed both
male and female homosexual bheaviour during field studies. They seemed
reluctant t publish their data, however,
either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank
that I am gay’) or because they lack a framework for analysis (‘I don’t know
what it means’). On the latter point Wolfe insightfully comments that the same
problem affects our attempts to understand ANY sexual interactions among primates.
‘Because the alloprimates do not possess language, it is impossible to inquir
into their sexual eroticism. In other words, homosexual and heterosexual
behaviours can be observed, recorded, and analysed, but we cannot infer either
homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But the fact
that we do find animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN such
phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but not SAME-SEX
desire among males, merely proves the point. These rhetorical strategies reveal
more about ROMAN cultural concerns than about actual animal behaviour. A poem
in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly separated from his
beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that this miserable fate
NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor a he-goat without
his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA
IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA
FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is
melodramatically weepy and that consideration partially accounts of his
ridiculous claim that male animals are never to be seen without their mates.
Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency to
shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for the
argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease one’s
angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human beings
and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars. The poet
offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a POSTIIVE
paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered groups (2.
473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two hundred lines
later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM, again in support
of a characteristically human concern: discretion in sexual matters. IN MEDIO
PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE PUELLA SUOUS
CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT VESTE PUDDAN
LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE ALIQUID LUCE
PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to a close, Ovid
holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM VEROS PARCE
PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE. And we are reminded
of the strategies of this pasage’s broader context. If you want to keep your girlfriend
happy, do not kiss and tell: that is the argument in service of which animal
behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to Ovidian passages illustrate
the utilyt of arguments from the animal world. Just look ant the animals and
see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P PAN ALOGON soon bivei monon oi ligkoi de ton
allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes hosoi de guanxi kratountai
ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends on the eye – and rhetorical
needs – of the beholder. OS it is that Roman writers show how Roman they are
through the picture they paint of sexual practices among animals of the same
sex. Ovid himself, in his Metamorphoses, imagines the plight of young girl
named Iphis who has fallen in love with another girl. In a torrent of self-pity
and self-abuse, she expostulates on her passion, making a simultaneous appeal
to NATURA and to the animals that is reminiscent of Ovid’s sweeping review of
animal bheaviour in the Ars amatorial just cited. But this time the paradigm is
an emphatically negative one. SI DI MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI
NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM
VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM
SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE
NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with Lydia’s lover, so here we have the
melodramatic expostulations of an unah[py lover, and similarly her view of
animal behaviour does not correspond to the realities of that behaviour. Still,
these arguments are pitched in such a way as to invite a Roman reader’s
agreement, and the sexual practices invoked as natural and occurring among the
animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to the sexual practices and desired
SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female never leaves the male,
heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable way of unting
different social groups, and females never lust after females), or to
specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and we
should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It cannot
be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the context of a
girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for another girl,
the mythic compendium in which this natrratie is found is peppered with stories
involves passion and sexual relations between males. Both Orfeo (after losing
his wife Euridice) and the gods themselves (whether married or not) are
represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting the BRIEF
springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met. 10. 83-5
ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE MARES
CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories that
Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once loved by
Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and Hyacinth
(Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy Athis
and his Assyrian lover Lycabas (Met. A passage which echoes of Virgil’s lines
on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that the stunning
but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many admireers of
both sexses (Met. None of Ovid’s characters arever questions the NATURAL status
of that kind of erotic experience or invokes the animals in order to reject it.
Aulus Gellius preserves for us some anecdotes that further demonstrate the
manner in which animal bheaviour could be made to conform to human paradigms.
Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in love with beautiful boys (one
oft them even died of a broek heart after losing his beloved) Gellius exclaims
that they were acing “in amazing human ways” 606C-D and Plin N H 8 25-8 for
this and other tales of male dolphins falling in love with human boys. Gell 6 8
3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS FORMA LIBERALI IN
NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET HUMANIS MODIS ARSERUNS.
Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more about ‘human ways’ than
about dolphins. The elder Plini, who alo relates this story regarding the
dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants by observing that
they are nonly the largest land animals but the ones closest to human beings in
their intelligence and sense of morality. In particular, they take pleasure in
love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way of illustration of the
‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites two examples: ONE MALE
FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a young Syractusan man
named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he tells of a MALE GOOSE who
fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of another who loved a
female musician whose beauty as such that she alstro attracted the attention of
a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM
IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE
IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51
QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET
GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM TEMPORE ET ARIES AMASSE
PRODITUR. Plin N H MAXIMUM EST EPLEPHANS PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE
INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE
DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of
NATURA as it applied to sexual pracyices by ancient writers, we being with
basica basic problem. The very term NATURA has various referents in those
texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the way things are or to the
INHERENT nature OF something, sometimes to the way things SHOULD be according
to the intention ordictates of some transcendent imperative. Thus Foucault
speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in philosophical discourse. The general
order of the world, the orgginal state of mankind, and a behaviour that is
reasonably adapted to natural ends.Fouctault, p. 215-6. See also the
discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes between ‘realistic’ and
‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le concept de nature a Rome: la
physique, Paris). The first two of these axes are evident in a wife-variety of
Roman texts. Departures from what is observably the usual PHYSICAL constitution
of various thbeings could be called NONNATURAL or UNNATURAL even by
nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake with feet, a bird
with four wings, and a sexual union between a woman (the muthis Pasiphae) and a
bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA NATURAM UT EST
MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr. 176.113-5 snakes with feet, birds with four wings.
Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims that breech
births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we should be born
head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA NATURAM EST RITUS
NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian argues
that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about
in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should
use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA
CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief
that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly,
that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates
what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’
mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to
Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM.
Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam.
Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. Labeo defines morbus asHABITUS
CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1
1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest that to harm a
healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the
plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET
EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment one’s body and to
eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the axes described by
Foucault, anthropologists and others have long observed that proclamations
concerning practices that are in acoordance with nature often turn out to
reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature we may often
read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8 discusses a passage
from Seneca (Epist.) discussed in chapter 5, having to do with women who
violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not reacting to
naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the reproduction of a a
cultural system.’ So too Veyne, p. 26. ‘When an ancient says that something is
unnatural, he does not mean that it is disgraceful (monstrueuse) that that it
does not conform with the rules of society, or that it is perverted OR
ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly support that contention.
Thus, for example, violations of traditional PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND
RHETORIC which are surely among the most intensely cutlrual of human phenomeno
are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art Don. PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM
UNUM IN QUO VIS SUA EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI.
NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS
USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM
PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer
invokes the rhetoric of NATURA to justify the principle of individual ownership
(joint possession of a single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5
CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE
VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that the principle underlying
the institution of slavery – that one person can be owned by another – is
actually ‘unnatural’ (D. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS
DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that
NATURA sees it that no one is every truly the ‘master’ of the land that he
legally owns, and Natura puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat.). Sallust
describes the violation of the cultural and more specifically philosophical
tradition priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. QUIVUS
PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise,
practices violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as
INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s
philosophical tratise DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with
some clarity functions of the BODY that illustrates the relation between NATURE
and MSASCULINITY with some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are
PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions, and in doing so they are in
conformance with nature. But there are certain bodily movesmesns NOT in accord
with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to
walk backwyasds, he would manifestbly be rejecgting his identity as a human and
thuswould thus be displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5
35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA
AD NATURAM SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural
nicely illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric
of nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily
moveents not in accord with natura concerns correctly masculine ways of
deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS,
QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT
ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA
VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE
CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin Deemed ‘agaist natture’ are
certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat,
like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident
purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s
bodies to move and to function in certain ways. Men who violate these
principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in
chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY.
Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures –
are identified with the natural order.Similar conddemnations of inappropriate
bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching
the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see
Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How,
then is the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has
recently suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally
penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is
probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS
DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO
AOBRTUS Plin N H. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate
(by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think
that it refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being
anally penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE,
rather than ‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF
NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio
uses the phrase elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles
of the eart rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS
DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon. In other words (pace Taylor and
Rackham Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be
subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an
objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is
not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural:
in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural
Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately
in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously
natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he
reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4,
10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being
penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have
wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup,
participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and
notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139
40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM GREGES HABENT
EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT AMPUTANT. Firmicus
Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA NATURAL (5. 2. 11),
and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the assumption that men’s
‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be penetrated. NATURALIA
VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In short, nature’s ditactes conveniently
accorded with cultural traditions, such as those discouraging men from seeking
to be penetrated, or those deterring them from engaging in sexual relations
with other men’s wives: in a poem that urges on its male readers the principle
that NATURA places a limit of their desires, Horace remocommends, as implicitly
being in line with the requirement of nature, that men avoid potentially
dangerous affaris with married women and stick to their own slaves, bh male and
female.Hor. Sat.. NONNE CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1
for further discussion of this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER
MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI POSEEM. In one of his
Episles Seneca provides a lengthy and revealing discussion of ‘unnatural’
behavours that include a reference to sexual practices among males. He beings,
however, by despairing of ‘those who have perverted the roles of daytime and
nightime, not opening their eyes, weighed down by the preceding day’s hangover,
until night begins its approach. Sen Epist 122 2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS
NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM
ADPETERE NOX COEPIT. These people are objectionably not simply because of their
overindulgence in goof and drink but because they do not respect the proper
function of night and day.Comparing them to the Antipodes, mythincal beings who
live n the opposite side of the globe, he asks. Do you think these people know
HOW to live when they don’t even know WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS
SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night
and say, is, in the end, ‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO
PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA
CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist.). He then proceeds to tick off a serioes of bheaviour that are similarly
CONTRA NATURAM. First, people who drink on an empty stomach ‘live contrary to
nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI
VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men
nowadsays, Seneca continues, go to the baths before a meal and work up a sewat
by drinking heavily; according to them, only hopelessly philistine hicks
(patres familiae rustici … et verae volupatigs ignari) save their drinking for
after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI
VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT
ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT
POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT
ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment, with its contrast between URBAN
AND RUSTIC life, austerity and luxyry, is a valuable reminder of us. The
standard violated by those who drank betweofre eating was what we would call a
cultural norm. But for Seneca they were violating the dicates of NATURE,
abandoning the proper order (debitum ordinem) of things. This important point
bust be borne in mind as we turn to the next practices that come under Seneca’s
fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT
CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS
VEL VISERIOUS POTEST? NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM
CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist.).
The concept of the proper order is very much in
evidence here, and here again the order shows unmistakable signs of cultural
influence. Just as those who turn night into day or drink wine before they eat
a meal are engaging in unnatural activities, so men who wear women’s clothes
live contrary to nature – yet what could be more cultural than the designation
of certain kinds of clothing as appropriate only for men and others as
appropriate only for women? Moving on to his next point, Senceca continues to
focus on extermal appearance. Men who attempt to give the appearance of the
boyhood that is in fact no longer theirs also ‘live contrary to nature’. Again
the order of things has been disrputed. Boys should be boys, men should be men.
But these particular men want to LOOK like boys in order to find older male
sexual partners to penetrate them. Such is the thenor of Seneca’s decorous but
blunt phrase, ‘so that he may submit to a man for a long time’ (ut diu virum
pati possit’). If we filter out Seneca’s moralizing overlay, this detail gives
us a fascinating fglimpse oat Roman realities. These MEN scorned by Seneca
acted upon the awareness that MEN would be more likely to find them desirable
if their bodies seemed like those of BOYS (not men): young, smooth, irless.
Moreover, the very fact that these men made the effort suggests that th actual
age of the beautiful ‘boys’ we always hear of may not have mattered to their
loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf. Boswell, p. 29, 81. All of
this is very much a matter of CONVENTION, of CULtURAL traditions concerning the
‘proper order’ of things, but Seneca insistently pays homage to NATURA.Cf.
Winkler, p. 21. “Contrary to nature means to Senea not ‘outside the order of
the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the simplicity of the unadorned life’
and, in the case of sex, ‘going AWOL rom one’s assigned place in the social
hierarchy. The importance of this order is especially clear in the climactic
illustrations of those who live ‘contrary to nature’. These are people who wish
to see see roses in winter and employ artificial means to grow lilies in the
cold season; who grow orchards at the tops of towers and trees under the roofs
of their homes (this latter proving Seneca to a veritable outburst ofm moral
indignation)., and those who construct their bathhouses over the waters of the
sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN
MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA
FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR. Finally
Seneca returns to the example of unnatural practices that sparked the whole
discussion: those who pervert the function of night and day aengage in the
ultimate form of unnatural behaviour (Sen Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA
CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET
SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That
the practice ofs of growing trees indoors, of building bathhouses over the sea,
and of sleeping by day and partying by night should be considered unnatural
makes some sense in relation to notions of the ‘proper order’ of things. Plants
should e outdoors, buldings should be on dray land, and people should sleep at
night. But that thes practices should be cited as the most egregious examples
of unnatural bheaviour – they constitute the climax of Seneca’s argument –
demontrastes just how wide the gap is between ancient moralists and their
modern counterparts on the question of what is natural. With regard to mature
men who seek to be penetrated by men, the third of Seneca’s examples of
unnatural behaviour, Seneca makes in passing a surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET?
122.7. The clear implication is that a nature man
certainly ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual
practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical
suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact.
He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly
(it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then
instantly moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to
Seneca’s suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’
from ‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual
behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely
because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to
masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But
Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first
century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we
find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’
(‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be
be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to
Musonious, every createure has its own
TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully
living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7
Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete
or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular
virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human
being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but
rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human nature
(phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at
pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be
avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By
implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil,
but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities
aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL
AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently,
not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as
part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not
addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should
engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose
of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should
be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must
think that only those sexual practices are justified which are consummated
within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are
licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which
hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within
marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a
sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most
illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES,
since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse
with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of
these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If
one utside to behave temperately
(TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a
courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s
own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1,
Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he
is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion
that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only
surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He
elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for
adoption or even exposing unwanted children (Lutz), of EATING MEANT (here he
explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather
than the other way around (Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz), of using
wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands sexual
freedoms not granted to wives (Lutz). Thus his condemnation of sexual practices
between MALES is issued in the context of a condemnation of ALL SEXUAL PRATICES
other than those between husband and wife aimed at procreation (strictly
speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating) and also in the
context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond those relating
to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual relations between
males as contrary to nature (the implication being that the two sexes ARE
DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE), while sexual
relations between malesand female outside of marriage are criticized as
‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here Musonius is
obviously manipulating the ancient contrast between law or convention (nomos)
and nature (phusis) and interprestingly procreative relations within marriage
are ultimately given his seal of approval not because they are more ‘natural’
than tother sexual practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’
(nomima), just as adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional
(paranomotatai). In other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only
by way of secondary support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a
adulterious relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation
between a man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end
more ‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA
may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual
practices between males as being against nature, Musonius does not appeal to
animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument
sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different
from other animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he
argues that wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the
province of MERE ANIMALS – Lutz) – and that, while among animals an act of
copulation suffices to procude offspring, human beings should aim for the
lifelong union that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important
distinction to observe between Musonius’s remark concerning sexual practices
between males and later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’
which came to be a code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go
so far as to condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think
about the implications of his words, relations between MALES do not even
constitute the ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are
‘the most illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than
relations between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore
Musonius’s approach to the problem of sexual behaviour differs from later
Christian moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to
Musonius, ‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach
pleasure from the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is
in fact to debase the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement
is not in the sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate
it from marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault
CICERONE (vedasi) ro in a passage from one of this major philosophical works,
the Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca
and Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the
extreme suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables implies,
whitout actually using the word NATURA, that males who desire to be penetrated
(molles mares) and females who desire to penetrate (tribades) have A FLAWED
DESIGN. When Prometheus was assuming these people’s bodies from CLAY, he
attached the genial organs of the opposite sex in a drunken slip-up. But his
more popularizing account only specifies that those males who DESIRE to be
penetrated are anomalous. It does not designate those men who seek to penetrate
other males as unnatural. On this model, a sexual act in which a master
penetrated his UNWILLING MALE slave is
NOT UNNATURAL. By contrast, according the philosophers discussed here (Musonius
most expliclty) this act would be unnatural. But on the whole very few Roman writers seem
to have taken this kind of argument to heart. In general, ROMAN MEN’S
BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for purposes
OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only organ
suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment in an
epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL WITHIN
with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS GENITALS.
This is objectionable because it will speed up the process of his maturation
and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries to talk some
sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO NATURE. DIVISIT
NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE TUA Mart. The comment is of course a witticigm. Note the logical contradiction
that this playful invocation of nature creates. If the penis is designed by
nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s anus in the
way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same time use
his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl? See
chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with Martial’s
humorous invocation of the paradigm of nature with regard to masturbation. but
if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is designed by
nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to Martial’s
readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer tha man
onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus, reflects
the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and NATURAL
sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover, that
neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving Roman
text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a boy is
‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic
particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to
them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident
in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things,
Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep
in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero.
These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of
love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and
Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual
relations and only with their wives, the goal being the production of
legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell
u something about the world in which these three philosophers who made them
lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca
for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even
more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical
allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented
a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed
that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is
precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual
practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s
condemnation of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or
throwing nightime parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY
DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF
LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that
Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL
INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the public arenas
of the courtroom, Senate, or popular assembly, and that the argument appears NOWEHERE
ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise, it is
worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not only
wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its distance
from he everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher omitted
to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter reminds us,
Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical positions in his
speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to Lucilius offer a
tentative and experimental mixture of Stoicism and other philosophical schools (many
of his earlier letters end with quotations from Epicurus, for example). In any case,
Boswell, cp. 130 citing ancient sources claiming that the very founder of
stoicism, Zeno, engaged in sexual practices with males (perhaps even
exclusively) tnote that many ancient stoics actually seem to have considered
the question of sexual praticess between males to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally,
It is worth noting that both Seneca and Cicero were thought not to have
practiced what they prached. In a discussion of how Seneca’s behaviour often
stood in contracition to his own teachings, the historian DIO CASSIUS observes
that although he married well, Seneca also “takes pleasure in older lads, and
teachers Nero do to the same thing, too”. Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has
praton gamon te epiphanestaton egme kai meikarious exorois exaire kai tauto kai
ton Nerona poietin edidaxe. The historian goes on to insutate that Seneca
fellated his partners, speculating on the reason why refused to kiss Nero. One
might imagine, Dio notes, that this was
because he was gisuted by Nero’s penchant for oral sex. But that makes
no sense given Seneca’s own relations with his boyfriends (61 10 5 o gar toi monon an tis hupopteuseien hoti
ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton paidikon autou pseudos on). The younger Pliny (Epist. 7.4) informs us that
Cicero addresses a love poem to his faithful slave and companion Tiro. Of
course neither of these pieces of information tells us anything about Cicero’s
or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem could have been a literary game
and the stories a out Seneca that constituted Dio’s source may well have been
unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see McDermott and Richlin. P. 223,
Canatarella p. 103 assumes that they actually ENJOYED A sexual relationship)).
On the other hand, is it not impossible that Cicero actually DID experience
DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the company of MATURE MALE SEXUAL
PARTNERS. And abovre all it is important to recognize that later generations of
Romans (the younger Pliny and Dio) were willing to IMAGINE THOSE THINGS
HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s comments on Cicero remind us of the cultural context in which a
philosopher’s allusion to NATURA must be placed. Paolo Casini.
Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la legge
naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo, la
metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Casotti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del volere –
filosofia fascista – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my
master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did
Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti
tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling:
‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity
of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N.
Flew would scorn philosophers who use
a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word
meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello.
Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La
concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta
adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo. Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio
di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana,
indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia,
orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche
nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste
Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni
personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo
portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni
idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando
una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis
philosophia” dell'aristotelismo aquinista.
Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando
l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di
insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro
reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate.
Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee)
in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di
crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come
un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto. Fonda la rivista Supplemento pedagogico a
Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi
una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come
arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale,
sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da
seguire e adattare alle difficoltà del contesto. Altre opere: “La concezione idealistica della
storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La
nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla
religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita
e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali
di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia
dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di
pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La
Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico, Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia
nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e
Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa,
«Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un
Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale , L ' Idea
Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola , 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a
conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924.
There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with
a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and
director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance
in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he
is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin;
he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He
produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually,
he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or
end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi
di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno
e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica
Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e
radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi
tanto in voga, di autoeducazione, va meditata, seriamente, se non si vuol
correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione,
e il termine spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a
Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa
l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima,
che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e
superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di autoeducazione, va meditata,
seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di
accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!
Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o,
meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio
libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì,
"attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino,
e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine
attività al posto del termine autoeducazione, e il termine spontaneità al posto
del termine creazione, che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate,
in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e
la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando
quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione
cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia
- naturalistico, anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico
vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico
fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli
volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica
addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia
di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali
certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e filosofie
nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la
pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno
nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o
rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed
intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. I
saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto
l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche
nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno
che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al
quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a
testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla
fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta.
Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto
dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine
a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è
anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
De magistro, è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: che cosa è l'educazione?
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: come è possibile
l'educazione?. Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa
valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono
intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare
dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto
malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto
dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle
particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella
pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione
stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e
caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. Posto così, il problema dell' educazione
ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore
l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare
precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non
indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il
maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed
attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una
difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine trasmettere o comunicare o
qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del
maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto
imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo
educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a
tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede,
come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si
trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la
virtù. E questi valori tanto poco si lasciano trasmettere, nel significato
materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del
pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile
trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un
soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità,
sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al
pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi
che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla
radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce
dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché
non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione
come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere
dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la
correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica
socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi,
Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto,
nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da
Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare,
indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o
nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la
scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una
scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta
la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina
dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè,
che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione
filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina
il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via
scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo
estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza
nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e
dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla
chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e
della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano
concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva
presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse,
anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda
verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della
pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno d’AQUINO (si veda), incomincia da questa domanda.
“Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro
soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro
agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra
appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che
tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la
parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni
grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il
veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al
discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la
strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce
e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e
geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla
quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche
sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera
che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una
magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo
col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione
della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo intuitivo od
oggettivo, ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba parete [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola capo la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni
che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i
segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il
che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva:
la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal
maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono
essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni
sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto
interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che
le vengono date Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose
che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo...
per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore. E
che cos'è questa verità? ...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu
detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza
di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si
apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona
volontà. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione
nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo
spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle
possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova,
un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e,
in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque,
è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo
quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto
discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto
non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella
mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero
divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma
affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a
negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il
problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e
scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce
che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso,
cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una
soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De
Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare
dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare
così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura:
l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico
riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale
guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo,
ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di
manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al
pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e
l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una
tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto
gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli
scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di
cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi
conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi
di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che
l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e
concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per
non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il
trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S.
Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo
modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei
peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben
costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che
abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia
pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione
di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi
averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che
permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia
dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate
(della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica
(Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo
intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che
un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente
prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito,
esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze
implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi
futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere
una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa questo
problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero
tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun
dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo,
cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda
all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole,
benché con intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla
dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata.
L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma
incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto
da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a
questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano
sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive
che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del
De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i
principi fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque
possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. Quod intellectus omnium hominum
est unus et idem numero [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1°
pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate
dallo stesso Arcivescovo nel 1277: Quod scientia magistri et discipuli est una
numero... Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro,
all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270
dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione
riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di
interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare,
adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In
sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da
un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale
interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni
speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi
attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma
doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente
attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò
nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari
oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli
soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli
averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano
diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria:
differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al
massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo
a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo,
qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.
Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben
merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di
problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe
chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato
del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi
dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se
l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e
nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo,
almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal
difficoltà della comunicazione fra maestro e scolaro che tanto aveva
tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno
collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella
maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in
ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al
trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia
e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in
modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso
titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica
accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era
dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria
capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella
quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di
creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al
principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto
pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto
pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità,
riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare
una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé
con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non
conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi
gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma
alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di creazione da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro d’AQUINO (si veda). Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, l'averroismo è,
infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra
maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S.
Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise
che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che
quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua
immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico
intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum
hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab
ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc
quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint
disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener
presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono
la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima
intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la
molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o
all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto
del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in
quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i
quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto
particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel
fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no,
dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso
intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il
maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi
rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre
lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non comunica né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua
chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un Io unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di
una soluzione che non risolve nulla, poiché tale continuatio vel unio come la
chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, immanente.
Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di
contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede
appunto se sia possibile rendere immanente un intelletto unico nei singoli
soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è
ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla
teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, ...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro... [De Mag. Art. I ad 6.tum ...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina AQUINO (vedasi) ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme,
scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e
venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali:
come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. Quidam
vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita,
nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di
questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia
concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non
consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin
dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè
precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come
sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La
dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la
dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un
medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza
ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di
stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la
luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e
la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che
il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere,
fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel
maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un
Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e
lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e
involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed
evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica.
Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso
averroistico, AQUINO (si veda) ha effettivamente innanzi a sé già i motivi
fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la
pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne
è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul
magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal
presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le
difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce,
quella riguardante la possibile comunicazione fra maestro e scolaro. Se lo
scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla
dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale
contro l'efficacia didattica dei segni ond'è intessuto il linguaggio era
proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le
conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce,
non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro
il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza,
che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che
si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro
in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo
senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé
non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni
concetti primi, alcune forme o categorie come più modernamente si direbbero
(l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale
offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri
concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi
su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un innatismo
simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio
apriorismo capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con
una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi
la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che
aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'a
priori nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra a
priori ed a posteriori]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un a
priori nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra
ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della
scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per
partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole,
nell'animo nostro, ma solo in potenza ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza quaedam
scientiarum semina, cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le categorie. Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note
musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo AQUINO (si veda) uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza
umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una
attività sintetica. A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto
a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale
che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta
egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose,
come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente
alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non
esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente
contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) ...non se habet aequaliter ad omnia
intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se
nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest
nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur
explicando ]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi
principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto
semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le
altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che
conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai
primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se si
propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si
manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede.
VI. Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa
teoria d’AQUINO (vedasi) riguardante i primi principi, benché più volte abbia
dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
categorie di Kant, l' io di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'io, resta sempre vero che esse così
si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' io solo
fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose
potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono.
Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai
discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i principi
primi della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è
dunque tanto moderna e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di
tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni
e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto
per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un motore (indiget... motore)
che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il
processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è
un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti
da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la
scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere.
L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge
immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto
coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi
principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre,
mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo
processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno
d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la
maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni.
Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei
principi e delle conclusioni: inquantum
proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum
non haberet tantam virtutem collativam
[S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé come
sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche
un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi
principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro
animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al
primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi
non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati
che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di uno, di essere, ecc.
(primi principi) io non posso formare i concetti di animale, di vegetale, di
uomo ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini,
vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali
comuni io formo appunto il concetto di animale, vegetale, uomo ecc. Processo che S. Tommaso descrive così:
Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua
particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per
inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat... Non basta,
cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni
particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima,
col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la
conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed
imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile
molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il
maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o
proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al
lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed
esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse
[...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex
praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae. S. Theol.
loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro:
procurare allo scolaro aliqua auxilia vel instrumenta aiuti e strumenti di
lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto
quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza
diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.
Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio
che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto
viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi
principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo
passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della
Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente
il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della
Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i
maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma
perché davvero causassero, cioè producessero qualche cosa ...prima causa ex
eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam
quod causae sint [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause
seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde
significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio,
supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel
tale, difficile problema della comunicazione fra maestro e scolaro? E quella
tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni
sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a
queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni
tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di passaggio della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso
oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando
sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa
scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e
contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del
maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra
loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre
anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come
due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto
unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza
passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri
come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo
animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla
scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche
oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo
sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del
modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire
uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di
numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato
non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo,
il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che
qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo
stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che
aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale:
l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir
l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il
maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali.
Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero
che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto
che ...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et
per eadem media, quibus et natura [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è
ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica
alla natura. Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo
sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la
natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che,
ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello
stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto [Ibid. Si
cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza
fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento
come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o
si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema
della comunicazione? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa,
sia pur non trasmettere nel senso materiale della parola, ma anche solo
provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco,
come S. Agostino, anche AQUINO (vedasi) non mette in dubbio che lo strumento
principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e
siano i SEGNI ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che
S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il
carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della
scienza. Poiché il segno del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia
tutta speciale: è sensibile, sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla,
sensibilità affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità
degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della
sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il
fantasma o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed
immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il
fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle
sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già
l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò,
con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: il calore dilata i corpi. Che è quella legge? Niente altro che una
forma. Nella natura é la forma di quel processo che è, appunto, la dilatazione.
Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le
forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un
determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è,
appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne
abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si
dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione
partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che
potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il
corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni
particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E
come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua
volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo
processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli
corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti
videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione
universale! E si capisce: quella forma che è la legge della dilatazione esiste
nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una
materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma
bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne
seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è
formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste
precise parole: il calore dilata i corpi. Anche qui essa viene espressa con
segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili
quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza.
Che per poter dire o scrivere le parole il calore dilata i corpi si è già
dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge
della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole il calore dilata i corpi
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e
cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non
è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o
della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle
quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata d’AQUINO (si veda) Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi intuitivi od oggettivi escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima
puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo
scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole
dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza
nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle
une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi
la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza
"più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in
quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad
XI.nium). IPSA VERBA DOCTORIS AVDITA VEL VISA IN SCRIPTA HOC MODO SE HABENT AD
CAVSANDVM SCIENTIAM IN INTELLECTV SICVT RES QVÆ SVNT EXTRA ANIMAM QVIA EX
VLTRISQVE INTELLECTVS INTENTIONES INTELLIGIBILES ACCIPIT QVAMVIS VERBA DOCTORIS
PROPINQVIVS SE HABEANT AD CAVSANDVM SCIENTIAM QVAM SENSIBILIA EXTRA ANIMAM
EXISTENTIA INQVANTVM SVNT SIGNA INTELLIGIBILIVM INTENTIONVM. E sappiamo già che
cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto
indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo
visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte
dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere
dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente,
attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato
finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari
forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo,
è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e
sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo
scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli
elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli
elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può
anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce
se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del
maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e
farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al
nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del
maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che
la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della comunicazione fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei segni fonici, mimici o grafici di cui si
serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e,
insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza
nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera causa di scienza allo scolaro -
San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i segni del maestro, ma
il lume intellettuale e i primi principi dello scolaro stesso, il quale scopre la
verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo
soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i
primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il
raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il
maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro altro errore che AQUINO (vedasi) combatte
continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro non è
già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume
intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera
superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano
l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo
riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di
Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.
L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la
natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento
rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso
un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi
si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più
brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo
paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni
abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: acquistar scienza da sé ed esser maestro di se stesso. Che cosa vuol
dire acquistar scienza da sé secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non
quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi
principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza
sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere
nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella
natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un
esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa,
così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui
estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da
parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della
esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a
che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che
chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato.
Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè,
la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De
Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar
confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma
se questo processo é, innegabilmente, acquisto di scienza, è poi anche
insegnamento, o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è
un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò,
l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale
noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e
nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella
mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di
certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque
nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo
che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione
che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua
mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento
sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi
parlare di vera e propria azione (azione perfetta) é necessario che l'agente il
quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò
che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il
fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col
calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non
fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione.
Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa,
appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli
effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e
propria azione (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto
tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il
soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto,
esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel
discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione
solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia
l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò
che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure)
ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di
scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta
escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S.
Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo.
Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo
all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice
insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che
dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a
quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura,
il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un
filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e
spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo
tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per
camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode ...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam]. Né si creda che quel ridurre a scienza più speditamente, sia
solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente
realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito
sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo
genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che
non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma in potenza o come pura possibilità di conoscere, non già come atto,
o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa
reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma
in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può
dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è
la pura possibilità di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere
in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la
scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una
pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il
figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla possibilità di vivere.
Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in
atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la
differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo
questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un
germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa
o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la
realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel
quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab
aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi
rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco,
quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo scoprire e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga
l'inventio: se prima non abbiamo scoperto o tratto dal nulla la scienza, che
cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è
vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè,
scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che
cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà
la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure
forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire
come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve
saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume
Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1930]. Basti qui
ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si
ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della
scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in
cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda
disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina
piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba
avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore,
il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per
ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume
intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze
d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata
dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e
a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i
secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della
scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere
sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello
Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in
luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio
medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione,
oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche
per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e
dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto
l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De
Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi
della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di autodidattica, quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
medioevalisti, come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa pedagogia
così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi,
l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso
un antico più vero e, perciò, più moderno del moderno: l'effetto di una novità
addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in
tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita.
Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite
nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti,
mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un
uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì
la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le
specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il
catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte:
avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e
soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di
più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e
commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del
Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole
forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione
divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli,
e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi
scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione
l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i
due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o
entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di
educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia
e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le
scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la
ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo
caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo,
ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di
nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della
natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un
solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I
quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua
della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo
medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la
preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere
umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica
legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo,
verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo,
s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro
d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora
conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della
educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure
soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto
puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di
attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione
naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di
queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise
come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle
quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non
potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad
affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione
sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando
non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le
permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità.
Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani
come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la
verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra,
come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o
le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando errori
la filosofia e peccato le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo
come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così,
invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo naturalismo ch'è, in fondo, una
ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle
tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro naturalismo niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al
bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e
l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il
bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese
o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo
bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli
uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini
arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno
nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza
umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i
viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può,
è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed
ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che
nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo educato? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta
da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo
Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in
ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo
tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i
fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero
esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero
chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace
e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la
corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso,
fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua
esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i
metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si
potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e
cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato
su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto
fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che
un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale,
dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare
i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità,
quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa
conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima
era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero
e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere
sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si
presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale
natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo,
chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata;
come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato.
IV Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni
particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a
confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema
dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il
maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale
veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente
dell'altro. Se il discepolo è stato attento, se i ghiribizzi della sua fantasia
non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il
maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la
lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva
imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli
malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e
per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può
ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la
lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno
se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle
sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non
fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è
sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e
dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni,
appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia,
specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo
semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per
istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola,
infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un barbaro che
vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee semplici, che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e semplificare, tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo intuitivo
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi
che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni
scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando.
Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel
miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile,
partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un
processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza
un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche
per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e
fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e
far contare: se il ragazzo è disattento, se si rifiuta di far scattare la
scintilla ulteriore del pensiero, se non vuole ascoltare, nessuna
costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa
ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i
buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da
circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro
artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed
artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre
quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una
istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile la nostra
dimostrazione. Concediamo pure che il metodo intuitivo possa, da solo, garantirci
per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo
intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso
ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei
sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in
proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare
dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali,
pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una
esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che
quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che
la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo
intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole
insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che sapere scolastico è sinonimo
di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la
nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è
potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni
ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei
casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni
astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti
ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e
dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello
del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta
realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate,
eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri
secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica? Ma supponiamo,
ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano
sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e
tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e
sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica.
Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle
fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio,
ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla
quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i
difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto
modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un
ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti
che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali
non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione
o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per
caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il
limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale,
supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. Questo, per
l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione
morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta
contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la
sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze
inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un
lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei
metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi,
scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti,
umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce.
Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza,
le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una
parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell'
educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli
uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il non
rubare, non dire il falso testimonio, non desiderare la donna d'altri e simili
precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni
di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che
suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse
garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni
filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà
lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in
pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli
in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita.
Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può
farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere
intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere
educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato
nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti
predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la
virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo
necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta
costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo
dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che
l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per
imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee
scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma
questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze
naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso,
avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata
dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria,
sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove
maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il
fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle
inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI
Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una
conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione
mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non
disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la
compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e
intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a
un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in
poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla
madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un
selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro
se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un
dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a
camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento.
Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che
realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'io immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere,
nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. Materia, spirito, evoluzione o storia, sono tanti nomi del mistero:
tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo
raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e
contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso,
dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe
come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le
carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione
fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha,
invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e
nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa
sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei
suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di
cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che
compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano
anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo
nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il
delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà.
Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che
si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.
La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe
entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia
compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a
tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le
incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia
di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in
quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma
la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno
questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale,
l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile
e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire
assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una
educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna
contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale
nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile
nello stesso senso in cui i teologi parlano della utilità della
rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è
d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi,
appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la
sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le
resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi
della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al
bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare
all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze
inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la
fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di
genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta
educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un
solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale
volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di
macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il
genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione
naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per
realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il
suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le
sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la
sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante
tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi
intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della
pedagogia. Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico
nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata il 17 dicembre 1924. È importante che il
lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo
studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono com'è ovvio assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi. Domando
scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così
poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove
si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e
nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da
quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi
capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un
organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti,
tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come
l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come se mi perdonate il
brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani,
mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è
dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità
riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la
curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da
un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più
mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole
di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano
qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare
nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano
immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non
abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto
dei discorsi sull'anima della scuola, sulla sacrosanta necessità di educare
oltreché istruire, sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione
un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei
discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana
nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
forse per ironia di concetto, nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa
che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le
nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e
neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo
non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'analfabetismo morale insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma GENTILE (si veda):
i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel
loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che
accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto
spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora
paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un
mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del
mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina
eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come
la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome
tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le
lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae
dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli
edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno
spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello sforzo gioioso base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi ponga mano ad
esse, ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una cultura nel senso
di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello
spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della
scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza
un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse
in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella
stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la
formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un
lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel
mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza
interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed
eccoci a quello che dicevamo prima sull'analfabetismo morale, ben più
pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il
medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale
d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che
siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di
riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il
funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico,
lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche
legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e
l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di
conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni
intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi
a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla
prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi
nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi.
Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche
qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla,
cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il
contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e
capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera
superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
romana, le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri
tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, va a divertirsi in un modo più o meno
discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso,
l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
moralmente analfabeta che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio
d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e
della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale
e democratico, quello dello stellone, non fu purtroppo accessibile al pacifico
lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee,
sulle riviste, nei libri: se non aveva il fattaccio con morti e feriti, non si
scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di
quei metaforici morti e feriti che sono i bocciati alla scuola media. Da quanto
tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi
pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i
padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro
figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo
denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese
fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più
andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni
socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi
in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole,
erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse
presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti?
Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come
parlare al muro. C'è voluto il manganello dell'esame di Stato colle conseguenti
bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile
della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli
e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema
scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro
scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità
della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il
compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole
elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo
sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche
energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla
sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla
primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice
del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto
vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema
dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto
contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi
poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola
e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a
sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la
scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che
servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come
nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le
più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì
che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere
socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista
perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così
voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai divertimenti
dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche
nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e
che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non
solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai
saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da
voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto
dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi
aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza
dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito
d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado
ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere
quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre
legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete
di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un
istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi
siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo
tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo
insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi,
concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci
pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò
non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto
piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola
modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può
offrire. Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e
più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non
parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente
altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere
non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un
momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la
Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il
diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni
nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con
ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata
non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza
moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a
questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne
siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per
cui non c'è parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani,
la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che
il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente
culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una
scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per
poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della
vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica
d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale
insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche
dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad
alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la
loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e
necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano
ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il cattolicesimo è
vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del
passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e
ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano
anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista
Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata
l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio
delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena,
elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta
dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio
spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna
incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti
lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto
satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle
migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito
educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede
che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa
cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni
umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio
letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione
estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua
retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo
astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso
contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le
lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura,
l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno.
E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora
circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione
francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in
un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era
entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le
nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli
impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei fatti e
delle notizie e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i
criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il
segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo”
o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali
pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo,
per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita
superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura
“egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo
spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso
contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso
l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò
egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque,
la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e
della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve
affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista?
No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni
pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento
dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta,
limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con
dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti
che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà
superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando
guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei,
essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il
caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio,
tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il
più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica
è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna
in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del
realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre
insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica
prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est
necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite
per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia
cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla
filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via
su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia
divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza
fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché
il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile
anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve
riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il
circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo,
nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro
che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal
terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della
storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata
categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in
ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da
proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente
prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui
radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali
e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata.
Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha
avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco
perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno
dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che
facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai
disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura non
è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini? Problema, si noti bene, assai più facile
in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli
forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società
moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche
ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni
della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni
intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del
giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille
servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover
toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli
altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato
su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile
tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della buona novella queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei poveri e degli ignoranti, sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur
raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali
consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo
che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando
l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante
pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto
filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente
intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi,
naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in
sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa
distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state
già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da
meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione
della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il
presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro
manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo,
stoltissima empietà non meno che ecco la
vera parola barbara distruzione della
libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di
precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente
osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo
di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei
giorni che sono di Dio appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato
ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender
coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti
i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo
spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna
vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone,
lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei
così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più
adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha
sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare
come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica
e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe
arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i
grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la
prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha
affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione
delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la
musica si fanno docili strumenti della verità?
Oggi si raccomanda il metodo attivo, si biasima il verbalismo della
nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non
sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e
l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di
libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi
lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano,
di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni
insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta
parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto
agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente
dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio,
perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia
razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi
pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il
compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le
contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato
anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti
dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i
Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro
collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione
clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo
spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi,
un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle
tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle
esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla
quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le
altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente,
in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di
raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto:
sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio,
umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia,
religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita
dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere
il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere,
strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la
cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso di filosofia, e si sente tuttora
negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per
ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe
molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza
dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse
specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene)
debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo
intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione
cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero
ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione
religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito
trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono
nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento
religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo
desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il
turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non
tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene
dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il
problema filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per
convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale
corre, si può dire, sulle bocche di tutti.
Che significa si domandano
molti questa dottrina cristiana che deve
essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano
escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli
autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma
allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove
andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è
vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma
che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre
l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni
vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il
Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo!
Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla
quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza,
anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare;
l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno,
ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto
necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche
il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il
suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere
questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un
individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza:
mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste
del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più
gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la
civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato. E, poste queste
premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso.
Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio
secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e,
afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e
voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa
pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e
sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia
col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati
sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa
più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente
devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante
spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la
filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo
quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori
e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi
timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se
ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei
secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma
giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento
e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima
cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente
parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta
avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi
stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al
presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e
su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si
vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per
relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe
inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi
quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e
guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della
ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di
chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati
sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la
nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci
sia avvenuto d'incappare. Cominciamo con l'osservare subito che la questione
che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte ed AQUINO (si veda) dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro
armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica.
Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi
filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso
e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della
immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la
verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi,
offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a
preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo
noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso
parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia
della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo moderno non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato
ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o scolastico,
“tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una
semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa
piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del
filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono
parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera
ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente,
ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di
spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento
adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei
cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e
non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso
che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non
scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste
parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero
per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente
quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E,
infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener
vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o
irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è
costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa
soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai
ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si
costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente,
lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a
memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele od AQUINO (si veda), come quelli coi
quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così
sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente
“siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue
parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di
Aristotele e d’AQUINO (si veda). Ma pretende, invece, che i suoi uditori o
lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi
contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li
riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è
certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già
scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant od AQUINO
(si veda). Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in
nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero
non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare
nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la
libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se
non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser
libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa
fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici
poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i
filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro
filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici
esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale
processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la
verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza
mutare una virgola, l'una e l'altra Summa d’AQUINO (si veda). Onde, la facile
accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò,
diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica
fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per
l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla
quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e
cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico,
infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la
parola e non la cosa, i libri, e siano pur d’AQUINO (si veda), e non la
dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di
pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli
altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una
dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico,
infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto
processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della
ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia.
Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno,
non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene
arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo
mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando,
dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e
le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e
originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso.
Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca
dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o
scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il
pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono
d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula
in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno,
debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben
inteso, finché colui che esamina la dottrina proposta non sia in
condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la
propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed
esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli
erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così
vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può
afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a
raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì
appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o
scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in
libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato
esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la
rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica.
Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro;
che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter
riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e
deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule
delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in
questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un
vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma
anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o
scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la
libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di
fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del
progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San
Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o
Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più
avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche,
vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato
trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune
formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono,
necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo
sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta
dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta
d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il
positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere
Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una
dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero
umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino
l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con
l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni
tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per
essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato
oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia
tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la
loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei
sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di
non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non
avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche
altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo
medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina
rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior
modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura
quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né
scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe
l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati,
legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito,
il difetto d'essere inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco
verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate
antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o
di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da
pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi
filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente
o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono
trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito
e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
scolastica che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi
termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è
ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola
dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un
atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a
quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico
non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il
filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della
filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a
“crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento,
questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela
almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso
cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran
numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa,
quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore
alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno
spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla
conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro
ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra
concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è
tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le
altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria
filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non
è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo
scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera
alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto
mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è
evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche
quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre
esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto
quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude
assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè
distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due:
o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano
fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le
filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il
concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma
eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e
allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi
sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di
scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia
l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale
dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere
tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo
concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non
sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in
considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di
necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in
un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con
l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità
inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che
in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una
o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che
ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della
propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli
stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la
storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare
entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del
kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un
dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta
variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele ed AQUINO (si veda),
Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici
riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per
la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non
meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente
moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra
modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e
così via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte d’ANNUNZIO (si veda), o di MARINETTI (si veda) è superiore a quella
d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte
moderna: ora, dai tempi antichi, dei greci, ad oggi si sono effettuati
innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in
progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai
ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale,
dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre
ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo
nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si
vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è
l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia
dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove
il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di
Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di
negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con
l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale
dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile,
e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la
filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve,
quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che progresso
possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il
quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto
come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio
colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una
parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale,
intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da
individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi,
come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la
Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né
del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone
ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come
la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto
criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di
“creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere
anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così
come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a
decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera
filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande
maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece,
di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema
di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o
scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo
contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di
“giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il
gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono
stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e
ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti
nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande
apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi
il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della
verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi
moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione
ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia:
necessaria non norunt, quia superflua didicerunt: il che la conduce a limitare,
nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale
tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro
intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla
necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto
sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla
storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita.
Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci. Ma
l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla
scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta.
Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la
maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura
filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle
tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a
raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi
antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di
richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora
ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è
una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo
di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in
ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di
Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi,
formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita?
Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di
studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico
dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo
qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni
carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che
l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno
è libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe
certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì
che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in
quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita
dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile
a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi
filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé
ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi
e nelle scienze stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è,
invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono
costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo
il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della
verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E
il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di
alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del
genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa,
chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali
costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non
ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello
spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica,
sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno
che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione
del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine
di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le
hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema.
Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma
nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con
diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il
cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto
poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo
attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo,
sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre
filosofie di cenacoli intellettuali, quasi a darci una riprova della
costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed
assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia
a storia d'errori, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
moderna è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna
parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto
mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est : ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso
infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia
moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e
disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un
suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola
alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più
intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una
dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le
altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata
della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante,
affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e
addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima
umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del
fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto,
bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che
vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito
dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia
cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento
dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano di Crispolti, possa valere quale sufficiente
giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi
dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè,
che le lettere pedagogiche di Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i
loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno
fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi.
Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella
prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere
in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università;
rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi
concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero
che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto
che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno
preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter
condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio! Noi, per
conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio,
di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche
maggiore. L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una
bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata
attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in
educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare
che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé
nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale
nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla
quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito
in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale
alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che
uomini come Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione
alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che
loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più
acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e
quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per
trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico
spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il
mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e
pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre
cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori
sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o
meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione,
alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità
vivissima, aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i
problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi
tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver
raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti
è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli
studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi,
in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della
parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni
educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così
giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni
intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi
della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza
europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso -
pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo
dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo
agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso
ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua
incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua
continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al
fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le
singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende
negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente
deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare
in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma
è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte
materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal
Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci
dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il
Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e
a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non
s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di
ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si
possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda
interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno
fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es.,
dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via
discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”,
delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta
cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del
pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico
dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa
che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza
moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono
fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che
quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche
se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante
della cultura e della vita. Si direbbe anzi, più precisamente, che il
Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono
nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a
quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede,
in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità,
non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso
delle doti spirituali che, pur non interessando apparentemente la
religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano
della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla
cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal
fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra
l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione
stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune
estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo
commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che
annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio
accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo
tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia
alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di
attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione
religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene
nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor
suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza
imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con
facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare
a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che,
come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre
facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio
di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo
curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto
meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a
lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea
in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle
fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù”, definì or non è molto CROCE (si veda) il concetto sostituito dalla più
recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non
impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui
rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio
della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la
legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può
comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere
senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una
soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica
della virtù poiché non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò
che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro
serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme,
per un ardore che tutte le supera e le fonde (p. 16). La carità, l'amore di Dio
possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina
stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si
richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e
sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce Crispolti, la santità eminente non
è da tutti. Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce: che cosa avrebbero
dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore
dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui una qualità terrena che
poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi
convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente
a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura. E allora Don
Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi
che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle
minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza
dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di
esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una politica della virtù. Poiché
Crispolti rammenta certo che sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo e
che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie
della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la
saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben
intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese
contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore
dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati
perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa
preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto
ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è
una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a
mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla. La strada più modesta è
appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da
quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella di CROCE
(vedasi). Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine
morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta
dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della
parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio
terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì
quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come
poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente
avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano:
allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte più o meno passionali perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una politica della virtù: non perché si sia facilitata la
virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica,
ma perché, esorbitando la virtù pura dai mezzi di educazione umana, si è
ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù umane e perciò già
in sé stesse passionali. Conclusione di tutto ciò è dunque per il
Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti
umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente
quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio
possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere
anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando
due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal
fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio
riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione
fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del
coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel
concetto della pedagogia moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo
non è già la formazione del robusto ed agile animale, bensì quella del robusto
ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a
tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere
spirituale. Al qual proposito bene osserva Crispolti, parlando delle società
cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere,
non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni
sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili lo scopo di far
servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò
che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a
tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria. E quindi ai troppo
facili satireggiatori della ginnastica cattolica, il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una cucina
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia
cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? Non
si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della
stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi
superba? No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il
più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella
cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un
dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni
nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva Crispolti, è spesso quella
ch'essa consista soltanto nell'ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi
dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne
compiacenza. È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto
positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il
titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece l'umiltà è concepita
in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza,
non come un viluppo di precauzioni e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal
punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il
proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé
fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino
il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor
proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido col solo
riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso
Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la
fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi. Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io. La filosofia
qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere
queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato
irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della
pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato,
che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo tentare Iddio pretendendo
ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in
casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le
somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare
l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la
sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa
quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti,
la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra
l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. Le quali
sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da
tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula
stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere
che si chiude; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i
nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano
all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura
oltre la giovinezza e la maturità degli anni. Ch'è, in fondo, lo stesso
principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la
pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che
meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che,
cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o
della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione
dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere secondo
spirito e verità è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della
religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro
applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla
diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare
un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso:
essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento
sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento
religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno
illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga
religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa
di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica
ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica
nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove Crispolti
ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una
letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri
motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su
l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui
il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'aNNUNZIO
(vedasi) o ad un PASCOLI (vedasi)? La ragione è sempre la stessa: pretendono
gli artisti cattolici di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro. Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di LEOPARDI (si
veda) così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno
come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se
stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti
gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni
interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma
della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta i figli delle tenebre
sono stati più prudenti dei figli della luce. Ciò è quanto dire che, dal punto
di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito
tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda
applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti,
viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire: talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a
far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di
Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata da Croce in poi avrebbe in più per
Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe
l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di
vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti
viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli
molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal
pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero
una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera
su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel
parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il
positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico
postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento
se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone
degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere
pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la
morale, Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il
fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i
mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile
incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini,
delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In
linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre
sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato
quello che il nostro chiama appunto il fine. Ma ciò non implica soltanto
superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia.
Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica
e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e
la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi
moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su
senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: voi vedrete — dice il Nostro — che in
tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente
di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole
esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli
incomincia a pronunziare. È il principio del “punto di partenza” da trovare
nell'animo dell'alunno. Ma Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare
che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del
mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la
pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il
fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni
- il mondo spirituale dell'adulto. Crispolti giustifica qui, in certa guisa,
l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre
simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena
che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le
ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il
pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i
preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna,
non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e
d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari
di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua
specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver
dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice
piaga che Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e
quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto,
secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è
istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati
efficaci per l'uomo, come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse
nessuna via di mezzo. E invece non si è pensato alla differenza di abitudini
mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi
interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo
pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre
la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla
scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo
inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo
i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale
la cura di fare il resto. La più elevata e piacevole erudizione delle donne è
quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per
un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle
partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare
in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma
l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile. Non importa se per questa
via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra
loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo
campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle
singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo;
elevazione per cui la donna non pretenda di scoprire né di classificare, ma
giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare
il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore.
Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far
assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo. Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa
riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi
sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il
bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la
stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella
interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla
moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i
quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione
mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati,
seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al
dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti
torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti
fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la
diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di
pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono
chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso,
la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del
senso pratico? Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente
senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la
vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata
dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e
nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che
facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici,
nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non
acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di
baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle
scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi
istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava
intatta. E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò
rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che
nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire
nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa
diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni
più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori.
Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli
esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un
Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre
sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed
efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel
campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è
l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che Crispolti sospetta se
ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se
davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la
vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri
soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci,
invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse
di novità, Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per
scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini
ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per
restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte
assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti
ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo
spregio di Napoleone verso gli
ideologues !). E che siffatte personalità dovessero nascere e
adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per
quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la
loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta
nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé
medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si
domanda: fu vera gloria? e non sa rispondere se non col rappresentarsi
l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata
dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, dove è silenzio e
tenebre la gloria che passò: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e
cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e
modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel richiedere a
chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere
uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì,
ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo
pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la
mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì
una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente
col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della
necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la
religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla
sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità
significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole
quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto,
consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle
situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per
districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e
tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini,
c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel
complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile,
meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È
grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle
personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata
dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di
scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a
compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la
necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi
richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare.
Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e
l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le
grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice
capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo
normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra a Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e
lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano
carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come
eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti
pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile
raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti
formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra
anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi
personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare
incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono
spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro
attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato
a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della
sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le
perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze,
dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico
e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è
una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per
sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima
una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio
dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni
ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale
della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi
schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico)
ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica
delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da
formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono
essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino
opposte. Non è ancora spenta l'eco delle
discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione
dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi
autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato
il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel
quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate
libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni
altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che I Diritti
della Scuola hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, I Diritti della Scuola
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto, doveva trattarsi, come pare ovvio,
d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della chiesa cattolica.
Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924
sembrano invece, al redattore de I Diritti, ispirati a una ben diversa
concezione. Non arido dottrinarismo o meccanico formalismo ma poesia e quasi
canto della fede, doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa,
ma l'opera religiosa di MANZONI (si veda) e le figure più edificanti del suo
romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il
significato di quelle espressioni è, sempre secondo i Diritti della Scuola,
molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: La tendenza era
dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore
del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più
puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri.
Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste
letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la
luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà
percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco
l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei
dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico,
anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e
poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del
maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si
impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve)
dalla lettera dei sacri testi. Noi non vogliamo rivolgere a I Diritti
della Scuola alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre
volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con
noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de I Diritti
si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso
come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello,
potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la teologia, la liturgia, i
dogmi e i misteri costituiscono, non già la religione ma un suo irrigidimento:
il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica,
ma un arido dialogo, e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'anima ingenua, le aspirazioni sante, i sentimenti puri del fanciullo e
dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare
nella scuola che arido dottrinarismo o meccanico formalismo: se volete la
poesia e il canto della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che
prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile, insegnerete la religione
secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il
bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'arido
dottrinarismo che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi
didattici o alla circolare, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, I Diritti della scuola. Ripetiamolo
ancora: sarebbe ingiusto addossare a I Diritti la responsabilità d'un cuore
così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un
pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come poesia e come
canto ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo poeti non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del
resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed intuitivi e parlano all'animo anche
delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi
sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui
si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della
Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro
trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso
raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità
costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura
medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo intuitivo
e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e
il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando
ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là
da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è,
neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il
movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità
ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno
progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni
Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la
volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi
testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una
parte notevole. Per gli amatori di curiosità pedagogiche ricorderemo gli
esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione
dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava
le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai
fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti
espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal
costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria
e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio
degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più
remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi
minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo
montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento
della teologia o del catechismo, che sarebbe, in fondo, una teologia elementare
per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia
è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è
l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può
afferrar bene l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato
così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare
stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della
liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a
nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina)
produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche
scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di
senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio
pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso
coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato
di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il
catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di
arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola
e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma
ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla
liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le
verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti
colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute,
sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà
rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure
anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È
difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un
idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo
giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita. Questo non
vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì
per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico,
intuitivo ed attivo condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta
nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla
carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile e la circolare dello stesso ministro, o i programmi
didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica
nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la
"poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e
connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così
geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti
suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o GIOBERTI (si veda). Che
se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i
programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà
delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia
italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è
il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei
filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in
poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la
nota de I Diritti è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo
d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il
cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità
filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano
riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le
ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte
delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
tras-mettere, nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke
nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal
genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto
Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il
soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima
personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade! XI
suo soggiorno in Italia Terminata la sua opera, Schopenhauer non si decise a
tornare nel Nirvana, come torse si sarebbe potuto credere; al contrario
senza nemmeno aspettare le prove di stampa, egli partì pel paese più bello e
più ottimista che vi sia sotto il sole, per la. véna terra promessa, per
il paese dei paesi, per la bella Italia, Con ragione si è detto che !
abitudine di vedere la vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il
cielo splendido d’im paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso
diventano Ja causa d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pessimismo
che persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che
Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova convincente, se prova ci
vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto
comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in
mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c’invita a prendere con
leggerezza resistenza ed a gettare lontano da noi ogni cura, ove Paria stessa
respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il programma di
vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in Italia sono tutt ? altro
che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili si rinchiudeva in
se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere che possano colmare
questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era il suo espresso
desiderio di sfuggire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi
mPesea per la curiosità fredda e
maliziosa del pubblico , così rispose molti anni più tardi a coloro che
lo esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari
biografici. I suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome
contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza
raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che
poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere scritto una
grand'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato. Non era
tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera quanto
voleva far credere. Il trattato sulla Quadruplice Radice era stato ben
accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore l’attenzione generale più
di quanto sogliono farlo le dissertazioni universitarie; era
giustificabile che sperasse che la sua opera maggiore dovesse suscitare almeno
lo stesso interesse. Egli corresse le prove di stampa che gii furono mandate
ed a petto k pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in
linguaggio poetico. Unv er schami e Vers e. A us ]
anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s einpor aus meinetn
innern Herzen, Es festzuhaHen haMch lang gemngen,
I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen. Mogi Euch drtim
irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri, Des Werkes Le ben kòimt ihr
nìcht gefahrden; Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr
vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten. Nel
frattempo visitava le principali città <MP Italia settentrionale;
frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare la lingua italiana die
egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi
profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire le
opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto
abbastanza curioso, — PETRARCA (vedasi), il poeta di Laura e dell 5
amore. Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio caro PETRARCA
(si veda). Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato
nella profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno
dritto a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi
e le sue can- a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle
orrende contorsioni d’ALIGHIERI (vedasi). Trovo il fiume naturale delle parole,
che sgorgano dal cuore, molto più
opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di Dante, a Petrarca è
sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio cuore. Quello che concorre a confermarmi nella mia
opinione è il tempo a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa
parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il
confronto di Dante e Petrarca nel
loro costume intimo e non ricercato, cioè in prosa, eon- K frontando per
esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di pensieri e di verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu
mundi, De rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed
asciutta di Dante. Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii
Schopenhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della crudeltà. ed
il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del sentimento
d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per Ariosto e
Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto alla fama
europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle
ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li
considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso
degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti
italiani. Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente
attirato dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non
potrebbe sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole
generale della sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse
fatto entrare nello studio dei colori. Schopenhauer non volle
mai ammettere che i due anni possati in Italia fossero stati per lui due
anni felici, sosteneva, che mentre gli altri viaggiavano per
divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi materiali in appoggio del
suo sistema, e nel suo notiziario scrisse has- stoma di Aristotile
: 6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl. Però ricordava con
piacere questi due anni, dico con piacere e s'intende fin dove Schopenhauer
ammetteva il piacere; negli ultimi giorni della sua vita non poteva mai
menzionare Venezia senza che la sua voce tremasse, il che prova che
Pamore che ivi lo tenne stretto, non era interamente dimenticato, sebbene fosse
morto. Senza dubbio, la seguente nota scritta a Bologna in data del 19
novembre 1818 tradisce qualche contentezza. Appunto perchè ogni
felicità è negativa, accade che non ce ne
avvertiamo affatto, quando ci troviamo in uno stato di benessere; lati
sciamo tutto passare dinanzi a noi liscio, e con dolcezza fino a che tf
questo stato è passato. La perdita soltanto* che ci si fa sentire
con chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso si aggiunge alla privazione, b
Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo
vi èanche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili. E J strano che
essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel genio di Byron
la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi sarebbero
andati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè Leopardi. Un
dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il giovane conte erano
confrontati, fu pubblicato nella rivista contemporanea del 1858, e
Schopenhauer non si diede pace prima che non sì fosse assicurato di
averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf azione il trovarsi
associato col giovane che egli ammirava così profondamente (ed a cui, diciamolo
tra parentesi, Io scrittore De Sanctis, non ha reso giustizia); gran
parte della sua soddisfazione, proveniva vinche dal fatto die egli vedeva
elio la sua filosofia si era fatto strada fino in Italia. Non avveniva spesso
che egli fosse contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non trovava mai
che lo avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uomo, così diceva,
lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia
per la prima Tolta, e pii scrisse : chiunque si trova repenti nani ente
trasferito in un contrada
totalmente straniera, ove prevale un modo di vivere e di parlare differente
da quello a cui e pii è abituato, ha il sentimento di chi inaspettata mente ha
messo il piede nel F acqua fredda. Egli avverte subito la differenza di tempera
tura, sente una forte influenza che agisce dal di fuori e che lo rende
infelice; egli si trova in un elemento
estraneo in cui non sa muoversi comodamente, A questo si
aggiunga che egli si accorge come
ogni cosa attira la sua attenzione e che teme di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti.
Ma dal momento che si è ealmaio, che ha incominciato ad assorbire la. nuova
temperatura e ad abituarsi al
nuovo ambiente, egli si trova bene come difatti si trova un uomo nell’a equa fresca. Egli si è
assimilato a!1 J elemento, ed averir do perciò cessato di occuparsi della
propria persona, rivolge la sua a attenzione esclusivamente a ciò che lo
circonda: ed ora, appunto perche lo contempla con oggettività neutrale, egli si
sente superiore al suo ambiente come prima se ne sentiva
schiacciato, Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il
nutria s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane
tempo c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si
succedono a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In
real- tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo.
Quante volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima
parte di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due casi
il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra mente
un'impressione, prima d'essere dimenticato, impressione che concorre a
formare e nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a memoria serve
soltanto a riempire i vuoti della testa con materie che ci rimangono
sempre estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; il recipiente
dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. Schopenhauer era d’opinione
elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate le
opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne
incontriamo un altro; mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in
un secondo ne troviamo degli
altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da questa valle di miseria!
\ i a gg ian do veciiamo 1a vita umana sotto ni olle fori ne diverse : ed
è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, vinggiando, non
vediamo che il lato esteriore del la v if a u ni ana ; cioè ne scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte non
vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo centro,
cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il suo carattere
si manifesta, quindi, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio
dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non
li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stantìi ehezza del viaggio.
Schopenhauer studia profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la loro
religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un ordine per
ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo doverlo
guadagnare. I preti sono i mediatori di questa transazione. Ogni religione
positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono che per diritto spetta
alla filosofia; i filosofi quindi la coniti attera uno a sempre, anche se
dovessero considerarla come un male neccessario ed inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior purte degli uomini. a La nuda verità non ha
la forza di frenare le menti rozze e di cote stringerle ad astenersi dal male e
dalla crudeltà giacche esse non santi no afferrare queste verità. Di lì il
bisogno di storne, di parabole e di dottrine positive. In dicembre ièlS la
sua grande opera vide la luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò
una copia a Goethe. Poi nella primavera del 1819, egli si trasferì a Napoli;
Goethe accusò ricevuta del dono per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle
predilette del vecchio poeta. Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e corniliciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il
biglietto qui unito, dieendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che
tutto il libro .dovesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire
i libri nei posti più notevoli;
così egli mi disse d'avere letto le pagine indicaie ed egli spera di poferii
scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli desidera che
io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi disse che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa fino allora non aveva mai
osservato in lui. Egli le Ka detto che ora aveva. un divertimento per tutto
ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo e credeva
che ciò lo avrebbe occupato per un
anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti
sempre a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della rappresentazione e del linguaggio, sebbene la
tua lingua differisce da quella degli altri e che occorresse prima
avvezzarsi a chiamare le cose come tu lo vuoi. ila, continuò, quando una
volta si é pervenuto a queste, allora
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione
della materia gli piaceva ;
solfante la forma immaneggiabile del libro non a gli dava pace, e si
convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a fumi. Spero di
rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il
solo autore che Goethe legga in questo modo e con tanta serietà Nondimeno
Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente
attenzione ; che il poeta avesse già speso il poco interesse che aveva per le
questioni filosofiche. A Napoli Schopenhauer fu principalmente in rapporto con
giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua
vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti
ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro
pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione
della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T
Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta,
un errore die sempre lo esalta. Tutto quanto vide, concorse a confermare
ed a sviluppare il suo sistema filosofico. Rimase specialmente colpito
dal quadro di un giovane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di
questo quadro illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime
che, secondo il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé
stesso. Il quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse
piange alla Corte di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie
sventure, Questa è l’espressione più alta idi e possa avere la compassione
di se stesso. Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto et La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto
quello che è il 'uose di maggio
per gii alberi, questi durante la stagione prh <t maverile emettono
soltanto dei bottoni che poi diventano frutti L’esteriore, di Schopenhauer
doveva essere caratteristico, ma la sua bellezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa potente col loro sguardo acuto e limpido.
Verso quel tempo un vecchio signore a lui perfettamente estraneo, gli si accosto
in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un giorno un
grand’uomo. Anche un italiano, che pure non lo conosceva, venne da lui e gli
disse: € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non so cosa
sia, a ma lo vedo nel suo viso. Un Francese che alla tal)le cVhote, gli
sedeva dirimpetto, ad un tratto esclama, Je ooudrais savorice qu il penrse de
nous autres j nous devom par altre hien petit s à ses yeiux ! Un inglese
rifiuta assolutamente di cambiare posto con le parole: Voglio stare qui,
perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. Nel riposo egli rassomiglia
va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma il cranio
di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle
ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò pozioni
straordinarie eli questa testa, E notevole la distanza che correva tra un
occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali ordinari. Era di
statura media, tarchiata e muscolosa, aveva le spalle larghe ; In sua
bella testa era portata da un collo troppo breve per esser bello* Capelli
biondi e ricci Liti circondavano la sua fronte e cadevano sulle sue spalle;
quando era giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben formata,
che coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a misura che
perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi pure le sue
piccole mani. Egli stesso faceva una distinzione fra la fisionomia,
intelletuale e morale à- un uomo; cercava la prima nelPocchio e nella fronte,
la seconda nelle forme della bocca e del mento. Era soddisfatto della sua
fisionomia intellettuale, ma non della sua fisionomia morale. Veste
sempre bene e con eleganza, il.suo contegno era aristocratico e leggermente
altero. Portava Senili re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano
sempre dello stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non
pareva mai strano, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il
popolo in istrada spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo
esteriore animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu
fatto il suo ritratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni
virili. Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline!
troviamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora
era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della Germania,
epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un
Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare
la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi
quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco, diventato
il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il
novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa.
Molti degli uomini più importanti della Germania allora viventi, si trovavano
nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè
Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un elemento
disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli si
allontanasse. Un giorno egli annunciò alla società che la nazione tedesca
era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte superiore,
cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della religione.
Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni, ed alcune
voci gridarono: fuori! alla porta mettetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il
filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero
inalterate. La patria tedesca in me
non si è allevato un patriota , disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi
compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco,
piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se io pensassi così della mia nazione , rispose
un Francese, almeno non lo direi. Questo Schopenhauer è un
sala miste) (N&rr) insopportabile, scrive Bòhmer. Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero essere tutti quanti rinchiusi pei
bene comune, Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè
pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava
ibi more sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della
volontà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : Più che
vedo gli uomini meno mi piacciono;
tutto sarebbe bene se potessi dire lo stesso delle donne. Egli differiva dagli
uomini ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi
discepoli troppo zelanti die credevano vedere qualcosa di divino in tutte le
sue azioni, trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e
quindi attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le
idee di Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; Non v ? è
passione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa
nessun’ultra merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di
questa forza, per la carne non vi
sarebbe più salute! E di lì nacque senza
dubbio il timore di Sdì operili auer di
non poter raggiungere il Nirvana , come egli disse con rincrescimento al
dottor Grwinner. In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza
femminile gli giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi
e a, in cui era implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di
sua madre, era minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in
Germania; ia perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva
maggior- mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più
difficilmente, tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a
guada' gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si
possono dare in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva
ereditata gli parve sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché
s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on
(lem was Einer hai, egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di
raccomandare hi cura della fortuna
che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un vanfaggio inapprezzabile
il possedere fin da principio quanto occorre per vivere, sia anche solo e senza famiglia,
comodamente ed in vera im.1L
pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente
ed immune dalla privazione e
quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto
che dal destino fu favorito in questo
modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr j.arix, padrone del suo tempo e delle sue facoltà e
può dire ogni mattina ; il giorno è mio. Per questa ragione la differenza
tra colui che hn mille ai a scudi d’entrata e colui clie ne La
centomila- è molto minore di quella che corre tra il primo e colui che non
La nulla. La fortuna ereditari si
acquista un sommo valore, quando cade in mano ad un uomo il
quale, dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze
incompatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette
da! destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coniti
pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando
cosa che nessun altro potrebbe
effettuare, e producendo qualcosa pel bene ed anzi per V onore comuni, TTn
altro in questa condizione privilegìata con tendenze filantropi eh e saprà
meritarsi la gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro
spregevole colui che si trote va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non
cerca in nessun modo, neppure acquistando a fondo qualche scienza, di
rendersi utile all’umanità, a Questo ora- è riservato al più alto grado di
perfezione iute Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il
genio solo si occupa escili- sivamente dell’esistenza e della natura
delle cose, per poi esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la
propria inclinazione, per mezzo dell’arte, della poesia e della filosofia.
Pei uno spirito di questo genere il commercio non interrotto con sé stesso, co’
suoi pensieri e colle sue opere è
un bisogno urgente. Ad esso è cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene
maggiore; il resto non gli è indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di
tal uomo soltanto possiamo dire con ragione che abbia in sé stesso il suo punto di gravità.
Cosi si spiega perchè queste
persone tanto rare, anche se hanno il miglior carattere del
mondo, non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel bene comune
quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono tanti altri;
giacche dopo tutto possono
consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi. In loro vive un elemento d'isolazione tanto più
attivo quanto meno gli altri possano dar loro soddisfazione; questi altri
uomini, essi non li considerano interamente come loro pan; e dal momento
che corniticiano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro diversi; nei loro pensieri ne
parlano come di terze persone, dicendo: essi, loro, e mai noi. Tln uomo
munito di questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all*
infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le
sue facoltà intellettuali, di godere la sua ricchezza interiore, vale a dire di essere
interamente a sé in ogni gioì no. in ogni ora e durante tutta la sua vita.
Quando un uomo è destinato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera
razza umana, egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di
vedere le sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere
l’opera e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni
altra, cosa « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi
le menti più elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il
valore di quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò
con fretta in Germania, (tra zi e alla
sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì a
salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combinazione molto rara, la cui origine egli faceva
risalire a suo padre negoziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il
vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste
del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere
messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed
intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che
pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata
incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre nè filosofo, nè
poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una guida
sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in
Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die welt as will
–volere – filosofia fascista -- la
volonta di potere, un invento della sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler
---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H.
P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”
Luigi
Speranza -- Grice e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma)
Filosofo italiano. Tribuno della plebe della Repubblica romana C. (a destra),
Marco Giunio Bruto (col volto girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio
Cesare alle Idi di Marzo; particolare del dipinto di Camuccini, Morte di Giulio
Cesare. Nome originale. Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla Figli:
C. Gens: Cassia Tribuno militare sotto Marco Licinio Crasso Questura. Tribunato
della plebe. C. Roma – Filippi) è stato
un filosofo e politico romano, tra i promotori della congiura che causò
l'uccisione di Gaio GIULIO (si eda) Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una
famiglia patrizia riuscita ad accedere al consolato. C., dopo il matrimonio con
Tertulla, figlia di Servilia, sembra avvicinarsi al partito degl’optimates
guidato da CATONE (si veda) Uticense. Moneta coniata da Longino. Prende
parte alla guerra contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi
dal disastro di Carre, e riuscendo a respingere una loro successiva invasione
che si era spinta fin sotto le mura di Antiochia. Nominato tribuno della plebe,
allo scoppio della guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo, che gli
affidò il controllo di parte della sua flotta nelle acque del Mediterraneo.
Dopo la battaglia di Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli decise di
beneficiare della clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia, vicino
Tarso, da dove il dittatore sta pianificando l'attacco a Farnace. Nonostante il
suo rapporto con Cesare si consolida, C. decide d’allontanarsi dalla corrente
politica di Cesare per essere uno degl’organizzatori del complotto che portò
costui alla morte. Dopo l'assassinio del dittatore, C. insieme a Bruto,
figlio di Servilia, fugge da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da
MARC’ANTONIO (si veda), luogotenente di Cesare, e dall’emergente OTTAVIANO (si
veda), futuro primo imperatore di Roma con il nome di Augusto. Come si apprende
da un'epistola scritta a CICERONE (si veda) poco prima della battaglia di
Modena, C. ottenne brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove è
assediata dai cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio
Basso, riuscì a convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e
Quinto Marcio Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua
parte. Poco dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che
a sua volta si unì a Cassio. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia
rifiutò di servirlo. C. disponeva ora di numerose legioni e si mosse per
affrontare il cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva
vinto e ucciso il cesaricida Gaio Trebonio. Tuttavia i due cospiratori non
riuscirono a farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che
condannava all'esilio i cesaricidi. Cassio e Bruto vennero affrontati
nella battaglia di Filippi da MARC’ANTONIO (si veda) ed OTTAVIANO (si veda). C.
fu sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato sconfitto
diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la stessa daga
con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale vittoria ottenuta
su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato dagli uomini di Marco
Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi sconfitto, si
suicidò. Plutarco riferisce che Cassio era seguace di Epicuro.
Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum, l'ultimo dei romani
a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è in Tacito, che cita
a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato di Cornelio Cosso e
Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo
genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver
elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei romani"[5].
Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone dell'Inferno (Inferno), la
Giudecca, ove si puniscono i traditori dei benefattori. Assieme a Giuda
Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è costantemente maciullato dalle fauci di
Lucifero. Cassio è uno dei protagonisti della tragedia Giulio Cesare di
Shakespeare. Note ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Syme, La
rivoluzione romana Cassio, epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles
Chaulmer, Les Epitres familières de Ciceron en latin et en françois., edd. Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates
of the Roman Republic, Annales, Sermonti, Inferno, Rizzoli. Bosco e
Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio
Giulio Cesare Marco Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto Ultimus
Romanorum Altri progetti Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su sapere.it, De
Agostini. Gaius Cassius / Gaius Cassius Longinus, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio Longino / Gaio Cassio Longino (altra
versione), su Goodreads. V · D · M Guerra civile romana V · D · M Guerra civile
romana V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Età augustea Categorie: Politici romani del I
secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a RomaCassiiGovernatori
romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those who assassinated Giulio
Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden. He converted to the sect after an earlier interest in the Porch, and
defended his new philosophy in correspondence with his friend Cicerone. Gaio Cassio
Longino. Cassio.
Luigi
Speranza -- Grice e Cassiodoro: -- vide under Briuzi --. noble Italian philosopher. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
Luigi
Speranza -- Grice e Castelli
Luigi
Speranza -- Grice e Castiglioni -- Luigi Speranza (Casatico).
Filosofo italiano. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Baldassarre Castiglione (disambigua). Baldassarre Castiglione Raffaello,
Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1514-1515 Signore di Casatico Stemma
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 (50 anni) Luogo
di sepoltura Santuario delle Grazie Dinastia Castiglione Padre Cristoforo
Castiglione Madre Luigia (Aloisia) Gonzaga Consorte Ippolita Torelli Figli
Camillo Anna Ippolita Religione Cattolicesimo Baldassarre Castiglione, anche
chiamato Baldassar e Baldesar (Casatico, 6 dicembre 1478 – Toledo, 8 febbraio
1529), è stato un umanista, letterato, diplomatico e militare italiano, al
servizio dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di
Urbino. Casatico, ingresso di Corte Castiglioni, luogo di nascita di
Baldassarre, con stemma della famiglia La sua prosa e la lezione che offre sono
considerate una delle più alte espressioni del Rinascimento italiano[1].
Soggiornò in molte corti, tra cui quella di Francesco II Gonzaga a Mantova,
quella di Guidobaldo da Montefeltro a Urbino e quella di Ludovico il Moro a
Milano. Al tempo del sacco di Roma fu nunzio apostolico per papa Clemente VII.
La sua opera più famosa è Il Cortegiano, pubblicata a Venezia nel 1528 e
ambientata alla corte d'Urbino, presso la quale l'autore aveva potuto vivere
pienamente la propria natura cortigiana. Tema cardine del libro è la
trattazione, in forma dialogata, di quali siano gli atteggiamenti più consoni a
un uomo di corte e a una "dama di palazzo", dei quali sono riportate
raffinate ed equilibrate conversazioni che l'autore immagina si tengano durante
serate di festa alla corte dei Montefeltro attorno alla duchessa Elisabetta
Gonzaga. Biografia Le origini e la formazione Baldassarre
Castiglione Tiziano, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1529 circa
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 Cause della
morte febbre Luogo di sepoltura Grazie (Curtatone), Santuario delle Grazie
Etnia italiana Religione cattolica Dati militari Paese servito Marchesato di
Mantova Ducato di Urbino Unità Cavalleria Battaglie Assedio della
Mirandola 1510 voci di militari presenti su Wikipedia Manuale Figlio di
Cristoforo Castiglione (1458-1499), uomo d'armi alle dipendenze del marchese di
Mantova Ludovico Gonzaga e di Luigia Gonzaga (1458-1542), Baldassarre nacque a
Casatico, nel mantovano, il 6 dicembre del 1478[2]. Proveniente da una famiglia
dedita per necessità al culto delle armi e al prestar servizio presso signori
più potenti[3], all'età di dodici anni fu inviato, sotto la protezione del
parente Giovan Stefano C.[4], alla corte di Ludovico il Moro, signore di
Milano, ove studiò alla scuola degli umanisti Giorgio Merula, per quanto
riguarda il latino, e Demetrio Calcondila, per il greco[5]. Si impratichì
invece della letteratura italiana, appassionandosi in particolar modo a
Petrarca, Dante, Lorenzo il Magnifico e Poliziano, sotto l'umanista bolognese
Filippo Beroaldo[6]. Per quanto riguarda l'esercizio e la pratica delle armi,
si formò insieme a Pietro Monte[7]. Purtroppo il soggiorno milanese, funestato
negli ultimi anni dalla morte della duchessa Beatrice d'Este e del padre in
seguito alle ferite riportate nella battaglia di Fornovo del 1495, dovette
terminare e costrinse il C., in quanto figlio primogenito, a occuparsi degli
interessi familiari a fianco della madre[2]. La parentesi gonzaghesca Nel
1499 tornò a Mantova al servizio di Francesco II Gonzaga, marito di Isabella
d'Este[N 1], anche se, secondo la Cartwright, C. non fu mai attratto dalla
personalità rude del marchese[8]. Qui, proseguendo la tradizione familiare, si
mise al servizio di Francesco II quale cavaliere, seguendolo prima a Pavia e
poi nuovamente a Milano, dove assistette all'entrata trionfale di re Luigi XII
di Francia il 5 ottobre[5]. Rientrato a Mantova, Baldassarre si prestò a
servire il suo signore come funzionario marchionale (fu castellano di C. nel
Mantovano durante la ridiscesa di Ludovico il Moro a Milano[9]) e, nell'autunno
1503, lo seguì nel Mezzogiorno ad affrontare gli spagnoli nella battaglia del
Garigliano, subendo, in quel 29 dicembre, una cocente sconfitta[2]. Al
servizio del Ducato d'Urbino Una corte cosmopolita Raffaello, Ritratto di
Guidobaldo da Montefeltro, 1506 circa Nel frattempo il duca d'Urbino Guidobaldo
da Montefeltro, rientrato in possesso dei suoi domini dopo la morte di
Alessandro VI[10], scese a Roma per rendere omaggio al nuovo papa Giulio II[5].
Con la diretta conoscenza di Roma, di Urbino e del duca Guidobaldo, C. provò
«il fascino, tanto diverso, ma egualmente profondo, delle due città»[4]
rispetto alla più provinciale Mantova. Grazie anche all'interesse della
duchessa Elisabetta Gonzaga, ottenne così di essere dispensato dal servigio al
signore gonzaghesco per trasferirsi nella più promettente e amena città
marchigiana[11], anche se ciò suscitò nel marchese Francesco II un certo
risentimento verso il suo ex servitore[12]. Così, nel 1504, iniziò forse il
periodo più felice per il nobile C., entrando al servizio di una corte più
fastosa ed elegante di quella mantovana. Pur militando per il duca d'Urbino ed
essendo a capo di un manipolo di cinquanta uomini[2][13], egli poté frequentare
la corte urbinate, vero centro cosmopolita di ingegni e centro
d'eleganza: «A Urbino il C. s'incontrò con un comitato di persone
egregie, quali innanzitutto le due nobili dame, la duchessa Elisabetta Gonzaga
e madonna Emilia Pio, cognata della prima, e poi con uomini d'ingegno come
Ottaviano Fregoso [...] Federico Fregoso poi arcivescovo di Palermo, Cesare
Gonzaga, cugino del C., Giuliano de' Medici, il minore dei figli di Lorenzo il Magnifico...»
(Russo, p. 510) Luigi Russo ricorda poi anche il conte Ludovico di
Canossa e l'ormai celebre letterato veneziano e futuro cardinale Pietro
Bembo[14]. Alla corte urbinate il C. poté vivere appieno la sua natura
cortigiana, dedicandosi alla letteratura e al teatro. Nel primo caso, si occupò
dell'allestimento scenico prima dell'egloga Tirsi (1506), poi nel 1513 de La
Calandria, l'opera teatrale dell'amico e futuro cardinale Bernardo Dovizi da
Bibbiena[2][15]. In secondo luogo, raffinò ulteriormente la sua attività
cortigiana, ponendo le basi per l'esposizione teorica del buon cortigiano
nell'opera omonima. Le ambascerie e le missioni militari Tiziano,
Ritratto di Francesco Maria Della Rovere, 1538 circa La residenza a Urbino non
fu però statica: impiegato dal suo signore quale ambasciatore, fu
nell'autunno/inverno 1506[16] in Inghilterra alla corte di Enrico VII Tudor per
ringraziare il sovrano inglese della concessione a Guidobaldo dell'onore di far
parte dell'Ordine della Giarrettiera[17][18][19]. Fu in quest'occasione che
dedicò al sovrano inglese la Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini
Ducis[2]. Ancora, nel maggio 1507 fu a Milano per rappresentare il duca presso
Luigi XII di Francia[20], ma fu spedito anche a Roma come ambasciatore, visti
gli strettissimi legami feudali che intercorrevano tra la Santa Sede e il
Ducato d'Urbino, ora che il titolo ducale era passato a Francesco Maria I della
Rovere, parente di Giulio II (1508)[21]. Nel frattempo, agli inizi del ducato
di Francesco Maria, C. era stato nominato dal nuovo duca di Urbino podestà di
Gubbio affinché i suoi cittadini rimanessero fedeli alla causa roveresca,
riuscendovi[22]. Durante questi anni l'umanista partecipò anche alle imprese
belliche del papa guerriero, quale per esempio l'assedio della Mirandola che si
svolse dal 19 dicembre 1510 al 20 gennaio 1511 o la presa di Bologna da parte
delle truppe urbinate[2]. Dimostratosi devoto alla causa del suo signore,
questi gli concesse il 2 settembre 1513 il castello di Nuvilara, nel Pesarese,
col titolo di conte[22][23][24]. Presso la Roma di Leone X
Raffaello, particolare con Leone X Fu questa l'intellighenzia
artistico-culturale ereditata dal nuovo pontefice, Leone X, dalla Roma di
Giulio II. Figlio di Lorenzo il Magnifico e amico del duca e di C.[25], ebbe
come ambasciatore di Francesco Maria proprio quest'ultimo, che doveva rimanere
nella capitale della cristianità per seguitare a fare gli interessi
rovereschi[26]. I tre anni che Baldassarre C. passò alla festosa corte
pontificia fecero credere al cortigiano mantovano di «avere la sensazione che
la corte [pontificia, n.d.r.] fosse quasi un duplicato di quella urbinate»[2]:
l'aver ritrovato gli antichi amici del periodo montefeltrino, la loro
frequentazione, l'essere entrato in contatto con Raffaello e con Michelangelo,
stabilendo rapporti cordiali con loro, gli fecero credere del ritorno all'epoca
felice delle feste e delle conversazioni che spesso C. intratteneva con la
colta duchessa Elisabetta Gonzaga. Come scrive il Mazzuchelli a tal
proposito: «Il Conte quivi egualmente servì il Duca ed attese a' geniali
suoi studj, conversando frequentemente col Bembo, col Sadoleto, col Tibaldeo, e
con Federigo Fregoso, e coltivando i più chiari Professori delle belle arti,
cioè Raffaello d'Urbino, Michelangelo Buonarroti, e altri principali Pittori,
Scultori ed Architetti.» (Mazzuchelli, p. 19) Inoltre, a partire
dal 1513, l'autore iniziò la stesura del Cortegiano, dando principio della sua
attività anche di scrittore[27]. Purtroppo, la politica del nuovo pontefice
rovinò questa chimera. Leone X, infatti, desideroso di elevare la sua famiglia,
dichiarò decaduto il duca Francesco Maria a favore del nipote Lorenzo II,
nonostante il parere negativo del fratello del pontefice, Giuliano de' Medici
duca di Nemours[28]. L'installarsi dei nuovi signori, la fuga del duca a
Mantova e la dichiarata fedeltà alla causa roveresca da parte del C. lo
costrinsero a lasciare Roma per far ritorno nei suoi vecchi domini di
Casatico[15][29]. Il secondo periodo mantovano Tiziano, Ritratto di
Federico II Gonzaga, 1529 circa Rientrato a Mantova, il 15 ottobre 1516 sposò
la quindicenne[30] Ippolita Torelli, figlia di Guido Torelli e di Francesca
Bentivoglio[25]. Ristabiliti cordiali rapporti col signore di Mantova Francesco
II Gonzaga, C. trascorse degli anni abbastanza tranquilli (si ricorda una gita
a Venezia in compagnia della sposa e della corte gonzaghesca[31]) finché nel
1519, divenuto marchese di Mantova il giovane Federico II, fu rimandato a Roma
per consolidare la posizione del nuovo signore presso papa Leone X[32]. Nel
contempo contribuì anche alla causa roveresca facendo sì che, non appena morì
Leone X, il collegio cardinalizio lo reintegrasse nei suoi domini appena
riconquistati con le armi[33]. Al servizio del papato Rimasto vedovo nel
1520, C. si fece prete per provvedere ai propri bisogni materiali[2] e
ricevette la conferma del suo nuovo stato col breve del 9 giugno 1521 da parte
del pontefice medesimo[4]. Mandato a Roma al conclave che elesse Adriano VI
nella speranza che venisse nominato pontefice il cardinale Scipione Gonzaga[2],
servì sotto Federico Gonzaga ancora come cortigiano e comandante
militare[34][35], ma non c'era più la felicità e il brio della corte urbinate e
della Roma medicea: «Non c'è più l'entusiasmo, la baldanza, la serenità
fiduciosa di quegli anni giovanili; ormai per lui le fatiche non sono più
piaceri come lo erano allora; alla lieta spensieratezza del giovane è
subentrata la gravità dell'uomo che ha vissuto, lavorato e sofferto, dell'uomo
quale noi conosciamo, calmo, equilibrato ed un poco triste per tutto quel male
che è intorno a lui, ma che lo ha lasciato puro di ogni macchia.»
(Bongiovanni, p. 40) Tutto questo cambiò quando, nel 1523, fu eletto al
soglio pontificio il cardinale Giulio de' Medici col nome di Clemente
VII. Nunzio in Spagna Tiziano, Ritratto di Carlo V seduto, 1548
«jeri N. Sign. [i.e. il papa Clemente VII] mandò per me, e con molte buone
parole e troppo a me onorevoli fecemi un discorso dell'amore, che egli sempre
mi avea portato per merito mio, e della fede che avea in me; ed estendendosi
molto sopra questo, mi disse che adesso gli accadea farmi testimonio della
confidenza, che aveva della persona mia: e questo, che essendogli necessario
mandare un uomo di qualità appresso Cesare [i.e. l'imperatore Carlo V], dove si
ha da trattar la somma delle cose non solo della Sede Apostolica, ma d'Italia e
di tutta la Cristianità, dopo lo aver discorso tutti quelli, di chi egli si
potesse servire in questo luogo, non avea trovato persona da chi sperasse esser
meglio servito che da me; e però desiderava che io mi contentassi di accettar
questa impresa, la quale era la più importante che in questo tempo avesse per
le mani.» (Baldessar C., Lettere, vol. 1, p. 133) Con queste parole
l'umanista riferiva a Federico Gonzaga della nomina, annunciata il 19 luglio
1524 da parte del papa, a nunzio apostolico in Spagna presso l'imperatore Carlo
V[2]. Sciolto dal legame con il marchese di Mantova, il 7 ottobre del medesimo
anno[2][36] egli partì da Roma per occuparsi di quest'incarico. La missione non
era delle più facili, in quanto il giovane imperatore era in lotta con il re di
Francia Francesco I per la supremazia in Italia, dove si giocava anche la
sicurezza e la credibilità dello Stato Pontificio. Sconfitto il re di Francia
nella battaglia di Pavia del 1525, Clemente VII, che per arginare lo strapotere
imperiale si era alleato ai francesi, fu invaso dalle truppe spagnole e
tedesche dando origine al terribile sacco di Roma del 1527. Il letterato fu
accusato ingiustamente dal papa di non aver saputo prevedere l'evento[37],
nonostante col cardinale Salviati avesse presentato un memoriale con cui il
pontefice si congratulava della vittoria imperiale[38]. Gli ultimi anni li
dedicò alla stampa del Cortegiano, uscito a Venezia per interesse del Bembo nel
1528, e alla disputa con Alfonso de Valdés riguardo all'ortodossia
cattolica[2]. Interno del santuario di Santa Maria delle Grazie La morte
Colpito da attacchi febbrili, C., riabilitato dalla Curia, morì a Toledo l'8
febbraio 1529[2]. Fu inizialmente sepolto, per volontà dell'imperatore che
aveva sempre avuto grande stima di lui, nella cappella di Sant'Ildefonso nella
Metropolitana di Toledo[39]. Ai parenti che giunsero in Spagna, l'imperatore
Carlo rimpianse solennemente con queste parole il nunzio appena
scomparso: (ES) «Yo vos digo que ha muerto uno de los mejores caballeros
del mundo.» (IT) «Io vi dico che è morto uno dei migliori gentiluomini
del mondo.» (Aneddoto di Carlo V riportato in Ferroni, p. 7 e in Russo,
p. 510) Dopo sedici mesi l'anziana madre, volendo adempiere alla
disposizione testamentaria del figlio, fece trasferire la sua salma a Mantova
per tumularla, accanto a quella della moglie, nel santuario di Santa Maria
delle Grazie, alle porte della città, nella tomba allestita da Giulio
Romano[40]. Nella colonna di sinistra a lato del sarcofago è inciso l'epitaffio
latino dettato da Pietro Bembo: (LA) «Baldassari Castilioni Mantuano
omnibus naturae dotibus plurimis bonis artibus ornato Graecis litteris erudito
in Latinis et Hetruscis etiam poetae oppido Nebulariae in Pisauren[si] ob
virt[utem] milit[arem] donato duab[us] obitis legation[ibus] Britannica et
Romana Hispanien[sem] cum ageret ac res Clemen[tis] VII pont[ificis] max[imi]
procuraret quattuorq[ue] libros de instituen[da] regum famil[ia][N 2]
perscripsisset postremo eum Carolus V imp[erator] episc[opum] Abulae creari
mandasset Toleti vita functo magni apud omnes gentes nominis qui vix[it]
ann[os] L m[ense]s II d[iem] I Aloysia Gonzaga contra votum superstes fil[io]
b[ene] m[erenti] p[osuit] ann[o] D[omini] MDXXIX» (IT) «A Baldassare C.
mantovano, adorno di tutte le doti naturali e di moltissime belle arti, erudito
nelle lettere greche e in quelle latine e italiane anche poeta. Avuto in dono
per il suo valore militare il castello di Novilara nei pressi di Pesaro,
portate a termine due legazioni in Inghilterra e a Roma, mentre conduceva
quella in Spagna e curava gli interessi del pontefice massimo Clemente VII,
completò di scrivere i quattro libri del Cortegiano; infine, dopo che
l'imperatore Carlo V ordinò che venisse creato vescovo di Avila, concluse la
sua vita a Toledo godendo di grande rinomanza presso tutti i popoli. Visse anni
50, mesi 2 e 1 giorno. La madre Luigia Gonzaga, superstite contro il proprio
desiderio, al figlio benemerito pose questo monumento nel 1529.»
(Epigrafe di Baldassare C., riportata in Mazzuchelli) Discendenza
Baldassarre e Ippolita ebbero tre figli:[2][41] Camillo (1517-1598),
condottiero Anna (1518 - ?), sposò Alessandro dei conti d'Arco e quindi il
conte Antonio Ippoliti di Gazoldo Ippolita (1520 - ?), sposò Ercole Turchi di
Ferrara Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Baldassarre C. Cristoforo C.Antonia
da Baggio Cristoforo C. Polissena Lisca Alessandro
Lisca Amante da Fogliano Baldassarre C. Antonio Gonzaga
Luigi Gonzaga Luigia Gonzaga Luigia Gonzaga
Francesca degli Uberti Gianfrancesco degli Uberti Bianca
Gonzaga Pensiero Uno scrittore non professionista Panoramica
del Palazzo dei duchi di Urbino, ove C. visse parte della sua vita C. non fu
uno scrittore professionista al pari di Pietro Bembo o di Ludovico Ariosto. La
sua testimonianza letteraria, a partire dall'opera maggiore fino alle prove
minori, era inquadrata da un lato nel tentativo di celebrare un modello di
cortigiano ideale in un'epoca in cui il principato era diventato la realtà
quasi assoluta nel contesto geopolitico italiano dell'epoca; nel secondo,
invece, era quella di un'esibizione della sua cultura personale ai fini sempre
della cortigianeria. Come scrive Giulio Ferroni: «la sua cultura ricca e varia
non è però [...] la cultura di un professionista: la letteratura è per lui
espressione del suo essere gentiluomo e un modo di partecipare alla vita della
società nobiliare»[15]. Semmai, piuttosto, se si prende il Cortegiano quale
misura del mondo C.sco, si può anche parlare di doverosa testimonianza di un
mondo che non c'è più, «un luogo mitico, immagine di una felicità
perduta»[27][N 3] devastata poi dalle guerre per il potere e il dominio tra gli
uomini[N 4]. Lasciando parola all'autore stesso: «...e come nell’animo
mio era recente l’odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io
quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone,
come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella
memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni,
con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar
tosto questo debito erano nati.» (C., Dedica, I, p. 13) Il perfetto
cortigiano In un'epoca in cui la cortigianeria era divenuto il nuovo modello
del vivere sociale presso i potenti C. fu, nella schiera dei principali
letterati dell'epoca, il «precettista della vita di corte»[42]. Nel quadro
della corte feltrina e poi roveresca, il C. delinea una serie di modi di porsi
e di comporsi da parte del cortigiano, oltreché a precise indicazioni sulla sua
condotta e alla sua formazione culturale e fisica. In sostanza, il Cortegiano
si presenta quale «moderno erede della pedagogia umanistica»[43] in quanto
l'uomo che vi si raffigura è «un uomo versatile e aperto, duttile e completo; è
esperto di armi e di politica, ma sa anche di lettere, filosofia ed arti, è
raffinato ma senza affettazione, è coraggioso e valente, ma senza
ostentazione»[43]. In sostanza, è un trattato di pedagogia rivolto a chi vive
nel mondo ristretto ed elitario delle corti. Grazia e sprezzatura
Bernardino Campi, Baldassarre C. Doti fondamentali su cui si deve poggiare il
cortigiano per C. sono la grazia e la sprezzatura. La grazia del cortigiano,
propria di una specifica classe aristocratico-nobiliare[44], è essenziale alla
vita di corte in quanto «la grazia, le maniere gentili e amabili sono dunque le
condizioni che permettono al gentiluomo di conquistare "quella universal
grazia de' signori, cavalieri e donne"»[45]. Sempre seguendo il
ragionamento di Maria Teresa Ricci, «la grazia appare dunque come una specie di
abilità che ha per scopo di piacere e convincere. Il cortegiano, come
l'oratore, deve saper commuovere, persuadere, convincere gli altri. Egli deve
essere in grado di dare sempre una "buona opinione" di sé»[46]. In
sostanza, deve saper apprendere questa capacità per poter vivere nell'ambiente
di corte. La grazia però è connessa con la cosiddetta sprezzatura, ossia la non
visibilità dello sforzo con cui il cortigiano fa manifesto della grazia
acquisita, qualità contrapposta all'affettazione, ossia «l'ostentazione di un
comportamento ricercato, di cui risulta sottolineata l'innaturalezza e
artificiosità»[47]: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca
questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula
universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che
si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e
come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una
nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e
dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi.» (C., I, XXVI, p. 45) Il C. però propone, nonostante la
naturalezza della sua teoria, una vita che sia mimesi di quella reale: il
cortigiano agisce «in un teatro delle apparenze»[48] nel quale invece è
l'affettazione a dominare sulla sprezzatura e non l'incontrario. L'esaltazione
delle lettere Nella discussione dialogica del Cortegiano emerge poi la
supremazia artistica e formativa delle lettere tra le qualità del cortigiano.
Per C. «la vera gloria degli uomini è quella che si commenda "al sacro
tesauro delle lettere"»[49] in quanto tutti gli antichi, compresi i
conquistatori e i politici[50], ne seguirono le orme per una gloria duratura
nei secoli. Consigliere del principe L'umanista olandese Erasmo da
Rotterdam propose un modello pedagogico e politico in buona parte simile a
quella del C. Nel IV libro del Cortegiano si tratta dei rapporti tra cortigiano
e principe. Il discorso, tenuto da Ottaviano Fregoso, tratta di un argomento che
risulta «inatteso, in qualche modo disomogeneo con le prime tre parti
dell'opera»[51]. Il tono del discorso, infatti, risulta molto più serio e
concreto, in quanto il Fregoso (sotto il quale si cela l'animo dell'autore)
denuncia la degenerazione delle corti dovuta a cortigiani inetti e
all'immoralità dei principi. Sarà dunque il cortigiano perfetto, quello
delineato nei primi tre libri, a dover “correggere” questo stato di cose,
educando e consigliando il principe sulla strada della virtù. Il modello del
principe di C., che si rifà ancora all'Umanesimo quattrocentesco di Coluccio
Salutati e Matteo Palmieri e che trova riscontri nella pedagogia erasmiana
dell'Institutio principis christiani[52], è quanto mai lontano da quello
machiavelliano: se entrambi concordano sulla necessità della virtù del principe
per governare, C. si propone di allontanare dall'immoralità il principe, la
stessa che invece Machiavelli dichiara essere necessaria per il governo dello
Stato nei casi di necessità: «Il fin adunque del perfetto cortegiano, del
quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo
delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e
l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità
d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di
despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non
conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia
acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed
indurlo al camin della virtú.» (C., IV, 5, p. 241) Come fanno
notare Salvatore Guglielmino ed Hermann Grosser, però, il modello politico del
cortigiano C.sco è simbolo di una crisi di valori per cui il suo campo d'azione
presso il principe non è quello di un primus inter pares, quanto solo quello di
un mero consigliere, preludio alla trasformazione del cortigiano nel mero
secretario custode dei segreti indiscutibili del principe[53]. La dama di
corte Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1504-1505 Corrispettivo
dell'uomo di corte deve essere la dama di palagio, che nell'opera assume una
posizione rilevante grazie alla figura della duchessa Elisabetta Gonzaga, della
cognata Emilia Pio, di Costanza Fregoso e Margherita Gonzaga[54]. Secondo
quanto disposto dal C. nel III libro della sua opera, la dama di palazzo (o di
corte) deve essere istruita nelle belle lettere, nelle arti, nella musica e
nella danza, oltre ad essere al contempo una buona moglie ed una buona madre di
famiglia[55][N 5]: deve essere dunque una donna «honesta», vocabolo che non
indica l'onestà come virtù morale, quanto l'adozione di certi valori etici e
sociali da cui ci si aspetterebbe da una donna di buoni costumi così come
delineati nell'opera. Per quanto riguarda la dama non ancora sposata, sarà
necessario che essa ami soltanto chi è disponibile a maritarsi con lei e deve
rivolgere le attenzioni maschili a discorsi virtuosi ed onesti, disdegnando
invece le promesse d'amore fatte in modo vago e senza alcun preciso intento di
mantenerle[55]. Fulcro della perfezione della donna di corte è rappresentato
dalla duchessa Elisabetta Gonzaga, come delineato da Uberto Motta:
«Elisabetta è la segreta sorgente a cui C. riconduce le ragioni più intime
della sua scrittura: nei temi, nei generi e nelle forme. Da lei, e
dall’incontro con lei, viene fatta discendere la scoperta e la rivelazione di
un nuovo modo di essere al mondo: la duchessa è una donna unica, l’esclusivo
prototipo della virtù e del valore, la sola compagna all’altezza del fine animo
di Guidubaldo, e a dispetto degli infortuni politici dello stato, e delle
tristezze procuratele dallo sterile matrimonio e dalla vedovanza.»
(Motta, Sotto il segno di Elisabetta. Il mito della duchessa) La
questione della lingua All'inizio del '500, davanti alla rinascita
dell'interesse del volgare dovuto all'umanesimo omonimo, ci si pose quale
dovesse essere il veicolo comunicativo da utilizzare fra gli italiani e quali
dovessero essere i modelli di questa lingua. Secondo Uberto Motta, C. si pone
nella linea dell'anticiceronianesimo appreso alla scuola milanese del
Calcondila e del Merula[56], rispondendo a quella che i critici vaglieranno
come teoria cortigiana, opposta a quella che in quegli anni Pietro Bembo stava
elaborando e che vedrà la luce con le Prose della volgar lingua del 1525.
Claudio Marazzini sintetizza così la teoria cortigiana: «la differenza tra
questo ideale linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della
lingua cortigiana non volevano limitarsi all'imitazione del toscano arcaico, ma
preferivano far riferimento all'uso vivo di un ambiente sociale determinato,
quale era la corte»[57]. Infatti tale posizione viene esplicitata da Federico
Fregoso nel Cortigiano nel I libro: «Però io laudarei che l’omo, oltre al
fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d’usare, e scrivendo
e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri
lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia.» (C., Cortegiano)
Opere Il Cortegiano Lo stesso argomento in dettaglio: Il Cortegiano. «Il
tempo che egli passò in Urbino fu dunque quello che maggiormente influì a dare
quasi il segno all'arte sua. Il libro del Cortegiano vide la luce assai appresso,
ma non può negarsi che l'atteggiamento che egli prende di fronte alla sua arte,
di lì sia venuto.» (Bongiovanni) Edizione inglese del 1603 a
partire da quella di Thomas Hoby del 1561 La sua fama è legata a Il libro del
Cortegiano, trattato in quattro libri in forma dialogica. Scritto in varie fasi
tra il 1508 e il 1524[58], il Cortegiano si ambienta nel 1507, quando il duca
Guidobaldo era ancora vivo, e fu stampato nel 1528 a Venezia[27]. Nel signorile
ambiente della corte di Urbino si svolgono, in quattro serate, dei dialoghi in
cui si disegna l'ideale figura del perfetto cortigiano: nobile di stirpe,
vigoroso, esperto delle armi, musico, amante delle arti figurative, capace di
comporre versi, arguto nella conversazione. Tutto il suo comportamento doveva
dare impressione di grazia e eleganza. Simile a lui la perfetta "dama di
palazzo". Serve così a comprendere non una realtà d'epoca, ma le
aspirazioni di una classe a una vita contraddistinta da un elegante ordine
razionale, un'idea di bellezza che desse alla vicenda terrena un significato
superiore ed eterno. L'opera ebbe immediata e generale fortuna in Europa e
servì da modello, anche come prosa, benché non conforme ai precetti di Pietro
Bembo: nel Cortegiano si espone anche un ideale di compostezza armoniosa nel
campo della produzione in prosa, contraddistinta da elevatezza di impianto
generale, ricchezza e fluidità, duttilità a registri diversi di
scrittura. Tirsi Frontespizio delle opere latine e volgari di
Baldesassar C., presso Giuseppe Comino, Padova 1733 Il Tirsi è un'egloga in 55
ottave[59], elaborata insieme al cugino e amico Cesare Gonzaga, che celebra i
vari letterati presenti alla corte urbinate, riconoscibili tramite i versi che
sono stati da loro scritti. La scena si apre con il lamento del pastore Iola
per il rifiuto dell'innamorata ninfa Galatea di unirsi a lui, quando interviene
Tirsi che esalta una divinità locale (dietro cui c'è Elisabetta Gonzaga) e
tutti coloro che si sono posti sotto la sua protezione[60]. Il chiaro retaggio
virgiliano dell'opera è dovuto al fatto che i personaggi che vi compaiono
appaiono tutti nelle Bucoliche del poeta mantovano[61], ma vi si intravedono
anche stilemi tratti da Orazio, Ovidio e Catullo, oltreché la metrica adottata
nell'Orfeo del Poliziano[62]. Fu stampato per la prima volta nel 1553 a Venezia
a cura di Anton Giacomo Corso[63]. Rime La produzione in ambito poetico è
alquanto esigua, anche se nell'epitaffio mortuario del Bembo si parla di
«litteris [...] hetruscis etiam poetae». Le rime, concentrate nel periodo
urbinate[64], per C. appaiono «come strumento di estrinsecazione dell'identità
del cortigiano»[65] e risentono del petrarchismo cortigiano[65] oltreché
dall'influenza poetica classica[66]. Constano di due canzoni e di cinque
sonetti[67], stampati dall'abate Serassi nel 1771 nel secondo volume delle
Lettere[68]. Carmina Consistono in un'egloga intitolata Alcon, dedicata
in morte dell'amico Domizio Falcone[69] e basata su metri e tematiche estratte
dalle Bucoliche e dalle Georgiche virgiliane[70], in un poemetto col titolo
Cleopatra, in elegie e in epigrammi[68]. Furono raccolti per la prima volta da
Giovanni Antonio e Gaetano Volpi nell'edizione delle Opere volgari e latine del
1733 in numero di diciotto, cui ne fu aggiunto un altro inedito nell'edizione
delle Poesie volgari e latine del 1760 curata da Pierantonio Serassi per un
insieme di diciannove carmi. Per la precisione, i titoli sono i seguenti:
Alcon, Cleopatra, Prosopopoeia Ludovici Pici Mirandulani, De Elisabella Gonzaga
canente, Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, Ad puellam
in litore ambulantem, Ad eamdem, De morte Raphaelis pictoris, De Paullo
canente, De viragine, Ad amicam, Epitaphium Gratiae puellae, Insignium domus
Castilioniae descriptio, Hippolytae Taurellae coniugis epitaphium, Eiusdem
tumulus, Ex Corycianis, In Cupidinem Praxitelis, De Julio Caesare, De
amore[71]. Epistole Oltre alle sedici epistole in volgare[72], tra le
lettere degne di menzione si ricordano il De Vita et Gestis Guidubaldi Urbini
Ducis, panegirico in prosa del duca d'Urbino presentato ad Enrico VII
d'Inghilterra in occasione della morte di Guidobaldo e tentativo di realizzare
la figura ideale di principe; e la Lettera a Papa Leone X, che tratta delle
antichità romane e del modo con cui i romani costruivano i loro
edifici[73]. La fortuna Torquato Tasso Traduzioni del Cortegiano In
Europa il nome di Baldassarre C. è intrinsecamente legato alla sua opera più
celebre, Il libro del Cortegiano, quale modello di comportamento presso le
corti. C. trovò terreno fertile in Spagna dove già nel 1536 il poeta Juan
Boscán tradusse Il Cortegiano in spagnolo[74], mentre nel 1537 fu traslato in
francese da Jacques Colin d'Auxerre (Le courtisan), nel 1561 in inglese da
Thomas Hoby (The courtier)[2][75] e nel 1565 in tedesco dal bavarese Laurentz
Kratzer[76]. Seguirono traduzioni anche in latino del Cortegiano, come quella
di Hieronimus Turler la quale fu pubblicata a Wittenberg nel 1561[77]. Secondo
Beffa-Negrini e lo scrittore veronese Benini, nel XVII secolo, vi fu la
traduzione dell'opera anche in lingua russa[78]. Nel corso dei secoli
Criticato parzialmente da Torquato Tasso nel suo dialogo Il Malpiglio overo de
la corte a causa delle forti discordie che intercorrevano tra quell'ambiente e
il poeta d'origine bergamasca (ma anche per il mutato cambiamento sociale
intercorso)[79], l'opera di C. fu posta all'Indice dei libri proibiti nel 1576:
il figlio di lui, Camillo, ricevette notizia direttamente dalla Santa Sede[80].
Neanche la versione "ripulita" di Antonio Ciccarelli permise al
Cortegiano di essere tolto dai libri proibiti, come riconfermato da papa Sisto
V. Comunque Il Cortegiano continuò a circolare e, con la fine dell'età della
Controriforma, fu visto nel XIX e nel XX secolo come l'emblema stesso del
Rinascimento[82]. Opere Baldassarre C., Il libro del Cortegiano, a cura
di Giulio Carnazzi, Milano, Fabbri Editore, 2001 [1995], SBN TO01070935.
Baldassarre C.,Il Libro del Cortegiano, a cura di Ettore Bonora, commento Paolo
Zoccola, , Mursia, Milano 1972 Baldassarre C. e Cesare Gonzaga, Rime e Tirsi, a
cura di Giacomo Vagni, Bologna, I Libri di Emil, 2015, ISBN 978-88-6680-136-8.
URL consultato il 14 maggio 2020. Baldessar C., Lettere ora per la prima volta
date in luce e con annotazioni storiche illustrate, a cura di Pierantonio
Serassi, vol. 1, In Padova, presso Giuseppe Comino, Omaggi poetici e letterari
Il poeta Matteo Bandello ha dedicato a Baldassarre C. la Novella XLIV della
Prima parte (1554).[83] Note Esplicative ^ I rapporti tra il C. e
Isabella d'Este furono sempre improntati ad armonia per spirito di vedute e per
interessi comuni. A rappresentare l'amicizia ormai consolidata, Isabella decise
di partecipare in prima persona al corteo nuziale del C. con Ippolita Torelli.
Cfr. Bongiovanni, p. 60. ^ De instituenda regum familia ("Sull'istruzione
della corte dei regnanti") è il titolo latinizzato che il Bembo dà a Il
Cortegiano. ^ Per un discorso più ampio, cfr. Motta 2003, pp. 69-168. ^ In Ferroni,
p. 9. non a caso si parla di un tentativo di «esaltare [con] questo sogno un
modo di rispondere alle rovinose "mutazioni" dell'Italia
contemporanea». ^ Finucci, p. 92: «Le donne sono presenti inoltre perché
necessario, lo si metterà ben in chiaro, "non solamente all'esser ma ancor
al ben esser" (3, 40, 246) dell'uomo, della famiglia e della corte, quindi
ai valori familiari, sociali e politici che costituiscono la società che qui
con cura viene messa in scena dall'autore.» Bibliografiche ^ Motta, Baldassarre
C.: «L'opera, all'indomani della prima edizione (1528), si afferma, a livello
internazionale, come autentico capolavoro e nuovo punto di riferimento nella
letteratura etica e politica, sulla scia dei sublimi modelli antichi di
Aristotele e Cicerone, di cui, consapevolmente, aggiorna e puntualizza la
lezione.» Mutini. ^ «La guerra come duro scotto di privazioni e di
sangue, o come gioco millantato e fastoso, era il loro appannaggio: la morte e
la finzione costituivano i termini di un'alterità in cui si celebrava, in
mancanza di una struttura sociale subordinante, l'assoluta devozione al
signore...» (Mutini) Cian. Mazzuchelli, p. 16. ^ Cartwright Bongiovanni,
p. 25. ^ Cartwright But loyally as C. served his master, Francesco Gonzaga's
personality, it is evident, never attracted him», ossia «A parte che C. servì
lealmente il suo signore, la personalità di Francesco Gonzaga, è evidente, non
l'entusiasmò mai». ^ Cartwright, 1, p. 28. ^ Cartwright, 1, p. 38. ^
Mazzuchelli, pp. 16-17. ^ Martinati, p. 12. ^ Martinati, p. 13. ^ Russo, p.
510. Ferroni, p. 7. ^ Martinati, p. 16. ^ Mazzuchelli, Martinati, p. 14.
^ Cartwright, 1, p. 188: (EN) «Henry, by the grace of God, King of England and
France, Lord of Ireland, Soveraign of the Most Noble Order of the
Garter...Forasmuch as we understand that the right noble prince, Gwe de
Ubaldis, Duke of Urbin, who was heretofore, elected to be one of the companions
of the said noble Order» (IT) «Enrico, per la grazia di Dio, Re
d'Inghilterra e Francia, Signore d'Irlanda, protettore del nobilissimo ordine
della Giarrettiera...Dato che noi intendiamo che il giusto nobile principe,
Guidobaldo, Duca di Urbino, che era fino a questo momento, eletto ad essere uno
dei membri del suddetto nobile Ordine...» ^ Martinati, p. 18. ^ La coppia
ducale era senza figli per l'impotenza di Guidobaldo e così, il 18 settembre
1504, Guidobaldo fu costretto ad accettare come successore Francesco Maria
Della Rovere, nipote del pontefice. Cfr. Cartwright Mazzuchelli, p. 18. ^
Martinati, p. 24. ^ Bongiovanni, p. 31. Mazzuchelli, p. 19. ^ Martinati,
p. 23. Ferroni, p. 8. ^ Bongiovanni, p. 141. ^ Martinati, p. 28 e sgg. ^ Cartwright, 1, p. 411; p. 415: «Ippolita married at fifteen, and died
four years later, before she was quite twenty». ^ Mazzuchelli, p.
20. ^ Martinati Martinati, p. 41. ^ Mazzuchelli, p. 21. ^ Bongiovanni, p. 39. ^
Cartwright, 2, p. 248. ^ Mazzuchelli, p. 22. ^ Martinati, p. 47. ^ Mazzuchelli,
p. 23. ^ Martinati, p. 56. ^ Pompeo Litta, Famiglie celebri di Italia.
Castiglioni di Milano., Torino, 1835. ^ Russo, 1, p. 257.
Guglielmino-Grosser, p. 282. ^ Ricci, p. 237. ^ Ricci, p. 237. Il testo del
Cortegiano è tratto dal capitolo II, par. 17. ^ Ricci, p. 238. ^ Ferroni, p.
78, n. 15 §1. ^ Ferroni, p. 9. ^ Russo Russo Ferroni Scarpati, p. 435: «La rete
dei valori e dei disvalori che si disegna non è dissimile da quella tracciata
da Erasmo». ^ Guglielmino-Grosser, pp. 282-283. ^ Finucci, p. 91.
Ferroni, p. 88. ^ Motta Marazzini, Motta, Il libro del Cortegiano. La genesi del
testo. ^ Vagni, p. 773. ^ Vagni, p. 734. ^ Vagni 2015, p. 187. ^ Cartwright, 1,
p. 159. ^ Vagni 2015, p. 192. ^ Vagni 2015, p. XXVI. Vagni 2015, p. XXV.
^ Vagni 2015, p. XXX. ^ Mazzuchelli, p. 32. Mazzuchelli, p. 33. ^ Motta,
La produzione poetica. I carmi latini. ^ Cartwright, 1, p. 144. ^ Mazzuchelli,
pp. 33-34. ^ Mazzuchelli, p. 30. ^ Mazzuchelli, p. 34. ^ Pozzi. ^
Loewenstein-Mueller, p. 349. ^ Burke, p. 64. ^ Cartwright, Cartwright, 2, p.
440. ^ Cfr. il saggio di Cox, pp. 897-918. ^ Cartwright, 2, p. 443. ^
Cartwright Burke, IV di cop. ^ La prima parte de le Novelle, In Lucca, per il
Busdrago, 1554. Bibliografia (FR) Roland Antonioli (a cura di), Lumieres de la
Pleiade, Parigi, J. Vrin Bongiovanni, Baldassar C., Milano, Edizioni Alpes Bonora,
Baldassarre C. e il "Cortegiano, Storia della Letteratura Italiana,
Garzanti IV, Milano,pag.210-218 Peter Burke, Le fortune del Cortegiano.
Baldassarre C. e i percorsi del Rinascimento europeo, traduzione di Annalisa
Merlino, Roma, Donzelli Cartwright, Baldassare C. the perfect courtier: his
life and letters, London, John Murray Cartwright, Baldassare C. the perfect
courtier: his life and letters London, John Murray Cian, C., Baldassarre,
collana Enciclopedia italiana, vol. 9, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana Cox, Tasso's "Malpiglio overo de la corte: The courtier"
Revisited, in The Modern Language Review, vol. 90, n. 4, Modern Humanities
Research Association Ferri, Il racconto del Cortigiano. Vita e storie di
Baldassarre C., Collana Saggi, Milano, Solferino Ferroni, Dal Classicismo a
Guicciardini (1494-1559), collana Storia della Letteratura Italiana, vol. 6,
Milano, Mondadori Finucci, La donna di corte: discorso istituzionale e realtà
ne"Il libro del cortegiano" di B. C., in Annali d'Italianistica, vol.
7, Arizona SGuglielmino e Hermann Grosser, Dal Duecento al Cinquecento, collana
Il sistema letterario, 1. Storia, Milano, Principato Pompeo Litta, Famiglie
celebri di Italia. Castiglioni di Milano., Torino Loewenstein e Janel Mueller
(a cura di), The Cambridge History of Early Modern English Literature,
Cambridge Marazzini, La lingua italiana: profilo storico, 3ª ed., Bologna, Il
Mulino, Martinati, Notizie storico-biografiche intorno al conte Baldassare C.,
Firenze, coi tipi dei successori Le Monnier Mazzacurati, Baldassar C. e la
teoria cortigiana: ideologia di classe e dottrina Critica, in MLN Mazzuchelli, C.
Baldassarre. Articolo inedito dell'opera intitolata «Gli scrittori d'Italia», a
cura di Enrico Narducci, Estratto da Il Buonarroti, Roma, Tipografia delle
scienze matematiche e fisiche, Motta, La «questione della lingua» nel primo
libro del Cortegiano: dalla seconda alla terza redazione, in Aevum, vol. 72, n.
3, Milano, Vita e Pensiero, Motta, C. e il mito di Urbino: studi sulla
elaborazione del "Cortegiano", Milano, Vita e Pensiero Mutini, C.,
Baldassarre, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 22, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Quondam, Questo povero cortegiano. C., il libro, la
storia, Bulzoni, Maria Teresa Ricci, La grazia in Baldassar C.: un'arte
senz'arte, in Italianistica: Rivista di letteratura italiana, vol. 32, n. 2,
Accademia Editoriale Russo, Pietro Bembo e la sua fortuna storica, in Belfagor,
Firenze, Leo S. Olschki Russo, Baldassar C., in Belfagor, vol. 13, n. 5,
Firenze, Leo S. Olschki Scarpati, Dire la verità al Principe, in Aevum, vol.
57, n. 3, Milano, Vita e Pensiero Vagni, L'onorata schiera della duchessa
Elisabetta. Ipotesi attributive sul Tirsi di Baldassar C. e Cesare Gonzaga, in
Aevum, Milano, Vita e Pensiero, Voci correlate Carta Castiglioni Ducato di
Urbino Marchesato di Mantova Francesco II Gonzaga Ludovico il Moro Papa Leone X
Papa Clemente VII Carlo V d'Asburgo Guerre d'Italia Il Cortegiano Castiglióne,
Baldassarre, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vittorio Cian, C., Baldassarre, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Castiglióne,
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Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
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Dictionary of Art Historians, Lee Sorensen. Modifica su Wikidata Opere di
Baldassarre C., su Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di Baldassarre C. /
Baldassarre C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di
Baldassarre C., su Open Library, Internet Archive. Opere di Baldassarre C., su
Progetto Gutenberg. Audiolibri di Baldassarre C., su LibriVox. Baldassarre C.,
su Goodreads. Baldassarre C., in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata Baldassarre C., in Archivio storico Ricordi,
Ricordi & C. Modifica su Wikidata Uberto Motta, Baldassarre C., su
internetculturale.it. In particolare: Sotto il segno di Elisabetta. Il mito
della duchessa, su internetculturale.it. La produzione poetica. I carmi latini,
su internetculturale.it. Il libro del Cortegiano. La genesi del testo, su internetculturale.it.
Mario Pozzi, La traduzione del Cortegiano e l'aspirazione spagnola a una
cultura degna della nuova condizione imperiale, su journals.openedition.org, 2
dicembre 2015. URL consultato il 20 maggio 2020. Predecessore Signore di
Casatico Successore Cristoforo C. Camillo C. Predecessore Nunzio apostolico in
Spagna Successore Bernardino Pimentel 1524 - 1529 Girolamo da Schio Portale
Biografie Portale Letteratura Portale Rinascimento Wikimedaglia
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italianiDiplomatici italianiItaliani del XVI secoloNati nel 1478Morti nel
1529Nati il 6 dicembreMorti l'8 febbraioNati a Casatico (Marcaria)Morti a
ToledoC.Militari italiani del XVI secoloPoeti ed umanisti alla corte dei Da
MontefeltroDiplomatici al servizio dei GonzagaConiugi dei TorelliSepolti nel
Santuario della Beata Vergine delle Grazie (Curtatone)[altre]. Baldassarre
Castiglione. Castiglione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castiglione,’ The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Castrucci:
la ragione conversazionale el’implicatura conversazionale del guerriero
indo-germanico -- sul conferimento di valore – scuola di Monterosso al Mare –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monterosso al
Mare). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Monterosso al Mare, La Spezia,
Liguria. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia,
iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di
ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in
contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia
espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di
laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.
I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. C.
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che C. analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate
rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana,
a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.
Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono
infine riconoscere, secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su
basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione
individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio
problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale
tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella
comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia
radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in
tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o
radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea
di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di
Nietzsche. L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di
riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica
della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea
aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi
distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra
questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso
filosofico di C., la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche
convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel
pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer,
Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più
recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali
di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno
suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a
figure storiche naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento
di C. "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho
combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e
Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione
di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice
filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera
Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio
storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del
principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva
dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere
un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente
provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la
grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da C., annunciando di aver "dato
mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del
caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo
aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente,
ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la
sospensione, C. non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo
dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter
procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in
seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta
penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine
convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e
"Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè
Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni
epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione
alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e
la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica:
Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di
Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea
prima di Thomas Hobbes, C., Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos
della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il
nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio
sul problema della prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici
antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del
Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum
europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas,
in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un
totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di
Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della
forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento,
Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
antiche civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale del pensiero
religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune radice indoeuropea.
dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e
Contadini che è presente nelle origini di Roma così come nei miti
iranici, germanici e celti, si rivela essere lo specchio di
un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così suddivisi,
classificati e diversamente adorati. È la dimostrazione di come,
nelle civiltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda
radicalmente dalla dimensione mitico-religiosa. e il mondo del
divino diviene l’archetipo che dà forma a tutta la società
degli uomini. DUMÉZIL è una figura fondamentale nel
panorama culturale europeo. Filologo e storico, riavviato gli studi
attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India.
l'Iran, la Grecia, le popolazioni celtiche e germaniche. Ha
lasciato una bibliografia sterminata, solo parzialmente tradotta in
italiano, fra cui ricordiamo almeno La religione romana arcaica, Gli Dèi
dei Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli
Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di
Mera. Walters Art Museum, Baltimora. II Cerchio Srl La
riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil.
Calmette rinvenne i primi due Libri dei Veda, u n documento coni p
letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala,
Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una
lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della
riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di compiere
nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica
mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al
Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini
spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolarmente due
pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre opera
di Creuzer Simbolik undMvlhologie
der altea Vòfker, tradotto in francese; infine Gòrres pubblica il suo
Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del
romanticismo religioso cercò di d imostrare che i miti dell’India,
dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina comune su Dio, l’Anima e
l’immortalità. Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si
lanciarono alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana.
Oltre a ciò questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità
di trasmissione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.
A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filologica,
rappresentata da Miiller, da Bopp, da Chézy e da tutta la linea degli
specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i
testi dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India
e dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di
primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in grammatica
comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una Cattedra
divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che
avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle religioni. Ai suoi
occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero. Miiller sostenne
che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi atti inventò il
linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personificazione degli
oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e
descrivere. Continuando le sue ricerche in direzione delle origini,
Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo
pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così
secondo il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero
religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche
di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of
thè Easl (che potè terminare prima della propria morte, lasciando così
agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri dell’antica
Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:
scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue
indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come
pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò
d’intraprendere un vasto studio comparato attorno al mito romano della morte
rituale ed al mito nordico del dio Balder. Tutta la sua opera, The Golden
Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusioni
sono deludenti. Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il
metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per
volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono
A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances
de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in Mémoires
de la Société Linguistique), Vendryes ha sottolineato le corrispondenze
esistenti tra parole indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche dall’altra.
Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi
sono anche parole mistiche relative all’efficacia degli atti sacri, alla
purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’offerta fatta agli dèi,
all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione divina ed
alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché dimostra
l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i popoli che in
seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i Celti.
La permanenza di questo vocabolario religioso alle due estremità del
mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è un
dato molto significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario
presso popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di
incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha constatato che questi termini
religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano di
collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il
Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere questo
vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed alle
preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una fonte
importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. La scoperta dell’eredità
indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha compreso
quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni di
studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare gli
arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazione de
L'idéologie tripartie des Indo-Européens è il compimento di una lunga marcia ed
il punto di partenza per tutte le scoperte .successive. L’esame del
problema flamen-brahman c dei flamini maggiori a Roma condusse Dumézil ad
una conclusione decisiva: / più antichi Romani, gli Umbri, avevano
portato con toro in Italia la stessa concezione conosciuta dagli
Indo-Iranici e su cui notoriamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine
sociale ' Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità
indoeuropea, di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità
della quale si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla
forza fisica che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa
la fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma
indispensabile al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia
di lettura lo studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la
documentazione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui oggetto
c il dato indoeuropeo. Durante il III c II millennio a.C.
delle bande di conquistatori si spostarono verso l’Atlantico, il
Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di diversi dialetti
provenienti da una lingua comune, il che suppone un fondo intellettuale e
morale identico, ed un minimo di civiltà comune. Popoli senza scrittura, gli
Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi
in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno adottato una
scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli archivi. Ma
ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso legato
all’organizzazione sociale, alle pratiche cultuali ed ai comportamenti
religiosi. Parecchi fatti presuppongono l’esistenza di una religione che
rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione
dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les
épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris (Trad. italiana,
Einaudi, Torino). Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil
ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama
genetico)}. La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza
delle corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di
tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed
articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al
fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo
delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle
civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione
delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia,
della filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia
arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi
popoli e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a
questo lavoro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del
comportamento e delle rappresentazioni. Dumézil non ha preteso di
resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei tempi
preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare lo schema
concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo della storia,
e si è servito di questi schemi per giungere a spiegare i testi ed i fatti che
resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il
nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono
queste i tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del
sacrificio e custodi della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri
incaricati della protezione del popolo; i vaisya, produttori dei beni
materiali, del nutrimento. Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre
caste sono molto antiche. In Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di
uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guerrieri, i radaci.star montatori di carri; gli
agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha
lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del
Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro aristocrazia militare
ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens
à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi delle origini di Roma
condotta da Dumézil si è riveata particolarmente illuminante.
Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili per
la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sacro, regola i
rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi, determina
il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile dalla
manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella relativa alla forza
fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione della società e
nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quello della sussistenza degli
uomini e della conservazione della società: fecondità animale ed umana,
nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la società
indoeuropea era governata in profondità grazie ad una mentalità fondata
su una struttura trifunzionale. La teologia si trova al centro del
mondo indoeuropeo. Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi
ariani di Mitanni trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa,
capitale dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta
contiene il testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re hittita
Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della
loro alleanza ognuno dei re invoca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli
dèi considerati i protettori della società ariana: Mithra-Varuna, India e
i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in
Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione
delle sei entità divine - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera illuminante
questa teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre
funzioni. Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto
all’Italia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio)
in Umbria ed a Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus.
Questi dati indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad una
teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta
un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi
Mitra e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di
questo mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di
giovani guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin
sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armenti; si
tratta dunque di una teologia tripartita. Il documento di
Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teologia è anteriore alla redazione
dei Veda e che fa parte della tradizione ariana arcaica; d’altra parte,
la presenza dello schema trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed
il suo riflesso sugli Arcangeli raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda
conferma l’attaccamento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i
sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si
rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli
Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consacrato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr
c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al
dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del
vocabolario del sacro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli
italo-ccltici dall’altra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a
fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi
popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver conservato per molti
secoli i loro collegi sacerdotali. Questa nuova via fu illuminante,
poiché ha condotto alla scoperta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli
inizi della storia dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani.
L’assenza di vestigia archeologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a
punto un metodo comparativo genetico fondato sull’archeologia delle
rappresentazioni c del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle
tracce dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del
sacerdozio egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri
costitutivi - della società e della religione indoeuropea: una teologia
trifunzionale che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della
forza e dei della fecondità. A questa teologia corrisponde la
tripartizione sociale: classe sacerdotale, guerrieri,
agricoltori-allevatori. Mezzo secolo di ricerche hanno
permesso di delineare questa visione nuova del mondo ariano arcaico, di
realizzare una sintesi delle vestigia della civiltà e della religione
indoeuropea e di far indietreggiare di più d’un millennio i lempora
ignota. Julien Ries Università di Louvaìn-la-Neuve
Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà menzione de\V habitat
degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni, della loro civiltà
materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo qui impiegato non ha presa
e d’altra parte la loro soluzione non interessa molto i problemi qui
posti. La civiltà indoeuropea che noi considereremo è quella dello
spirito. Al pari degli Indiani vedici, come ci vengono presentati
dai loro inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza riflessione e
senza immaginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni ormai la comparazione
delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue indoeuropee,
ha rivelato un fondo considerevole di elementi comuni, elementi non
isolati ma organizzati in strutture complesse delle quali non ci è
offerto un equivalente in altri popoli del mondo antico. L'esposizione,
che ci si appresta a leggere, è consacrata alla più importante di queste
strutture. L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente,
tramite una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una
mole di argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro
frazionamento. Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori
già informati una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo
un ordine ma una messa a fuoco alla correlazione generale che solo uno
sguardo d’insieme può imporre ai risultati parziali. Un
problema che per anni è stato capitale e in primo piano - penso al valore
trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui limitato in
un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche
delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse nelle
pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza grazie
ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice
riavvicinamento. Questo doppio disegno non prevederànote a piè di pagina:
si è preferito costruire una sorta di commentario bibliografico
distribuito secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché
ognuno riepiloghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c datando
su ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o
ancora, rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non
avrebbero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale. Non
si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di un certo
numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler formare una
scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse materie con metodi simili e
che si tengono costantemente in contatto tra loro. Altre
visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili con questa, non
saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le dimensioni del presente
libro sono ristrette e l’intento è costruttivo e non critico.
Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose
discussioni. Il mio caro collega Renard mi ha permesso di
presentare nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines,
questa nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che prò
virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri
studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e
indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre invocato
con augurio. Uppsala. Parigi. Le tre funzioni sociali e cosmiche Le
classi sociali in India Uno dei tratti più sorprendenti delle
società indiane post-rgve- diche è la loro divisione sistematica in
quattro classi, dette in sanscrito i quattro colori, varna, le prime tre delle
quali benché diverse sono pure perché propriamente arya, mentre la
quarta, formala indubbiamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle
altre tre ed è quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe
eterogenea non si Lralterà qui ulteriormente. I doveri di
ognuna delle tre classi arya servono per definirle: i brdhmana,
sacerdoti, studiano ed insegnano la scienza sacra e celebrano i sacrifici; gli
ksatriya (o rdjanya), i guerrieri, proteggono il popolo con la loro forza e con
le loro armi; ai vaisya è affidato l’allevamento e l’aratura, il commercio e
più in generale la produzione dei beni materiali. Si
costituisce così una società completa e armonica presieduta da un
personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativamente
estratto dal secondo livello. Questi gruppi funzionali e
gerarchizzati sono conchiusi tutti su loro stessi in base
all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoroso d’interdizioni. Sotto
questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non sia una creazione
propriamente indiana posteriore alla maggior parte del Riveda-, i nomi
delle classi non sono menzionati chiaramente che nell’inno del sacrificio
deH’Uomo Primordiale, nel X libro della raccolta, così differente da
tutti gli altri. Ma una tale creazione non è nata dal nulla, bensì da un
irrigidimento di una dottrina e di una pratica sociale preesistente. Nel
1940 uno studioso indiano, V.M. Apte, fece una collezione dimostrativa
dei lesti dei primi nove libri del Riveda (principalmente Vili, 35,
16-18) che provano come sin dai tempi della redazione di questi inni la
società fosse pensata composta da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che
se questi gruppi non erano ancora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o
di vaisya (sostantivi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini
non sono che i derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che
definiva distributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al
neutro) scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti
del reale visibile o invisibile, kyatrei potenza, vis contadinanza o habitat
organizzalo (la parola c apparentala al latino vTcus e al greco
(w)oùco<;), al plurale visuh insieme del popolo nel suo raggruppamento
sociale e locale. È impossibile determinare in quale misura la
pratica si conformasse a questa struttura teorica: vi era forse una parte più o
meno considerevole della società che indifferenziata o altrimenti
classificata sfuggiva a QUESTA TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno
di ciascuna classe non era forse corretta nei suoi effetti da un regime
matrimoniale più flessibile c con delle possibilità di promozione?
Sfortunatamente ci è accessibile solo la teoria. 2. Le classi
sociali avestiche Da un quarto di secolo, confermando le
osservazioni di F. Spie- gel, di E. Benvenisle e di me stesso, abbiamo
sostenuto che almeno nella sua forma ideologica la tripartizione sociale
era una concezione già acquisita prima della divisione degli Indo-Iranici
in Indiani da una parte ed Iranici dall’altra. In diversi passaggi
VA vesta menziona i componenti della società come gruppi di uomini o di classi
(designate da una parola che si riferisce al colore, pistra): i sacerdoti,
àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri,
luBciè.star (guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio
guerriero Indra) e gli agricoltori-allevatori, vàstryó.fsuyant. Un
solo passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi, pongono come
quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigiani, huiti, altri
indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozioni sono talvolta
messi maldestramente in rapporto con le quattro classi, cf. SBE, V,357) ci
portano a considerarla una aggiunta a un antico sistema ternario.
Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele
testimone della tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima
Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste classi: separò inizialmente
dal resto del popolo gli *asravctn assegnando loro le montagne per
celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio divino e restare nella
luminosa dimora ; gli *artesfar, posti dall’altra parte, combattono come
dei leoni, brillano alla testa delle armate e delle province, grazie a
loro il trono regale è protetto e la gloria del valore è mantenuta ;
quanto ai *vùstryós, la terza classe,
loro stessi arano, piantano e raccolgono; di ciò che mangiano
nessuno li rimprovera, non sono servi benché vestiti di stracci e il loro
orecchio è sordo alla calunnia. A differenza dell’India le
società iraniche non hanno irrigidito questa concezione in un regime
castale: esso sembra essere rimasto un modello, un ideale e un comodo
mezzo per analizzare ed enunciare l’essenzialità dell’argomento sociale.
Dal punto di vista della ideologia in cui noi ci poniamo, questo è
sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto importante
poiché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla morsa
degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino Oriente,
testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a
molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore
antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni
grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di
vitalità, gli Osseti. Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti
raccontano l’origine della loro nazione: Il primo uomo che
comparve nel loro paese, prima di allora deserto, si chiamava Targitaos,
che si diceva figlio di Zeus e di una figlia del fiume Boriysthene (il Dniepr
attuale)... Lui stesso ebbe tre figli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e
in ultimo Kolaxais. Quando erano in vita caddero dal cielo sulla terra
Scizia degli oggetti d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e una coppa
(apoxpóv xe mi t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più
anziano si affrettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare.
Così si ritirò e il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo
i primi due rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro
si spense. Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo
segno, abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxais
sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-
atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,
Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si
chiamano Skolotoi, dal nome del loro re Mi sembra certo che
bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere yévoq con tribù. Gli Sciti
contano quattro tribù, una delle quali è la tribù capo. Ma tutte hanno
realmente o idealmente la stessa struttura: è chiaro infatti che questi
quattro oggetti si riferiscono alle tre attività sociali degli Indiani e
degli Iranici deH’Iran; il carro e il giogo (E. Benveniste ha analizzato
un composto avestico che associa queste due parti della meccanica
dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco l’arma
nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conservate da Erodoto, come
pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere
nella coppa lo strumento e il simbolo delle offerte cultuali e delle bevande
sacre. La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà
alla tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli
ambasciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a
non attaccarli: Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per
buoi, un carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum,
aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e
contro i nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che
ci procura il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino;
quanto ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da
vicino con la lancia. 4. La famiglia degli eroi Narti
È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica
della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n
frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una grande impresa
folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistematicamente raccolto.
Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi
essenzialmente in tre famiglie. / Boriatee - dice una tradizione
pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in armenti; gli
Alcegatce erano forti per intelligenza; gli /Exscertcegkatce si distinguevano
per eroismo e vigore ed erano forti per i loro uomini. I
dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due a due queste
famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni ’40, confermano
pienamente queste definizioni. II carattere intellettuale degli
Alaegatae riveste una forma arcaica, non appaiono che in circostanze uniche ma
frequenti: c nella loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti
in cui si producono le meraviglie di una Coppa magica detta la Rivelatrice dei
Narti. Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto,
è rimarchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)
bravura, che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate scitiche,
la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbiamo visto, del
fondamento della classe guerriera. I Boriala; e il principale tra
essi, Burafscrnyg, sono costante- mente e caricaturalmente i ricchi, con
tutti i rischi e i difetti della ricchezza e in più, in opposizione ai poco
numerosi vExsaertaegkatae, sono una moltitudine di
uomini. Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico, questa
dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di
un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati
complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al di fuori
degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica o
praticavano realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leggende in
cui spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti componenti
iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo
antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Libia e dall’Arabia
agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato
praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo
un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo
indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di questa proposizione. Il
caso più completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti e
gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c prestata
attenzione (J. Vendryes) alle numerose corrispondenze che esistono nel
vocabolario della religione, dell’amministrazione e del diritto, tra le
lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli- che
dall’altra. Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato
sociale della Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai
testi che ci informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al
cristianesimo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del
sanscrito rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così
costituita: 1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni limile,
quasi super-nazionale come la classe dei brahmani, vi c la classe dei clruicli
(*dru-uid), cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi, depositari della
tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia militare, unica
proprietaria del suolo, \a flciith irlandese (cf. il gallico vlata- c il
tedesco Gewcdt), propriamente la potenza, esatto equivalente semantico del
sanscrito ksatrà, essenza della funzione guerriera. 3)
Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi ( ciirif.;)
che si definiscono solamente come possessori di vacche ( bó). Non è
sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R. Thurney- scn
hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che questa ultima parola,
aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti i membri
dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla
legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee -
airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una
parola imparentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\
antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg uomo, da *arya-ka-).
Ma poco importa: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema
reale o ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché
risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi
e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione
precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila
di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e
ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce
chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa,
Roma si e costituita da tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo
e Remo, gli alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici
sabini di Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita
a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla
TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora
costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA
TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU
II. Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il
rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente
etnisca è eliminala, ma l’analisi tri-funzionale non viene meno poiché Romolo c
i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri
e di guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio
(1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes
(e le donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i
Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a
vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il dio
Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: La ricca vicinanza – “viciniadives” -- non
voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non aveva riguardo del
fatto che io ero (un dio) la fonte del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io
ho risentito di questa pena e ho messo nel tuo cuore, Romolo, una
disposizione conforme alla natura di tuo padre -- “patriam mentem”, cioè
marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno le
armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano di unirsi a questi nuovi venuti Che non sono da considerarsi neper ricchezza
(xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov). A Romolo, relegato così alla
sua qualità di figlio di dio e di depositario dei primi auspici, non resta che
affidarsi (II, 37) ai militari di professione come l’etrusco Lucumone di
Solone, Uomo di azione e illustre in materia di guerra (xà rcoX.é|iia
8ux<pavnq). Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da a questa
dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione più complete.
Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive mettendo in
risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi nomi dei
loro eponimi, comincia ad esprimere i caratteri funzionali distintivi,
1’essenza, potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i
compagni di Remo e di suo fratello (il nome di Romolo è riservato per
coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu- mo); TRIBU III. Tito
Tazio. Il testo di Properzio merita di essere esaminato più da
vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre
(c un luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza
della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che introduce il tema
applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre parti ineguali,
seguite da una conclusione: -- sul pendio dove si elevava un tempo
la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo focolare, immenso
reame. La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di toghe
preteste, non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime
rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi
cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che
con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno
oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e
trovava il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche
scarnite portavano in processione degli oggetti senza
valore. Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti
crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le
interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle
correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci
scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del
generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la
ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si
formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che
Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli Bianchi. Il percorso di questo
sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende
verso l’ultimo distico che prima di menzionare il radunatore Romolo,
nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù
riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che
sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione
erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del
verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes,
conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla
menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa
società composita ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in
frotres al verso 10. In altre parole, prima di mostrarli trasformati
(hinc) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia
col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza
ancora separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU
I: Le genti di Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e –
TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega così come le feste dei versi 15-26,
appartenenti ai futuri Ramnes, siano quelle che la tradizione considera
anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due
fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive
presentazioni delle future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal
verso 9 (Remo) al verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di
un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (semplicità dei re, di ciò che rappresentava allora
il senato e l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di
solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a
febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno
sfarzo). TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 ( Lygmon) il poeta evoca le
forme primitive della GUERRA che rimangono elementari (un berretto di
pelle) anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso
30 ( Tatius ) Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in
conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto
nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I
Ramnes, raggruppati intorno ai fratelli, dediti soprattutto al governo e
al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati inizialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono
molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni
o, come dice Plutarco, nei quattro |3ioi (tipi di) vite, ma questi tipi sono
molto probabilmente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o guardiani,
agricoltori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A).
Plutarco 0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario
ricollegato ai sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e
pastori. È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di
Platone - filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo
stato che produce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o
filosofica, così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state
ispirate in parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva
allora in GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei
pitagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o
preellenico. 10. La tripartizione sociale nel mondo antico
A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica indipendente
nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane,
presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia
sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti agli
Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle
organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combattente che
pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui un
re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una massa
spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora delle
società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri
senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita.
Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano la struttura
delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni.
Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad esempio del
Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha
acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a lui, da una di
quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti, Arya - che nel
secondo millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi.
E il caso ad esempio dell’Egitto castale in cui i Greci del V
secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vecchie
classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In realtà questa
struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli Indoeuropei,
che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del secondo millennio
prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il cavallo e tutti i
suoi usi. Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni
si riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva
mai avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico
testo multifunzionale del tipo di quello che sarà conosciuto da
Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di
aver fatto un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV
(J.H. Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty):
M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-
spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all
thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,
by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni Ora, Thutmosis IV
(1415-1405) è giusto il primo Faraone che abbia mai sposato una
principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re dal nome caratteristico
di Artatama. Sembra che la differenziazione di una classe di guerrieri
col suo statuto morale particolare, unito ad una sorta di alleanza
flessibile a una classe ugualmente differenziata di sacerdoti, sia stata
la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione e il mezzo
della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi ci hanno
trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle vecchie civiltà
questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi come quei
conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mondo comparvero ai capi e
ai popoli degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con
un nome - marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya,
incuiStig Wikander seppe riconosce- 26 re nel
1938 i membri dei Mcitinerblinde dello stesso tipo studiato da Otto
Hofler presso i Germani. La comparazione dei più antichi documenti
indoiranici, celtici, italici e greci, se da una parte permette di
affermare che gli Indoeuropei avevano una concezione della struttura sociale
fondata sulla distinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni,
dall’altra parte non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o
sulle diverse forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni.
Bisogna ora generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito
degli Arya vedici. È possibile che la società sia stata interamente
ed esausti vamen- te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può
anche pensare che la distinzione avesse solamente portato a mettere in
risalto qualche clan o qualche famiglia specializzata, depositaria
nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e
delle tecniche guerriere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie
deH’allevamento, mentre il grosso della società, indifferenziata o meno
differenziata, si affidava alla direzione degli uni o degli altri,
secondo le necessità o le occasioni. Si è infine liberi di
immaginare moltissime forme intermedie, ma queste non saranno che punti di
vista dello spirito. Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia
rivelare la sopravvivenza di formule molto precise: così, nel Rgveda i 33 dèi
riassumono una società divina concepita ad immagine della società aryae
sono talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3
supplementari; oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei
quali 30 (cioè 3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei
Ramnes, Luce- res e Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le
tre funzioni fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e
storico dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che
interessa di più il comparatista, ma il principio di classificazione, il
tipo di ideologia che essa ha suscitato, realizzato o formulato, e di cui non
sembra essere più rimasta che un’espressione tra tante
altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata
incontrata una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e
bisogna così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate
da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il
sostentamento e la prosperità della collettività. Ma il dominio
delle funzioni non si limita a questa prospettiva sociale. Alla riflessione
filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito - come sostantivi
astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi nella
riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che può
essere considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per
esplorare la realtà materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine
nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla società.
L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali della
struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938, da E.
Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla
seconda funzione un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una parte
il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uomini tra di
loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, amministrazione), e
così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi delegati in
conformità con la volontà o il favore divino e infine, più generalmente, la
scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla meditazione e dalla
manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza fisica brutale
e l’impiego della forza, uso principalmente ma non unicamente guerriero.
È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza funzione,
che ricopre delle province numerose fra le quali intercorrono dei legami
evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben definito: fecondità umana,
animale e vegetale, ma, nello stesso tempo, nutrimento e ricchezza,
santità e pace (con le gioie c i vantaggi della pace) e anche voluttà,
bellezza c l’importante idea del gran numero, applicata non solo ai beni
(abbondanza) ma anche agli uomini che compongono il corpo sociale
(massa). Non sono queste delle definizioni a priori ma insegnamenti convergenti
di molte applicazioni dell’ideologia tripartita. Gli indologi
hanno familiarità con questo uso straripante della classificazione
tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e
nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del pensiero cinese - che
ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di nozioni solidali che
antitetiche -1’India ha messo le tre classi della società, coi loro principi,
in rapporto con numerose triadi di nozioni preesistenti o create per la
circostanza. Queste armonie, queste correlazioni importanti per l’azione
simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta un senso molto profondo,
talvolta artificiale e altre volte puerile. Così, ad esempio, le
tre funzioni sono distributivamente connesse ai tre guna (propriamente, figli)
o qualità - Bontà, Passione, Oscurità - delle quali la filosofia
sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la trama di tutto ciò
che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori dell’universo, le si vede
non meno imperiosamente collegate ai diversi metri e melodie dei Veda o ai
diversi tipi di bestiame o a comandare minuziosamente la scelta dei
diversi tipi di legno con cui saranno fatte le scodelle o i
bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la
maggior parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di
questo genere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del
globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei.
Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.
13. Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni
E. Benveniste ha individualo presso gli Iranici c gli Indiani delle formule
molto simili in cui un dio è pregalo di allontanare, da una collettività
o da un individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si riconnettc a una
delle tre funzioni. Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli
(Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero
r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e dall'inganno (quest’ultima
parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la
ribellione politica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si
riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la
menzogna). Parallelamente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c
del novilunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che,
diversamente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio
Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo
comune: Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo
sacrificio, conservami dal cattivo nutrimento. L’enunciato indiano
è parallelo a quello iranico, con la riserva che, al primo livello, il re
achemenide parla di inganno e il ritualista vedico di sacrificio
malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad evoluzioni divergenti -
da una parte più moraliste e dall’altra più for- maliste - delle
religioni delle due società. Mi è stato possibile dimostrare in
seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi
sono talvolta così sorprendentemente simili a quelli vedici, utilizzavano la
stessa classificazione tripartita delle maggiori calamità. La principale
compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa
dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV 1873, p. 12): Vi sono tre
tempi in cui si produce il deperimento del mondo: il periodo della morte
degli uomini (morte per epidemia o per carestia, precisa la glossa), la
produzione accresciuta di guerra e la dissoluzione dei contratti verbali.
I malanni sono così ripartiti fra le tre zone della salute o del
nutrimento, della forza violenta e del diritto. I Galli non hanno inserito nei
loro libri giuridici delle tali formulazioni astratte, ma un testo che parrebbe
essere la trasposizione romanzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a
Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre oppressioni dell’isola di
Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste calamità
sono: 1) una razza di uomini saggi il cui sapere è tale che essi intendono per
tutta l’isola ogni conversazione, fosse anche a bassa voce, e
interferiscono così nel governo e nei rapporti umani; 2) ogni primo maggio ha
luogo un terribile duello tra due draghi, il drago dell’isola e il drago
straniero che viene a battersi col primo, cercando di vincerlo, e le urla
del drago dell’isola sono tali da paralizzare e sterilizzare ogni essere
vivente; 3) ogni volta che il re accumula in uno dei suoi palazzi una provvista
di cibarie e di vivande, fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge
la notte seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una
volta come le tre oppressioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’amministrazione della forza e infine del nutrimento; in
più, considerate in base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse
definiscono tre delitti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e
furto di beni. Sembra che il più antico diritto romano ugualmente considerasse
i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto
{furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione
C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una distinzione
sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in furto, violenza
fisica e incantesimo (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato
la classificazione avestica dei medicamenti ( Vidèvdàt, VII, 44: medicine del
coltello, delle piante e delle formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un
inno del Riveda sui poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3)
.guaritori di chi è cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito
(male alimentare) e di chi ha una frattura (violenza). È lo
stesso procedimento che nella III Pythica di Pindaro il centauro Chirone
insegna ad Asclepio per guarire le
dolorose malattie degli uomini (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una dottrina medica tripartita ereditata
dagli Indoeuropei. Se i vecchi testi germanici non applicano questo schema
classificatorio ai malanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in
altre circostanze: il Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in
cui il servitore del dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la
gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi del suo maestro.
Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con
dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di
decapitarla (str.) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo tentativo
non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua magia, bacchette (
gambantein ) c rune (str. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole
fare brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre
funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re
Dilàpa merita di essere chiamato padre dei suoi sudditi perché assicura loro buona condotta, li
protegge e li nutre. Con delle formule generalmente meno concise,
l’epopea irlandese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei
Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è
caratterizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: .non vi
è né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio;
l'intesa regna senza lotte . L’originalità del paese meraviglioso
consiste nel fatto che tutto è buono e facile, ma questa idea si analizza
e si esprime nel pensiero dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni
(virtù, guerra, abbondanza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento,
considerata come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale
al massimo grado (J. POKÒRNY, Conio’s abcnteucrliche Fahrt ZCP XVII,
1928,195). In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re
Conchobar, u n lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi
erano pace e tranquillità, saluti cordiali, ghiande, grasso e prodotti del
mare, controllo, diritto e buona regalità (K. MEYER, Milleil. aus
irischen Handschriflen ZCP): cioè il contrario della guerra, della
carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali il
re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero. Si
può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo naturali, così
troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile disposizione delle cose perché
il loro accumulo e la loro somiglianza provino un’origine comune c resistenza
di una dottrina caratteristica degli Indoeuropei. Una riflessione
anche elementare sulla condizione umana e sulle risorse della vita collettiva
non dovrebbe forse mettere in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo,
tre necessità, cioè una religione che garantisse un’amministrazione, un diritto
c una morale stabile, una forza protettrice c conquistatrice, infine dei
mezzi di produzione, di alimentazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui
pericoli che incontrac sulle vie che si aprono alla sua azione, non è
ancora a una qualche varietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal
mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare
che, malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai
quali si riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi
suppone: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in
alcun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella letteratura
dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o taoisti così
inventivi ed esperti di classificazioni. La ragione è semplice ed
elimina l’obiezione: per una civiltà, sentire vivamente e soddisfare dei
bisogni impellenti è una cosa; portarli alla chiarezza della coscienza e
riflettere su di essi, farne una struttura intellettuale e uno schema di
pensiero è tutta un’altra. Nel mondo antico solo gli Indoeuropei hanno
fatto questo cammino filosofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle
produzioni letterarie di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione
più economica, come per la divisione sociale propriamente detta, è
ammettere che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente
in ogni provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore
alla divisione ed è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i
collegi sacerdotali romani sono in parte i diretti eredi. Meccanismi
giuridici triplici Una delle applicazioni più interessanti ma più
delicate è quella che in riferimento alla concezione indoeuropea
chiarifica presso i diversi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le
regole giuridiche. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha dimostrato
che questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo spirito,
conserva nelle sue forme un gran numero di procedure in tre varianti a
effetti equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove, come
creazioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di
queste sorprendenti tripartita si modella sul sistema delle tre funzioni
qui considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può
essere fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente
religiosa dei Comitia Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul
fronte di una battaglia davanti ai soldati; sia tramite una vendita
fittizia a un emp- torfamiliae (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano,
Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un diritto
sacerdotale, un diritto guerriero e un diritto economico, o che i tre tipi
di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti
differenti, non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie
giuridiche che si possono interpretare in questo senso.
Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di
possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si
distribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che i creatori del
diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita
collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volentieri tre
processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti ciascuno dal
principio (religioso; attualmente o potenzialmente militare; economico) di una
delle tre funzioni. La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I
sistemi filosofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei
principi come la legge morale, la passione, l’interesse economico
(dharma, kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua
Repubblica ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di
ricchezze - delle formule di virtù che distribuiscono e combinano la
Saggezza, il Coraggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente
tradizionale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la
mitica regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come
triplice condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di
essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia (Tdin Bó Cualnge ed.
Win- disch, 1905,6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi
brillante- mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo
per eccellenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione
di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.
Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza antichissima;
nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9;
Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire
un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a Indra
(quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le varianti) e a nessun
altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguente, alla lista arcaica
indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano la prima, la terza e
la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero
trifunzionale è stata quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali
quanto i loro tre principi sono stati legati figurativamente e solidalmente a
degli oggetti materiali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li
rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani
e un ventaglio di colori. Ci si ricordi della leggenda tramite cui
gli Sciti, secondo Erodoto, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro
caduti dal cielo - carro e giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o
arco) come arma guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori nettamente
classificatori secondo le tre funzioni. Ora, questi oggetti
non erano solamente mitici: erano conservati lutti insieme dal re e ogni anno
venivano solennemente portati attraverso le terre scitiche. Anche la leggenda
irlandese attribuisce alla penultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che
in realtà è costituita dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé
Danann, Le tribù della dea Dana), un gruppo di oggetti talismani: il
calderone di Dagda che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due
armi terribili, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la
spada di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai
infine, sede della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati
doveva essere scelto come re (V. HULLThefourjewels oftheT.D.D ZCP,
XVIII, 1930,73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano
allo stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che
vedremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.
20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici
Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già
segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)
gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita
varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq screziato,
russo pisat' scrivere), che con sfumature diverse designano il colore. Di fallo
è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e
sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spiegazioni non mancano) dal
bianco, il rosso, il giallo e il nero. Di certo che vi è stata
un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed
eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei
rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio
anche uno nel Riveda (nero, bianco e rosso è il suo cammino dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e
trifunzionale degli dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il
giallo e dove vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli
allevatori-agricoltori. In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa
ripartizione: una tradizione mazdeo-zurvanita che è stata progressivamente
stabilita e interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S.
Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive nella
cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei guerrieri
come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come blu
scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha
intelligentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio
in cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di
lasciarla e di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il
che suppone tre diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il
secondo in una stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk
aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925,
22-23). 21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e
Romani Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore
dei dm- idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a
Roma un Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il
flamen diu- lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo
sulla testa del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti
armati che sono i Salii. Un sistema completo a tre termini
del simbolismo coloralo s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il
caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che
assunsero grande importanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma
che sono sicuramente anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità
romane ricollegano del resto alle origini stesse di Romolo.
36 Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono
molteplici e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste,
conservata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà
romane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica
erano inizialmente tre ( albati, russati, viricles) in rapporto non solo
con le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparentemente
sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovranità, guerra,
fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes, Lucercs e
Titienses. A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra
che erano, nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini,
Etruschi, Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti,
da guerrieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio
{De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle
tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi. Nel
1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi antichi e moderni
(religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori: quasi
lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi confini,
o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeuropei e alcuni
hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui
considerato. 22. Le scelti- dei tigli di Feridùn
Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni molto
diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qualche esempio.
La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ultimogenito raccoglie
insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro simboli delle tre
Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradizione dell’Iran
propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Avesta chiama
©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn. Eccola
nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i
JàmcispTk: Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i
loro nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: Io sto
per dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che
gli sembra bello affinché io glielo doni. Salm chiese grandi
ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il
segno miracoloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la
religione. Frètón disse: Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto.
Ed egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a
Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric.
Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisione
geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso. Esposti a
titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccioso), ognuno dei tre
fratelli si rivela in accordo con la propria natura e col proprio livello
funzionale: Salm fugge, Tòz si precipita ciecamente all’assalto e Iraj evita il
pericolo senza combattere, con l’intelligenza e il nobile sentimento che
ha della dignità regale della sua famiglia. La scelta del pastore
Paride È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse
influenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia del
giudizio di Paride, piacevole racconto dalle pesanti conseguenze poiché è
destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo valore,
Troia finisca per soccombere ai Greci. Paride, il bel principe
pastore, vede giungere presso di sé tre dee (che simboleggiano le tre
funzioni) che gli chiedono un giudizio eminente; secondo un tipo di variante
(Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307) ognuna si presenta nel l’aspetto
del proprio rango e della propria attività: Era, fiera del letto regale del sovrano Zeus ,
Atena con l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi
che la potenza del desiderio. Secondo un’altra variante (Euripide,
Troiane, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio
promettendo un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa,
Atene la vittoria e Afrodite la donna più bella. Paride sceglie
male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che causerà ben presto il
rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di
combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizione di uomini e
divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno
accanite. Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni.
Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache
raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggenda greca,
che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma generalmente bene) fra
tre offerte nettamente funzionali; oppure tre fratelli che si spartiscono
tre doni funzionali dei quali solo uno, quello della prima funzione
assicura a chi lo possiede un destino pienamente buono. Ecco per esempio la
forma originale rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle leggende
tedesche sull’origine dello Jodeln (Johlen). Res, il vaccaro
di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali in
procinto di fare il formaggio: a un certo punto il latticello è versato in tre
secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel terzo è
bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il latticello;
allora uno dei vaccari fantasmi aggiunge: Se scegli il rosso sarai talmente
forte che nessuno potrà combattere con te. Il secondo vaccaro disse a sua
volta: Se tu bevi il latticello di colore verde possiederai molto oro e
sarai ricchissimo. Il terzo infine spiegò: Bevi il latticello bianco e tu
sarai Jodeln meravigliosamente. Res rifiutò i due primi doni e si decise per il
latticello bianco, diventando un perfetto Jodler. Gerschel
rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse varianti un effetto magico
(tutte le bestie vengono incontro allo jodler e. l'accompagnano; tavole e
panche danzano nella sua capanna: le vacche si alzano sulle loro zampe
posteriori e danzano; la vacca più selvatica si addolcisce e si lascia mungere
facilmente, etc.). Talismani di Roma e di Cartagine Verso la
fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio organizzato su un tale tipo di
schema la garanzia della sua vittoria finale: una testa di bue, poi una
testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di- done sul sito in cui si
ergeva, con Cartagine, il tempio della sua Giunone) avevano, a detta di loro,
garantito alla città africana l’ opulenza e la gloria militare. Ma in
virtù della testa d’uomo che gli spalatori di Tarquinio avevano un tempo
trovato sul Campidoglio, nel sito del futuro tempio di Jupiter O. M, è Roma che
detiene la più alta promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui
si deve ancora questa sorprendente interpretazione, ha ricordato che presso gli
Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori
delle vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme
alle teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno
in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico
la tripartizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema
di grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in
India, in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio
o di un uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capitolo)
un personaggio della seconda funzione, un guerriero. Indra, il dio
guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei Brahmano e nelle epopee
la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lunga e varia. Ma il quinto canto
del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema delle tre funzioni: Indra
uccide prima il mostro Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c
un flagello che minaccia il mondo, ma tuttavia morte sacrilega poiché il
Tricefalo ha il rango di brahmano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio
e di conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale,
tejas (1-2). Poi, essendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il
Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del
guerriero conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla
forza l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia. Infine,
tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito, adesca una
donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa
(12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a
rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in
lingua scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr
(Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e
devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è
infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita prolungata
sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in ognuna di esse
egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste tre penalità
si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo al servizio
di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a
uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano. Trovandosi poi al
servizio di un re svedese /ugge vergognosamente dal campo di battaglia dopo la
morte del suo signore abbandonandosi, in quest’unica occasione delle sue tre
vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina
il suo signore procurandosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo
eccezionalmente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece
altrove, in atti e discorsi, professione di disprezzo. Essendosi
così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che cercare la
morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili, Vili). Il
carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle di
Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamente tarde ma
non inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da Zeus e
Alcmene durante tre notti) è scandita da tre mancanze che hanno un effetto
grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il ricorso
all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda
ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù di una
promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle commette
tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di Zeus e
l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbidienza agli dèi,
Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla demenza ed
uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente alla ragione, si
sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate da altre fatiche
(cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle attira suo figlio
Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con l 'inganno
(Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere fortemente antieroico
di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una malattia psichica da cui non si
libera: viene così informato dall’oracolo che deve vendersi come schiavo
e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo di questa vendetta (cap. 31).
3) Benché infine legittimamente sposato aDeianira, Eracle cerca di sposare
un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua
donna, dal che ne deriva il terribile disprezzo di Deianira, la tunica
avvelenata dal sangue di Nesso e i terribili e irrimediabili dolori dai quali
l’eroe non può liberarsi, dietro un terzo ordine di Apollo, che con la
propria apoteosi, col rogo (cap. 37-38). Oltraggio a Zeus e
disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di un nemico senz’ armi;
concupiscenza sessuale e oblio della propria donna: i tre errori fatali di
questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre zone funzionali
esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa specificazione
(concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere stesso
dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e cumulative nel caso di
Indra, sono invece successive nel caso di Eracle: le prime due possono
essere riparate mentre la terza trascina alla morte. In una
tradizione avestica, senza dubbio ripensala e ri-orientata dallo
zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per un unico
grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro Dio e
usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello x'
arvnah, di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu- ra
Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di
questo x v arvnah successivamente sfuggono per collocarsi nei tre personaggi
corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore, del
guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart, VII, 1,
25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl Questo rapido excursus è
sufficiente per mostrare le direzioni e i diversi ambili in cui
l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha utilizzato la struttura tripartita;
ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre applicazioni di
questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del mondo antico per
ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema epico o leggendario,
la messa in scena di una lezione morale o politica, la giustificazione
colorita immaginifica di una pratica o di uno stato di fatto. Al
momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga- mesh a
Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della Cina, dalla saggezza
araba agli apologhi confuciani, nessun personaggio storico o mitico ha
rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario
molte figure degli Indoeuropei. È dunque probabile che questa divisa sia solo
indoeuropea e che solo in questa vasta partedel mondo, e prima della loro
dislocazione, gli Indoeuropei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato
e applicato all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e
infine utilizzato nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità
fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di
soddisfare. Terminando quest’esposizione molto generale vorrei
sottolineare ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non
ci fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le
istituzioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli Indoeuropei
comuni. Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e
dei quadri essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio
il rapporto fra le tre funzioni e il re, del quale ci è assicurala
l'esistenza antichissima nella parte senza dubbio più conservatrice degli
Indoeuropei, cioè presso gli indiani vedici (/•/-), i latini (/ <?#-) c i
celti (n#-). Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su
ognuno vi è stata una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così
qualche fluttuazione nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c
notoriamente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla
struttura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura
amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul
sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governatore) è al
contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni. Oppure
si presenta una mescolanza variabile di clementi presi dalle tre funzioni
e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dalla classe guerriera da cui
solitamente proviene: il nome differenziale dei guerrieri indiani,
ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya, derivato dalla
parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere
meglio formulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò
che fu l’armatura più solida del pensiero di questa società arcaiche: il
sistema divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, Were castes formulateci in thè age of thè Rig
Veda?, Bull, of thè Decenti College Research Institute, II,34-36. Per brahman vedi L. RENOU, Sur la nolion de bràhman, JA. Questa
interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali da
W.B. HENNTNG,' Brahman, TPS, 1944,108-118, rende caduco il senso ammesso
nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il Brahman di P. THIE- ME, ZDMG, 102,
1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato dello
studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia
discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII,
1950,255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la
questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo
in vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario del primo
livello; ma la concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito
ksatriya per designare l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome
dell’arcangelo sostituito nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo
livello e infine di /Exscert-ieg come
nome della famiglia degli uomini differenzialmente “forti” nell’epopea
degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi indo-iranici
questo termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del secondo
livello. § 2. DUMÉZIL, La préhistoire
indo-iranienne des castes, JA. B ENVENISTE, Les classes sociales dans la
tradilion ave- stique, JA, CCXXI, 1932,117-134; Les mages dans l’ancien
Iran, Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938,6-13; Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales, JA; H.S. NYBERG, Die
Religione/} cles alteri Iran, 1938,89-91; DUMÉZIL, JMQ, 41-68 (= JMQ it.24-45). L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al
§ 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le premier homme... I,
1918,137-140. § 4. JMQ,55-56 (= JMQ il.,35). Sulle tradizioni degli
Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle
grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije
Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce). Il testo
citalo di Turganov è nell’articolo Klo takie Narty?,/zv. Oset. histit.
Kraeveilenija, I (Vladikavzak) Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de
France, 15-19 e BGDSL, 78, 1956,175-178. § 6. JMQ,110-123 (=JMQ
il.77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso
la mia dimostrazione, Ccltic Origins; a Stage in thè Hnquiry, J. ofthe R.
Anthropol. Institute: Of greatest interest is thè
recognition of a three folci clivision o f society among thepeoples
concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class
oflearned and sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west
thè ordinary people etc. Circa il
nome di aire apparentato ad aiya, io credo che bisogna rinunciare
all’etimologia che accosta il nome dell’eroe irlandese Eremon al dio
indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conseguenza sopprimere l’ultimo
capitolo del mio Troisième Souverain, 1949. § 7-8. Questa analisi è
stata fatta progressivamente in JMQ,129-1 54 (= JMQ it.,90-107);
NR,86-127 (= JMQ it.230-263); JMQ IV, I 13-134. In parte qui riproduco il
riassuntode L'heritage.. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti
delle tre funzioni: Ner - et uiro - dans les sociétés italiques, REL Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it.230-262), riassunto in L’heritage...196-201 e 229-23 1. Ho
anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - superbum Rhamnetem -come
nomeproprioda Virgilio (Aen.) è perdesignare un re jce un augur ; che
Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della gens Lucretia, una
delle più militari delle leggende dei primi tempi della Repubblica (e
proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio allude a un mito
del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir.,
Ili, 1930,75-80) si trova in altre parole in rapporti diversi ma
convergenti con la fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma
l’orientamento differenziale di ognuna delle tribù verso una delle tre
funzioni. Ho infine ricercato delle allusioni letterarie alle tre funzioni
e ai loro rappresentanti, come componenti di Roma o di altre società
concepite a sua immagine: JMQ IV, 121-136; REL; ma i testi degli storici e
quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della
fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa
ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ, (=JMQ
it.,269-270); in compenso le classi doriche sono di un altro tipo, malgrado
JMQ,254-257 (soppresso in JMQ it.). Un recente studio di NlLSSON sulle
Phylae ioniche ( Cults, myths, oracles andpolitics in ancient Greece,
1951,143-149) presenta delle difficoltà che esaminerò altrove. L.R.
PALMER ha brillantemente proposto di riconoscere la tripartizione sociale
indoeuropea nei testi micenei: TPS, 1954,18-53; Acliaeans and
Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture, Oxford 1954,1 -22. Quanto ai tre
stati della Repubblica di Platone, vedi JMQ,257-261 (= JMQ it.170-171
): Se le più antiche tradizioni
degli Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita
della società (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale
di Platone non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una
reminiscenza indoeuropea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di
tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ
XpimOtTlCTTUCÓV CUStO- dum genus, uuxiliarii, questuarti, come traduce
Marsilio Ficino, cioè i filosofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente
marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce
conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione,
7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita politica, è
assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una formula di virtù
particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla
temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i guardiani
saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel po ’
che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India: stessa
definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi due, ubhe
vlrye; stesso anatema contro la confusione, varnanàm samkaram,- stessa
esortazione ad attenersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa
distribuzione dei doveri e delle virtù dello stato. I legislatori indiani
e la Repubblica si fanno eco: none forse perché essi recitano la medesima
canzone ancestrale?... Che si pensi a tutte le vie per le quali questa
filosofia indoeuropea tripartita ha potuto discendere fino a Platone: non solo
le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i contatti molteplici con quel
conservatore di dottrine, non ariane, ma anche ariane, che fu l'impero
degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti della scienza dei sacerdoti
traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano le triadi; il
pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non
trascurare le componenti iperboree; infine il folklore... Cf. qui sotto §
18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e
in Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano
ma-ra-ya-na\ cuneiforme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto Albrighl,
dall’accusativo plurale arya mdrycin + la terminazione hurrita -ni), vedi R.T.
O’CALLAGHAN, New light on thè Maryannu as chariot-warrior, Jb. f kleinas.
Forschung, 1951,308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der
arische Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da
confrontare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934.
Una delle grosse differenze tra il Mannerbund degli Indiani e quello dei
Germani consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna),
mentre il secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della
funzione guerriera presso i Germani; vedi MDG,92, n. 1 e più specificata-
mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch. Un’interpretazione delle
corrispondenze del tipo 33 fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ
IV,156-170 (= JMQ it.,389-405), L'heritage...,213-227.1 33 dèi vedici
sono ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV,30-33; riassunto in DIE,7-9)
essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ,65 = JMQ it.42-43 ). Il
carattere indo-iranico dei 33 dèi è garantito dalla concezione avestica
dei 33 ratu (spiriti protettori o prototipi delle diverse specie di esseri):
JMQIV,158-159(=JMQ it.,294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les, JA, 1938,529-549, che E. BENVENISTE ha per la
prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in cui il fatto
era ben conosciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente
l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non come
un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro articolo,
per riassumere l’insegnamento di questo (Symbolisme social dans les
cultes gréco-italiques RHR): La elivisione della societe'i in tre classi,
sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici
avevano piena coscienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la
necessità di un fatto naturale. Questa classificazione regge così profondamente
l’universo indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le
enunciazioni esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare
[JA, 1938,529 e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate
e che sono fuori dalla sfera propria del sociale, al punto che ogni de
finizione di una totalità concettuale tende inconsciamente a riflettere il
quadro tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti studi ha riportato sino alla comunità
indoeuropea l’origine di questa classificazione, scoprendola nei miti e nelle
leggende dell ’Europa occidentale antica e principalmente -è l'oggetto
del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella religione romana. Le posizioni
variabili della tecnica in rapporto alla tripartizione sociale sono esaminate
in Les métiers et les classes fonclionnelles chez divers peuples
indoeuropéens che sarà pubblicato quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés, Civilisations. § 13. BENVENISTE,
Traditions indo-iran. sur les classes sociales, JA CCXXX, 1938,543-545;
DUMÉZIL, Triades de calamités et triades de délits à valeur
trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens, Ltito- mus,. BENVENISTE,
La doctrine médical des Indo-Européens, RHR; Dumézil, art. cit. al paragrafo
precedente,184, n.2. § 15. JMQ (= JMQ it.,80) Les trois
fonctions et le droit romain selon L. Gerschel, frammenti di una memoria
inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ Per Platone e l’India vedi JMQ
(=JMQ it.,171 -172) Dopo aver scoperto la formula tripartita della
società, Platone si volge sull’individuo, sull'Uno umano e in questo
microcosmo ritrova gli stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse
condizioni di armonia comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal
punto di vista della giustizia, non differisce in niente dallo Stato giusto; ha
in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrieri, degli uomini ricchi: questi sono
i principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito, xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poiché
apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali
che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo
l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni
che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre
guna al pari della società e dell'universo: queste qualità, che furono
inizialmente luce, crepuscolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro
presenza isolata che per la loro combinazione, costituiscono gli
individui e lo Stato: talvolta il senso della legge morale, della
passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si uniscono in una
triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lodevole o biasimevole
definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema prettamente
indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoranza fonte di
errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa semplice
enumerazione disegna una terapeutica... Per l’Irlanda e la regina Medb
vedi JMQ,115 -116 (= JMQ it.,80-82); è la stessa Medb che commenta chiaramente
la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valoroso in guerra e
anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi
termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro -
allusione alle costanti competizioni intorno alla regalità irlandese che Medb
incarna e conferisce. Nella lontana posterità di Platone, Claudiano, De quarto
consul. Hon., espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima
(o delle tre anime) c ritrova, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di
Medb (ma col timore al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris
ira; seruitiipaliere iugum. Per Zoroastro tripartito vedi K. Barr, Irans profet
som xéXeioq avOptonoq, Festkr. tilL.L. Hammerich Perii talismano dei
Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (sopprimendo le pagine 241-245). Per gli
oggetti vedici (la Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due
cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che serve agli Aévin per portare la
loro benevolenza al mondo:es. RV) e scandinavi (P anello magico per
Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per Freyr)
vedi Tarpeia, IV (Mamurius Veturius) Nei rituali vedici vi sono tracce di
un’antica assegnazione del nero ai vaiéya: per costruire la sua casa un
indiano sceglie un suolo diversamente colorato, bianco per un brahmano, rosso
per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo secondo certi trattati (
Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7;
Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo luogo
ZaEHNER, Zurvan, 1955,118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart).
Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, DUMÉZIL, Rituels cap. Ili
(Albati, russati, virides) e IV (Ve- xillum caeruleum); J. DE VRIES,
Rood, wit, zwart, Volkskimde, II, 1942, 1-10. § 22. MOLE, Le partage du monde dans la tradition des Iraniens, JA,
CCXL, 1952,456-458. § 23. DUMÉZIL, Les trois fonctions dans
quelques traditions grecques Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L.
Febvre ), I, 1954,25-32, dove sono studiate in questo senso il
Kroisos-Logos di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del Sileno;
L. GERSCHEL, Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de légendes
germaniques, RHR, CL, 1956, 55-92, in cui sono esaminati due tipi imparentati
di leggende, una che comporta l’opzione proposta a un individuo fra tre offerte
funzionali (es. l’origine di Jodeln citata nel testo) e l’altra che
presenta tre fratelli che si spartiscono tre doni funzionali il cui
valore si rivela disuguale a vantaggio del dono della prima funzione (es.
il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III,
1842,268-291 ha pubblicato un buon esempio). GERSCHEL, Structures augurales et tripartition fonctionnelle dans la
pensée del’ancienneRome, JP. L’estrema antichità e il carattere
indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di Roma (la parola
augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:
L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36, RSR ( =Mél. J.
Lebreton. I), 1951,17-29, prolungata da Le iuges auspicium et
les incongruités du taureau attelé de Mugdala, NC; Rituels..., cap. II (Aedes
rotunda Vestae); Les trois premiè- res regiones caeli de Martianus Capei
la, Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì), 1956,102-107. Sulla
parola augur e la sua preistoria indoeuropea, vedi Remarques sur augur,
augustus, REL Aspects...,63-101 (Les trois péchésdu guerrier). Citiamo ancora
L. GERSCHEL, Coriolan, Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Febvre), II,
1954,33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle
ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdotale
rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede
alla terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini
- la parte germinativa di Roma - condotte dalla sua propria madre e da
sua moglie. Sulla diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre
funzioni, vedi la mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di
Storia delle Religioni (Roma 1956), Le rex et les flamines maiores,
riassunta negli Atti. Sul re germanico nella prospettiva
trifunzionale vedi J. DE VRIES, Das Kònigtum bei den Germanen, Saeculum Le
teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzialmente degli accumuli
incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi fortuiti della
storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente informati è facile
riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si definiscono le
une con le altre e che si spartiscono le province del sacro, secondo il piano
spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per lungo
tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi.
Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo italico e
mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire
dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;
all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta
penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei
diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli
inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano
(per delle invocazioni, delle offerte o delle enumerazioni classificatorie) i
due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per
eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre designati al duale
con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori, datori di
discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al secondo livello, evidentemente
per analogia col raggruppamento binario del primo e terzo livello, Indra
compare associato a un altro dio, spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya,
Visnu). Abbiamo già visto (I § 18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i
due ASvin, Indra con Agni o Sùrya), invocati per ottenere la formazione
di un feto maschio, obiettivo più importante in questi tempi arcaici che non
oggi. L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto,
prima di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che
è propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordine
che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce la
lista dei principali dèi in coppia invocali al momento culminante della
spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu,
Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che
comanda il piano di un certo numero di inni del Riveda ispirati da questo
rituale. Il contesto di questi inni è sovente istruttivo,
garantisce e illustra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio
in I, 139 Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c
nella stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che
designa il battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di
Mitra-Varuna (2) è riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè
dell’Ordine cosmico e morale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece
presentati come i signori delle due varietà di vitalità, srlyah e prksah.
Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualificati come
nani, Mànner, eroi (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che
con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza ;
quanto agli Asvin, donano gioia a molti
(3, slr. 1). 3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti
Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è
rispettato. Ecco inizialmente due casi molto puri in cui Indra è solo al
suo livello. 52 Nel rituale arcaico e
minuzioso d’erezione dell’importante altare del fuoco, al momento in cui si
tracciano i sacri solchi che devono limitare l’area, viene fatta un’invocazione
alla vacca mitica, Kàmadhuk (quella che quando la si munge dona ciò che
si desidera). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda,
nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori
funzionali: Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a
Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),
alle creature, alle piante! (cf. Éat. Brdhm.). In una tale numerazione
ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed eventualmente degli uomini
non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non possono patrocinare che tre
varietà di uomini arya, quelli che corrispondono rispettivamente e
gerarchicamente alle loro tre nature. In un sacrificio offerto per
ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono invocati nell’ordine
ascendente con un complimento collettivo ed esauriente (Taittir. Sarnh.): tu
sei il soffio degli dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il
soffio di Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!.
Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osserva la
stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interessante ( RV, X,
125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe): è
il famoso inno panteista, messo nella bocca di un personaggio che è senza
dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il supporto e
l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima strofa è questa:
Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono
io che sostengo tutti e due Mitra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io
che sostengo i due Asvin!. È degno di nota che nelle strofe seguenti,
analizzando la propria polivalenza o, come ella dice, i diversi luoghi c soggiorni in cui glidèi l’hanno
introdotta (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc
metta in risalto, come parti della sua opera in rapporto agli uomini (RV str.
4, 5, 6 =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la vita, poi la parola
assaporata dagli dèi e dagli uomini e il bene che concede ai personaggi
sacri (bruh- man, rsi), infine l’arco la freccia che uccide il nemico del
brahmàn c il combattimento. È chiaro che, qualunque sia
l’intenzione dottrinale (si è parlato in quest’occasione di Logos
ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue espressioni il più antico
sistema concettuale degli Arya: con la sua esposizione di nozioni
parallele (dèi, azioni) conferma che la sequenza Mitra-Varuna, Indra (solo o
accompagnato) e i due Asvin riunisce i patroni e le espressioni teologiche
delle tre funzioni. Gli dei arya dei Mitanni Talvolta
leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso possibile comprendere,
questa stessa sequenza si ritrova in diversi testi dell’India arcaica, ma ora
voglio giungere senza indugio a un documento molto importante.
È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro
indiano-vedico, che un dialetto molto vicino a quelli che si possono
chiamare para-indiani, invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e il
Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, incorrendo
in un destino brillante ma effimero e lasciando sue tracce in molti
scritti cuneiformi. Mentrei loro fratelli orientali, autori degli
inni vedici, sfuggono alla storia, questi, circondali da popoli
archivisti e armati di una scrittura, sono localizzabili e databili con una
grande precisione. Sono loro che hanno fatto tremare e talvolta crollare
antichi reami del Vicino Oriente con le loro bande di guerrieri
specialisti, di cui si c parlato più sopra, quelli che i testi babilonesi
ed egiziani chiamano marianni. Il gruppo più interessante di questi
Para-Indiani è quello che, inquadrando e dirigendo un popolo di altra
origine, ha fondato nella metà del secondo millennio, sulle bocche
deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei Mitanni, che per un certo tempo
Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare da pari a pari. A
Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi hanno scoperto in
diversi esemplari il testo di un trattato concluso da questo principe col
suo vicino dei Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall
'Hittita che gli aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì
un’alleanza col suo benefattore nella debita forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di incorrere se mancherà alla parola.
Secondo l’uso, i due contraenti convocano come garanti tutti gli dèi che i loro
due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di
dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o
babilonesi, s’incontra una sequenza che è stata immediatamente identificata
dagli indianisti e su cui i filologi hanno lungamente lavorato, esaminando le
particolarità grafiche e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può
rendere con sicurezza nel modo seguente: Gli dèi
Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio Indura [var. Inclar],
i due dèi Nàsatyu. Per più di trentanni, senza aver preso in visione i
documenti vedici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi
delle spiegazioni strane (Schulz) o insufficienti (S. Konow, 1921
). Il danese A. Christensen con un’analisi serrata si è avvicinato alla verità,
riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a Bogazkòy
come tecnici di atti diplomatici, né come interessali di questa o quella
clausola particolare, ad esempio matrimoniale, del trattalo, ma poiché erano
dèi principali della società arya. Sfortunatamente egli ha pensato questo
stato maggiore solo nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva
preminente nell’Iran, reale ma meno importante nell’India vedica, c l’ha
ripartito artificialmente, contrariamente alle indicazioni del testo, in due
gruppi, Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya dall'altra.
E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai
testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogazkòy,
che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in
questi termini nel 1945: A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della
sovranità che patrocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della
regalità coi suoi necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i
Nàsatyu, rappresentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo
stesso piano: a un secondo livello vi è Indura, dio della funzione
guerriera e dell’aristocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora
inferiore vi sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi
dèi insieme e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con
se stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma
regolare, ed evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza.
Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di
attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua persona
al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio, odio
generale da parte degli dèi . Connotati degli dèi caratteristici delle tre
funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA Non sarà inutile, per
agevolare il lettore nelle analisi particolari che seguiranno, precisare
ora in qualche parola, nella prospettiva delle tre funzioni, gli
orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli archivi di Bogazkòy,
confermando le formule degli inni e dei rituali indiani, comprovano essere un
raggruppamento formulare pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati
riassunti nel mio piccolo libro Les dieux des Indo-Européens
(1952). Non è un caso se il primo livello è spesso rappresentato da
due dèi: nella sovranità che questi antichi indiani concepivano vi
erano due facce, due metà antitetiche ma complementari e ugualmente
necessarie, incarnate e patrocinate da due re, Mitra e Varuna. Se dal
punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,
possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato di
nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e irresistibili,
Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e
benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti,
estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre, è l’altro
mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso
se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino. Più che della
prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità con la seconda,
violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prosperità che dischiude grazie,
alla terza. L'opposizione è così netta che da tempo si sono potuti
sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse l’àsura per
eccellenza ? E nelle forme post-vediche della religione, come già in
molte strofe del Rgveda, gli usura non sono forse dei misteriosi demoni? In
Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le
necessità della forza brutale che applicate alla battaglia producono
vittoria, bottino e potenza. Questo campione vorace, armato di folgore, uccide
i demoni e salva l’universo, per compiere le sue imprese si inebria di soma che
dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e
ardente seguito è formato dai Marut, trasposizione atmosferica del
battaglione dei giovani guerrieri, màrya. Per lui e per essi si esprime una
morale dell'exploit e dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza
immediata e rigorosa, come alla benevolente moderazione che si riunisce
nel primo livello. Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o
Asvin, non esprimono che una parte del dominio complesso tipico della
terz.a funzione. Sono soprattutto datori di salute, giovinezza e
fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli infermi, degli amanti, dei
figli senza fidanzata o del bestiame sterile. Ma la terza funzione è
molto più di tutto questo, non solo salute e giovinezza ma nutrimento,
abbondanza in uomini e in beni, cioè massa sociale e ricchezza economica,
attaccamento al suolo, a questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che
si esprime in sanscrito con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono
spesso rinforzati al loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono
altri aspetti della terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la
maternità ( Pùsan, Puramdhi, Dravinodà, il Signore dei Campi, SarusvatT
ed altre dee madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale,
collettivo, totale (Tutti-gli-Dèi, paradossalmente concepiti come una classe
particolare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili,
35 oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri
bràh- man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme.
Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia articolata
difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e frammenti:
l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divino nel suo
orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non si
definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo
l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del suo
carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo decisivo
nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere conto di un tratto
importante della teologia aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici
delle tre funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il
nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che ha notevolmente
alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie di riforme
progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il risultato
storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto di
partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino allo
schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttrici del
movimento appaiono immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico, dove è
mitigato l’intransigente monoteismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura
Mazda - senza dubbio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che
l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango
che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra,
Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra
(al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto
differente, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati
ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya
seguono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che
(operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a imporre
uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del primo
livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i patroni divini
che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano altri comportamenti come
lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno
libera, dei culti della fecondità. 7. Le Entità zoroastriane
Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella delle
Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto
saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al Gran
Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono
quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate in un ordine
fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Benefìci (o Efficaci). Si è
discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità siano già delle
creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta di arcangeli - o
semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia niente quanto al
problema delle loro origini che qui ci interessa. La lingua e lo stile delle
Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma
fortunatamente per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non
dipendono dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la
struttura grammaticale dei nomi che designano le Entità forniscono
qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengono quasi tutti i nomi di una o
più Entità sono assai numerose per permettere delle osservazioni statistiche -
frequenza relativa di ogni Entità, frequenza delle loro associazioni diverse -
che rivelano dei tratti molto importanti del sistema. Per esempio, se
l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni lirici non costringono
il poeta a presentare le Entità in lista nel loro ordine razionale, come
faranno più tardi i testi rituali in prosa, tuttavia la tavola delle
frequenze di menzione delle Entità, prese separatamente e in conseguenza
delle importanze relative che i poeti le attribuiscono, riproduce esattamente
l’ordine gerarchico che esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste
Spanta: questa gerarchia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento
d’interpretazione è fornito dalla lista degli elementi materiali che la
tradizione associerà, parola per parola, alla lista delle Entità,
gemellaggio a cui gli inni stessi fanno allusioni certe e precise. 4) Infine,
nell’À vesta non gàthico, ad ognuna delle Entità è opposto un arcidemone
che in molti casi le chiarifica. Il quadro è il seguente: Entità
astratte Elementi materiali arcidemoni opposti PATROCINATI
VohuManah bue (Il Buon Pensiero) Asa (l’Ordine)
fuoco XsaGra (la Potenza)
metallo Àrmaiti (il Pensiero terra Pio)
Haurvatà( acque (l’Integrità, la Salute) AmarstàJ (la piante Non-Morte,
l’Immortalità) Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti
nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché
questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero Indra
Saurva NàqaiOya La Sete La Fame
non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non
disponendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qualche
modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con rimmortalità, che
quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa? Perché questi posti
precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che sono antichi dèi
funzionali condannati dalla riforma? Un confronto delle Entità
zoroastrianc con la lista vedica e mitannica degli dèi funzionali, mostra dove
bisogna cercare la soluzione d’insieme. 1 ) Le ultime due,
fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso a poco inseparabili,
ricordano per le nozioni così simili che esprimono, per gli elementi materiali
associali c per il loro posto gerarchico, i gemelli Nàsatya,
indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovanitori dei vecchi,
tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nelle piante.
2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nutrice e
modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea variabile
(Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nelle
enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il dominio
delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostantivi femminili,
mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis,
femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza
l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della terza
funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazione (ridotta a
un unico personaggio) delle due divinità canoniche della stessa funzione,
i Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè
la stessa parola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che
lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta, }>
fornisce differenzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il metallo
che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti
espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui
opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
menzionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi
significativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che
corrisponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,
patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli
sono propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il Buon
Pensiero, in una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratura non
gàlhica, è presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del
benevolo e amichevole Mitra, vicino all’uomo e a questo mondo, in opposizione a
Varuna che è l’altro mondo. Yasna XLIV contiene a questo proposito
due strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo
lontano e il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo
così netto come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli
ausiliari di cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale
associalo a Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c
da tempo riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricorda che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni
tra i 1 sovrano Varuna e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui
divergenza sfocia facilmente in un conflitto. 9. Intenzione
di questa riforma zoroastriana Altri particolari dello stesso
genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma questi sono sufficienti
per fondare la soluzione del problema delle origini degli Amasa Spanta che io
ho estesamente sviluppato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la
lista delle sei Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala,
copiata, dalla lista degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico;
più esattamente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che ai
cinque dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella
terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copiatura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi falsi dèi»? Senza dubbio
perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quella struttura trifunzionale
del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo di analisi c
come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché gli uomini, gli
Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e che volevano
persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa forma di
pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò che si
toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la lezione era
più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come si è visto,
era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri e
allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’autonomo Indra, l’esemplare figura di una Potenza,
XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un colpo più rude della semplice negazione del dio pagano o
della semplice soppressione di questa provincia della teologia. In un
certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle
Entità, sia consistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale
con una equivalente, che conservava il suo rango ma che
essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio
unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli
studiosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,
questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si
spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il
dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino
uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo indiano dei due
primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e Varuna
sono i principali. Questa analogia, che è un fatto incontestabile e
che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto
ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini delle
Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani
vedici, ma gli equivalenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli
energicamente riportati al tipo unico di una santità esigente: dèi sovrani
certo, ma anche, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che
li completano. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni
CRONOLOGICHE Questa spiegazione degli Amasa Spanta,
immediatamente ammessa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli
ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui
limitarmi e sottolineare la principale conseguenza del punto di vista
comparativo. Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica
e vedica degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è
precluso ogni tentativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con
avvenimenti storici o della preistoria recente dei tempi vedici.
Indra non è, non può più essere considerato come un gran dio che,
ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conquista sarebbero
in procinto di sostituire a un più antico gran dio Varuna che in seguito
avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio
Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa situazione,
effimera per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che
retrocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzione,
disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo stesso
massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la
soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e
nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si
lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro? La
storia non può essere stata in questo punto tre volte identica, aver avuto
degli effetti intellettuali così simili in queste tre società
precocemente separate. La sola interpretazione plausibile è che
egli Indo-Iranici ancora indivisi, qualunque fosse il loro punto di
partenza, erano arrivati ai limiti delle loro Terre Promesse in possesso di una
teologia in cui i rapporti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano
già come li ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il
raggruppamento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato
fortuito di avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico,
un’analisi e una sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così
fortemente come la destra presuppone e chiama la sinistra, in breve,
presuppone una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è
pensato di ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di
Varuna rispetto a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in
cui questi dèi si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno
stesso in cui Indra si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che
messe in scena della tensione che esiste tra 1’aspetto Varuna della funzione
sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne
risenta pienamente i benefici. I miti collegati ai signori
divini delle funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza
la divergenza delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i
compromessi che la pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se
la sovranità magica assoluta e la pura forza guerriera fossero portate
agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti
della vita della società a causa di tali conflitti si producono
usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei
rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande
maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dialogato i poeti
sono portati a questo estremo, che i politici evitano saggiamente e per meglio
definirli, per vederli e farli vedere, li hanno opposti come rivali. Stando
così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente antico,
poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra scomunicato,
demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di Asa, cioè
dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna. Comunicazione tra gli
dèi delle tre funzioni Questa osservazione deve essere completata
da un’altra inversa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è
statisticamente rigorosa (la letteratura vedica è assai abbondante perché la
statistica vi possa trovare un appiglio certo), precisa non solo nei
testi dove tali funzioni sono intenzionalmente classificate o perlomeno
raggruppate, ma anchenella maggior parte dei testi in cui un poeta
considerao invoca gli dèi di un solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni
religione le effusioni della pietà, della speranza e della confidenza
talvolta debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è
soprattutto vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso
dei tempi storicamente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli
inni), hanno così spesso portato a riconoscere l’identità profonda
dell’essere sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per
esprimere concretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli
attributi degli altri. In più, nella pratica, ciò che
interessa l’uomo pio è sicuramente la diversità dei soccorsi che può
ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche e
soprattutto la solidarietà e la collaborazione di tutti gli dèi che gli
rispondono. Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini
chiamano gli dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc
funzionale si trovino interpellati da degli specialisti che gli sono
estranei. L’esempio maggiore è quello della pioggia che gonfia le acque del
suolo, che fornisce direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza
pastorale e agricola, la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della
terza funzione; ma essa c ottenuta grazie alla battaglia celeste,
strappata sotto forma di fiume o di vacche celesti agli avari demoni
della siccità, e questo è il compito, il gran compito di Indra c dei suoi
aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut. Congiungere il cielo e la
terra e assicurare la sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli
dèi sovrani c l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo
specialista Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a
lare sempre questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c
comune c quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande
guerriero Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma
della sua azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza.
Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il
modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per liberare le
acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cerchia dei Pfisan o
dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra
gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia
tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora
c deve essere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario
ricercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c sufficientemente
conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli usi rituali o
da formulari. Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha
immediatamente portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma
allo stesso tempo, in questi domini in cui gli specialisti, nella loro
autonomia, avevano da lungo tempo costruito delle maestose c dotte
spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n
questione molti pseudo-fatti, dimostrando la fragilità di molte
pseudo-dimostrazioni, in modo tale che spesso non è stata considerata la
benvenuta. In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal
fatto che le filologie separate, sia scandinava che latina, si erano
abituate a pensare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e
soggettiva - la preistoria, la formazione dei quadri teologici complessi,
presentati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in base
alla prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui
ricordata, s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come
strutture concettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle
tre funzioni esplicitate dagli Indoeuropei. Jupiter, Mars, Quirinus e
Juu-,Mart-, VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una
umbra e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci
informano, presentano due varianti di una triade in cui i due primi termini
sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus
nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a
non cercare per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata
sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia
locale: com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti
possano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?
14. La triade precapitolina L’esistenza della triade romana,
che si è anche voluto contestare ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal
fatto che questi dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti
da tre sacerdoti senza omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo
sacerdotum: Festo, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede
ridotto e sacerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7
amines maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa
triade capitolina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di
una triade differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rimasta
legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche. Una
volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attribuita a Numa (Tito
Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversavano solennemente la città in
uno stesso carro e facevano congiuntamente un sacrificio alla dea Fides. I
sacerdoti Salii che conservavano tra i dodici ancilici indiscernibili il
talismano caduto dal cielo cui era stata attribuita la fortuna di Roma,
erano in tutela Jovis, Martis et Quirini (Servio, ad Aen., Vili,
663). Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale
romano, per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi
sotterranei contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una
formula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di
certo trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio,
nominava innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater,
Quirinus, poi Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un
trattato, secondo Polibio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come
testimoni prima Jupiter, poi Mars e infine Quirinus. Il carattere
comune di queste circostanze, in cui la triade precapitolina è presentata come
tale, è che il corpo sociale di Roma è interessato nel suo insieme e nella sua
forma normale: mantenimento della fides pubblica, senza cui la coesione sociale
è impossibile; protezione continua o urgente; impegno
diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è
la sola circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme;
ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità
dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia
di Fides l’unità delle tre cose che Jupiter, Mars e Quirinus patrocinano
distributivamente; tre cose la cui sintesi o aggiustamento sono
essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste cose? Valore di Jupiter
e di Mars nella triade precapitolina La risposta non necessita di
grandi sforzi, sempre che si preferisca il sentimento dichiarato dai Romani stessi
contro le ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli
epigoni di W. Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della
loro arte; sempre che non si dimentichi che questi dèi sono stati
associati e gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché rendevano dei servizi
differenziati e complementari; e infine, a condizione che si attribuisca
un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò
che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e
queste precauzioni, si riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello
stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di
questa sfumatura), onorato dagli atti del flamen dialis, e dal suo
comportamento pieno di innumerevoli precetti positivi e negativi, è il dio che
dall’alto del cielo presiede all’ordine e all ’osservazione più esigente del
sacro, garante della vita, della continuità e della potenza romana.
Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegnamento dei
migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio combattente di
Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del
vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più)
dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno bisogno di essere
forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o invisibili,
possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la forza che dona
la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero,
nella schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti. 16.
QuiRINUS Per Quirino, l’unico invecchiato fra i tre dèi in epoca
storica, gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei
pressapochi- smi etimologici allora correnti, delle teorie
contraddittorie che complicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli
uffici adempiuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e
di qualche indicazione oggettiva degli antichi. Queste
diverse fonti informative forniscono un quadro complesso ma coerente.
I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen
quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei
pressi di Roma e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge
Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto
sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano messo in
provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla tomba di Laren-
tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchezza e
la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua
fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici
del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto dei
Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del grano.
Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è associato
alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscrizione ci
insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figurano tra le divinità
onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L). La leggenda che giustifica
l’esistenzadei Salii di Quirino, dimostra che il voto fondante questo collegio
è stato fatto per la stessa ragione del voto che istituiva la festa di Ops e di
Saturno. Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale
del dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in
rapporto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità
agricole Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso
senso si spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando
bisognava seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non
spettasse al rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci
si sarebbe aspettato, ma al flamen quirinalis. 2) Il nome di
Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè
dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività civili in
opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben
noto di Cesare lo prova). Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites
con curia (volscio couehriu), come gli uomini riuniti nei loro quadri
sociali, essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa
entità della massa sociale organizzata ( *co-uir-io/a -). L’etimologia,
in sé e prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani (
1939) e indipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato
come il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di Jupiter,
Mars, Vofionus possa essere il compimento fonetico rigoroso di un
*Le- udh-yo-no patrono della massa (cf. il tedesco Leute, latino
liberi, massa di uomini liberi, bambino di nascita libera etc.), esatto
parallelo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al
pari della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza
funzione. 3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta
romana e contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo
ha conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico
e stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si
è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi
erano deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabili,
i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che l’
exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi
quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra. È
questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e che esprime
eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines minores, il
Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( portele ) delle città,
prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le
.armidi Quirino (Festo s .v.persillum, Lindsay), cioè di compiere il
gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali possono anche non essere
utilizzate, al momento, ma verso le quali può sopraggiungere
improvvisamente l’esigenza di ricorrervi. Questa ambivalenza Quirites-milites
dei Romani, questa concezione militare della pax romana, spiegano
sufficientemente come Quirino possa essere stato considerato una varietà
di Marte e come i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano
scelto per tradurre il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente
da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo
contesto su due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un
tempo assurde, ma alle quali la nuova prospettiva trifunzionale ha conferito
pieno valore (ad Aen.): Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum
saevit) quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma
possiede due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino,
cioè di guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),'
l'altro sulla via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio
guerriero o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte
che presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma
mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori
Roma. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di
Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli
discussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a
dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,
l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed
essenza stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e
guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste
etichette definiscono tre ambiti complementari che disegnano una
struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e
quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi risalente ai
tempi indoeuropei. Non sarà inutile ricordare qui i valori
funzionali di cui appaiono rivestite, nei racconti sulle origini di Roma,
le tre componenti etniche, base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex
et augur - e i suoi compagni sono i depositari del potere sovrano e degli
auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli
specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini,
sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più detestano la guerra
e fanno di tutto per evitarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo
ricordata in I § 7) minimizza la componente etrusca e concentra le due
prime caratteristiche su Romolo e i suoi compagni. Sotto questa
forma la triade precapitolina si divide molto adeguatamente tra i due gruppi di
avversari e futuri associati: Romolo è costantemente il protetto di
Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in
battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due
primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme leggendario soltanto)
è considerato come un dio sabino, il Marte sabino portato in dote da Tito Tazio
a Roma nella riconciliazione finale, allo stesso modo del nome collettivo dei
Quirites (ma questa pseudo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme
al carattere dei Sabini della leggenda, portatori della terza funzione,
si spiega col gioco di parole, popolare tra gli eruditi di Roma,
Quirites-Cures), Si sa che un’altra forma della leggenda,
incompatibile con questa, fa di Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo
così sul solo fondatore i tre termini della triade divina in base agli
auspici, alla filiazione e all’apoteosi. 18. Varianti della triade
Jupiter, Mars, Quirinus Della leggenda delle origini, Varrone (De
ling. lat., V, 74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato
un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio
e dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa
e in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre
Romolo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un
gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fecondità e
il mondo sotterraneo. Questa tradizione è molto interessante perché
sottolinea ciò che è stato già segnalato a proposito dell’India (II, §
5); la molteplicità degli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa terza
funzione che Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli dèi di
Tito Tazio (che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della
colorazione etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle
triadi che non sono altro che varianti della triade canonica Jupiter,
Mars, Quirinus, come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con
Quirino) o Flora. 1 tre gruppi di culto della Regia, della casa del
re, che corrispondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano
giustapposte nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del
più alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del
flamen dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium
Marti.?, 3) culti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.
Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensibilmente
che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dissociava nelle
persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una sua sintesi
quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che l’amministrava,
non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Roma, come gestore delle forze
sacre. Quanto alla triade Jupiter, Mars, Flora (rimpiazzata più
tardi da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle
corse primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori
bianco, rosso, verde). Flora meritava due e tre volte questo posto,
per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di lei un
doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa,
senza dubbio più alla massa romana che all’entità politica patrocinata da
Quirino. Un’altra variante della triade - Jupiter, Mars, Romulus,
Re- mus - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla
fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica
indo-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la
protezione del terzo livello. Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade
dello stesso tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come
ultimo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di quella
precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile - secondo
schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e sincretismi tra culti
successivamente comparsi. Lacritica a questo tipo di spiegazioni
facili e seducenti, che credono di basarsi logicamente sui dati archeologici,
ma che vi si sovrappongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e
dovrà ancora essere fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia
volentieri. Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente
prescinderne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm
(1925,1946, 1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i
numerosi tentativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa
recente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico gran dio
è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto
dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci
limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in
quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha
vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la descrizione del
meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV,
26-27); è lei che appare dalle formule di maledizione come dai poemi eddici o
dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga); è lei che si
sprigiona dal racconto della battaglia escatologica ( Vòluspà, 53-56) in cui
ognuno dei tre dèi lotta contro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i
suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal,
cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in cui le altre
divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e
che li completa - sono come comparse che circondano questi primi ruoli e
che si definiscono in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che nella leggenda
delle sue origini Roma si è ridotta spesso a due componenti, benché comprendesse
tre tribù che rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi
compagni, detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i
talenti guerrieri, il dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i
suoi Sabini erano quelli che apportavano delle specialità loro connesse,
cioè le donne e le ricchezze, opes. Il quadro scandinavo
della formazione della società divina completa è dello stesso tipo: i
componenti riuniti per una riconciliazione ed una fusione conseguente a una
guerra terribile, sono due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il
capo, mentre Pórr è il più eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece
Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti e i soli nominati
individualmente. La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è
chiara e costante. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al
massimo la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre
cose, sono innanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di
ricchezze e patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa,
della fecondità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente
ed economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o
al mare in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr).
A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi.
Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle ricchezze del suolo, ecc.,
ma da quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro centri sono
altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo della società
divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai quali
peraltro assomiglia (si pensi al suo furore); è il dio tuonante (nel suo
stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e anche nel
folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellicosità in maniera
atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso da
attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il problema centrale che
domina tutte le interpretazioni delle religioni scandinave c di quelle
germaniche, anche laddove le spiegazioni cronologiche c storiche (di storia
immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni strutturali e
concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande
sostegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche
e italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati,
una teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che
oppone per meglio definirli e che ricompone per creare un insieme vitale:
1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero
degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la
forza brutale dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che
patrocinano ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità,
la ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc. 21. La guerra
degli Asi e dei Vani e la guerra dei Protoromani e dei Sabine formazione
di una società TRIFUNZIONALE COMPLETA La frattura iniziale,
che separa i rappresentanti delle due prime funzioni e quelli della
terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso sviluppo mitico
(separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unione nella struttura
tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma, sul piano umanoenei
racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India,
dove è detto che gli dèi canonici del terzo livello, gli Asvin, non erano
inizialmente degli dèi, ma entrarono nella società divina come terzo
termine al di sotto delle due forze (ubhe virye) solamente in seguito a
un conflitto violento conclusosi con una riconciliazione e
un’alleanza. Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende
sono stati scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le funzioni
rispettive delle diverse componenti della società e i procedimenti specifici
che queste funzioni attribuiscono ai loro rappresentanti. L’analisi comparata
della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e della
leggenda scandinava sulla prima guerra nel mondo degli Asi e dei Vani (a
cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della
Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso
sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da
due scene in cui ciascuno dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio
limitato e provvisorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza
vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo
vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e
voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società (le donne!) degli
Asi, inviando loro la donna chiamata Ebbrezza dell’Oro; dall’altra parte
Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto l’irresistibile effetto
magico e di panico. Allo stesso modo i ricchi Sabini, da una parte,
ottengono quasi la vittoria occupando la posizione-chiave
dell’avversario, non col combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia
(in una variante, grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino);
dall’altra parte Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator)
ottiene dal dio che l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e
senza motivo, invasa dal panico. 22. Sviluppo della funzione
guerriera presso gli antichi Germani Bisogna comunque
segnalare un fatto di enormi conseguenze che ha determinato ben presto, e
non solamente presso gli Scandinavi ma fra tutti i Germani, una
deformazione della struttura delle tre funzioni e della teologia
corrispondente. Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India,
gli dèi del primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della
guerra: se è vero che non combattono propriamente come Indra o Marte è
anche vero che mettono le loro magie al servizio della parte che
favoriscono e sono loro, in definitiva, che attribuiscono la vittoria, la
quale, se è in effetti conquistata con la Forza, interessa soprattutto
l’Ordine per le sue conseguenze. Non ci si sorprende quindi
di vedere Ódinn intervenire nelle battaglie, senza combattere molto, ma
gettando sull’armata che ha condannato un panico paralizzante, il legame
dell’esercito herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è
certo che la parte della guerra nella sua definizione è di gran lunga piu
considerevole che nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in
lui - e anche nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel
prossimo capitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più
di una osmosi, un vero e proprio ribaltamento e straripamento della
guerra nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate
le loro epopee, gli eroi odinici - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den-
te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà
sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie guerriere,
che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in certi
luoghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad
averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popolari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr
dal la parte agricola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra
essere stata spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i
quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di
Uppsala. Thor presici et in aere, qui
tonitrus et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter
Woclan, id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro
inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi. Anche se si
ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di Uppsala fosse più
ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi osservazioni di
Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale poiché figura nel
mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che ha scambiato per
uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a Giove), non vi è
ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo scivolamento della guerra
nel dominio di Wodan e lo scivolamento inverso di Thor al servizio dei
contadini sono dei fatti. Ma se ne comprende l’origine (come su altri
punti relativi alla Scandinavia) e dove lo stesso fenomeno si osserva, i
valori dei tre dèi restano essenzialmente vicini a quelli dei loro omologhi
indiani e romani. Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli
Slavi Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse
ragioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi religiosi
non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strutture teologiche
corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e
di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è
particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui
l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In
Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea, il
raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad
esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica
combinazione religiosa. In Gallia, dove la classificazione degli
dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé
Danann) ricorda per molti versi la struttura delle tre funzioni,
quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che suggerisce, suscitano
più problemi invece che risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi,
questi sono così poco conosciuti perché i tentativi di spiegazione
tripartitapossano essere altra cosa che brillanti ipotesi. Ma
la concordanza delle testimonianze sui tre domini, indo-iranico, italico e
germanico, in cui le antiche religioni sono state descritte in maniera
sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente a garantire che
sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva dato luogo a una
teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge- rarchizzate che
esprimevano i tre livelli; e ad una mitologia eziologica che giustificava la
differenza e la collaborazione di queste divinità. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella teologia un
altro utilizzo frequente della struttura tripartita, non analitico ma
sintetico. Vi sono infatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire,
in opposizione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,
domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si
è prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civiltà
mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha
assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine:
così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita
(Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro
tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena
che in epoca storica domina la religione. Così, seguendo la felice
osservazione di F. Vian, durante le piccole Panatenee, ella riceveva
successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké,
vocaboli che evocano le funzioni di salute, sovranità politica e vittoria. Allo
stesso modo, nello zoroastrismo si è prodotta la tripla titolatura Buone,
Forti, Sunte dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in effetti trivalenti. Dee
trivalenti. Tuttavia, tra queste figure sembra che bisogni far risalire
alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui trivalenza è così messa
in evidenza e che è intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali:
questa dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nelle
liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i
livelli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di
una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli specialisti
mascolini.Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzionali
vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epiteti di
SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono chiaramente
come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno dall’altro, sia io
che H. Lommel abbiamo proposto di interpretare come un’omologa di
SarasvatT e come l’erede della stessa dea indo-iranica, la più importante
delle dee del \'Avestu non-gàthico, anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il
nome completo e triplice di Anàhità, fa evidentemente riferimento alle
tre funzioni: l’umida, la forte, l’immacolata, AradvT, Suri, Anàhità. Ed
è ancora per sublimazione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo
puro abbia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente
al terzo livello (dopo XsaSra, Potenza e prima di
Haurvatà(-Amar,?là(, Salute e Immortalità) e benché non in possesso di
una tripla titolatura, porta un nome che significa Pensiero-Pio, aiuta Dio
nella sua lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra
nutrice differenzialmente associata. Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone
era onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due
ultimi epiteti riportano alla teologia della Giunone romana (Lucina, etc.;
Regina) patrona della fecondità regolata c dea sovrana; ma a Roma la
specificazione guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di
Giunone lanuvia e certamente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet-
(rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati,
eie.). Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani continentali,
sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente), *Friyyò
fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo parlato più sopra; se
la specificazione guerriera non è attestata, il poco che si sa di essa la
mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il nome dei Lombardi) e
Venus ( *Friyya-dcigaz, Freitag), Presso gli Scandinavi questa multi
valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in Frigg (esito regolare di
*Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja
(nome rifatto su Freyr), dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa.
In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea eponima del luogo
più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’
Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente
questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché
è sfociata in tre personaggi, in un trio di Macha ordinato nei tempi. Una
Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, il Sacro,
che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione; poi una
Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo e
che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante l’orribile
parto di due gemelli. Ma non è più possibile determinare quali rapporti avesse
nella religione con gli dèi maschi della stessa funzione. 26. Le
teologie tripartite e i loro elementi Dopo aver preso una visione
globale dei sistemi teologici indo-iranici, italici e germanici che esprimono
l’ideologia delle tre funzioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza
paralleli per giustificarne la spiegazione nei termini di un’eredità
indoeuropea comune. Non è che l’inizio: senza perdere di vista la
struttura d’insieme, l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su
ognuno dei tre termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa
in se stessa, poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram
ite la comparazione tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. Note ai paragrafi Sulla
necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vista e di
riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi
principalmente L’heritage..., cap. I (Matièrc, objet et moyens de étude) -
al quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e
DIE, cap. II (Structure et cronologie), Il riconoscimento del
raggruppamento arcaico Milra-Varuna Indra e i Nàsatya, l’inventario delle
circostanze in cui appaiono, sono state fatte progressivamente in:
JMQ,59-60 (= JMQ it,38-39); NA 41-52; Tarpeia, 1947,45-56 (dove sono studiati
in dettaglio sei inni del Riveda fondali su questa struttura);
Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions
cosmiqucs et sociales, Studia Linguistica; JMQ IV,13 - 35 ( Les dieux palrons
des trois f onctions dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda); in queste
due ultime esposizioni la divisione degli dèi in tre gruppi Aditya,
Rudra, Vasu, è interpretata nello stesso senso (cf. DIE). La
discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova formano
il primo capitolo di NA (les dieux Arya de Mitani), Il carattere indiano
degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del numero uno (aika:
sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT ha
interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al
vcdi- co (JAOS). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in questi
nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel
trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare
di iranico: Numen, II, 1955,80-81 e note 167, 170. § 5.
DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c stata
interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra
(o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione miracolosa
conosciuta dal Rg Veda : Dieux cassiles et dieux vediques, à propos d’un
bronze du Lourislan RHA, 52, 1950,18-37. Riprenderò prossimamente il problema a
partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne di Mitra e
Varuna devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari ma un
vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui
gemelli § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la
materia di NA, cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare
allora difficoltà, è stala spiegata in seguito in Tarpeia, cap. I (=JMQ
il.). Questa interpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE,
Une legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos
de Hàrut-Màrut, Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947,10-18; J.
DUCHE- SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 194847-80; Onnazd et Ah rimati, 1953,
23; The Western Response to Zoroaster, 195838-51 (vedi specialmente 45-46
contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota al III
cap. § 13); J.C. TAVADIA From Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology,
aReviewofDumézil’sResearches, ZDMG, 103, 1953,344-353; K. Barr, Avesta,
1954,52-59 e 197; G. WlDENGREN, Stand und Aufga- ben
deriranischenReligionsgeschichte, Numen, I, 1954,22-26; S. Har- TMAN in
molti articoli specialmente Ladisposition de l’Avesta, Orientatili
Suecana, V, 1956,30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata invece
rigettata senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzionala
nei libri di W.B. Henning e R.C. Zaehner. § 10. Questo tipo di
spiegazione è stata estesa alle Entità già gathiche come SraoSa e ASi
(considerale come sublimazioni degli dèi prezoroastriani equivalenti agli
dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico
Rasnu e alla Fravasi (considerate come figure purificate corrispondenti a Visnu
e ai Maj'ut): Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc,
JA, CCXLII, 1953,1-25; infine a Busyastà (considerata come una
demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques DIE Gli
attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta;
vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR e Déesses latines..., 1956,118-123. I
germanisti ostili hanno in generale preferito “ignorare”; tuttavia ho
recentemente avuto una gradevole discussione - la prima - con K. HELM, BGDSL,
77, 1955,347- 365; 78, 1956, 173- 180. Un grande numero di risposte alle
obiezioni si trovano disseminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei
libri. Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale sono;
Examen de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich, RHR, CLII,
1957,8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium,
RP, XXVIII, 1954, 225-234 e Notes sur le début du riluel d’Iguvium, RHR. La triade
romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune degli studi sulle
tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948.
§ 14. L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un
articolo che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: La
préhisloirc des flami- nes majeurs, RHR. Sono comparsi in seguito
JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage...72-101.
§ 15. Contro il Marte agrario vedi NR,38-71 (=JMQ it., 191-217) e
Rituels...78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR.,71-76 (= JMQ it.218-222); è
importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tutti i prima) un
predecessore né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE, 91-102
eJupiler-Mars-Quirinus et Janus, RHR, CXXXVIII, 1951, 209-210; sugli dèi dei
prima indo-iranici, Tarpeia. La spiegazione del complesso Quirino è stata
formata in tre tempi: 1) JMQ,72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ
it„49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR,194-221 (=JMQ it.,264-285) e Tarpeia, 176-179;
3°) JMQ,155-170 (specialmente167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL, Saliens de Mars et Saliens de Quirinus, RHR.
Ho sostenuto numerose discussioni, special- mente: La triade
Jupiter-Mars-Janus?, RHR, CXXXII, 1946,115-123 (con V. Basanoff); REL,
XXXI 1953,189-190 (con C. Koch);A propos de Quirinus, REL, XXXIII,
1955,105-108 (con J. Paoli); Remarques sur les armes des dieux de
troisième fonction, SMSR, XXVIII (con A. Brelich). Generalmente ogni
nuovo avversario non tiene alcun conto delle risposte fatte ai
precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire psychotogique et
historique de la religìon roinaine, 1958,118 (che tratta anche della
triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter Mars
Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni
nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e
una data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi La
bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine
Annales, Economie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952,145-154). Sulle etimologie
proposte per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954,225, n. 4 e226, n. 1; la
spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani Mytho-etymologica, Rev.
desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938,230-233 e in BENVENI- STE,
Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, RHR, CXXIX,
1945,7-9. § 17. Una questione connessa è quella della realtà o
della non realtà di una componente sabina alle origini di Roma. Questa è
secondaria rispetto al nostro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non
dei fatti storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe
affatto l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento ripensato in un quadro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che questa interpretazione
strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la tesi
dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse
difficoltà. In L’heritage, si troverà riassunta la lunga discussione del
capitolo III di NR (Latins et Sabins, histoire et myhte non tradotta in
JMQ it.: vedi263), condotta principalmente in funzione della tesi di A.
PlGA- NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli
studi. Da quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho
letto molte affermazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina
lontana dalla fondazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto
archeologico che non fosse già stato prima esaminato e che facesse
pendere decisamente la bilancia; cf. JMQ IV,182 (sugli argomenti che si sono
voluti demandare alla strana disciplina della geopolitica) e RE XXXIII,
1955,105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter
ricavare dalla triade umbra). Quanto a me, continuo a trovare soddisfacente nel
suo principio la spie- 83 gazione data nel 1886
della leggenda del sinecismo latino-sabino da T. MOMMSEN, Die
Tatiuslegende, ripreso in Gemmiti. Schr. IV,22-35. In una memoria
intitolata Céramiques des premiers siècles de Rome, VIII-V siècles,
manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus de l’Académie des
Inscriptions, 1950,287-295, F. Villard si è pronuncialo per l’omogeneità
della popolazione romana dell'ottavo secolo. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi
di Tito Tazio, vedi JMQ, 144-146 (= JMQ it.,101-012) (dove bisogna correggere
nella citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de
Hadingus, 1953,109-110. Per la triade
Jupiter, Mars, Ops vedi Lcs cultes de la Regia, les trois fonclions et la
triade JMQ, Latomus. Per la triade Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus),
vedi Rituels...,54 e60, note 37-40. Per Romolo-Remo come corrispondenti
dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre l’utilizzazione
delle tre funzioni c della triade JMQ da parte di Martianus Capella è
stata esaminala in Remarques sur Ics trois premières regione s erteli de Mart.
Cap., Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn)
1956,102-107. § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue
ricerche a una visione strutturale delle religioni germaniche. Quando è
uscito MDG, 1939, egli avvertì la parentela della mia concezione e della sua e
la complementarietà dei nostri argomenti. Da allora, benché divisi su
qualche dettaglio, siamo d’accordo, credo, su tutte le maggiori
questioni: che ci si riporti alle sue chiare, obiettive c generose esposizioni
del suo Altgermanische Relìgionsgestiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai
suoi articoli: Dcr heutige Stand der gcrmanischen Rcligionsforschung,
Gemi. - Roman. Monatsschrift, N.F., II, 1951,1-11 ; e L’élat acluel
dcséludes sur la rcligion germanique, Diogene, 18, aprile 1957,1-16; altri
articoli che toccano le questioni qui trattale: La valeur religicuse du mot
irmin, Cahiers du Sud, n. 314, 1952, 18-27; Die Gotlcrwohnungen in den
Grlmmismàl, Atta Philol. Stand., 1952,172-180; La loponymiect
l’hisloire des religions,RHR, CXLVI, 1954,207-230; Uber das Wort Jarl und
seine Vcrwandlen, NC, VI, 1954,461-469. Nell’opera collettiva Deutsche
Philologie ini Aufriss, Miinchen, 1957, la sezione Die altgermanische
Religion (col. 2467-2556), redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo
germanico, e specialmente scandinavo, un’eccellente interpretazione, originale
c ripensata, nel quadro che io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in
questo stesso schema: L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu
souverain, Études Germuniques e La religion germanique primitive, rcflccl d’une
slruclurc sociale, Le Flamheau.1 miei MDG, oggi felicemente esauriti, hanno
sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla
tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un programma
carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre
no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non
ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali
(specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio
c Marte, Ercole, Iside): vedi DIE,23-26. PerÓdinn bisogna aggiungere
l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R. Otto, 1932):
vedi J. De Vries Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella
dei Latini di Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in giganto- machia della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la presentazione generale in L’heritane...,125-142. § 23.
Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree i loro
corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto alterati)
con la tripartizione, vedi MDG,9, NR,22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la
Gaule, 1957,4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON ha tentato di interpretare nel
quadro delle tre funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. Slavic
Mythology in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II,
1950,1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tarpeia,55-66; H.
Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa- rasvatl-Anàhità c
l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954,405-413. Per i dati latini,
irlandesi e germanici vedi Iuno, S.M.R., Eranos, LII, 1954, 105-119 e Le
trio des Macha RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel
mondo indoeuropeo implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi
progrediti in maniera assai discontinua. Non è stalo possibile giungere
rapidamente a risultati sistematici che al primo livello. Se importanti
aspetti del secondo e del terzo sono stati determinati in breve tempo,
essi non sono tuttavia che un insieme strutturalo ancora in fase di approfondimento.
Non si è potuto dunque fare altro che dare per essi degli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna
e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui
si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è
già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confrontate, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che
la rappresentano, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di
due figure, il Buon Pensiero e 1’Ordine, che gli corrispondono in testa
alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali.
Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commentatori indiani
e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni. Attualmente è
stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro stessi nomi:
se la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta
oscura (la si è interpretata con radici che significano coprire, legare,
dichiarare), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato Meillet
in un celebre articolo (1907), per la sua etimologia, il Contratto
personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi dèi i cui nomi
appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma grammaticale che
esprime il più stretto legame, i poeti non fanno differenza: li vedono
come due consoli celesti, depositari solidali del più grande potere, e quando
non nominano che uno dei due, non si fanno scrupoli di concentrare su di
lui tutti gli aspetti e gli attributi di questo potere. E questo è naturale
poiché l’unità e l’armonia della funzione sovrana, in rapporto a lutto
ciò che le è subordinato, costituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna
mettere in primo piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita
spesso felicemente, anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri
rituali, che il poeta o il liturgista travalichi questo primo piano e
voglia distinguere i due dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro
solidarietà. In tale caso le diverse immagini che appaiono sono
tutte dello stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran
numero di coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione
definisce due piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando
sull’altro un punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono
tuttavia un’aria di parentela così netta che di ogni nuova coppia
assegnata all’insieme si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine
mitria- co e quello varunjco. Fra le specificazioni così
diverse dell’antitesi sarà difficile estrarne una da cui il resto può
essere derivato e senza dubbio questo tentativo, una volta fatto, non
avrebbe gran senso. Sarà molto meglio procedere a un breve inventario,
osservando e definendo l’antitesi in rapporto alle principali categorie
dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra
s’interessa piuttosto a ciò che è vicino all’uomo, mentre Varuna
all’immenso insieme (distinzione che si ritrova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei
testi affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come
è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte. Mitra
è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco, mentre
Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il contratto e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in possesso dei nodi con cui afferra i
colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi si oppongono
per il foro carattere : l’amichevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante,
stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a volte un po’
demoniaco. Innumerevoli applicazioni illustrano questo teologhema generale: a
Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a Varuna ciò che è arrostito;
a Mitra il latte, a Varuna il soma inebriante; a Mitra l’intelligenza, a
Varuna la volontà; a Mitra ciò che è ben sacrificato, a Varuna ciò che è
mal sacrificato etc.. Tra le funzioni diverse da quelle che gli sono
proprie, Mitra ha più affinità per la prosperità, la fecondità e la pace,
Varuna per la guerra e la conquista, tra le province stesse della sovranità,
Mitra è piuttosto - come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy -
il potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i
casi rispettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.)
ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di Varuna per
l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovrani Mitra e Varuna, di
diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno che l’altro. Se gli
inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò non avviene perché
egli è in procinto di prendere un’importanza maggiore rispetto a un più
vecchio dio Mitra, ma perché, semplicemente, la specificazione magica e
inquietante della sua azione sollecita all’uomo più preoccupazioni cultuali del
rassicurante e chiaro dominio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare
ugualmente che non vi c mai conflitto tra questi due esseri antitetici,
ma al contrario vi è una costante collaborazione. Questo schema indiano, e
prima ancora indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o
enigma delle mitologie occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è
concreto e patriottico, in cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono
attenzione e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive
all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue
generalità. La lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di
Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna
delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma
storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides,
della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un aspetto di Jupiter, è
vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo,
i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più
vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius”
si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui
Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici
della storia romana - come più propriamente caratteristici del suo grande
socio. Allo stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una
specificazione nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli
appartengono, mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e
varunica di “jupiter”, “summanus”. È probabile che questa
teologia complessa abbia risentito, prima dei nostri testi più antichi, della
promozione e, nello stesso tempo, della riforma teologica di “jupiter”
che ha coinciso con la creazione del suo culto capitolino e con la
sostituzione di una triade Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva
all’antica triade Jupiter, Mars, Quirinus. Lo “jupiter” del Campidoglio sembra
essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé
tutta la sovranità; ma forse i due piani tradizionali complementari sono
ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolarmente illuminante. Né
Mercurio (cioè *Wópanaz ) nella Germania di TACITO (vedasi), né Ódinn nei
testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a loro vi è quello che
Tacito, per delle ragioni comprensibili e interessanti, chiama Marte (cioè
*Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Questo dio, omonimo del vedico Dyauh e
del greco Zeus, e che al pari di questi due o del Dius Fidius latino
evoca l’idea del cielo luminoso, è generalmente considerato nei suoi
rapporti con *Wópanaz come un dio più antico, impallidito di fronte a un
nuovo venuto. Benché sia strano che, a otto o dieci secoli di distanza,
Tacito da una parte e i poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e
registrato, proprio allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e
l’arretramento dell’altro, le considerazioni comparative ci incoraggiano a dare
un senso strutturale a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio
eclissato a causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per
cui Mitra, teoricamente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei
poeti e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini
hanno più attenzione per la sovranità magica che per quella
giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte.
Essa perviene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in
cui abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione
guerriera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo
definisce (Gylfaginning). Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È
molto intrepido e coraggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia.
Perciò è bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono
più coraggiosi degli altri e che non hanno paura di niente, si dice
proverbialmente che sono figli di Tyr Questa marzializzazione del
sovrano giurista dei Germani non è senza analogia con quella che a Roma
ha fatto di Quirino, dio canonico della terza funzione, patrono dei Romani
nella pace e nelle opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi
l’evoluzione sociale ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con
la riforma di Servio - i Quiriti hanno coinciso coi milites e sono
diventati i militi in congedo tra due appelli, era naturale che Quirino
si volgesse verso il Mars tranquillus, il Mars qui praeest paci
aspettando di saevire. In altre condizioni, meno formali e più violente,
le società germaniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di
pace i quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito
guerriero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legislativa,
si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al
contrario, i passi coloriti in cui TACITO (vedasi) (Germania) descrive il
Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite o
battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e
deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si
regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava
non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si
approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo. Non è
dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-
dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uniforme dei
suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e costante,
dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo avessero
considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia sono rivolte
a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo
probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è
stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli antichi luoghi del
Ping. Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli
antichi Germani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione
dell’apparalo guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto
- con le sue manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza
appello - e il combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un
mezzo per essere il più forte e per ottenere vittorie che spesso
eliminano l’avversario così radicalmente come in un duello. Quando si
dice che Tyr, in seguito a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano
destra come pegno di un’affermazione utile ma falsa, è divenuto monco e non è chiamato
pacificatore di uomini, non si tratta che della controparte, del
completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in armi,
con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in ogni
luogo. Queste indicazioni molto generali aiuteranno a
comprendere come un Tiuz-Mars
abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeuropeo il cui dominio specifico
era il diritto e il cui carattere si è purificato e moralizzato, aiutato dalla
civilizzazione progressiva. 5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda:
Aryaman e Bhaga vicino a Mitra Ma negli inni del Rgveda il
giurista Mitra e il magico Varuna, benché sembrino dividersi equamente il
dominio della sovranità, non sono isolati. Essi non sono che quelli più
frequentemente nominati dal gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi,
la Non-Legata, cioè la Libera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e
delle funzioni degli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di
menzione di ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e
del loro legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la
struttura che disegnano. Non è qui possibile beninteso riassumere
molto brevemente queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono
stati pubblicati in due tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura
epica è conservato il ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due
principali tra loro, vanno a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel
Rgveda sembra che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di
seie una prima estensione a otto, per addizione di due dèi
eterogenei. Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia;
di ognuna delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce sul
piano e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agisce
sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di modo che è legittimo e
comodo chiamare queste figure complementari sovrani minori. Ma questa
cifra di sei sembra essere stata estratta, per ragioni di simmetria, da un
sistema più breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano vicino agli
uomini Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario
nelle sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di questi Àditya
primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna. Il principio della
stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, provato dalle statistiche delle
menzioni simultanee, è semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa
lo spirito di Mitra su ognuna delle due province che i nteressano 1 ’
uomo, quelle che il diritto romano ritroverà con un altro orientamento,
più individualista, distinguendo le perso- nae e le res. Sotto
Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il modo generale
d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare, orientato verso l’uomo),
Aryaman si occupa di preservare la società degli uomini ari a cui deve il
suo nome, mentre Bhaga, il cui nome significa propriamente parte, assicura la
distribuzione e il godimento regolare dei beni degli Arya. 6.
Aryaman Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no
politicamente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li
protegge non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli
aspetti principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:
1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrattuali
tra Arya. È il donatore, protegge il dono (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme
complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità.Thieme (Der
Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di
farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il
resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matrimoni: c
pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti
(subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciulla giovane
o una donna per il celibe (A V ). La sua preoccupazione per i cammini e per la
libera circolazione (c àtùrtapanthà, colui il cui cammino non può essere
interrotto»; RV) non deve essere negata o minimizzata come è stato fatto da B.
Geiger, H. Giintert c Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di
strofe di inni e da un lesto liturgico che lo definisce come il dio che
permette al sacrificante di andare ove e^li desidera» e di circolare felicemente » ( Tait-
tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha
anche un aspetto liturgico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima
volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a
fianco dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV,
1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9)
di espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle
libagioni (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi
dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di un’altra forma di
servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea conservi un ricordo molto
vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo Aryaman presiede il
gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiarisce abbastanza l’origine:
sono infatti una rappresentazione degli antenati morti, e Aryaman è il loro re,
che prolungano così nel posl-mortem la felice promiscuità e la comunità
degli Arya viventi. Il cammino che porta presso i Padri, riservato a
quelli che durante la propria vita hanno praticato esattamente i riti (in
opposizione agli asceti e agli yogin), è chiamato il cammino di Aryaman (Mahàbhdrata). 7. Bhaga
Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui che
ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una parte (RV,
VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo nominano o che
impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha permesso di constatare che
questa parte è dotata di qualità richieste alla metà dell’amministrazione
sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare, prevedibile, senza sorprese,
giunge a scadenza perlina sorta di gestazione (il bambino pronto perla nascita
rut> giunge Usuo bhd^a: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di
un’attribuzione senza rivalità, implicante un sistema di distribuzione
(verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è
acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione degli uomini
maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11
; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile, violenta,
varunica, che si conquista con la battaglia o con la corsa, è designata
da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza
combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il nome del
sovrano minore varunico simmetrico di Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione
zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i Abbiamo la
certezza che questa struttura era già indo-iranica: come in Iran la lista
degli dèi canonici delle tre funzioni è stala sublimata dallo zoroastrismo puro
in una lista di Entità che gli corrispondono termine per termine (vedi II § 8);
così gli dèi sovrani minori associati a Mitra hanno prodotto due figure
complementari non comprese nella lista canonica delle Entità, ma vicine,
le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità esclusiva dell’una
rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito di
Mitra); e anche nei testi in cui questo dio ricompare, in relazione a
MiGra, mentre niente lo lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per
il loro nome come per la loro funzione, queste due Entità - Sraosa,
VObbedienza e la Disciplina, e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può
attendere da un Aryaman o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile
vedere punto per punto che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che
Aryaman era per la comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la
nazionalità. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione
derfrommen Gemeinde, il termine genio protettore sarebbe più esatto ma i
1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è capo nel mondo materiale come
Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale {Greater Bundahisn, ed. e
trad. B. T. Anklesaria) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman
vedico (e già indo-iranico; cf. persiano èrmdn, ospite, da *airyaman),
quando è concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII,
14 e 34). Se non lo si vede più occupato, specialmente delle
alleanze matrimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la
sua azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della
grande virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione,
cioè la giusta misura, la moderazione ( Zdtspram); è anche il mediatore e
il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14)
e il demone che gli è personalmente opposto è il terribile Aesma, il
Furore, distruttore della società ( Bundahisn). Rimane una precisa
traccia mitica della sostituzione di Sraosa a un dio protettore degli
Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re del
paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno degli
Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat, I,
3). 2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato
in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e
cantare gli inni e tutto l’inizio del suo Yast, unicamente
consacrato 96 all’elogio della preghiera e all’
esaltazione della loro potenza, si giusti- fica per questo ricordo.
Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo combattimento
contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente nel sacrificio
in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale
(.Bunclcihisn). Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo
della dimora in cui vanno - attraverso il cammino di Aryaman - i
morti che hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un
ruolo decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli accompagna
e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al
tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk
XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una distribuzione come lo era Bhaga ma la
nuova religione, che conferisce più importanza all’aldilà che al mondo dei
viventi, gli domanda soprattutto di vegliare sulla giusta retribuzione post-mortem
degli atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c
palesemente nei testi post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei
suoi meriti, non dimentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di
riempire la sua casa di beni. L’analisi di questa concezione,
già indo-iranica, della sovranità che non altera la grande bipartizione
ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona solamente a Mitra due
assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya, illumina una
particolarità della religione romana di Ju- pitcr che sfortunatamente è
conosciuta solo nella forma capitolina di questa religione. Jupiler O.M,
in cui si concentra tutta la sovranità, sia quella diale che quella
propriamente gioviana (vedi sopra § 3), ospitava in due cappelle del suo
tempio due divinità minori, Juvenlas e Terminus. Una leggenda
giustificava la coabilazione singolare di questi tre dèi facendola
risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma questa leggenda (che
utilizzava del resto un vecchio tema legalo al concetto di Juvenlas) non
prova evidentemente che l’associ azione fosse più antica. L’analogia
indo-iranica ci incoraggia a considerarla come preromana. Infatti,
secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju- ventas e
Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli comparabili a quelli di
Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la leggenda
eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la stabilità sul suo
dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la durata e Bhaga la
stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa
leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto questo: Juventas è
la dea protettrice degli uomini romani più interessanti per Roma, gli iuvenes,
parte essenziale e germinati va della società; Terminus garantisce la
spartizione regolare dei beni, dei beni sopratutto immobili, catastali,
appezzamenti di terreno, non delle greggi erranti che presso i nomadi
indo-iranici o tra gli indiani vedici costituivano la ricchezza
essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non
si è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a
Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro,
non avessero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della
sovranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana
che suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omologhi
indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente e che secondo
la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di sacerdote; vi è
Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che rimane pensante e parlante
anche dopo la sua decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e
dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili
e Vé, sicuramente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in
scandinavo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma
si conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e
tutt’altra soluzione sarà proposta più avanti. 11. Condizioni
dello studio teologico della seconda e TERZA FUNZIONE I
procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di dispiegare
e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e poi
progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della prima
funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e al
momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dubbio questa
differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti
(i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologicamente chiari e
molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava
facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna dimenticare che i primi
filosofi, appartenenti al personale di questa funzione, erano dei sacerdoti e
non potevano evitare di applicarvi con predilezione la loro analisi. La
controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si
raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi
raccontato niente; di Varuna si dice molto di più, ma la lista delle
scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta di potenze e
qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del loro tipo
d’azione piuttosto che di azioni precise compiute da loro. Al
contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e prosperità
si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichiarazioni di
principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi benefici
che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi taumaturghi. Così
queste due province divine sono più adatte a degli sviluppi mitologici che a
una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire che la dottrina si
abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei
racconti. Per il comparatista questa differenza comporta grandi
conseguenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente
enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle
religioni vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie
al conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni,
mentre la religione scandinava non interviene che a titolo di conferma
dopo che il percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato.
Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana presenta
ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento Jupiter Mars,
Quirinus o nel raggruppamento trasversale di Jupiter, Juventas, Terminus, essa
ha registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto
chiare. Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione
romana non è più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza
Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche
Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati di ogni racconto e
limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro propria funzione. Se dunque
(per la determinazione del quadro generale tripartito e per l’esplorazione
dei primo livello) il confronto di una teologia vedica facilmente
determinabile, e di una teologia romana immediatamente conosciuta, ha permesso
i risultali netti coerenti, c sempre più completi che si sono appena letti, la
stessa cosa non avviene quando si passa ai due livelli seguenti.
India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della propria natura
che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino non
corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c per ciò
che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sacerdoti: i
documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i principali sostegni del
comparatista non si combinano più. Mitologia ed epopea La
difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro fallo,
ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti capitoli del
presente libro hanno già discretamente fornito qualche esempio. Le idee di cui
vive una società non danno luogo solamente a delle speculazioni o a
immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la mitologia sono
raddoppiate dalle storie antiche, dall’epopea in cui degli uomini
prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che gli dèi incarnano e
dei comportamenti che dipendono da loro. Certo, ben altri fattori
contribuiscono alla formazione dell’epopea di un popolo, ma è raro che questa
non abbia avuto, in alcuni dei suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un
rapporto essenziale con l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine
dello stesso popolo. Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa
felice circostanza gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è
stata da me riconosciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947
dal mio collega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più grande
epopea indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di
eroi che corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni
della religione vedica e prevedrà, di modo che l’India presenta, con questo
enorme poema c col Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due
differenti bisogni e con sensibili varianti, alla sua ideologia in
immagini. Dall’ altra parte, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha
ridotto i suoi esseri teologici alla loro scarna essenza, ha conservato
al contrario, per costituirla in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole
delle proprie origini, un antico repertorio di racconti umani, colorati e
molteplici, paralleli a quelli che avrebbero dovuto essere in tempi meno
austeri le raccolte mitiche degli dèi. Quest’epopea è
l’antica mitologia romana degradata in storia da Roma stessa? Oppure essa
prolunga direttamente un’epopea preromana e italica, coesistente con una
mitologia che Roma avrebbe perduto senza traslazione e senza compensazione?
L’una e l’altra tesi possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti,
ma per il comparatista questa discussione non incide: in ogni caso, il primo
libro di Tito Livio contiene una materia ideologicamente conforme al
sistema degli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla
mitologia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui
dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza funzione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro
comparativo. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander
Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il Mahàbhdra- ta, i
personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo di cinque
fratelli, i Panda va o figli di Pàndu, che fra i molli tratti notevoli
presentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c cinque,
Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo regime di
poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya ma
attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per
più di un secolo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la
soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto
l’intrigo del poema. In realtà i figli di Pàndu non sono i
suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a morte nel
momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità
con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo
ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era
sufficiente invocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei
e le donasse un figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque
in successione diversi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma,
la Legge, la Giustizia (entità in cui si ritrova il vecchio concetto del
giurista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra. I tre
figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo marito la
prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di questa
fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende dalla
situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ultimi dei cinque
figli di Pàndu, Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto che la
lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin - riproduceva
nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi dei tre
livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente degli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere,
come si conviene a un rappresentante della metà di Mitra della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande virtù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due
classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e prima ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi
maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con
una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica
Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre
funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due
gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125
formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl):
Sono io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sostengo
i due Asvin, o che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con
un’ulteriore specificazione della terza funzione) della principale dea
dell’Iran, l’Umida, la Forte, l’Immacolata. Questa scoperta è stala il
punto di partenza di un’ esplorazione di tutto il poema, soprattutto dei
primi libri (che precedono la grande battaglia) ed è stata certamente
chiamata a rinnovare i nostri studi: per la sua abbondanza, la sua
coesione e la sua varietà, la trasposizione epica permette, partendo dal
sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle molte rappresentazioni
connesse, uno studio più profondo e più avanzato di quanto non lo
permettesse l’originale mitologico conosciuto sopralutto dalle allusioni dei
testi lirici. D’altra parte, sin dal suo articolo del 1947, Wikander ha
stabilito un punto molto importante: la struttura mitologica trasposta
nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più arcaica di quella del Rgveda
poiché conserva dei tratti sfumali in questo innario ma che le analogie
iraniche provano come fosse indo-iranica. Per tale ragione uno dei primi
servigi apportati da questo nuovo studio è stato quello di rivelare nella
funzione guerriera una dicotomia che il Rgveda ha quasi completamente
dimenticato a tutto vantaggio di Indra. Infatti, come è già
stato dimostrato da lavori anteriori della scuola di Uppsala, Vàyu c Indra
erano i patroni, nei tempi prevedici, di due tipi molto differenti di combattenti
i cui figli epici, BhTma e Arju- na, rendono possibile un’osservazione
dettagliala e certamente una parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico
devono essere restituiti a Vàyu per un periodo più antico. Questi due
tipi sono facilmente definibili in qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è
una sorta di bestia umana dotato di un vigore fisico mostruoso, le sue armi
principali sono le sue braccia, prolungale talvolta da un’arma che gli è
propria: la clava. Non è bello né brillante, non è molto intelligente c
si abbandona facilmente a disastrosi eccessi di furore cieco. Infine, opera
spesso da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore
designato, per cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei
demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un
uomo compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia
delle armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno
specialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e
soprattutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura
e generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa
distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nella persona del brutale
Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo
dell’eroe più seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda
l’opposizione tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di
dare una formulazione più precisa, in Scandinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr
e più in generale a quelli della prima e seconda funzione. E stato segnalato,
nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una parte importante della
funzione guerriera.Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la
discriminazione sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio
tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli
Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu
era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero
delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più
chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a
ciascuno di questi dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono
belli, luminosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico eroe di Pórr
conosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un
gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e solitario,
vera replica scandinava di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione
funzionale dei Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti,
sicuramente consapevoli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle
rappresentazioni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse
maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel
momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza Velandosi il volto col suo abito per
non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato. Bhlma
guardale sue enormi braccia e pensa: Non vi è uomo uguale a me per la forza
delle braccia ; egli mostra le sue
braccia, inorgoglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i nemici
un 'azione pari alla forza delle sue braccia . Arjuna sparge la sabbia
raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i
nemici. Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula, il
più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicendo: Che io non possa mai trascinare sulla mia
strada il cuore di una donna! e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si
imbratta il viso (II, 2623-2636). I cinque fratelli scelgono un
mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del re Virata:
Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un brahmano; il
brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna, coperto di
braccialetti e orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un
palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come
un bovaro, informato di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità
delle vacche. Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei
gemelli sono interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche
fugace distinzione nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha
sottolineato l’importanza del criterio qui rivelato. Sempre
restando prima di tutto degli abili medici che ignorano l’agricoltura (il
che ci porta a far risalire indietro di molto questa concezione), Nakula e
Sahadeva si dividono le due principali province deH’allevamento,
riservandosi rispettivamente l’uno la protezione delle vacche e l’altro
quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome
collettivo, Aévin, un derivato di àsva, cavallo. Abbiamo così il
primo modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito
degli omologhi funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad
esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie
all’interno del genere salubrità, sotto le acque e le piante; così pure, almeno
parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione
nell’uniforme beneficio dell’arricchimento si compie secondo le due fonti della
ricchezza, il mare e la terra. Si nota qui chiaramente come la
considerazione dell’epopea metta in risalto dei tratti strutturali e
suggerisca inchieste feconde. Il travestimento di Arjuna non è strano a
un primo approccio, poiché è arcaico e di un arcaismo che è conosciuto
dal Riveda, in cui Indra è il danzatore e i suoi giovani compagni la
banda guerriera dei Marut che si adorna il corpo di ornamenti d’oro,
braccialetti e anelli da caviglia che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti.
Comune alle più vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo
tratto è certamente da riconnetlerc all’insieme del Mànnerbund indo-iranico.
E forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia
intravedere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda
la morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste
sul carattere effeminato del travestimento scelto da Arjuna. Pàndu e
Varuna Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze
tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sempre con lo
stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua, facilita in
ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo degli
inni c dalla loro retorica dell’allusione. Ho così potuto
dimostrare come Varuna non sia assente dalla trasposizione; solo si trova
nella generazione anteriore, inattuale, morta, quando il corrispettivo di
Mitra, il figlio di Dharina, diviene re. Pàndu, il padre putativo dei
Pàndava, anche lui re prima del suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta
in effetti due caratteri originali e improbabili che i libri liturgici e un
inno attribuiscono anche a Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo
nome: pàndu significa pallido, giallo chiaro, bianco, e infatti un incidente di
nascita, o meglio, del concepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle
insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi
rituali come sukla bianchissimo e atigaura eccessivamente bianco. L’altro
aspetto c di più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente
dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se
compie l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV,
IV, 4, 1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come uno
divenuto momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa
a vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del
greco Urano castrato dai suoi figli). Il lavoro insomma è
appena cominciato. Sia io che Wikander speriamo di estrarre da questa
riserva importante del materiale abbondante e abbastanza chiaro per delucidare
molte incertezze e difficoltà che sono ancora irrisolvibili sul piano
degli inni e per fornire alla ricostruzione indoeuropea degli elementi privi di
ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia
delle tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano
non sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente
gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e progressivamente
costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un
altro ordine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano gioviano
semi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e
poi sovrano diale, umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo
Mitra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In
più, il sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli
sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia
singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma
inizialmente considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che
non implicano problemi inediti. 20. Romolo e Numa e i due aspetti
della prima funzione Nella tradizione annalistica i due fondatori
di Roma, Romolo e Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare,
sviluppata nello stesso senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura
vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e
nella loro storia, ma in un’opposizione senza ostilità: Numa completa
l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo
polo, necessario quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide
(VIRGILIO (vedasi), negli Inferi, Anchise li presenta tutti e due in qualche
verso al suo figlio Enea, definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore
di Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e
della sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma
impe- rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il
re-sacerdote portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo
che fonda Roma donandogli delle leggi, legibus. Tutto si
ordina intorno a questa differenza - l’altro mondo e questo qui - in cui
i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equilibrano eccellentemente gli
auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare il linguaggio miracoloso di
Giove. Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi
di sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna
e Mitra. Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella genesi
di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del
mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo,
quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del
regno, una osservazione molto giusta (Numa): Si attribuisce a Romolo la
gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato nutrito
e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particolare della
divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono stato nutrito e
allevato da uomini che voi conoscete. I loro modi di azione non
differiscono di molto e la differenza si esprime in maniera sorprendente
in ciò che si possono chiamare i loro dèi prediletti. Romolo
stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel
Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius
e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il dio protettore
del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la
seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a un
cambiamento di vista contro il quale nessuna forza può niente e che
capovolge l’ordine normale e consueto degli avvenimenti. Al contrario, tutti
gli autori insistono sulla devozione particolare che Numa rivolge a
Fides. Dionigi di Alicamasso scrive. Non vi è sentimento più elevato
e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che nei rapporti
tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa, il primo fra
gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e istituito in
suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divinità. Plutarco {Numa)
dice similmente che fu il primo a costruire un tempio a Fides e insegnò ai
Romani il loro più grande giuramento, il giuramento di Fides. Si vede bene come
questa distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stesso modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti
come un tiranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti
sicuramente antichi: Vi erano sempre
vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto quello
che lui ordinava di arrestare. A questo sovrano, così materialmente legatore
come Varuna, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima iniziativa una
volta di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei Celeres e come
seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Livio) i tre flamines
maio- res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate dai
barbari, come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa). Di
conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione guerriera,
quelle dell’altro per la funzione di prosperità. Anche nel suo
consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi, prescrive ai Romani:
rem militarem colant (Livio). Numa si assegna il compito di
disabituare i Romani alla guerra (PI ut. Numa) e la pace non è rotta in
alcun momento del suo regno; offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una variante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che
impediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso; Plutarco,
Numa). Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da
Romolo per sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della
perversità, e per spingere verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo,
che domando la terra si addolcirà-, divide tutto il territorio in vici,
con ispettori e commissari che lui stesso controlla giudicando i costumi dei cittadini in
base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si distinguono
perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligenze
(Plut.). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe comunque proseguire
dettagliatamente, poiché è evidente che gli annalisti si sono ingegnati a
spingere in ogni direzione l’opposizione tra i due re, l’uno
iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da questi) senza bambini
etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto piamente dai
senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese gentilizie, o
l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più di un
dettaglio e in di verse epoche in queste vite parallele inverse e
sicuramente in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse
innovazioni si sono uniformate a un dato tradizionale, la cui intenzione
era di illustrare due tipi di re, due modelli di sovranità, quelli stessi
conosciuti dall’India sotto i nomi di Varuna e Mitra. Tullo Ostilio
e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana la funzione
guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta
ad Enea ( En .) come colui che riporterà alle armi, in arme, i cittadini
divenuti casalinghi e disabituati ai trionfi. Arma, come auspicia e sacra per i
suoi predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua
opera: militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: La
regalità gli fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato
tutto il sistema militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver
esercitato in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli
Albani. 22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio È in
questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la mitologia ha dato i
risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo studio dettagliato
della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo confronto della
teologia esplicita non lasciava intravedere che i maggiori aspetti: nelle loro
lezioni ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che
costituiscono la storia di Tulio - la vittoria del terzo Orazio sui
treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salvano Roma del pericolo che
correva il suo nascente imperium, uno per la subordinazione di Alba,
l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da vicino i due principali
miti di Indra che la tradizione epica presenta spesso come conseguenti e
solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita sul Tricefalo e la morte
di Namuci. Non è possibile qui che mettere in un quadro schematico le
omologie, pregando il lettore interessato di riportarsi al libro in cui
gli argomenti e le conseguenze sono lungamente esposti. A, a)
(India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demoni, gli dèi sono
minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tuttavia il figlio
dell’amico (nel Riveda) o il cugino
germano degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e
cappellano degli dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita il terzo dei tre
fratelli Àptya, a uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide,
salvando gli dèi. Ma quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di
un brahmano, comporta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che
la liquidano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati
nell’eliminazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio,
di quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima.
b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si
disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli
Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella
degli Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi d’Alicarnasso, sono
cugini germani degli Orazi). Nel combattimento ben presto non
rimane che un Orazio, ma questo terzo uccide i suoi tre avversari dando
Vimperium a Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini
rischia di produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché
i Curiazi hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la
responsabilità cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue
famigliare è ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha
paralleli nel racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo
ha maledetto per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque
liquidare quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio
espiatorio: la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone
fine alle campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste
espiazioni riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che
ritornavano a Roma, macchiati dalle inevitabili morti della
battaglia. B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità
conclude un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo né
di giorno né di notte, né col secco né con l'umido . Un giorno,
approfittando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è
stato messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi
attributi: forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo
soccorso gli dèi canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin,
che gli rendono la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola
data pur violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba
(quando non è né giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca
né umida). Indra sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita
in maniera bizzarra, burrificando la sua testa nella schiuma.
b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani,
Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della
convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la battaglia
contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scoprendo il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità
della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente
del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al
pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende
Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella storia di
Roma, lo squartamento. Rapporti della funzione guerriera con le altre
due Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia
della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si
esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa
l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con
l’aspetto Mitra-Fides della prima che tuttavia non rispetta affatto e che
non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli, come
potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa azione
disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e Tulio
Ostilio con l’aspetto Varuna-Jupiler della funzione sovrana non procedono
senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in cui Indra sfida
Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d
tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso).
Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vivente, il re empio e la fi ne della
sua storia non è che la ten ibile vendetta che Jupiter, maestro delle grandi
magie, si prende contro questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per
lungo tempo. Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate
tuttavia a continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso
contrae una lunga malattia; dice allora LIVIO (vedasi): lui, che
fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che
applicare il proprio spirito alle cose sacre, improvvisamente si abbandonò a
tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra il popolo
delle vane pratiche... Si dice che il re stesso consultando i libri di Numa vi
trovò la ricetta di certi sacrifìci segreti in onore di Jupiter Elicius. Egli
si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che nel corso della
cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece di veder
comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione mal
condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è perché egli è
un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che più
interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era
l’unica a onorare, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi
delle sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella
persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re,
che abbiamo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della sua
carriera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa
differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione, nella
disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora di essere uno
dei due gemelli, il socio fedele e senza contesa di suo fratello, per diventare
il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e istitutore di quegli uomini
che portano davanti a lui delle corde, pronte a legare nel senso
letterale del termine, al pari del suo omologo del pantheon vedico,
Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei gemelli
dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da
Alba, e alla fondazione dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati
da un pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo
da un gusto marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa
definizione pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione romana
(scomparsa del carro da guerra) ha eliminato la parte del cavallo (in
evidenza nella parola ASvin), non rimane quindi che la parte del bue e
del montone, per situare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.
I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza
dagli dèi perché troppo mescolati agli uomini ( Éat. Brùhm.) e nella
letteratura posteriore saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di
ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla società
ordinata. Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non
vi è in essi niente di sovrano, nessun rispetto per 1’ordine. Devoti ai
più umili, disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del
bestiame del re (Plutarco, Romolo). Il gruppo che li seguirà nella loro
rivolta sarà un gruppo di pastori (Livio) o un’assemblea di indigenti o
schiavi (Plutarco, Romolo, 7, 2) prefiguranti l’eterogenea popolazione
dell’Asilo ( ibidem, 9, 5). Sono raddrizzatori di torti: come i
Nàsatya passano il loro tempo a riparare le ingiustizie degli uomini o della
sorte. Essendo semplicemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni,
restaurazioni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo
non possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici
contro i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore
maltrattati da quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più
celebri servigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello
di aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa
di Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso
modo quella di aver riabilitato il loro vecchio nonno che era stato
privato della regalità di Alba. I due Nàsatya nel Riveda sono quasi
indivisibili, agiscono insieme ma tuttavia un testo segnala una grave
disuguaglianza che ricorda quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del
Cielo, l’altro è figlio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è
differente ma considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi
proseguirà la sua carriera diventando un dio - il dio canonico della
terza funzione, Quirino -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i
soli onori abituali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro
{Fasti): ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex illis iste vigoris habet
... Certe
azioni estranee ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la loro mitologia
- sembrano ricordare dei tratti della leggenda di Romolo e Remo, talvolta solo
con una inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi
siano degli dèi e i gemelli romani degli uomini. Uno dei servigi frequenti dei
Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine; ora,
Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è di
rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo aveva sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa
e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa
i gemelli divini resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e
Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice
che la lupa occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle
leggende dei Luperci (OVIDIO (vedasi), Fasti), nel racconto sulla
giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un
ruolo considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia
degli ASvin. Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa
rustica di Palcs (il cavallo mutilato, curtus equos), come pure il
concetto stesso della dea Pales, così strettamente legato a Romolo e Remo e
alla fondazione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in
forze la giumenta detta Pula del w.f (vis, principio della terza funzione
e anche clan) che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo
confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera
preromana, Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai Nàsatya come
Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corrispondono a Varuna e Mitra e
Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato sotto il nome del dio
canonico della terza funzione, Quirino, ritornando quindi al suo valore
primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole convergenza spinge a
rivedere l’idea generalmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino
sia secondaria e tardiva. 25. La terza funzione, fondamento delle
altre due Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni
nell’epopea delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello
stesso Romolo da Nàsatya» in Varuna», queste non sono senza paralleli c
rivelano un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo
avuto occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto
certo che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa
è il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero
maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella
leggenda iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e
eccessivo sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente,
nella primaparte della sua vita, un buon eroe della terza funzione dai
ricchi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne
l’uomo né la bestia né le piante ( Yust, XIX, 30-34). Nell’epopea osscla,
i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uccide il primo in
un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli i£xsaertaegkalae (la
famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti secondo certe varianti dalla
razza di Bora, cioè dai Boratae (una famiglia di ricchi). È la
stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla stessa area
sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre
funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difende
contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo presenta
i caratteri di un fuoco vatéya che è il fuoco fondamentale acceso per
primo e che serve per accendere gli altri. Sviluppo della ricerca
Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui
sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di
ognuna delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo
si è l'atto penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si
batte ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure
ordinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzioni, delle
reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio compreso e
generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anteriori. Prima di
prendere congedo la guida deve ricordare che, per importante o centrale che sia
l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi dal costituire tutta
l’eredità indoeuropea comune che l’analisi comparativa può intravedere o
ricostruire. Un gran numero di altri cantieri più o meno indipendenti
sono aperti : sugli dèi iniziali, sulla dea Aurora e su qualche altro, sulla
mitologia delle crisi del sole, sulle varietà del sacerdozio, sui
meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del pensiero religioso, la
comparazione, e specialmente la comparazione dei fatti indo-iranici e
romani, ha già permesso c permetterà di riconoscere delle coincidenze che è
difficile attribuire al caso. La struttura bipolare della sovranità è
l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti iranici (Vohu
Manah c Asa). A proposito di questi ultimi la critica di W. LENTZ, Yasna
2<f, Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz., non regge; non più dei poeti del
Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la preoccupazione,
in tutte le circostanze o in molte circostanze, di caratterizzare differenzialmente
Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina
contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in cui ogni
strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and
thè Apostle ofGod. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva
vedi MV (da correggere dopo WlDENGREN, Numen); J. DUCHESNE-GUILLEMIN,
Zoroastre; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana (sul Mesoromazdés di Plutarco).
L’importante affinità del Varuna vcdicocon F oceano, f ortemente marcata
da H. LUDERS, Varuna, I ( Varuna linci die Was- ser), sarà esaminata
ulteriormente i n un quadro comparativo. MV, MV: si hanno ora le
esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, e di W. BETZ Die altgerm. Religion. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman,
1949; DIE,40-59. Su
Aditi, madre degli Aditya, in quanto madre e figlia di uno di essi, vedi
Déesses latines et mythes védique. Rifiutando e caricaturando in ZDMG la rettifica
che avevo proposto alla sua interpretazione di ari (non importa
quale Fremdling, ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un
membro del mondo arya - alleato o avversario),THIEME compie il tour de
force di discutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto
naturale di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo
sintetico, intuitivo, etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una
analisi completa e dettagliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero cheThieme userà
più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su Mithra e
Aryaman, (vedi l’Appendice). DIE,50-51, riassumendo Le troisième
souverain. DIE. Sugli Àditya Daksa e Amsa, DIE,; K. Barr, Àvesta DIE,
pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo
celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favore di
Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio,
così l'irlandese Mac Oc (il Giovane Figlio), antico dio protettore della
gioventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si
fa concedere un giorno e una notte , poi arguendo che il giorno e la
notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del
luogo (Jeunessc, éternité, aube, Annales d’histoire économique et sociale
DIE, Vedi la prefazione di Aspects... § 12-24.1 servigi che bisogna
richiedere alla pseudo-storia delle origini romane comparata con la
mitologia indiana o scandinava, sono stati ben presto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces; Servius et la Fortune; riassunto in
L’hérìtage..., cap. Ili e in Mythes romains, Revue de Paris, die.
1951,105-118. Sull’epoca in cui I’affabulazione definitiva degli antichi
miti si è prodotta (senza dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare dagli
anacronismi che vi sono inseriti), vedi L’héritage. L’interpretazione
dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S. WlKANDER in un suo
articolo fondamentale, Pandava-sagan och Mahàbhàratas
myliska fòrutsattningar, Religion neh Bibel, in gran parte tradotto e
commentato nel niio JMQ IV,37-85; cf. WlKANDER, Sur le fonds commun
indo-iranien des épopées de la Perse et de l’Inde, NC. Nel dominio
germanico un caso parallelo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di
Njordr) è stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I,
V-VIII), du mythe au roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa,
in Orientalia Sue vana, sotto il titolo Nakula e Sahadeva. WlKANDER faceva
considerevolmente avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi
sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi Pàndava sagan...,33-36; è il
risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran;
di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran; di S. WlKANDER, Vayu, I,
1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu nel nome
generico dei giganti (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti,
weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, che io ho commentato in
Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des Osses, JA,.
Aspects.. JMQ IV,56. Pàndava-sagan...,36; JMQ Pandu come
trasposizione di Vanina, vedi JMQ. La trasposizione di un mito vedico
(duello di Indra c del Sole, la ruota del carro del Sole infossata) è
stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna, fratello uterino e
nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli dèi delle tre
funzioni: Karna et Ics Pàndava, Orientalia Suecana, III ( =Do- num natal.
H.S. Nyberg), 1954,60-66. Una trasposizione (dei passi di Visnu al
servizio di Indra) è segnalata in Les pas de Krsna et l’exploit d’Arjuna,
Orientalia Suecana, V, 1956,183-188; e altri due (i sovrani minori
Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferenza fatta
all’Università di Copenhagen, pubblicala quest’anno nell’ Inclo-1 ninian
Journal (La transposilion des dieux souverains dans le Mahàbhàrata), Il
personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella stessa
prospettiva. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due
croi che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio
cieco monco della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e
Tyr: questi sono Orazio Coclite (il Ciclope) c Muzio Scevola (il
Mancino), i due salvatori di Roma nella guerra contro Porsenna; la
comparazione è stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa diverse volle,
specialmente ne L’heritage. c Loki. Sui primi redi Roma vedi il riassunto
degli studi anteriori in L’heritage.; un notevole ritocco parallelo
al ritocco zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione
romana nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in Les archanges de
Zoroastrc et Ics rois romains de Ciceron, JP Su Romolo e Numa vedi MV,
cap. II; L’héritane. Horate et les Curiaces; L ’héritage.. Aspetta: La geste
deTullus Hostilius et les mythes de Indra; cf.3-14 dello stesso libro,
studio dell’Indra vedico come solitario a dispetto dei suoi associati ( ekci -)
e come autonomo (sva-). La bibliografia degli studi comparativi
sullasecondafunzioneèdatain DIE,38-39 e completala in Aspetta. Sui
gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli Nàsa- tya
indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, Harlekintracht..., Orientalia Sueca- na,
; Aspetta...1. Non ho ancora pubblicato su questa interpretazione dei
gemelli romani il libro preparato; è comparso solo un frammento: Le
turtus equos de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala,
Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi
gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale in La saga de
Hadinf>us, Dioscuri greci sono solo
parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza funzione (massa
popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio; piacere) abbiano
ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio, successore del
guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III (Jactanlior Ancus) e la discussione
con J. Bayet in JMQ IV,185-186 (dove importanti questioni di metodo sono
toccate). DIVINITÀ: sugli dèi iniziali, vedi De Janus à Vesta,
Tarpeia, 31-113 (=JMQ it.,287-353), DIE,84-105; in Rituels, sono
state rilevate delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di
Vi- vasvat; in Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani
hanno chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta
(cf. Usas; vedi anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957,
1: Les Hymnes à l'Aurore du Riveda), della silenziosa Diva Angerona,
dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri operosa con la
preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia
prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del
sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in Suouetaurilia,
Tarpeia (= JMQ it.) si è stabilito lo stretto parallelismo di questo sacrifico
triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un
loro, di un montone c di un capro a Indra Buon Protettore); in Rituels
indoeuropéeus à Rome, i Fordicidia sono stali resi chiari, nei dettagli
dei riti, dal sacrificio vedico della Vacca dagli otto piedi; l’opposizione del
santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orientali, è stala
riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di
accensione, fuoco del padrone di casa, attaccalo alla terra) e il fuoco
quadrato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara
sacrificale ve- dica; i rapporti rituali degli equidi, c in special modo
del cavallo, con ciascuno dei tre livelli funzionali, sono stati
riconosciuti come idèntici sia a Roma che nell’India vedica; in
Quacstiunculac indo-italicac, 1-3 (da pubblicarsi in REL) il tulmen inane fabae
della fumigazione dei Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante
i Volcanalia e la prescrizione bigarum victricum clexterior del Cavallo
di Ottobre sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):
Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des
pe- uples celtiques, Ogcnn; Remarques sur le ius feriale , REL REL,
contiene uno studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: A propos de
latin ius. RHR ; Ordre, fantasie, changemente dan les pensées
archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos, REL; in Maiestas
elgravitas, de quelques diffé- rences entre les Romains et les
Austronésiens, RP; queste sono invece due nozioni prettamente romane che
sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin
eminentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5),
vedi L.R. PALMER, The Concept of Social Obligation in Indo-European,
Coll. Latomus,
XXIII ( =Homm. M. Niedennann BENVENISTE ha delucidato comparativamente un gran
numero di nozioni religiose e sociali, vedi in special modo Symbolisme
social dans les cultes gré- co-italiques RHR (vedi una conferma di un
dato importante nel mio Rituels...)', Don et échange dans le vocabulaire
in- do-éuropéen, L'Année Sociologique, 1951,7-20 e Formes et sens
de pvaopai, Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A.
Debrunner). Storia degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del
saggio intelligente ma prematuro fatto dalla scuola di Kuhn c di Miiller
teso a ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei, l’impresa fu
per un certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di
Mannhardt, gli studi si spostarono sui rituali e le credenze agricole,
popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta l’Europa e ci si
applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire filiazioni né parentele
particolari, un gran numero di culti e miti delle diverse religioni e in
special modo quelle dei popoli classici. Da un’altra parte, per effetto
della crescente settorializzazione delle specialità, gli studiosi dei
diversi domini, indiano, greco, latino, germanico, etc., rifiutando ogni
considerazione comparativa, costruirono per spiegare la genesi e lo sviluppo
delle religioni da loro studiate delle ipotesi che presero sovente per
dati di fatto e che non si accordavano che per un punto: la riduzione a
poche cose, per non dire a niente, dell’eredità conservata dal passato
comune indoeuropeo. Rari autori continuavano a parlare di religione
indoeuropea come ad esempio A. CARNOY, Les Indoeuropéens. Tuttavia
nel secondo quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In
Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig
und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932);
F. CORNELIUS, Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la
serie, che prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. Lui stesso ha fatto un primo sforzo di revisione della
mitologia comparata, ma con dei mezzi filologici insufficienti e rimanendo
prigioniero, per la spiegazione, delle concezioni mannhardtiane e frazeriane
{Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des Lemniennes 1924 e qualche
articolo di cui non vi sono grandi cose da ritenere; il Leproblème des
Centaures, e Flamen-Brahman, i cui
frammenti rimangono utilizzabili). Non è che a partire dal 1938 che,
inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da
altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità indoeuropea comune, in una coscienza
più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta
non si riporta ad alcun sistema preconcetto di spiegazione, ma utilizza
gli insegnamenti della sociologia e dell’etnografia, come pure il ricorso
all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due postulati:
ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa qualcosa, aiuta
la società che lo pratica a comprendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del
suo passato, confidante nel presente e nell’avvenire; ammette anche che
la comunità di lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura
sostanziale dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile
accedere grazie a una varietà adeguata del metodo comparativo.
Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva attirato
l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricerche: il
vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti
e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di concordanze precise e
che sono loro proprie. Un articolo-programma del 1938 La préhistoire des
flamines majeurs, RHR ha dimostrato che questa parentela prossima non si riduce
al vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal 1938,
in ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o
indo-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi risultati precisi
sui quali è stato possibile fondare delle comparazione più vaste.
Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religioso sia
interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi notevolmente
fedeli al passato indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi
quadri indoeuropei, il dominio celtico pone ancora, in seguito allo stato della
documentazione, un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per
effetto senza dubbio del miracolo greco e anche perché le più antiche
civiltà del Mare Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti
dal Nord - contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più
considerevoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto
agli altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli
Slavi, non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali
lavori in cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita
degli Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':
Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation comparative (citato MDG) Mitra-Vurunu, essai
sur deux représentations indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940, II
ed. (citato MV) Jupiter Mars Quirimis, essai sur
laconception indoeuropéenne de la société et sur Ics origines de Rome,
1941 (citato JMQ) Naissance de Rome (=JMQ II) (citato NR) Naissance
d'Archanges, essai sur la formation de la théologie zoroastrienne (=JMQ
III) (citato NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ
IV) L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries
JMQ et Mythes Romains, Le troisième Souverain, essai sur le dieu
Aryaman, 1949 Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE)
Rituels Indoeuropéens à Rome Aspects de lafonction guerrière
chez les Indoeuropéens, 1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll.
Latomus, XXV, 1956 Una traduzione italiana di una versione
migliorata in diverse parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia e di
JMQ IV, è stata pubblicata a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo,
che io qui non affronto, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior
parte di questi libri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage
... (Materia, oggetto e metodi di studio). 2 AUre
abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der
Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J
A = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society;
JP = Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des
Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l
’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR =
Recherches de Science Religieuse; SBE = Sacred Books of thè East; SMSR =
Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; TPS = Transaction of thè
Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti sche Philologie; ZDMG
= Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen Gesellschafl. Aryaman e
Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo libro
(maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota
al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze
che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del
JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello
stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su
Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i
numeri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. =Thieme, Der Frem- dling im
Rig Feda; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z = Thieme, Ari, Fremder,
ZDMG. Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora
indo-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.
In virtù dell’ipotesi {ari = lo straniero, qualunque sia) c del senso che
ne risulta per aryó (l’ospitale), Aryaman non può essere che il dio
dell’ospitalità)). È così? E ancora, sarebbe necessario che negli
inni o nei rituali questa definizione si verificasse sul suo centro,
intendo dire, in occasione del ricevimento di un ospite designato come
tale. Ora, non soltanto non vi è un testo rgvedico che riunisca il nome
dell’ospite, àtithi e quello d’Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invocato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non bisogna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso,
se il concetto di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere
personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo
Varuna e Mitra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per
esprimersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come
dio molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame
è manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.
Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti- co
Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono
irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due. Prima di Thieme
molti vedisti avevano notato, con delle conclusioni talvolta eccessive o
errate, i rapporti tra Aryaman e il matrimonio. 1 testi allegati sono
abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua tesi, Thieme è stato
indotto a far loro subire dei trattamenti poco raccomandabili. In tutto il
dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e più netti, altri più
oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio
sui primi e con questi chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per
il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, la formula destinata a
procurare un coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la prima
strofa: tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah
asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye Ecco arrivare
Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e
una moglie per chi non è sposato. Non meno esplicito vi è in/l V,
XIV, 1, inno rituale del matrimonio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti sono
riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, seguiti da
un'interpretazione di Aryaman come Feier, sicuramente errata. Noi
sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il trovatore dei
mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui (= dalla tua casa
di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale). Vicino a questi testi ve
ne sono altri che riguardano ancora siala ricerca della sposa che diversi
episodi precisi del rituale delle nozze, nei quali Aryaman interviene sempre,
ma associato ad altri dèi e di conseguenza con un ruolo non immediatamente
identificabile. Ciò che in questi casi incerti può orientare
l’interpretazione è evidentemente la descrizione e la definizione che su di lui
hanno dato i testi espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le parti
gli elementi delle coppie coniugali e fa delle buone alleanze
matrimoniali. Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda
categoria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e
per tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro
indeterminazione, la sua concezione di Aryaman (die Gastlichkeit, der
Gott der Ga- stlichkeit, der Gott gastlicher Aufnahme) e in seguito, in
dieci righe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui
testi meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro vera
portata questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 Von hier aus wirdes nun
erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die
H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen
Aryaman und E he gestellt hat, in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen.
Als einer der Genien des Hau- shalts, der auch
bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als Gattenfìnder (A V.) und
Ehevermittler (A V.) schlechthin in Zauberspriichen genannt, die
anscheinend durch die Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin
der Gesellschaft des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken
wollten. Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel
mascherare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è
tendenzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale
del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12
F„ §§ 118-124; S.73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire la
funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi
figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un gran nome della mitologia, è una
spiegazione che generalizzata permetterebbe all’esegeta di sopprimere in ogni
maniera le testimonianze imbarazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come
einer derGenien des Haushalts, è stata utilizzata, pefitio principii,
usando la libertà fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere
che alcuni di questi testi resistono al senso che si vuole loro dare.
Quando Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, di
ungere (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia (o affinché ella non
invecchi)' 4, Thieme, ricordando che in ogni paese del mezzogiorno 15 il
bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepidamente: Mòge
Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der
Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =
inJugendschònheitglànzest). Le giustificazioni di questa traduzione sono
leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità e il
dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile; come si
può mai dire alla giovane sposa: Che il
dio dell 'ospitalità ti unga con olio affinché tu non abbia l'aria
invecchiata ? Viceversa se si vede in Aryaman il protettore del rapporto
che si forma, è naturale che egli sia pregato di garantire alla sposa
lunga vita o vigorosa vecchiaia. E non è tutto. Thieme assimila
costantemente l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che riceve
l’ospite e quella che riceve la fidanzata. Ora, le due cose sono differenti: a
dispetto del riferimento a Mrs. Stevenson 16, l’atto della donna che
entra in casa di suo marito per rimanervi, può identificarsi, nei riti,
con l’atto del visitatore che dopo essere entrato straniero se ne andrà,
benché incaricato del dovere di contraccambiare, ma sempre straniero?
L’accoglienza fatta alla futura madre può forse essere più ospitale,
nello spirito e nei riti, delle ceri- 14 RV, X, 85, 43:
a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm anaktv
aryamù. Geldner: Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli
nns Aryaman verschinelzcn. Nell'India vedica? F.,125, n.
1. monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della
stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa procedura sui
generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto all’adozione
che all’ospitalità? Le nostre parole accoglienza, Aufnahme, creano
un’ambiguità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischiava
di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione
datadaThiemead AV-sempre riguardo il rituale nuziale : aryamnó agnini pàryetu pùsan
[var. ksiprdm] prdtiksante svasuro devaras cu. Sie
umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen
entgegen Schwàher und Schwager. Sono certamente meno ben informato
di Thieme sui rituali vedici: quando un ospite entrava in una casa gli si
faceva fare anche questa circumambulazione del focolare, che trova il suo
esatto corrispondente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha
valore di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è
così m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo
di Arya- Piuttosto, secondo la variante schnell. In S.,78, vi è una
cantonata nella traduzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo
attribuire a un’ inavvertenza del mio manoscritto o delle mie correzioni
delle bozze:,f vósuro devàsra.ica è reso con i suoceri e i cognati invece
de i7 suocero c i cognati il plurale della seconda parola avendo determinato
meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale della prima. Questo
testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la giovane
sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman
si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è
interessata da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con
un’altra famiglia (cf. Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello
stesso inno). Alla pagina 119 di S. ho commesso una svista più umiliante
ma senza conseguenze per i miei propositi, considerando svasurah di RV, X, 28,
1 come padre della moglie (possibile nel sanscrito classico ma non nel
vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E l’inverso. La moglie
parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto al festino
preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh ogni altro ari, tutto il resto
dell'insieme ari (e non facendo sparire
la parola essenziale altro,
jederunde- re, niimlichjeder ari, Thieme) è pervenuto. Il commento
che ho fatto di questo testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste
interamente a condizione che si rimpiazzi genero con nuora (e co.si prendere moglie con prendere marito e ha scelto la jigliadel suocero con è stato
scelto dai figli del suocero). man nel matrimonio, l’espressione fuoco di
Aryaman per designare eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si
forma il legame mi sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo
ruolo. Sono queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile
dedurre il ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione
che esige l’ipotesi di Thieme. L’Airyaman avestico è invocato
( Yasna) per sostenere gli uomini e le donne di Zoroaslro e il Buon
Pensiero; è detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni
resistenza, vincitore dei nemici (ibid., 2); la preghiera che è invocata
dopo di lui è onnipotente e guaritrice (Yast); Aryaman stesso è l’eroe di una
scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo posto:
quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999
malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
Formula Efficace: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina) si
avvicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva
divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .
Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta la
scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione, un uso
fuori dal dominio di un dio sentito come importante: Man hai also von Airyaman
dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von A/yaman, dice lui facendo
allusione alla fine del che ho citato 20 Temo che questa sia una maniera troppo
rapida per eliminare un elemento preciso del dossier. La stessa cosa
avviene per altri aspetti di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade,
ad esempio, strumento utile di comunicazione sociale : ci si riferisca
all’analisi del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente
per far capire che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimoni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. S.Per il trattamento insufficiente di
altri aspetti di Aryaman in F., vedi S. L’Airyaman iranico protegge in
una maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne
della buona società, definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di legami e in special modo l’attitudine a
contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre in questo
arya-e quindi in ari, un valore di nazionalità. Se il valore limitato e
orientato di ari che io ho proposto [in S] (Icariano, collettivamente o
genericamente), rende conto di tutti i derivati e si adatta senza
difficoltà a tutti i passaggi ai quali si adattava il valore generale
(der Fremde, der Fremdling) di Thieme, rende inoltre conto di un testo
che resisteva a quest’ultimo. Il dossier di ari contiene in effetti
almeno un testo che direttamente impone una traduzione limitata e mi
sorprende che Thieme non l’abbia riconsiderato nella difesa che mi oppone.
Questo è RV: uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd
ardtyd vrko hi sah La costruzione e il senso sono limpidi:
[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo. Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti,
quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di
conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi
è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, esteriore, straniero;
vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo che merita
di essere chiamato lupo poiché il suo comportamento è selvatico. Così ariè.
precisato negativamente come un tipo di nemico distinto da questo nemico
selvaggio ed esterno che è posto al di fuori del gruppo i cui membri sono
degli svà\ positivamente ari è definito come intemo a questo gruppo. La
traduzione e il commentario fatto da Thieme a questo passaggio devono
essere citati per intero : / Schutze] vor eigener, voranderer (i.e.
vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling
(der den Frieden be- droht), sie istja der Wolf. Ich habe in der
Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre- izstellung der Satzglieder
verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili- stischer Art sein. Ich
willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel- len, dass wir zu sagen
hdtten: vor eigener arati- sie ist ja ein Fremdling (der ins Haus
aufgenommen den Frieden bricht), vor an- derer drdti-sie istja ein
Wolf. La prima interpretazione, quella che l’autore preferisce
poiché sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e
al rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due
opposizioni equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà;
riducear/e vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del cattivo
ari) di cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali
diritti. La seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e
anyà in un senso che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso
me temporalmente e accidentalmente senza essere a me, ma segna un legame
permanente ed essenziale con me. In più, questa traduzione suppone, dalla parte
àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello dell’ospite che una
volta ricevuto in casa si comporta male e
minaccia la pace come dice
Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma questi rischi si
realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa allusione:
sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e che, in
questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 27, già II, 1956, p. 109.
Se, come io penso, ari ha già il valore etnico (ario, ariano), si
concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
direzione élite, capo, etc.] piano, in contrapposizione, i rischi costanti che
fa correre il vrka barbaro e brigante. Questo testo è dunque
decisivo contro il senso troppo esteso di ari e impone un senso
ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéennes. Renou mi sembra abbia ben
riassunto l’insegnamento del testo nella formula: .vrka il nemico straniero,
ari il nemico interno. Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo:
amico, ospite, sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta
alla considerazione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n
. Ili Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet
contro di me: fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui
ad alcune osservazioni che faranno vedere a quale livello si situa il
dibattito. Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni
credito ai miei argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre
punti, che io commetto molteplici e grossolani errori di grammatica
utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi
rimprovera: Io tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in
cui si incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi
sovrani, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un
aggettivo che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman
in un solo personaggio mitico che chiama Freund, Gasljreund e che ora
preferisce chiamare The contract (God Contract) which is hospitality (God
Hospitality ). È nel riconoscere questo mostro, di cui non vi sono altre tracce
nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato (S.. Non ho cambiato
parere: è inverosi- Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono
altre ragioni) per fare scartare il paragone etimologico con diana (l'opposto
di svà) che è stato portato in appoggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, Zur
Bedeutung des Ariernamens, KZ, 68, 1941,42-52. D’altra parte, il fatto
che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah,
il vincitore dell'un lontano e vicino dimostra che lo svà di IX, 79, 3
non deve essere compreso in un senso stretto né senza dubbio locale. Il
concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia condizione:
Vari per un ariano è sia svà che para. mile che in questi due soli
passaggi la triade ceda il posto a una coppia Varuna e Varyamàn Mitra o a
Varuna e il mitra Aryaman. Uno di questi testi è RV, V, 67, 1:
varuna mitrdryaman vdrsistham ksatrdm àsiithe, o Varuna, Mitra e
Ai'yaman, voi avete ottenuto la più alta sovranità. Perché si dice che il verbo
è al duale? Il poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e
Aryaman (che è fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di
Varuna, di modo che si debba tradurre o Varuna, o Mitra e Aryaman? Non lo
so, ma la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra
e Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente
i tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi
che sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende
come me: ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A
rya- man - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme mi
rimprovera di avere detto. L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 :
vaiyasvdsya srutam narotó me asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd.
La prima parte non è ambigua: Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la
parola] di Vai- yasva e conoscete questa [parola] mia. La seconda è meno
chiara, un aggettivo al duale (sajósusà, in accordo) precede i tre nomi
divini. Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a
ciò che segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: Horet aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und
seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit euch) Varuna Mitra
Aryaman. Non so se ha ragione o se si può trovare una giustificazione più
sottile, ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo verso, qui come
altrove, siano ire. Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV,
III, 54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, Aryaman, Aditi [sono] degni
(plurale e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad
Aryaman, ad Aditi. Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la
traduzione di Geldner: Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert, con la nota
corrispondente: Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die iibriffen
Àditya ’sdenkt. Ma ciò che più m’interessava perii mio argomento (S., p. 68) è
che in questo lesto della terza funzione (la fine della strofa domanda
abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo degli dèi sovrani
distacca, in qualche modo come i suoi soli delegati espliciti, la
loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho preso la precauzione
di ripetere in termini di grammatica una precisazione che ogni vedista conosce.
Il mio commento si è limitato a dire: Sembrerebbe che ancora qui sia
l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione collettiva degli Àditya
verso questa grazia speciale. Non è abbastanza chiaro? Tratto un
singolare come un duale. Si tratta del lapsus segnalato più sopra che, in A V
(S mi ha fatto scrivere e non mi ha fatto correggere i suoceri invece del
suocero, come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io
abbia pensato ai due suoceri. Mi reputa così ignorante da poter credere che io
abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un
nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse
correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S)? La spiegazione
che mi parrebbe più plausibile è che, essendo poco leggibile il mio
manoscritto, il compositore abbia congetturato i suoceri secondo i
cognati che seguono immediatamente, o che meccanicamente abbia messo allo
stesso numero queste due parole così analoghe [pères e frères nel testo.
N.d.T.]. Può anche darsi che il lapsus risalga al mio manoscritto. Mi
dispiace molto ad ogni modo che nella sovrabbondanza di correzioni che ho
dovuto fare sulle bozze quello mi sia scappato e che l’errore mi sia
saltato agli occhi solamente qualche mese dopo la pubblicazione. È in
maniera sleale che Thieme orchestra questo scandalo in due pagine e anche
il mio errore su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito.
Nondimeno Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio
argomento la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V,
XIV, 1,39 e quella del suocero {della moglie) opposti al resto
dell’ari, 1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è
stato mostrato qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel
matrimonio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti
per l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa
ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si
compiono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida
all’interpretazione errata! per mascherare il gioco di prestigio
altrimenti grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi
che stabiliscono il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio'. Il libro è in
seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed
utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai
rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché
Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di senso, una
traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2, caricaturando le mie
esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un motivo di
risentimento in più 4, etc. etc. L’obiettivo di
questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: IJ'eel il my
duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè
meriti of Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation
oflhe Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal
only his "expla- naiions" need be discussed. Non ho
questa pretesa. Domando solo senza grandi speranze che latinisti o
indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discutermi lo facciano
lealmente. 2 P.es.,. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV,
X, 89,9; ctc. p. 67, in RV , Thieme rende correttamente duvasyatil Ha
sicuramente ragione, ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S.,(Mitra
offre dei sacrifici a Vanirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa
eccessiva, di Bergaigne(La religion védique, III, p. 138: In un passaggio
in cui né Mitra né Varuna sono del resto esplicitamente identificati ad
Agni, il primo è opposto al secondo come il sacerdote al dio che onora):
duvasyati significa sempl icementc rendere gli onori dovuti; bisogna correggere
in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è
come un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho
detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna', non è
compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho semplicemente utilizzato
i progressi che, dal suo articolo, i sociologi hanno fatto compiere alla
teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo stesso modo,
p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è deformata:
che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia
dei nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.),
salvo quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi
Déesses latineset mythes védiques): qualunque sia quella di Varuna (e non
credo molto a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo
direttamente, l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le
altre figure divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P.
es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e
136, a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà
facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo
così futilmente in contraddizione., sono accusato per due parole di
mislranslations, wich might have been avoided by looking up thè PW or any
other good dictionary; Thieme vorrà rifarsi a A.B. Keith, HOS, di cui ho
adottato la traduzione (e vi sono ragioni per preferire questa
interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della
differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A
dispetto del suo titolo indiano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1
; si propone di dimostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e
fra i Germani in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della
prima funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne
ha scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano
con una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabilire
gli insegnamenti degli inni stessi e dei Bràhmana - che altri (dopo
Bergaigne e Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In Le Troisième
Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un problema specificatamente
indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovuto riprendere tutti i testi,
discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio
libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a
dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di
Thieme, le esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi
sforzerò di rispondere con un’argomentazione serena a questa scherma da
gladiatore. Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E
dimostrerò come sotto le apparenze del rigore filologico Thieme
misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati statistici più
evidenti e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così sgombra si
avanzi con una sovrana fantasia verso le pagine sorprendenti che terminano il
suo libro. In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da
questo meccanismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi
Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia
su molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture
del pensiero, onesta e intelligente. I J.C. Tavadia si era
inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale
riparazione. L’editoria italiana ha accolto con favori e fortune alterne
l’opera di un autore tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu
Dumézil, persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di
rado pungente ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano
che l’inchiesta scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari
oltre che ai colleghi che accolsero positivamente il suo metodo. Il
lettore nostrano troverà di piacevole lettura la traduzione della intervista
francese: Un banchetto dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon,
Guanda, Milano. Spetta alle Einaudi l’esordio di Dumézil nel panorama
editoriale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non
senza travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il carteggio Pavese -
Martino, La collana viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P.
Angelini) ha contribuito a diffondere autori importanti come Jung,
Kerény,L. Frobenius, Leeuw, Eliade. Jupiter, Mars, Quirinus, Torino, è una
traduzione di parti dell’originale, più capitoli di altri volumi come
Naissance de Rome, Naissance d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus. Il
catalogo della Einaudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a
rioccuparsi di Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata,
1982 (= Mythe et epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei.
Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri
tradotti, a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso:
// libro degli Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili
economici della Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani;
Matrimoni Indo-europei; Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione
guerriera presso gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo
libro, condotta sulla precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier,
1969, si deve ai tipi della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura
del guerriero, Tonno). E infine bisogna ricordare anche Il monaco nero in
grigio dentro Varennes, che è però un divertissement
enigmistico-letterario sulle profezie di Nostradamus. Il
catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di due opere importanti e
poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione romana arcaica, eStorie
degli Sciti; mentre II Melangolo (Genova) ha tradotto due volumi quali
Idee romane, e Feste romane. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma)
hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche
opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière, Dumézil egli studi indoeuropei. Una
introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una bibliografia completa delle
opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro presente diretta da
Alessandro Campi (numero monografico “Georges Dumézil e l’eredità
indo-europea”): oltre a un dibattito su Dumézil in base alle aree
storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici,
Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze
del modello trifunzionale nella società medioevale - suddivisione in oratores,
bellatores, laboralores - e la traduzione di un articolo di Dumézil in risposta
alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia
germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici, ristampato in Id.,
Miti, emblemi, spie, Einaudi, Torino) su un argomento, le presunte
simpatie per la cultura nazista, già affrontato da A. Momigliano, Rivista
storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi
indoeuropei cf. A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi
dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon e “Indoeuropeistica e
cultura europea”, in L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio,
Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose,
economiche, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi
indoeuropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
I-II, Einaudi, Torino; si veda anche E. Campanile, “Antichità
indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue
indoeuropee, Il Mulino, Bologna, e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeuropeo e il
sacro, Jaca Book-Massimo, Milano. Un argomento dibattuto da decenni come la
nozione di “lingua poetica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle
diverse letterature - Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta -
elementi di una fraseologia comune ed ereditaria) è stato di recente affrontato
in un libro eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica
indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries La riscoperta del pensiero
religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le
teologie tripartite. Le diverse funzioni nella teologia, nella
mitologia e nell 'epopea Storia degli Studi. Aryaman e Paul
Thieme Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords:
sul conferimento di valore, il guerriero
indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza
di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.


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