Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allegretti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della colloquenza – la scuola di Forlì –filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Lugi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library (Forlì).
Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forli, Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Grice:
“I love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on
dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he
philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the
Dialettica!” Grice:
“He was so proud of the meetings at his villa that he called it ‘our
Parnassus’!” Grice: “Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after
Plato who, with fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf.
Raffaello, “Il Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA
allegretti Blasonatura cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato,
secondo alcuni storici, la prima accademia letteraria d'Italia. Fu figlio di Leonardo A., giudice a Forlì, di
parte guelfa. Appartene ad un'antica e cavalleresca famiglia, il cui
capostipite fu Mazzone A. (Mazzonius Alegrettus), che prende parte alla
crociata in Terra Santa e per arma scelse un cuore d'oro su campo azzurro. Legge filosofia a Bologna e Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Calbolo, Orgogliosi, Sigismondi, Speranzi, Arfendi, Morandi,
Aldrobandini, Aspini e A.. Per motivi politici, gl’Ordelaffi, signori di Forlì
ghibellini, imposero il confino ai fratelli Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degl’Ordelaffi, è nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una accademia, dei Filergiti – cf.
Firlegito -- con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia s'innestò negl’Aspini
mediante una Margherita di Francesco A., che sposa un Lodovico, che è erede
degl’averi e del cognome degl’A.. Si trova il seguito di questa famiglia nel
senese e nel modenese (a Ravarino).
Note Fonte: Valenti, Dizionario
Biografico degli Italiani, riferimenti in. Il suo saggio principale e
considerato il “Bucolicon”. Ma scrive
anche un epicedio per la morte di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un
carme al Conte di Virtù; un carme per la divisa della tortora; Eglogae, in
latino; un carme sulla bissa milanese, cioè lo stemma dei Visconti, il
biscione.Marchesi, Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de'
Filergiti della città di Forlì..., Forlì, per Barbiani, Bonoli, Storia di Forlì
scritta da Bonoli corretta ed arricchita di nuove addizioni, Forlì, Bordandini,
Valenti, A. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. A., Filosofi. Nasce a Ravenna, da Leonardo A., appartenente a
famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli immediatamente
precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr. Massera) che legge FILOSOFIA
nello studio bolognese. Lettore di DIALETTICA a Firenze. Benché se ne perdano
poi le tracce, è indubbio che si trova da qualche tempo a Forlì quando e
colpito, nella sua qualità di guelfo, dal bando d’Ordelaffi. Ma la fama di
dottrina in filosofia che lo circonda e tale che egli e ben presto richiamato
alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di nuovo fuggire per aver
rivelato la congiura che Ordelaffi tramando contro suo zio. A. si rifugia a
Rimini, dove e precettore di Malatesta. La sua villa e luogo di raccoglimento,
di studio e, di dotti convegni, cui si compiace di dare il nome di Parnaso;
donde la notizia, tratta dagl’annali forlivesi di Ravennate, secondo cui A.
"Arimini novum constituit Parnasum", notizia ripetuta ed elaborata
poi da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fonda già
allora una vera e propria accademia. Ha rapporti abbastanza stretti con la
corte viscontea. Muore a Rimini. A. gode di non piccola fama. Citato nel “De
fato et fortuna” di Salutati, e in corrispondenza col Salutati di cui si ha una
lettera a lui con unito un lungo carme latino, e con Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera) a lui dirette. Fatta
eccezione per un problematico trattato in prosa “DE PROPOSITIONIBVS”, attribuitogli
da Cobelli nelle sue Cronache forlivesi (Bologna), tutte le opere d’A. di cui
si ha notizia si riferiscono alla sua attività fantasiosa. Ci rimangono: un
lungo carme a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona, pieno di IMPLICATURE
– o CONTORTE ALLEGORIE POLITICHE (Venezia, Bibl. Marciana); un componimento a
carattere araldico-encomiastico dedicato a Visconti (ed. da Novati in appendice allo studio Il Petrarca
ed i Visconti in Petrarca e la Lombardia, Milano); un Epitaphium in onore di
Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana); un carme Ad Ludovicum Ungariae
inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana). La sua fama, però, e legata
soprattutto al “Bucolicon,” che Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea),
giudica seconda soltanto alle Bucoliche di VIRGILIO e che Massera ha tentato
con buoni argomenti di identificare in una raccolta di egloghe attribuita a Mussato.
Ad A., infine, come opina Sabbadini, andano attribuiti i cosiddetti
Endecasyllabi di Gallo, che egli ha, secondo la tradizione, scoperti a Forlì ma
che, invece, molto probabilmente contraffa, credendo erroneamente che quel poeta
e nativo di Forlì. Epistolario di Salutati, ed. Novati, Roma, in Fonti per
la storia d'Italia, Sabbadini, Le scoperte dei codici latini, Firenze, Carrara,
La Poesia pastorale, Milano, Massera, A. da Forlì, Atti e memorie d. R. Deput.
di storia patria per le prov. di Romagna, Thorndike, A history of magic and
experimental science, New York, Bertalot, L'antologia di epigrammi d’Abstemio
nelle edizioni sonciniane, Miscellanea Mercati, Città del Vaticano. La stessa
origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori
fanno fondare a A. da Mantova, uomo versato nella filosofia. Uno storico di
Forli, Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì? Dice. Strepita ancora
di Forlivesi la fama d’A., FILOSOFO. Compone La Bucolica, che doppo quella di VIRGILIO
non vede forse il mondo la più bella; tra le tenebre dell'antichità, manifesta
molte compositioni del nostro Gallo, e in Rimini, ove poi ricovrossi, per
schivar l'ira degl’Ordelaffi, erresse una fioritissima Accademia. La notizia
passa indi nel proemio delle Leggi vecchie, di stinte in XII Tavole,
dell'antica Accademia de’ Filergiti di Forlì e nuovi ordini-sopra essa
Accademia, aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Accademia
in Forli, che e pure stata fondata d’A: l'Accademia dei Filergiti. A. – vi si
dice – Filosofo illustre, non si contenta di esercitare in Forli sua patria
virtuose sessioni, che ancora in Rimini, dove sbandito ricovrossi, er gette una
nuova Accademia. Queste parole sono ripetute tali e quali da Malatesta nel
L'Italia Accademica però nella parte ancora inedita di quest'opera che giace
nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in particolare delle Accademie.
Petrarcae Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da FRACASSETTI, Firenze.
Forli, In Memorie storiche dell'antica
ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì, Rimini. Ma anche qui si
tratta di un abbaglio. Aspettando che maggior luce venga data in proposito in
quella vita d’A., che Novati promette da parecchio tempo, basta notare che a
base delle notizie circa queste due Accademie stanno le seguenti parole degl’Annales
Forolivienses. Tempore ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt:
Bononiae, Imolae, Faventiae et Forolivii. A. Forli viensis philosophus clarus
agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit
et Arimini novum constituit. Par Quest'ultima parola e interpretata senz'altro
per Accademia, a cui, come al solito, furono ascritti i personaggi principali
del tempo, perfino Petrarca. Cfr. La Coltura letteraria e scientifica in Rimini
di Tonini, Rimini; cfr. anche del medesimo: VitaeVirorum Illustrium
Foroliviensium. Forli Cfr. Della vita e delle opere d’Urceo detto Codro di
Carlo MALAGOLA. Bologna. Cfr.Epistolario di Salutati per cura di Novati, Roma, Rerum
Italicarum Scriptores, Milano, di Rimini. Egli dice di più che l'Accademia
fondata d’A. in Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata
dei ritratti dei filosofi più celebri,e che vi e ascritto anche il Petrarca. Marchesi
dal canto suo circa l'Accademia fondata d’A. in Forli dice che costui lasciata
da parte la se verità degli studi filosofici, ne'quali aveva spesi con molta
gloria i suoi giorni, fraccolti in una degna Assemblea i filosofi più
perspicaci, fa la memorabile fondazione, benchè senza nome particolare, regolamento
ed impresa, invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d’Accademia. Sono
i suoi colleghi, o piuttosto discepoli Calbolo, Orgogliosi, Sigismo ndi, Speranza
dei Speranzi, Arsendi, Morandi, Aldobrandini, Aspini e A., tutti illustri per
sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per la filosofia. Per le
frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli ammaestramenti e
saggi dati d’A, il fondatore, s'avanzarono molto i primi Accademici colla
coltivazione della filosofia, sopra ogni altra scienza da essi tenuta in pregio.
Esiliato poi A. da Forli, l'Accademia anda dispersa, eleraunanze vennero
riprese solo nel secolo xv per opera d’Urceo. nasum DELLA TORRE Orbene si
osservi che A. e in Rimini maestro di filosofia di Malatesta; e qual cosa più
naturale che assieme al Malatesta si trovassero altri membri delle principali stirpi
Riminesi? Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e
non già per Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti.
Quanto poi all'Accademia di Forli, come osserva giustamente Tiraboschi, severamente
e esistita, lo scrittore degl’Annales Forolivienses che nota il Parnasum aperto
d’Allegretti in Rimini, ha a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata
in Forli, le cui vicende appunto egli si propone di narrare; ed invece nulla. Come
alsolito, gli scrittori di cose forlivesi, che, interpretando Parnasum per
Accademia credevano che A. fonda appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che A.
e anche a Forli, gliene fa fondare sen z'altro una anche in Forli, ascrivendovi
come al solito quanti in quel tempo vi erano di filosofi insigni per ingegno e
per cultura. E con questa mania, si andò tanto oltre, che si raggrupparono
insieme perfino gli architetti del duomo di Milano per farne un'Accademia; la quale
e cominciata mentre Visconti anda pensando di gettar le fondamenta del Duomo. Vi
si sarebbe atteso a quella maniera di fabricare,che i moderni chiamano alemana.
Avrebbe àvuto sede nella corte ducale compiacendosi in estremo quello stesso duca
del fabricare e dell'udirne talvolta discorrere i maggiori architetti di
que'tempi, che sono Giovannuolo e Michelino, da'quali sono ammaestrati i
compagni di Bramante. Non occorre certamente fermarci piú a lungo per
dimostrare l'assurdità di queste affermazioni. Basti il dire che questa volta a
base di esse non sta il più piccolo dato di fatto. Cfr.ANGELO BATTAGLINO, Della
corte filosofica di Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae
Opera prae stantiora. Rimini, e Lettera di Salutati a Malatesta in Epistolario
di Salutati a cura di NOVATI, Roma. Velim igitur, simichicredideris, eum
(Giovanni da Ravenna) decernas inter tuos recipere et in locum magistri tui,
viri quidem eruditissimi, quondam A. et in eius provisionem acceptes et loces. Cfr.
BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano, e ZANON, Catalogo etc.iSi
dia in proposito la più semplice scorsa alla prima parte di il duomo di Milano
di Boito, Milano. Jacopo
Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica,
villa, villa Allegretti a Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De
propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane
dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allievo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di San Germano Vercellese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Germano Vercellese). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. San Germano Vercellese, Vercelle, Piemonte. Grice:
“I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day
that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act
of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then
for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which
obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!”. Frequenta la facoltà di
filosofia di 'Torino e segue l'insegnamento di Rayneri, filosofo di matrice
rosminiana. Laureatosi, insegna a Novara e Domodossola -- dove conosce SERBATI
(si veda), Ivrea e Ceva. Collabora alla Rivista contemporanea di Chiala. Arriva
alla cattedra a Torino. Spiritualista, e propugnatore del cosiddetto sintesismo
degl’esseri, principio secondo il quale nessuna parte di un ente può sussistere
divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare
diviso dagl’enti che costituiscono l'universo. Socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. Critico dell'hegelismo, A. sostene doversi rifare alla
tradizione filosofica spiritualista per combattere sia la dottrina hegeliana
che quella positivista si sta in diffondendo. Si dedica a ricerche di
antropologia. E autore anche di un saggio di vaste proporzioni dedicata a Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a
Bruno (Torino). Altre saggi: “Saggi filosofici”; “Studi antropologici”;
“L’uomo e il cosmo”; Si espone e si
disamina l'opinione di Brothier. Si espone e si giudica la teoria di Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di Hirn. Büchner. Si pone la questione e si
accenna il come risolverla. Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto
definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia. Del
metodo in antropologia. Divisione dell'antropologia. Concetto della persona
umana. Analisi della persona umana. La virtù intellettiva. Della coscienza
personale. La coscienza di sè e la conoscenza esteriore. Individualità
soggettiva della conoscenza esteriore. Universalità oggettiva della conoscenza
esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle
sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere
animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La
vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei
problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello
spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività
volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria --
Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica
dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana
-- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona
umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita -- Teorica
della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere
animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita
maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle
potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare --
Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale
tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente
coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed
ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria
e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi
fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in
particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita
oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate
nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e
delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del
sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia
sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza
in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto
pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --
Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie
dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche.
Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La
libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e
genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione
intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione --
Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività
alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza --
Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e
la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera
volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso --
Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo
all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato
nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme
dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie,
nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare
-- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze
tra l'antropologia e la pedagogia”; Il
linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva --
Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del
senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici
dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione --
La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica
infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno
al principio della personalità”. Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla
voce corrispondente in F. Corvino, Op.
cit. ibidem A., su accademia delle scienze. A., su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe A.,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Giuseppe A., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Giuseppe A., Filosofia Filosofo Filosofi San Germano Vercellese Torino Membri
dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza
umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno
verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e
s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere
umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo
distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra
mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della
‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni
le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo
pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’,
ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole,
vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le
percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse,
indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si
possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche
nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*,
come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri
pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’.
E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o
segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’
(Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di
generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla
percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a
segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia
specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega
la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi costitutivi
dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e la mente [il
segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo spirito,
quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto l' idea
significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti, destituiti di
mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non basta la
dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati ad unità,
essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum). Nella parola adunque il segno O
SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto,
quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del
pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di
tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di
errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o
tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la
lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e
conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti
idiomi in particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une
dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa
tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su
cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale, che tutte le
informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente umana, se si
manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata
nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime
leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle
lingue riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente
l'unità originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità
arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della
terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il
quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche
le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo, siccome quello, che
disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e l'ingenita virtù della
mente di elevare la voce a dignità dinunzia del pensiero. Se l'uomo impara
dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla virtù, che possiede la sua
intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO. Infine discende
quest'altro corollario, che non manca della sua importanza pedagogica. Vera
istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola del maestro, come
se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece vuol essere un
portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla forma zione
della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente ripeterla,
altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre alcunchè di vago,
di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un SENSO FERMO e più o men definito per chi se la forma, come
si avvera nella formazione di un neologismo come ‘implicatura’. Il linguaggio
umano trae le sue prime origini da quell'impulso spontaneo della NATURA, che
spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo
BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove,
come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida
primitiva, onde si svolse il linguaggio articolato e convenzionale, non
costituiscono tutto quanto il linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il
quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed
atteggiamenti esteriori della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e
perfezionarsi, o come complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il
linguaggio articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo
scenico dei drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato
primeggia sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato
dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più
acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o
parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA,
più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge
vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle
forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire
dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I
suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’,
separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata
insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in
modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai
più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più
che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai
sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce
animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la
ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è
che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il
fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli
i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di scuola,dei
governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la mancanza
di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente
dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una morta
apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere
lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato
oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che
il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un
po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati
[2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in
generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè
suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il
castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto
all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al
castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere un'atten
zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche
trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione
in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti
scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per
ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè
diventino monotone e stucchevoli.] Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere
veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non
potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più
illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò
attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle
vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. A.
compì gli studi al seminario arcivescovile di Vercelli. Vinta una borsa al collegio
Carlo Alberto di Torino, si iscrive nella Facoltà di filosofia della Regia
Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un
saggio pubblicato sulla «Rassegna Nazionale», Cottini riporta una lettera
scritta da Aporti che comunica ad A. la vincita di un premio che ammontava a
trecento lire per i suoi meriti filosofici, segno premunitore di una carriera
accademica di primo piano. Laureato, e chiamato alla direzione di una scuola di
metodo presso Novara. Iniziò così una serie di seminarii che lo portarono in
diversi centri piemontesi. Trasferito a Domodossola, poi ad Ivrea, quindi nel
collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato. E destinato
all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano. Calò, A.
Filosofo, in Vita e mente di A., Torino, Scuola Salesiana; Gerini, Filosofi italiani,
Torino, Paravia; Braido, A., Dizionario Enciclopedico, Torino, S.A.I.E.; Biagini,
A. Enciclopedia; Brescia, La Scuola; Cottini, A. «Rassegna Nazionale», ogica e
metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere
rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese:
Pestalozza, Poli, Cantù, Dandolo. Continua a tenere i rapporti con l’università
torinese, dove supera l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con
giudizi molto positivi di Mamiani ROVERE (si veda) e di Rayneri. Sonno anni di
intenso studio. Torna a Torino nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso all’Università, dopo la morte di Rayneri. Continua
ad insegnare nella scuola sino a quando e nominato titolare della cattedra.
Divenne ordinario ed insegn ininterrottamente all’Università di Torino. La sua
produzione e copiosa. I suoi saggi più importanti sono: Saggi filosofici, Della
filosofia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la
vita, L’educazione e la nazionalità, L’educazione e la Scienza, Del positivismo;
Delle idee dei Greci, Studi, Riforma 4 Cottini riporta un ricordo di Parato,
risalente al giorno A. passa il concorso per l’aggregazione a Torino. Parato,
anch’esso decoro e vanto della scuola italiana, dice nella sua Vita, che avendo
nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Rayneri, allora professore
nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia
che il Collegio Universitario ha allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della filosofia italiana. Cottini, A. Nel suo articoli, Cottini
trascrive una lettera di A. indirizzata a Raineri, rinvenuta dallo studioso Roca
tra le carte che Raineri affide agl’archivi dei padri rosminiani. Si tratta di
pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio,
deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e
riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che
mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gl’uomini
del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna
dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è
con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue
povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che
faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi
la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in
un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla
vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta
tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura
mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca
polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che
quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la
salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri
morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove
riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per
sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi
solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di
Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non
chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio
fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non
bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre
miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono
infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora
quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo
Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al
mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene»] dell’educazione mediante la riforma
dello Stato, Esame dell’hegelismo, La filosofia antica, Opuscoli, Rousseau
filosofo; Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei; Elementi di
filosofia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso
dei Licei, con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. A.
collabora attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo. Con
Passaglia e il principale animatore del Gerdil, organo dei giobertiani e
spiritualisti torinesi, che ha però breve durata non riuscendo a superare
l’anno. Vi scriveno, tra gli altri, Bertini e Bertinaria. Diresse “Il campo dei
filosofi,” un periodico fondato a Napoli da Milone, poi trasferito a Torino. Si
tratta di un’esperienza pubblicistica che ha una certa rilevanza nel dibattito
filosofico italiano, come ha già sottolineato Garin. Vi collaborarono autori
come Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli,
Marsella, Tiberghien, e Bosia, Cfr. Chiosso, La stampa filosofica scolastica in
Italia, Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin
osserva. Il “Campo dei filosofi”, la rivista vissuta a Napoli e poi passata a
Torino sotto la direzione d’A., si propone di combattere soprattutto
l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte – come scrive A. nel
programma, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita
Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo, altri ve ne comparvero, d’A., di
Giovanni, di Donati, di Selvaggi, e di Tagliaferri. E l’attività della rivista
in questo settore merita di essere studiata tanto più che non è privo
d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi
gemelli nemici. Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si
convertirono al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo
fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi d’A. che vede in queste due
teorie apparentemente distanti, un comune denominatore. Quell’onesto filosofo
che e A., professore a Torino, che alimenta una vivace e seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che mette insieme un
onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando a Torino, un
Esame dell’hegelianismo, che vuole essere un bilancio, crede di poter
individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. L’Hegelianismo
– scrive – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo. Assoluta IMMANENZA, realtà come processo e
sviluppo, celebrazione della scienza. Ecco alcuni dei punti su cui insiste A.,
pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e
al di là dei casi degl’hegeliani passati al positivismo, una cosa certa A.
coglie esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del
senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implica,
in metafisica, in politica, in diritto, e in morale, per usare le sue parole.
Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità
feurbachiana, si muove fra tensioni e polemiche Labriola: contro
l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro
il socialismo neo-kantiano-positivistico al posto del marxismo, per una
rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiara a Engels per una
sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non e solo
questione di parole. Garin, Filosofia in Italia, Bari, De Donato. Polla,
Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblica una serie di articoli
sulla Rivista filosofica. Quando e ormai divenuto uno tra i principali
protagonisti del dibattito nazionale, A. assunse la direzione de «Il Baretti»,
un foglio dedicato a questioni scolastiche. Qui vi apparvero per lo più una
serie di saggi utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà e,
più in generale, alla politica ministeriale. A. rappresenta una delle
personalità di primo piano del spiritualismo italiano. I suoi saggi divennero
un punto di riferimento per la riflessione, trovando una considerevole
circolazione pedagogica, per riprendere una categoria riproposta da Prellezo. La
Bertoni Jovine ne parla come il maggiore esponente dello spiritualismo, sino a
considerarlo, esagerando, come la guida della corrente. A. insegna in un Ateneo
come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato, rappresenta
uno dei poli principali del dibattito italiano, sia in campo accademico, che in
quello pubblicistico e scolastico. Cfr. Chiosso, La stampa scolastica in Italia;
Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità; Stampa nell’Italia
liberale. Giornali e riviste. In un saggio dedicato a Rayneri, a cui ne segue
uno analogo su A., Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei
spiritualisti più impegnati teoreticamente con la realtà filosofica. Egli parla
della necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e
portata dell’incidenza delle dottrine non solo nell’ambito delle riforme
dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione dei
fondatori e primi membri delle istituzioni dedicate all’insegnamento. Prellezo,
Pensiero e politica scolastica. Il caso di Rayneri, in «Annali di Storia delle
Istituzioni scolastiche», Brescia, La Scuola, Bertoni Jovine, F. Malatesta,
Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, Il neo spiritualismo
d’A. se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come Conti e
Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ha la capacità intrinseca
di operare un capovolgimento della filosofia e neanche quella di combattere
efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo,
e portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D.
Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti; Serafini, Cultura
italiana, Roma, Bulzoni. Riguardo alla circolarità d’A. nello spiritualismo,
merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani. Il docente
vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice,
partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in
città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo
piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria
amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta
significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando l’oratorio di
Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro
Correnti, A. si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella
compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un
ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti
con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore
generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso
vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17.
Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di A. sulla Storia della
pedagogia di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia di Barberis18. Una certa
influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo
Cimatti. Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M.
Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici»,
Proverbio ricorda la presenza dell’A. alla seconda rappresentazione del
Phasmatonices di Rosini. «Le insistenza per la replica furono tali che il
sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il
professor G. A., docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale
“andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre
negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G.
Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino, in F. Traniello
(ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei,
Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le
relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della
pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, Rayneri, G. A.» P. Braido,
L’esperienza pedagogica preventiva, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di
Pedagogia cristiana nella storia, Si veda anche: J. M. Prellezo, A.negli
scritti pedagogici salesiani, Su tale legame Pietro Braido ha rilevato:
«Giannantonio Rayneri e A.esercitarono un palese influsso diretto su due note
figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente Cerruti e Barberis;
gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente
dipendenza. A., benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente
per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in
difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo
burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica
preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia
cristiana nella storia, 313. 18 J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici
salesiani, 406-412. 19 413. 26 verità, anche altri manuali
pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’A.20. Se l’opera del
vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da
quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo
contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel
mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo
menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene
l’opera di A. mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò
l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una
lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino.
Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’A., contribuirono molteplici scuole e
sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno
rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. A.
trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto
permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli
rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, A. poté avere un primo
contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve
scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo,
Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di A.. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed
educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e
novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio
– culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico,
Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella
cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista,
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane] apprezzò
il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di A., allora solo
ventiduenne26. Pochi anni dopo, il pedagogista vercellese ebbe anche
l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un
corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di
Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella
circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua
grandezza», ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel
periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il
rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui A. ereditò la
cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri
rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra
gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava
sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica
riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale
importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana. La lezione del suo
predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’A.. Lo studioso
vercellese curò a pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa
in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che
mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di
un’opera considerata da A. come una delle maggiori confutazioni agli errori
della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,:
L’Hegelismo e la scienza, la vita si trova una dedica molto significativa al
suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al
Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe A..
L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei
portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi
congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del
leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso,
essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però
non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G.
B. Gerini, La mente di A., Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano,
Cogliati, Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico
in Piemonte in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 102. 29 G.
Cottini, A., 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi
apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella
tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è
sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo
pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino
scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi
originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; Un’altra idea della
vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso concetto del
dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la Pedagogica del
RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo contemporaneo,
che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. A., Commemorazione del primo Centenario
della nascita di Rayneri, letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare
Astigiana, La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Rayneri, Che
primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la.
Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo
tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro». Il vercellese
fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla nascita di
Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di
insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte
della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè negli anni
miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la sua
magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio quella
cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo
magistero, A. rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani,
collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e
posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo
rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che A. pone al centro
della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto
psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle
facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal
professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di
critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri
autori spiritualisti, A. riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la stessa
etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia e
pedagogia, di cui A. si fece araldo di fronte agli eccessi di metodologismo cui
erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di unità, è collegato
un altro concetto rosminiano accolto da A., vale a dire quello del
«sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia», considerato nodale
per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza motivo, Berardi
riassunse la teoria della personalità dell’A. come una «traduzione del
sintetismo di origine A., Commemorazione del primo Centenario della nascita di
Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola.Tra le altre, offrì la sua collaborazione
alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da Papa.
Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 65. 35 Giovanni Calò
sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia della personalità»
G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, Commentando un breve
intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho
osservato come «l’A. individua nel concetto di unità la forza del pensiero
pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della
metodica, ma non va oltre tale precisazione» Cavallera, Rosmini nella Pedagogia
dell’Ottocento, Come conferma Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di
orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine ontologiche (già in
gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del sintetismo degli
esseri» Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico pedagogico di G. A.,
«Rivista Pedagogica» In merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei
lavori più precisi ed elaborati sull’A., ha osservato: «Nella dottrina
pedagogica dell’A. la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che
necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il sintetismo
universale”» V. Quarello, G. A., studio critico, Lanciano, Carabba] rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di A. emerge tuutavia anche una serie di differenze con il
roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore
piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al
quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si
tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di
scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già
Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del
Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini,
recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in
Italia sottolineava la dissonanza tra l’A. e il roveretano41. Questa
precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici,
denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’A. non fosse
considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità.
La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del
vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La
maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano
nei primi lavori dell’A., in specie nei Saggi filosofici, con chiari rinvii
all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno
seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema
del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo
ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della
pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti
positivi, A. sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il
Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per
qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in
Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di A., «Quaderni di cultura e storia
sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra
l’A. e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo
Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’A. porge maggiore
rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio,
ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe A., 67. 41 Scrive il
pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia
è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe A., che se non
professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora
colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche»
F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di Ottonello), 38. 42 Scrive:
«Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si
aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I
lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri,
desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma
un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla
mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere degli anni ’70,
quando il sistema dell’A. si consolidò, il vercellese si discostò
esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera
in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il
problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla dottrina
dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia
l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà
infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro
attinenze». Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo
noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in
Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, A. contesta inoltre la teoria secondo
cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo.
Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed
indeterminata, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la
gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia
neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi
psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In
che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il
cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto
parmi intricato, inconsistente, incerto!». E poi motiva: «Il concetto
psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima
umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori
di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto,
siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il
principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto
nelle intellettivo». Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà
un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La
valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’A., è confermata
dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo
proposito, sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano
ortodosso, che stampò due severi pamphlet contro l’A.. pedagogia, e crede che
addestrando in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe
teoriche, all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e
svariati lavori parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero,
coll’intendimento di ricondurli all’unità della scienza» A., La pedagogia
italiana antica e contemporanea, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano
Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. A., Il problema metafisico studiato nella
storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia
reale, 1877, pp. 35, 46. 44 47. 45 G. A., L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia
Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. A., Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del
Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62; 31 Nel
1883, pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione
umana difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha
dato G. A.. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima
nella sostanza»48 la critica mossa da A. riguardo lo sviluppo della mente
nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di A.contro la
percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49, nel quale
contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto sulla
filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e
intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il
quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima
risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove A.
confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo 1887,
sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra A. e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due
testi in cui l’A. trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il
brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso
articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria
«Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare
tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio
Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso
commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato dall’Accademia
degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La teorica
rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro De
Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe A.,
professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De
Nardi, Due sillogismi di Giuseppe A., Professore all’Università di Torino,
contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini
esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio
Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T.
Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. A., L’uomo e il cosmo, 417-418. 51 G. A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, A. Antonio
Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32 Nel suo intervento A.
riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando
l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo
principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i
principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera,
efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che,
secondo A., intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla
risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione
speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, A. volle sottolineare le
differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un
consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma
con limpidità la volontà di A. di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il
secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di
approfondire le idee di A. circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa
notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi
discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte,
Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica
del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del
roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano,
parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e
l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta
dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato
dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità
e l’intelligenza». A. trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la
parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, A. preferisce mettere
l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è
subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è
poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la
scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione
primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice A. - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini. Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine
filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera
e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. A.,
Antonio Rosmini, 8. 57 Ibid., 9-10. 58 10. 33 A. dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo
pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità
dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato
approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata
riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. A. riporta
senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo
spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le
cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le
distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento,
commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa
all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». A. fa notare
come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e
dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà
del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto
sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che
spesso si insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio
delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere
integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il
contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti
giudicato eccessivamente statalista, l’A. contesta al Rosmini l’affermazione
secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59
12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io
non convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può
andare disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità
senza varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è
sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario
nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose.
Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad
un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché
riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze,
che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e
formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. A.,
Rosmini, «Però in riguardo alla dottrina
del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro
spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine
oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi
hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro
non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza.
Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura,
sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più
conforme a verità l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel
mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno
coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che
quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore divino, ed
inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo
interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione efficiente» «Il Rosmini, intento, alla legge suprema
direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i momenti successivi,
per cui progredisce e per cui va condotta la mente infantile, il Pestalozzi in
iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli una proposizione, che di
presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso col tempo» 29.
34 da suo capitale difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore
parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non
debba tener conto delle singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non
vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai
sempre lo spirito informatore della famiglia e la personalità individuale di
ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone
singolari, non questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una
serie di considerazioni positive. A. considera di vitale importanza il
contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo
e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo
realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il tentativo
di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle facoltà
umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo
apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. A.
scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il
metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole
nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia
culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni
della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo
filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il
carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea
l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono A.. Tra questi
esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente
alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una
filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del
pensiero di A.. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo
teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il
Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza,
amore di Dio, e 63 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente
spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è
lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica
la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che
riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo
corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Trattando
del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva:
«Un secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo:
“prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione
precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento,
che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Sull’influenza del
Bertini sull’A., Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più
completi e attenti sulla filosofia dell’A. scrisse: «L’influenza del Bertini
sull’A., specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero
dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro»
V. Quarello, G. A., studio critico, 62. 35 quindi il Primo
enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre
che il Rosmini, proprio al Bertini, A. dovrebbe la fondazione del suo sistema
filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. A. condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono
riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo
citato, A. sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della
filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia
perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per
cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la
narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e
connessione. L’unico appunto mosso dall’A. al Conti riguarda la questione degli
universali71. A. fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e
dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non
così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante
diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe A., «La Cultura filosofica», n. 5,
Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea
l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea
di una filosofia della vita del Bertini, che ad A. era parsa un’opera
provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva
esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della
creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli
enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari,
Giuseppe A., Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il
criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia
fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi,
e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella
verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico
nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone
il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e
nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della
verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. A.,
Saggi filosofici, Milano, Gareffi, Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al
concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e
più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica
ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri
argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia
scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come
parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere
astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i
sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e
dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal
reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla
protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., soprattutto ai positivisti e
agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il
principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi
sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal
finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel
Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. A.
raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie
dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di A. fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. A. lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, A. oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un
«pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine
«organismo», al quale A. preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. A.,
studio critico, cit., A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli,
1868, p. 42. 74 G. A., Saggi filosofici, 30. 75 «E dirò che, con il Krause e
con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’A., nella sua
opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. A., studio
critico, 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente,
fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si
possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà
personale, che crea il mondo degli spiriti personali» 82. 77 H. Lotze Principes généraux
de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A.
Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si tratta
di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische
Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung,
1852. 78 G. A., Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. A., studio
critico, 29. 37 Altri autori hanno sottolineato il ruolo del
vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò
«più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in
seguito emendato82. L’opera dell’A. è anche segnata dall’opera del Naville, a
cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere
l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come
per molti positivisti. Nella voce sull’A., presente nell’Enciclopedia
Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta A.
perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il
vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno
infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il
concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di
esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In
sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi
apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia
preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di
Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo
italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione
nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito
alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento,
Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e
l’A. poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile
negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi
dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., Prato,
Tipografua Carlo Collini, Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p.
262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193.
84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, Nel testo già citato Della
pedagogia in Italia ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le
opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che
tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il
carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino
da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la
preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità
personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come
spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e
finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza
siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente
vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui
l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per
una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona
umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria
e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione
di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale
dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita
vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù
cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per
lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non
vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza
Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e
con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione,
il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana.
Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea
mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola
spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di
Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» A. La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 158. 38 filosofia greca86. A. era convinto che fosse
una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo,
considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano.
I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui A. affronta i problemi più
specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a Giordano
Bruno e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo. Non si può affermare che su
tali questioni il contributo di A. abbia avuto una reale originalità. Lo
studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli
permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica»,
com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata
oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’A. come la Quarello89 e
Mazzantini90. Sebbene il contributo di A. non abbia apportato novità rilevanti
nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo
pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il
momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità
e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza
de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti
antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del
problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa
trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che
strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un significato.
In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo
di «rendersi ragione di questo 86 G. A., Studi pedagogici, Torino, Tipografia
Subalpina. Accusato di nazionalismo, A. si difese: «Noi siam lontanissimi
dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che
anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è
universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna
essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece
propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente
e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome
ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi
entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese
origine» A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 14. 88 V. Suraci, A. filosofo e
pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi
della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto
di Studi Filosofici», Roma. A., Saggi filosofici, 284. 92 G. A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 5. 39 gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che
non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta
del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, A. rileva come la crisi
della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi
consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo
giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore
veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti
nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari
disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio
(kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo
alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino
ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, A. sollecitò in coro
con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La
filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando»
e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era
considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno.
Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle
origini della filosofia contemporanea, inserisce l’A. tra i «mistici», cioè tra
quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà
«esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e
spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in
modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di A. è
«una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e
approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia dalla scuola ionica a Bruno, 2-3. 94 G. Gentile, Le origini
della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 95 V. Quarello, A.,
sudio critico, 20. 96 «Il sintetismo dell’A., dunque, non vale più dell’ordine
del Conti. Anche per A. basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare
tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero
con l’essere, per A. è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo?
Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il
sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza
opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno
essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia
per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 40 Il filosofo
siciliano riconobbe in ogni caso in A. «una certa inquietudine circa la
saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica
hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di
fronte alla tesi idealista, A. reputava l’accettazione dell’essere come l’atto
più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione
«misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è
la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o
rifiutare, non si può dimostrare. Secondo A. la filosofia trova il suo
fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista
sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle
cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere
solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali
il fatto che stando all’A. il ruolo iniziale nel ragionamento risiede
nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un
pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la
constatazione dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di
norma si valuta e si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico
che si interroga sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il
pensiero speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’A.,
la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità». Osserva
a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano
misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed
individua natura» A., Saggi filosofici, In un brano molto significativo, quasi
replicando a tale obbiezione, A. enuclea la sua concezione del mistero: «La
ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo
ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una
proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si
comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo
affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto
accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione
umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» A.,
Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 41 A. identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base
della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama
anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa
essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero
e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da
Rosmini. A. ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati
i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e
dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che
vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme
di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo A.
sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con
esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il
«Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della
sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero
con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha
considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io
nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema d’A. è proprio qui,
in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione
puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il
sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività
della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione”
fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’A. non ci spiega il come
dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di
una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da
essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica» Il principio della personalità. Suraci spiega
con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza.
A. nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non
vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto
dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata,
distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione
comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale.
Dialetticamente la mente umana, secondo A., non fa che “discorrere dalla
cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa
o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice
ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del
movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini
nel n. 701 della sua Logica, al quale A. si attiene, citandolo spesso nel corso
di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, A.
filosofo e pedagogista, 158. 102 G. A., Saggi filosofici, 3. 103 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di A. alla storia del
pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza
pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva
prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e
illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo
principio, A. affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la
specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda
«chi è l’uomo?» A. parla della persona come «una mente informante un organismo
corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la
mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il
corpo è animato, l’anima è [A., Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino. Torino, Tipografia degli
Artigianelli. Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui
già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era
balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione
universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base
della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel
centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole
filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel
mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme
composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di
armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto,
poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità,
non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo
principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle
mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la
mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di
anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine,
l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che
inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili,
senza uno spirito che li animi e li illumini»
«Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana
educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il
concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in
esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. A., Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del
Collegio degli Artigianelli, Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista
piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive
sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche,
acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua
idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta
considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare
una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi
pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’A. ha già disegnato
soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di
Giuseppe A., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Calò, Dottrine e Opere, 261-262. 110 G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina] incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è
personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità
complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una
prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio Mazzantini
ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto rivela l’uomo a
se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo interpretativo della
realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114. Su questo versante, è
stato osservato come il principio della personalità sia imprescindibile dal
teismo di A. Per il vercellese, infatti, il concetto di persona trova la sua
ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la Persona infinita116.
In una radicale e metafisica indagine antropologica, A. individuava la
questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più
comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è,
se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza
debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di
questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel
saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che
[A., Appunti di Antropologia e Piscologia, 3. 113 G. A., L’uomo e il cosmo,
cMazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi Ha scritto in merito Suraci:
«Il principio “personalistico” serve all'A. per affermare senz'altro in sede
pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando
si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione
sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere
la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista
ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il
vero significato della pedagogia dell'A., nella quale convergono con ricchezza
di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti
i temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della
educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità
dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo
dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la
pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto
dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine
supremo della sua esistenza”» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, La
coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la
scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto
il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita
divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali,
che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più
selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale
infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con
un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione,
la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. A.,
Sulla personalità umana, Torino, Fina, reputava nocivi a tale principio118.
Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che
disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il
fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate
dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita.
Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona
nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume.
Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento
del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del
costume, A. si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a
conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a
norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della
filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo A. la mente non è quella degli
idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei
positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad
un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della
mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro
relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che
compongono l’uomo 121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta
«collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita
materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può
essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una
sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo
rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la
persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti,
emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità. L’uomo è
siffattamente costituito, che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva
congiunta coll’universo corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i
tre supremi attributi costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si
svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla natura, fuor della quale
rimarrebbero atrofizzati» A., L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, La
natura e lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che
siffatta unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale
distinzione fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La
distinzione esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le
sostanze sono corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo
interiore la sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono
facoltà o potenze. Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi,
malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza
de’suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé,
questo dominio di sé manca alla natura» A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, A.,
Studi psicofisiologici] fisiche. Come osserva A.: «il punto più spiccato che
distingue questi due mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che
l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124.
Negando la natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona
sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della
sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia
organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda,
un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme composti ad unità
di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un composto di
molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni
problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi
aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per
il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto
della natura. La persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo
all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione
irraggiungibile per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di
sottolineare il primato spirituale lo portò il docente piemontese a criticare
in una serie di lavori la definizione aristotelica dell’uomo come animale
politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica coeva, A.
non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si
rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo
evoluzionismo, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole
di A.128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della
persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché
scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia,
parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte» A., L’uomo e il cosmo.
Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo
capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta
ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice
nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne
sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la
ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la
prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non
sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare
«all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un
disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente
sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo
spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» A/, Della vecchia e della nuova antropologia
di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti,
1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco
istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro
delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé
ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 46. 129 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece
compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli
aspetti irriducibili al divenire determinato. A. richiama all’osservazione
dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo
inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé
e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta
alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se
medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che
esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o
meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io,
poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente,
qual è la persona»130. Nella visione di A., l’affiorare dell’Io, diviene così
la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso
solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il
ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente
identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è
dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della
materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare
interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto:
chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della
individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della
coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente
in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133.
In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza,
mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua
propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività
volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua
in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134.
Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino A.,
Sulla personalità umana, 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé
a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io
sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza
effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva,
semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di
pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» A., Il ritorno
al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino i«Lo
studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente
in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede
della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza
conoscitiva e l’attività volontaria» G. A., Sulla personalità umana, 16.
134 55. 47 cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza
rispetto al resto della natura135. Con altre parole, A. osserva: «Dovunque c’è
la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là
vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca,
ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora
di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la
materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è
irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo,
infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva
simile, per A., è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua
unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help,
tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, A. scrive che
ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio
operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore
costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non
fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio
l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare,
l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non
fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini
obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135
«La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto
dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e
la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è
tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati,
sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria
individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una
sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio
supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto
compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di
volere» A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo
nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo A. l’attività
volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente
della vita umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio
pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il
lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è
una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza,
essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di
sé» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 8. 138 «La coscienza è la
rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella
sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo
essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana,
vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera
volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del
loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana
si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. A., Studi
psicofisiologici, 74. 139 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 47.
48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta
una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e
pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un
dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare
contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. A.
dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella
corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due
nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso
egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata».
Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra
loro. Come premessa a questo problema, A. scrive che «nell’uomo non vi sono due
esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni
animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare
una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i
positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va
distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli
organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è
un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore
supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della
relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere
di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen.
Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata
duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la
vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola
materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo
due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza
vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni
fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per A. l’uomo è «La persona,
sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è
l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi
fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e
comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le
rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime,
spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora
da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata
di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame
e compie il suo lavoro speculativo» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 10.
141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» 10. 142 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 14. 143 G. A., Studi
psicofisiologici, 26. 144 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo,
Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., A., Studi psicofisiologici,
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita mentale,
ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. A. chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come
Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente
al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano
ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola
fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e
l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana
la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. A. trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. A. si
poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati
fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico
quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è
pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme
armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che
apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere
sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di
A., che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e
spiritualismo teistico: tale è la filosofia d’A.. È realismo in quanto il
pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in
quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 72 147 G. A.,
L’uomo e la natura, A., Studi pedagogici, A., Studi psicofisiologici, A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 14. 50 spiritualismo, egli scrive,
proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona
(“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo
dell’A. trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte,
infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e
dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo
spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese -
lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali,
che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare A. al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo
accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal
materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153.
I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo A., la pedagogia deve fare i conti con
la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. A.
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per A., l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello,
A., Studio critico, A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 8. 153 Pedagogie
personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p.
15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la
Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte.
Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché
ideale tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una
teoria speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi
pedagogia pratica» A., Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la
scienza pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica
dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una
dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla
scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza
pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero
dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» A., Concetto generale della storia
della pedagogia, Pavia, Bizzoni, A., Studi pedagogici, A., L’uomo e il cosmo,
1. 51 prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto
per la teoria quanto per la pratica educativa158. A.colloca l’antropologia al
centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo
nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona. A. non pensa
all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo»
connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo,
discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione
individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che
studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri
due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della
mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo
gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia,
anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che
riguardano l’uomo sociale sono secondo A. la politica, la giuridica, l’economia
pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la
filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia,
che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo A., la
prospettiva sulla natura e il senso della persona, permea le possibili
soluzioni avanzate riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue
prospettive, il suo sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico,
vuoi artistico, vuoi religioso, cova in sé un problema antropologico»161.
Questa relazione è ancora più evidente per quanto concerne la scienza
pedagogica, con la quale l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo
studioso piemontese, infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia
nell’affrontare dei problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava
necessario il contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e
integrare la ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia
filosofica poiché necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo
presuppone la conoscenza dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza
dell’educare e la didattica o scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento
nell’antropologia, o scienza che studia l’essere umano» A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 3. 159 A. sostiene che l’antropologia studia «l’uomo
nella sua intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza
complessiva del suo essere» A., Studi psicofisiologici, Cfr. A., Appunti di
Antropologia e Psicologia, A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, 4. 162 G. A., Studi pedagogici, 39. 163 Nel seguente brano
elenca le discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia
generale, che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità
della sua persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà
della sua natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata
siccome la teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il
Buono, norma ed oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una
spiegazione scientifica del mondo; 6° la metafisica, 52 la natura e
il fine dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di
ricerca «tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali
attinenze della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della
personalità è il fulcro dell’opera d’A., l’antropologia è il centro della
pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla
cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome
dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di
ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse
e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina
traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti
antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il
sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa
sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni
dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù
peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si
possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua
educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la
conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra
intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se
stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico
serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano
entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli
scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla
distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un
oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza
antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto
suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo
nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo
della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa
è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che
l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da
questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le
due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini
inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e
necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo
in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino, A.,
Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana»,
Asti; A., Delle idee pedagogiche presso i greci, A., Opuscoli pedagogici, cit.,
1909, p. 10. 53 la ragion sua ed in ogni punto del suo processo si
regge sui principii supremi della scienza antropologica»168. Per fare pedagogia
occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica dell’origine, della
natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del fatto che nella
temperie culturale in cui A. sosteneva queste posizioni, porre l’antropologia
filosofica a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà, soprattutto quando
essa era collocata entro un contesto metafisico. Porre il baricentro del
discorso pedagogico sulla questione antropologica, era considerato da A. come
la risposta emergente ad una problematica educativa reale. Si trattava di un
problema radicale che faceva da discriminante tra le varie teorie. Le risposte
alla questione circa la natura dell’uomo, non erano infatti da considerare
secondarie per la qualità della relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le
virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol
educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla
predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni
naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O
l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici
che lo spiritualeggiano per intero, mentre i materialisti lo
abbruttiscono?»170. Per A., si trattava di domande impellenti. La pedagogia
esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai essa reclama un
supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad
unità di organismo potente la sua squilibrata compagine e le additi l’ideale
suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda
circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata con gli strumenti
epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere l’essenza della
persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la prima
interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua era
una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio essenzialmente
vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta nella personalità
dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola esperienza disgiunta dalla
ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna la realtà dei fatti, bensì
entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in armonia coll’altra» A.,
Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino, A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen. Stando a Calò, uno dei punti centrali
nell’opera dell’A. è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza né
quelle della ragione; ecco, secondo l’A., il primo canone del metodo
filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del
misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della
persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale
non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di
persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. A. non portò sostanziali
novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica
spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico.
Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli
lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica
(quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che
si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente
per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere
distintivo della pedagogia d’A. è l’idea della specificità nazionale della
pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia
del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una
consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica
nazionale», non senza motivo diverse volte citato d’A.. I. 5. L’educazione 174
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico d’A., 8. 175 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Spiega A. «La pedagogia è la
scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente
educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia
dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza
ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale.
Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono
in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù
o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua
intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che
cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual
concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è
l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di
lui?» G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 245-246. 177
G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cIn più
di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che
egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione
adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava
l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della
perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione
adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori
menomata. Tra i fondamenti pedagogici di A. si colloca questa massima: «Sul
sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte
dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il
docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona
senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se
stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa
allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla
coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui
dell’educazione, A. si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica
enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità
rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate,
Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo –
personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro
considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, A. sostiene
il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione
efficace185. 178 G. A., Studi pedagogici, 21-22. 179 «L’opera educativa si
modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo educhiamo, e
per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla sopra una
dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura originaria
dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo della sua
vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di perfezione,
a cui intende sollevarlo» G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, G. A., Studi pedagogici,
67-68. 182 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 68. 183 G. A., Studi pedagogici,
106. 184 109-112; 185 L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le
facoltà della persona «Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo
colla natura fisica circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui
appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo
spirito proprio del tempo, è una verità già riconosciuta e proclamata dalla
pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una monade solitaria ed isolata,
chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì abbisogna della convivenza di
altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo
esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua, che non può essere
sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una libertà interiore, che
gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non
quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una
vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se
medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe mettersi in conformità di
accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in concorde armonia con sé stesso;
non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande organismo 56
Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione può essere analizzata
nella sua molteplicità. A. parla di un’educazione fisica, intellettuale,
estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo
sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna, guidata da modelli
valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione
della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo la
tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, A. ricorda come l’interiorità
della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed
eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono
governati da leggi come quella di associazione, simultaneità, successione, e si
fondano sulla dinamica delle potenze umane, tratto tipico della pedagogia
rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche e in spirituali o mentali189.
Compito dell’educazione è di sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza
umana si esprime come desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo
attraverso cui l’uomo può essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. A.
considerava necessario offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione,
senza discriminazioni per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In
questo senso contesta i positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di
occuparsi dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli
Opuscoli Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i
nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui
mezzi con i quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre
nazioni europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa
nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale
influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale
della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente
della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 19-20. 186 «Sentire,
intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici si
raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono
cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un
pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o
dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e
sono oggetti di osservazione interiore» 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro
natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi
deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui
compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma
come condizione soltanto, non some causa» 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i
fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme,
affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme
potenze umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà,
intendendole con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la
sensazione animale, quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci
tanto la percezione o fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la
facoltà spirituale della volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e
con essi collegata» 12. 190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze
della nostra vita fisica, così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale
i beni, che le sono proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del
Buono, e vi si sente portato da naturale istinto, il quale viene così a
distinguersi in intellettivo, estetico e morale» 29. 191 G. A., Opuscoli
pedagogici, 94-97. 57 diversamente abili, A. parla di «storpi», non
abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione
che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone,
qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito,
anche se ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di
ciascuno. Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di
corpo» dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer
a’ di nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili,
dei poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli
inetti a spese dei capaci degli operosi»193. A. considera questa prospettiva
come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il valore assoluto
dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano», non
«producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema economico.
Secondo A. solo il riconoscimento della dignità suprema dell’individuo permette
il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione. Dimenticata la persona
nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque
il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del principio della
personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore dell’istruzione
e dell’educazione delle donne. Anche per l’A., come per molti altri studiosi
della seconda metà dell’Ottocento, era necessario concepire l’educazione della
donna in armonia con l’ufficio della maternità e la cura della famiglia,
compiti a cui secondo il pedagogista la donna era naturalmente destinata. Dopo
aver difeso il ruolo della donna nella famiglia, spiega: «Né altri di qui
inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto della casa il suo genere
peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi giorni solitari, ignorante,
incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede per natura tutte le facoltà
costitutive della specie umana, a cui appartiene; epperò ha, quanto l’uomo,
diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto della dignità
umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se abbia da natura
sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche felice attitudine al
culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione sociale, chè non
venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è chiamata nel
santuario domestico»194. A. reputa che sia necessario offrire un percorso
educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver analizzato
le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli dell’educazione solo
per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare sotto 192 G. A., G. G.
Rousseau filosofo e pedagogista, 160. 193 G. A., Delle idee pedagogiche presso
i greci, 113. 194 117-118. 58 silenzio, che in questo eletto lavoro
pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e
civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie
donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile.
Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al
cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione,
per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più
modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’A. sembra innovativo
rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna inoltre, in quanto
persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno. Per questo motivo
critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie totalmente asservita al
marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere la schiava né dello
Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della scuola deve anche
essere in armonia con quella familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma
dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere come modello
l’istituzione familiare. A. sostiene la necessità di una famiglia generosa,
laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio, considerata
isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora alcuni stereotipi
sul sesso femminile. A. parla di un’inferiorità fisica197, e sostiene che
«nella donna il sentimento e l’affetto predominano sull’intelligenza e sulla
volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa caratterustica
femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di sottomettere la volontà
alla ragione199. Secondo A. la durata dell’educazione abbraccia tutta la vita.
L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di
se stesso è costante200. È tuttavia vero che la vita è composta da diverse
fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative. A. contesta cesure nette
nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884,
p. 222. 196 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 159. 197 «Insegna la
fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più robusto nell’uomo,
più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di struttura deve
naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche del sentire e
del muoversi corporeo» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 16-17. 198 «Essa
pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più che non la
mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza avvolgerla fra le
tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed intiera senza
dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e riconosce Dio
come un bisogno del cuore, anziché come un principio della ragione; posa il suo
pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge alle aride
astrattezze, alle generalità trascendetali» 17. 199 «Venendo alla volontà,
anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento, nell’uomo procede
a tenore della ragione» 18. 200 «L’educazione comincia colla vita e mai non
cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza;
però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse
età» G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 33. 59 La vita
non può essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è
graduale e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto
l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come,
l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il
taglio della sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza
è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione in A., vale a dire
l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto
esiste è armonia, appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e
reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto
dire essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze
del corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune
annotazioni sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende
alla sua libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di
questo aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà
ridurre l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza,
non chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’A. riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto
alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla
sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano.
Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il
più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto
assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare
dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione
umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla
mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si
dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel
suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della
natura Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo
il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che
giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina.
Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già
né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi
diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del
volere e del sapere»203. 201 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 202 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 34. 203 155.
60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione
dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di
una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente
alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed
il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata
per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione
dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di
altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, A.
individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si
regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto
sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che
l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti
intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro
principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia
rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano
riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono
a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo
dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola
del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto
educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza.
L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando
l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al
discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non
dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli
sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare
nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206. A. riprende la celebre frase
di Plutarco che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il
vero imparare è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della
verità scoperta e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un
accendere la scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della
riflessione. La parola del maestro riesce all’alunno necessaria in quella
guisa, che ad un seme l’aria e la luce esteriore del sole, il quale destando la
virtù sopita in esso lo schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare
le sue forme. L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile
abbandonato alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204
G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 16. 205 17. 206 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 83. 61 della scienza non
conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito,
eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce
armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare
nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se
stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità
umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di
conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase
della Marchesa di Lambert citata dall’A. nello Studio Storico critico di
pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande
scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre
l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua
interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò,
secondo cui l’A. puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un
movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». In questo
«stare in sé» l’uomo scopre una dimensione infinita che lo interroga, lo
spiazza. La persona sente in sé il richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui
si sente inesorabilmente legato: «Dovunque si muova l’educazione trovasi in
faccia all’infinito sempre, perché l’educando è persona finita sì, ma che pur
si muove e gravita verso l’infinito». Su questi presupposti, A. è convinto che
non si possa negare l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto
dell’intelligenza, e dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la
personalità finita dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità
infinita di Dio, e trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua
cagione efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi
questi riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità
dell’uomo, l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo,
che nega all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una
medesima sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è
negazione della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui A. riprende
un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come
«quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 84-85. 208 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, 25. 210 G.
A., Opuscoli pedagogici, 31. 62 ciascuna natura umana»211. Con
questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità
del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e
l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale
relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del
carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’A.: «l’uomo di carattere è colui,
che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e
conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. A. definisce l’educazione del carattere
come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore
spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto
verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè
sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita
operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e
ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé
l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa
mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale,
religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del
corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione
deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto
le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima
infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della
formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire
esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. A. considerava il rispetto e
obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non
riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. A., L’uomo e il cosmo, G. A., Studi pedagogici, 336. 213 G. A.,
L’uomo e il cosmo, 357. 214 «La formazione del carattere è opera nostra,
sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio dell’arte
educativa» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 50. 215 G. A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 4. 216 G. A., Studi pedagogici, 322. 217
G. A., Opuscoli pedagogici, 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì
come per incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che
sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e
progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera
concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo
periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della
gioventù» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 91. 63 soggetto219.
Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere liberamente il
dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine morale»220. Per
un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e
seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel
fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé,
nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa il supremo,
altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto
educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua individualità
personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo
maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima
opera dell’A., datata 1913, è dedicata allo studio comparato tra Giobbe e
Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del
secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui che nonostante le
circostanza si spende per la verità. Osserva A.: «L’operosità della vita,
perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in noi la
coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo, il
sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito
pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile
costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di
nobile, di sacro, di divino»223. L’A. critica la riduzione dell’intervento
educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia
spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo
positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione
all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e
quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come
premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di
insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo
proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da A. riferito ad
una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre
Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È
mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni
Rugiu: «L’A. ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre,
d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine
libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la
formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse
norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a
lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi
sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale
dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. A., Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico,89. 221 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 222 G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10,
1930, p. 687. 223 G. A., Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina,
1912, p. 41. 64 alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che
possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard
rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad
essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e
due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le
parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi
dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo
al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di
apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del
carattere. Anche su questo punto A. esorta a distinguere ma senza dividere.
L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore»
che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va
riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta
alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei
criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al
positivismo Una parte considerevole delle opere di A. è destinata alla critica
dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, A.
addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava
la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi
sistemi, anche negli altri saggi di A. appaiono frequenti incisi polemici
contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e
polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del
pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due
correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con
il principio della personalità, svolto dall’A. in tutti i suoi aspetti, il
motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo
alcuni studiosi A. avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un
atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un
gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’A. all’hegelismo e ai
suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo,
riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati
effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. A., Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 89. 225 G. A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, 261. 226 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 6.
227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 4. 228 S.
Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14,
1921, p. 9. 65 qual è il significato storico dell’A.? Niente di
meno ma niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo
scientifismo, senza che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una
critica analoga gli venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera
di A. toni duri, se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose
non solo alla pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In
molti saggi mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono
spesso risolute e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va
riconosciuto che le critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e
suffragate da una conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’A.
non fa mai la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso,
quello di dimostrare e di salvare certi principi e certe verità
filosofiche»231. All’interno del lungo itinerario delle opere dell’A. possiamo
distinguere due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in
particolare sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente
del positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla
pedagogia e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, A. notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò:
«Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto
opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il
positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della
scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi
esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. A., peraltro docente in una
sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto
con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si
concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici
(1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame
dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente
dell’A. si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e
sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede
nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per
la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira
a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue
eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le
contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe A., 8. 231
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 447. 232 G. A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 3. 66 Alcuni cenni polemici contro
l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e
l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873),
L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo
spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia
(1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni Sulla personalità. Il testo in cui espone in
modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza
e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233.
L’opera fu scritta in occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che
chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche
conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel nella morale, nel
diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che vinse il premio, fu
poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’A. delinea l’origine dell’hegelismo,
mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista
enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad
Hegel. A. ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per
aver salvato la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo
fosse stato la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu
quello di disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza
dell’essere. Egli perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò
sull’affidabilità della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del
mondo. A. osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori».
Così Kant aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato
segregandolo dalla realtà oggettiva»235. Osserva A.: «Scienza assoluta intorno
il pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due
poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima
domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su
salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli
sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui
Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la
scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere
il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli
sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la
pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831,
la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant
si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E.
Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, 56. 234
G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 22. 235 31. 236 29. 67
assoluto di Hegel, che secondo A. non fa altro che trarre le nefande
conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se aveva portato Kant
allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io assoluto, origine e
creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che chiamò in un altro
testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo fuor di misura il
potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del sapere, e finirono
collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua, confondendolo col
massimo degli universali»237. Nel saggio A. dedica diversi capitoli a questi
passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e Schelling. In ultimo affronta
in modo analitico la figura e la filosofia di Hegel, introducendo il suo
pensiero con un’accurata esposizione della vita, oltre che un’analisi degli
apporti e delle influenze che ne condizionarono il pensiero. Successivamente,
ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi articolata. A. parte dal
concetto generale di filosofia, quindi affronta il metodo dialettico, il
concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi tratta della Logica,
della filosofia della Natura e infine della filosofia dello Spirito. In
conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo. Il seguente brano
compendia la critica di A.: «Il nome di Idealismo assoluto con cui viene
designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne compendia il
contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea assoluta, od in
altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto è un
esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac
tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea
essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale
spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime
essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo
siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale
delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto,
diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso
trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi
Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238.
L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose
antinomie ed epicicli, elencati dall’A.. Il pedagogista fa notare come Hegel,
mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel
riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, A. ripropone la ragionevolezza
del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e
supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. A., Sulla personalità
umana, 18. 238 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’A. come legge della filosofia, «v'hanno cose e in
cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, A. definisce Hegel come uno
«spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi
rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva:
«La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà
va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione,
e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro
cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non
fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di
astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi
l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha
sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le
mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla
virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’A. una
conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista
vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto
nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il
Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta
e serrata»245. Anche per altre teorie, A. non bada ad una erudizione pedante
sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue
principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni
lavori dedicati all’idealismo, A. diede largo spazio alla critica del
positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 143. 240 G. A., Saggi filosofici, 6. 241 372.
242 G. A., Antonio Rosmini, 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia
contemporanea in Italia. I platonici, 370. 244 V. Quarello, G. A., Studio
critico, 128-129. 245 V. Suraci, A.filosofo e pedagogista, 84. 69
di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del
rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio
Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo
sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia
incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla
cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino
rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247.
A. individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio
politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico
dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del neonato
Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale egemonia e
non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito iperdemocratico, che
nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47 appena s’intravvede
indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più spiccate e concrete, e
fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il campo. Esso novera potenti
ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono i principii dalle
cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle officine della
pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo è l’umanesimo
sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la critica, dacché fu
inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze maggiori che mai. Essa
si pose ad abbattere il principio di autorità nell’ordine del pensiero e della
vita, a dissolvere le credenze morali e religiose dell’universale, a minare le
fondamenta di tutta la dommatica del cristianesimo, a snaturare l’indole nativa
e tradizionale della filosofia italiana»248. Nonostante il peso del positivismo
fosse riscontrabile già nei citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che
ai positivisti fu concesso quello spazio privilegiato col quale poterono
diffondere le loro teorie e avere una inaspettata diffusione. Come denunciò A.:
«Ai seguaci e promotori della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la
pienezza de’ suoi favori, e sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249.
Se i capi scuola europei del positivismo meritarono, da parte dell’A., delle
analisi approfondite e alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli
epigoni italiani fu molto severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici
ripetitori di autori più organici come Spencer, Comte, Bain. A. si limitò ad
affrontarne in modo sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio
La pedagogia italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso,
L'interpretazione rosminiana di Giuseppe A., «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p.
152. 247 N. Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la
cultura italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 161-162. 249 168. 70 esse il pedagogista si
lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie
di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è
considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene
definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che
ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori.
La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di
Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone
inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di
linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di
espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme
della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del
principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione
pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal
combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e
instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione
sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani
l’A. denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti
l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa
di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253.
Stando ad A., questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità
la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né
materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e
lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma
non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il
suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri
autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva
sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece
con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo
Cristiano 250 169. 251 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla mente
dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre tendenze,
contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P. Siciliani,
Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste righe contro il
sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato il vessillo del
positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una celebratissima Università
italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima, con cui altri muta
di dosso i panni a tenor della moda» G. A., L’educazione e la scienza.
Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, Torino,
Marino, G. A., Opuscoli pedagogici, 122.
254 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 177. 71
Bonavino, di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un
testo fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’A.
restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255.
Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano
sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione A.
lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà
intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto
sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose
opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione
dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e
sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico
(1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata
critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico
1881-1882, A. annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a
combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della
scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle
lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali:
nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i
fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed
educative. A. identifica come causa prima del positivismo, la stessa
dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la
modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la
sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si
dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e
pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una
nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla
negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo
senso, si oppone a qualsiasi 255 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, A. riporta una critica fattagli da
Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il
professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi
difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo
assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo:
io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver
letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado
la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io
ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e
superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà
Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. A., L’educazione e la
scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
15. 72 considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione
assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista
vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto
conto, che A. riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della
metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca
empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il
merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere
materiale. Tuttavia, A. individua proprio nell’euforia per gli esiti della
tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche:
«esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di
tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i
suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle
sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la
sostanzialità delle cose»261. A. ricorda come il metodo sperimentale non possa
racchiudere tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti
conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti A.
scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come
alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla
vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili.
Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo
indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre
erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione
che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme
idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i
vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed
interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci
sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua
vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale
non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo A.,
l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa
scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di
una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in
quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo
scientismo, 259 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 13. 260
10. 261 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 14. 262 14-15. 73
infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che
fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti
un discorso propriamente metafisico. Scrive A.: «Dicono infine che, seguendo la
dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono
foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti.
Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente
con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché
questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e
la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla
formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si
autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo A., la costruzione di
un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che
travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che
si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i
positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero
«liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di
non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta
antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa:
«Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla
materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del
sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e
naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze
della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare
che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre
tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione
sensibile»264. A. giudica la posizione gnoseologica dei positivisti
fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile
dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed
assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se
stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo
scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della
critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime
verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265.
A proposito di tali nefande conseguenze, A. ebbe modo di criticare il
Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. A., Gli evoluzionisti e il
metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp.
305-306. 264 G. A., L’uomo e la natura, 17. 265 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, 9. 74 sosteneva che è sano solo colui
che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo più un
riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266. Inoltre
il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in quanto
se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e nasce da
questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la valutazione
delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto della
determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità
quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in
cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e
così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene
l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia
ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la
presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza
del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è l’esistenza
della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può attestare la
sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi positivisti la negano.
Se l’uomo non è più libero, si chiede A., come lo potrà essere la scienza?
Inoltre ad A. pare pretestuoso l’uso della scienza contro la metafisica e la
religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro natura la metafisica,
rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che non lasciano più
luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo,
può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo, senza punto
rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga l’esempio di
Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del
positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene snaturata. La
negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla scienza dell’uomo,
poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il positivista non
può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona non può essere
raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive A. «Colla loro
antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a
scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito
umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un
fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile.
Occorre, stando ad A., sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il
positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri
individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. A., Studi
psicofisiologici, 29. 267 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia,
304-305. 268 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 16. 269 G. A.,
Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 6.
75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva A.: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’A.: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 271 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 243. 272 G. A., Studi pedagogici,
13. 273 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società,
13. 274 12. 275 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 58. 276 G.
A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 315. 76 Il
filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico.
Scrive ancora A.: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione
di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un
buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’A., secondo cui l’uomo
è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino
dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di
specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo
costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo,
non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo
giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale
della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del
positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si
viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche
dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si
manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco
istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare
esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere,
sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci
differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo
corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona
sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto
al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non
è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità
sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a
nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia A., portano ad
inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in
fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran
legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una
importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si
lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere
che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace
pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura
dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e
soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon
animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 322. 278 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 28-29. 279 G. A., Opuscoli pedagogici, G. A., Principi fondamentali di Scienza
Pedagogica, 680. 77 Invece la persona è quella briciola
dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò deve essere educata. La
persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo ad animale compromette
la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di male e la responsabilità
personale. A. individua le conclusioni di queste premesse nell’opera di
Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua psicologia riguarda la volontà
quale una evoluzione dell’istinto fisico ed assoggetta perciò l’opera umana ad
un fatale e necessario determinismo, in cui i fenomeni psichici si succedono
gli uni agli altri con un intreccio indissolubile. Torna quindi inutile, anzi
contrario a ragione, il pronunciare, che siamo moralmente tenuti a compiere le
azioni per noi vantaggiose ed astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal
nostro libero volere, ma sono per insuperabile necessità predeterminate le une
alle altre»281. Si tratta di una posizione con nefandi corollari morali e
pedagogiche. «Rigettando la libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare
ogni ragione di responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un
principio, cadono tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario
spesso negato dai positivisti. A. ben evidenzia questa contraddizione e osserva
«parlano della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di
promuovere lo sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla
libertà di pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il
concetto filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze
pedagogiche, e rigettare il concetto antropologico positivistico da cui
fioriscono conseguenze pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di
un’aporia che emerge con chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284.
Privato della libertà e del fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere
adunque alla giornata secondochè porta il caso fino a che venga l’unus
interitus hominum et iumentorum, ecco l’unica morale a cui possa logicamente
far luogo il positivismo»285. A. critica ancora lo Spencer quando nella sua
Educazione morale, intellettuale e fisica riduce la morale a «conservazione
propria diretta», una considerazione che se è 281 G. A., Del positivismo in sé
e nell’ordine pedagogico, 309. 282 109. 283 G. A., La nuova scuola pedagogica
ed i suoi pronunciamenti, 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della
nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza
dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori
come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita
alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza
sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di
mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia
conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G. A.,
Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 13. 285 G. A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, 262. 78 spiegabile col suo darwinismo non è
accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi educativa. La vita
diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo non può esistere
educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo abbruttimento e
alienazione. Il positivismo è la negazione della vera educazione e «non ha
ragione di usurpare il posto della scienza, così compromette fatalmente le
sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non sconsacra solo la fede e
la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia, l’amore, la morale, gli
ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha conseguenze nefaste
sull’educazione. Negato il principio della personalità e il valore della
libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della formazione si
riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico interesse e scopo
dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità. Nella prospettiva
positivistica perde di significato quella formazione del carattere, della
volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui risiede secondo A.
lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come contesta A. al Bain, è
ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali alla produzione o alle
condizioni sociali, e senza nessun riferimento all’educazione, agli ideali, ai
valori. Non si bada più alla formazione del carattere, ma alle capacità
cognitive, privandole però del fine e della direzione. L’educazione cessa di
essere esortazione per divenire condizionamento. Il suo senso nella pedagogia
positivistica viene svilito in quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che
raccoglie una molteplicità svariatissima di idee particolari in una potente ed
organica unità; manca quel soffio di idealità, che innalza lo spirito
dell’educatore al sentimento del suo arduo e sublime magistero»287. Oltre
all’idea di libertà, di morale, e di educazione sono le stesse scienze umane
che vengono ribaltate sulla base dei principi antimetafisici, materialisti e
naturalisti. A. denuncia che «Le scienze della natura hanno usurpato il posto
delle scienze dello spirito: la psicologia, la morale, la filosofia in genere
non hanno più una esistenza loro propria e distinta, ma sono trasformate in
altrettanti rami delle scienze naturali»288. La pedagogia vede messi in
discussioni i suoi principi fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità
universali e necessarie, un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che
derivano dal principio, che l’esperienza è la norma unica e suprema della
disciplina pedagogica»289. 286 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 27.
288 G. A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo,
4. 289 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 8.
79 Il primo dato necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è
la natura non materiale della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non
voler accogliere nella cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a
se medesima rinnega alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un
fatto irrepugnabile, che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro,
sentono di essere non già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone
vive e reali, che hanno ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed
affermano la loro individualità col vocabolo io; sentono di essere attività
libere, consapevoli di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola
proclama illusorii questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo
dell’opera educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento
necessario per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto
educabile. Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera
dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura
positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui
piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive
personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che
la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci
viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o
integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo
essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che
scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291.
In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non
quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma
non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto
della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed
essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità
universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un
ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il
soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione
efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni,
i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro
alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù
interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza
dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale
torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le
nostre risoluzioni 290 6. 291 G. A., Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 15. 292 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 6. 80 volontarie
sarebbero una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3°
che anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il
positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto,
e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere
divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si
fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. A.
chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo
e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso
il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come
se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due
discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale
vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e
della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi,
indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in
cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed
armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i
positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo
intuitivo, autodidattica e adattamento. A. fa notare come siano tutte
intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima
ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, A.
contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della
fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della
personalità umana e della sua libertà. Ciò che A. intendeva difendere era
l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente
spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui
l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua
espressione fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve
seguire, a detta di A., un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece
si può indagare l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per
l’A. «la psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima
umana studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la
coscienza perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione
deve essere contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era
parecchio lontana dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici
svizzeri, tedeschi e francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia
nella filosofia da quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla
paura 293 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 409. 294 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 87. 295 G. A., Appunti di Antropologia e
Psicologia, 24. 81 che tale prospettiva avallasse la riduzione
dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare
che A. tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se
denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva
«Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi
progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono
chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei
fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante
la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro
progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura
avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al
perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento
del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze
naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con
rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a
trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e
sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole
fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato
l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’A., che criticò al vercellese una
presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo.
Secondo la studiosa emiliana, per A.: «Tutte le scienze che si valgano di
questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la
supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di
difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e
civile298. 296 G. A., L’uomo e la natura, 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia
della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni
modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è
opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il
punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della
scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri
elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla A.? Lo
chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta
soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il
nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna,
compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto
rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello
storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata
l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in
altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con
necessità fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso
che una struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della
scuola. In questo legame l’A. trova il punto più pericoloso delle nuove
dottrine pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale
egli si richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico
italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare
quel metodo positivistico che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici
(1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i
meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne
l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il
senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò
la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’A. vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della
realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di
Vidari che fa dell’A. un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il
principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301.
Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era
proprio ciò a cui A. puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non
dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a
proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma
ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per
oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo
corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel
medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo
organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò A. non
può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro
quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo
e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. A. fa notare come il
darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato
dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill.
Nella Nuova scuola pedagogica (1905) A. osserva: «La nuova scuola pedagogica
annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali
accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. A., L’indirizzo storico
e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze
che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione
spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o
quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le
suggestioni che rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione
popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 14. 300 «Forse l’A. si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di
porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche
sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del
Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi
risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel
suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E.
Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX,
parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari
sostiene che l’A. è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la
Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità
e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe A., 8-9. 302 G. A., Appunti di
Antropologia e Psicologia, 26. 83 vecchia pedagogia di posare sopra una
psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche, adoprava
un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni raffronto
tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte queste accuse
presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una verità
scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra, dacché il
Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo scambiano
per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura ipotesi
bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere i
difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana
pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze
sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874:
«L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni
di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata
sbagliata. Tuttavia, il fatto che A. considerasse la teoria dell’evoluzionismo
come una probabilità appare giustificabile sulla base delle conoscenze
scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va
peraltro tenuto conto che la critica dell’A. fu abbastanza superficiale e
incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli
strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era comunque la
stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura
(1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine
dalla materia universale diffusa nello spazio per via di una lenta e
progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci
dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né
punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la
materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella
sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo
Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze
umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il
suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e
non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente
avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la
mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando all’A.
il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a condannare
questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, A. riprende il 303 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 12. 304 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 10. 305 G. A.,
L’uomo e la natura, 10. 84 romanzo di Dickens, Duri tempi per
questi tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui
porta il positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito
il compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e
l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se A. ricorda che «il cuore
è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile quanto più
lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente
alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307. A. contesta anche
le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime
classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico
scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche A. riconosce
alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del
positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e
all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione. Comunque se A. dopo
gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine
della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. A. poteva
scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va
via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza
assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al
ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il
disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica
e segnano il suo decadimento»310. 306 G. A., Studi pedagogici, «Nessuno mai, che abbia fior di senno,
rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della
nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto
alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano
stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso
all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio
fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le
verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere,
se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia
filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che
le è proprio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, «Il
positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco
giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via
dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi
fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova
scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito
all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza
riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio
argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» 27. 310 G. A.,
Opuscoli pedagogici, 6. 85 Concludendo, si può rilevare come A. abbia
scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune.
Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che
quello dell’esistente Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di
storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di A.,
che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla
pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra
il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano.
L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi
in cui A. espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia
della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema
metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui
contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di
Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il
testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al
contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche
di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un
altro testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su
l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche
lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico
dell’A.: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la
traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de
Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due
teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni
in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli
soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo
differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. A., L’Hegelismo e la
scienza, la vita, 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati dall’A. fu
la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
(1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera scienza
e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte della
modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo molto
significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura
pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un
decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo
saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro
della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà
sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento
educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una
rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio
1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un
capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella
presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo
è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel
dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314,
abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio A. esalta i protagonisti
di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo
Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e
trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento
i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto
significativo il peso dato dall’A. alla «Società pedagogica» e anche alle
riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito
l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente
alla loro non avesse avuto nulla da dire. A. fa risaltare la pedagogia
spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà
tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G. B. Gerini,
La mente di Giuseppe A., 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed
educazione in Italia, 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e
didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di
Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di
Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il
Saggio dell’A., il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie
e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore
unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto
assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G.
Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 4.
87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i primi
storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori
pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle
metodologie di ricerca. A. espone il suo pensiero circa il fine e il metodo
della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia
e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri
saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto
e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. A. distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a
dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia
dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi
richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito
delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba
essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a
«fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’A. è
il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316
G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 1. 317 «La storia
dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che
prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la
storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza
attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono.
[...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da
intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in
conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee
pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» 3. 318 «La
storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a
diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende
all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i
popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un
periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o
parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500
a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli
ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che
espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua
esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi
storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è
singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione
ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale
l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora
piglia più propriamente nome di monografia storica» 3-4; 319 4. 320 Già in uno
dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da
descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo
periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato
prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento
speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle
pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e
significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero
un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica.
Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto 88 Come la storia
dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e
particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della
riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie
pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive A.: «Da queste
generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia
emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e
razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica
attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di
determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono
significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, in cui mostra come lo scopo
dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza
pedagogica. L’A. sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo
svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa
può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di
una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la
teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni
epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo
A., esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del
singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della
pedagogia quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato
e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della
riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia,
anche sé A. ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente
brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto
che la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi
che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il
processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è
chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un
periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato
concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se
siano state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo
senza punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi
armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio
della critica che discute» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 18. 321 G.
A., Concetto generale della storia della pedagogia, G. A., Studi pedagogici, 28-31. 323 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 7. 324 «I cultori della pedagogia trovano
nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori che li
precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate,
li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e
li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del
loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza della storia della
pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. A.,
Concetto generale della storia della pedagogia, 8. 89 discutendo,
bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia della pedagogia è tutta una
congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il
Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie pedagogiche nel quale
sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla esperienza storica
dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è frutto di
evoluzione, per lo spiritualista A. la «vera» scienza pedagogica è una, e ad
essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come si fa la
storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee slegate e
frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie
particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un
tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in
opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto
sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del
suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le
opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la
tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli
le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i
frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od
orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre
innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le
cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il
compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica
risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la
certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo,
dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della
scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla
scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico
della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora
accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme
speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della
pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in
questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge
ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca,
alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 9. 326 10. 327
15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di
sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la
volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di
tanti sistemi diversi e contrari» 16. 90 che corrisponde
all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta
forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e
speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di
rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci
hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia
il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica.
Osserva A.: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto
conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od
alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è
più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e
sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che
nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea
retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso
della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli
con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente
la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori
dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo
contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della Verità educativa
riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa
prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di A., sono un dialogo
rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più che
un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della
pedagogia secondo A. può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e
a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle
sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o
muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati
positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni
personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto
puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’A. nei suoi studii di
storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più
che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di
inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro
sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di
saggiarle e 329 16. 330 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 6.
91 giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza
dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua
produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio
della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di
A.. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore
e le preoccupazioni pedagogiche dell’A.. Il tema principale su cui A. si
confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle
loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini
osserva: «qual criterio adotta l’A. per giudicare della verità o della falsità
delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il
sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da
Seneca a Rousseau ciò che l’A. valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e
difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti
negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici
siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’A. partono
«talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334.
Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della
ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle
osservazioni critiche che l’A. muove alla dottrina morale di Kant, per quanto
non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla
Quarello, A. non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo
la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il
principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le
teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la
questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. A.
affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di
un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera
difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando
tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco
non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la
famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha
uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di A. alla Storia della
Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, A.storico
della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe A., cit., 1913, p. 56. 333 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 124. 334 124. 335 G. Vidari, Il contributo di A.
alla Storia della Pedagogia, 692. 336 V. Quarello, G. A., Studio critico,
128-129. 92 L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il
fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare
in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della
libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad
introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia
anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele
giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo
grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza
non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma
perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il
concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita
del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e
capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di
Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di
avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello
Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone
è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio
esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran
meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza
politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce
essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e
sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale,
viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339.
Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale
sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando
Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui
singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto
quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di
lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto,
e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto
per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò
l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In
alcuni punti le valutazioni dell’A. sono decisamente esagerate. Nel testo su
Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo
ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è
palesemente sproporzionato. 337 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci,
163. 338 162. 339 131-132. 340 148. 341 G. A., Giobbe e Schopenhauer,
36-37. 93 Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee
pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono
gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni
ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona,
santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed
Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’
singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento
tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’A. la scarsa
precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su
Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’A. non riuscì a «penetrare
oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi
ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la
larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la
trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per
un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi
pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in
raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico
straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità,
perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad
imprecisioni, i lavori dell’A. risultano approfonditi e curati. Lo studio su
Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma
soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore
ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le
ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che
nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di A.
risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di A. come
storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di
storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e
immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che A. può essere considerato
uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342
G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, II. 343 E. Santamaria Formiggini,
La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli
spiritualisti, 12. 344 322-323. 94 Nel corso della sua carriera, A.
diede ampio spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo
decisivo per il destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni
scolastiche sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La
scuola educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa
delle sue posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, A.
racchiude le questioni più importanti del problema in quattro semplici domande:
«1° in servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di
governarla? 3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla
società? 4° come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella
scuola?»346. A. è convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia
lo sviluppo perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una
appassionata ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse
animata da un vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il
determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il
rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo stile della vita
educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e
dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo
integrale della personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano
potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava l’istruzione anche come un
aspetto necessario per la formazione solida del carattere351. 345 «La casa
dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre
solenni convegni sacri alla comune educazione. La scuola segnatamente apparisce
il santuario del sapere, il tirocinio della vita sociale, il vivaio della
civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e
collo splendore o coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o
di decadenza di una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente
si misura la necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che
risponda al suo intimo organismo ed al suo ideale» G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 68. 346 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del
Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in
sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il
carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor
della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra
l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola,
educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi
l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero
germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose.
Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi
alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio,
è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che
pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un
semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra
enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e
riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno,
pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua
e là il disordine e lo scompiglio» 78. 348 70. 349 «Se l’alunno non è lui il
primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma
spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione di essere, perché
non formano più una persona, ma foggiano una macchina» 67. G. A., Studi pedagogici, 65-67. 351 «Lo
studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 92. 95 Uno degli errori maggiori
individuati da A. era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a dire la
riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle menti
degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore delle
nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. A. auspica che l’accumulo
di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo:
«L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine:
la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora,
l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista
osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una
biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. A. si sofferma a considerare come l’insegnamento sia
un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, A.
sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla
parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La
parola si impone così come 352 G. A., Opuscoli pedagogici, 14. 353 425. 354 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 250. 355 249. 356«Pestalozzi, Girard, De
la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la
santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni.
Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si
impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in
quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e
finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata
dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti
scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei
governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra
l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la
vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 182-183. 357 G. A., Studi pedagogici, 102-107. 358 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo A., anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da A. soprattutto nella
scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla
vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata
all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da A. impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia oggidì
l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni preferite
erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è tana» e il
motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359 «La parola
è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che unisce le
intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore e
dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» 45. 360 «Il programma governativo è, per così
dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le
giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge
l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la
vita, che circola per entro l’organismo» . 361 98. 362 G. A., L’educazione e la
scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
6. 363 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 59. 97 della
verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva
essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era
prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo
critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente
spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla
società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e
umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che
mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica,
invece che i suoi aspetti formativi366. A. sottolinea il rapporto virtuoso tra
educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità.
Giustamente A. ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata
a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia,
essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere
politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di
tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità
dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra
gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione
dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In
caso di necessaria lontananza dalla propria casa, A. indica come modello le
pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa
vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società
esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale
riguardo a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai
bisogni sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato,
che la scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe
servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni
umano consorzio» G. A., Opuscoli pedagogici, 37. 365 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in
servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della
natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione.
Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività
volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di
stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre
l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo,
spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 71. 367 71. 368 «La scuola non può, non
debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente
snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature
intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la
persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita
di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque
autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla
virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la
schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso
dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una
funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo
assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone,
che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di
non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o
strumenti in servizio della società» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti, 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo
oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura,
la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo
salva la personalità di ciascuno». G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, 99. 370 G. A., Studi pedagogici, 333-335. 98 volte la
stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori,
che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come
«seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una
serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di valutazione
negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 86.
372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un
trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in
lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di
atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori lottarono
e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze pedagogiche e
nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco in loro aiuto
la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini d’infanzia di
Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la sua simpatia
pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso sostituiva
alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose ai
professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle
allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo
stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del
27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi
asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a
una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da
entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale
dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori,
che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a
Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati
nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i
difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il
principio interiore della loro origine» 127-128. 373 Attacca quanti volevano
fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si
fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella
coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione
di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola
elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura
umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i
figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la
stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va
ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed
aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese. Alle corte, intendete voi
che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le
classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la
trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso,
create un dualismo irragionevole» 140. 99 «primato» alla pedagogia,
mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore
della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama
alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’A. e denuncia
l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano
essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose,
rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto
avversato dall’A. è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica
l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva
che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un A.
nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola
dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui
i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre
considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come
comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’
«educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema
dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la
costruzione del sistema scolastico nazionale, A. si oppose alla sua
applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva
restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo
non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e
dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla
scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere
virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può
moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad
iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’A., non può
esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della
scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed
intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia
deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale
è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» 116. 376 Cfr.
G. A., Studi pedagogici, 36. 377 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, Torino,
Tipografia Subalpina. Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in
una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione
son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se
medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi
deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il
Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà
mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo
di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui
allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo
mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola
come un pubblico malfattore» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
137. 379 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, 12. 100 Le posizioni
di A. sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già
oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante
importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le
opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la
nazionalità, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Intorno le
scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani, Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, Della istruzione obbligatoria e La scuola educativa, poi
rivisto e pubblicato. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma
dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Il Classicismo nelle
scuole, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il
rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, Delle condizioni presenti
della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909).
In realtà, l’intera produzione dell’A. è disseminata di richiami e rilievi su
tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori
studi e considerazioni. Il testo di Bonghi, Idee di A. circa la libertà
d’insegnamento, «Cultura», è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del
tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R.
Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di
G. A., 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della
pedagogia in Italia, e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del
pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni A., «Ricerche
Pedagogiche, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra
lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo
di alcune sue opere. A., L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del
giornale Il Conte Cavour, A., La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. A., Intorno le scuole normali
e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. A., Lo
Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli
artigianelli, 1889. 385 G. A., Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip.
Subalpina, 1893. 386 G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e
didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. A., La
scuola educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. A., La Riforma dell’educazione
moderna mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. A.,
Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, A., Esposizione critica
delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione
privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. A.,
Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R.
Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In
tutte le opere dell’A. sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso
propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano
pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della
pedagogia romana, ad esempio, A. riporta un passo di una lettera scritta da
Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di
scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, A.
chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai
pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo,
epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso
dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo
fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo
rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La
libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna,
non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel
governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è
privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il problema della libertà
d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di A.. Quest’attenzione
è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui
il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto
contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche
avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la
conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del
«mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica,
inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo
della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa
privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo.
D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al
«Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il
diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene
della collettività. Un «mostro», come lo definì A., ingombrante, fatto di
meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano
più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il
vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una
sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia
della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad
arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne
dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo
Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la
logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente.
Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa
l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo A., da tale
pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul
reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di
testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’A. in modo
catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata
all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una
nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si
da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le
famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad
essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito
del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione
trarrebbe singolare e felice incremento», in G. A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli
sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il
Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile
l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante
pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita
pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della
nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. A.,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe A., Torino, Tip. Subalpina, , p. 5. 394 G. A., Opuscoli pedagogici,
11. 395 11-12. 396 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 89.
102 di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività
umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche
l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui
suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per
l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella
prospettiva di A., il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione,
come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il
pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni,
di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda
gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo
e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della
scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la
libertà. Secondo A.: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa
gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la
famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la
vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i
genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste
ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che
gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a
dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e
non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad A., circa
la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine
del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non
professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal
diritto assoluto sull’educazione. 397 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 398 «Uno
dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu
Giuseppe A., dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione”
distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare,
mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi
elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due
fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione
l’A. collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni
elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza
di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa
ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che
divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre
pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i
liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano
l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione
religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista
ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione
dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, 25. 399 G. A., Opuscoli pedagogici, 43. 400 G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente
individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche
da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella vita dello
spirito, è prevalente in tutta la pedagogia dell’A.; e si presenta poi in forma
estrema là dove, applicando alla politica e al diritto i 103 Sulla
paternità della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il
dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402.
A. attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il
nucleo che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione
delle giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche
Fröbel per non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403
Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo
liberale, che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle
opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la
libertà d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo
educativo della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come
Spaventa e i positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati
fiancheggiatori della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee:
«Riponendo nella famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo
collocati nel giusto punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno
attribuisce al Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro
gli niega ogni e qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede
bensì un’autorità nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della
famiglia e de’ privati cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla
libertà della scuola, e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione
di ammettere, oltre le scuole pubbliche governative, anche le scuole private,
le quali però non devono essere una storpiatura, una copia forzata e
stereotipata delle scuole governative, ma hanno diritto di muoversi libere e
spontanee dentro un’orbita loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la scuola moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo
educativo, ma uno Stato meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha
fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato
regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi
concetti, arriva a concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente
antistatale, così da affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico
e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla
famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico,
86-87. 402 Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari
nel Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che
rappresenta uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca
il tema con la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari,
Libertà d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario
illustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 117. 404 G. A., Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011,
p. 93. 104 sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione
della libertà di insegnamento, le tesi dell’A. si discostavano da quelle allora
prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti
dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento
era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua
validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa
si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella
statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe
largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione
simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione
religiosa e cristiana407. Per A. invece, la libertà rappresentava un valore
effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di molti
sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la
concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di
soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento»
tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della
scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale principio, A.
approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli
Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni
scolastiche. Un altro stato indicato come modello da A. per quanto riguarda
l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della
Costituzione concernenti la libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa
degli Stati Uniti dedicò un saggio dettagliato intitolato Dell’educazione
pubblica negli Stati Uniti D’America410. In esso sostiene come la peculiarità
del sistema scolastico americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e
406 Sempre criticando il citato progetto di legge Baccelli sull’Università
scrive: «Ecco il primo articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a
tutti gli altri Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità
giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare sotto la
vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due
concetti supremi, a cui s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente,
che il giusto significalo dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono
segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va
circoscritta entro determinati confini, sicché non trasmodi in un illimitato
ingerimento e soppianti la libertà» G. A., L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 5. 407Luciano Pazzaglia ha
rilevato come, soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della
libertà d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione
della sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di
Pio IX alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica
osserva: «Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della
Chiesa e a condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio
che mal si conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero
sarebbe l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà
d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al
raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel
programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia
nell’età umbertina, 426. 408 G. A., L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 8. 409 G. A., Lo Stato
educatore, in Opuscoli pedagogici, 68-69. 410 Il saggio è inserito negli
Opuscoli pedagogici, 380-406. 105 mantenere delle scuole. Secondo A.
ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno
accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur
fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella
preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che
il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello
stesso liberalismo. A. sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro
stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la
suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto
nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente
naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo
vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del
libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori
e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie
governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato
spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di
averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’A.
erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby
massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi
all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la
quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia
sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità.
L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del
Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo
giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei
titoli di studio, una delle questioni da 411 G. A., Lo Stato educatore, in
Opuscoli pedagogici, 68. 412 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 164-165. 106 cui dipende l’effettiva libertà
d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un monopolio
di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a
frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad
adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza
davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una storpiatura o
miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella di chi fosse
legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il
percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione degli spazi di
autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un periodo in cui la
pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La libertà d’insegnamento
fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale
che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini,
Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo
da supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore
dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei
principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. A. denunciò
questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il
primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49
rivelava in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che
la governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità
ministeriali e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di
istituti educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari,
sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per
sapere, intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a
pubblica discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme
affratellati i cultori degli studi classici e speculativi coi maestri
dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di pubblici e governativi
istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così
il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima
causa il diritto di libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto
Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a caratteri
indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno splendido
esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno a tenere a
modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse
mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più
rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica
istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo
strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868
attribuì a A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, Cavour e al «cavourinismo» la colpa
per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del
pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere
confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi
della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche
successive. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si
limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la
libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più
o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il
Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per
alcune pubblicazioni, A. fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio
sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della
Arti e delle industrie a Parigi. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia,
che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il
quale il libro non fu presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio
Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una dottrina «protetta in
alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i
favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’A.,
considerando le quali non desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili
per introdurre le sue critiche alla politica scolastica post unitaria. Già
nello scritto del 1867, l’A. nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. A.,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario, in Pruneri, Il cerchio e l’ellisse, centralismo e
autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI secolo, 50. 417 Tale lettura
è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa
veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che
ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., A., Della
pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda
in A., Della pedagogia in Italia; Gerini, La mente d’A., pedagogico subalpino all’origine
della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli ideali originari –
ispirati al principio della libertà scolastica – fossero stati in seguito
gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano invece
rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del ministero
ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’A.: Straordinario
nel 1871, ottenne la promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra
occasione sembrò al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle
autorità politiche, quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente
escluso dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di A. sull’evoluzione
del sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e
l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’A.
denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica
prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del
principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela
della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine
pubblico». Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua
«concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e
gli atti successivi andarono contro questo principio. Per A. era evidente che
politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza
educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della
libertà. Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu
il sacerdote Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 90.
423Secondo Gerini, genero dell’A. (ne aveva sposato la figlia), curatore di
numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera
dello stesso A. al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli
sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese,
motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei
confronti delle politiche ministeriali. Cfr. Gerini, La mente di A., Come
racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito
con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’A. venne chiamato a far parte
della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie
nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla
universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione
fra gli assessori, al prof. A. sarebbe toccato il governo dell’istruzione,
essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a
tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei
Musei”. Naturalmente l’A. con sua lettera in data 5 luglio rinunziava
all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo
d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano
ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo
disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo
modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto
non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon
chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai
dimostrato d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive
elezioni l’A. declinò in modo irremovibile la candidatura» R. D. art. A., La
legge Casati e l’insegnamento privato secondario, 12. 427 “La potenza che voi
paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la
fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella
libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109
Nell'appendice l’A. dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i
diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli,
Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge
fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la
legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti
anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La
stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è
confermata in un altro testo di vent’anni dopo. Un caso esemplare del
«tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come
spiega A., secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero, secondochè
la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo Stato o da
privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la forma del suo
insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la
vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il
rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua
libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare, se e quanto, e
come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà dell’istitutore si
risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati,
conclude l’A., corrisposero norme restrittive che di fatto compromisero
l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa era la denuncia dei rischi
dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole private: «Dalle recenti
statistiche – così scrive – si rileva come gli istituti secondari liberi
affidati alle provincie, ai comuni alle corporazioni religiose, ai privati,
gareggino per numero con quelli del Governo; il che è splendido argomento del
grande amore, che nutrono i cittadini, per l’incremento degli studi e lo
sviluppo della coltura sociale; ma non si può non provare ad un tempo un
sentimento increscevole e doloroso in veggendo come tanti nobili sforzi vengano
in gran parte sciupati dallo smodato ingerimento del Governo, il quale
introduce la monotona e rigida uniformità de’ suoi gli amici vostri; a siffatta
guisa di libertà anche i vostri avversarii potrebbero fare buon viso, anche la
Czar delle Russie: di una veneranda matrona ne avete fatto una brutta ed
intollerabile Megera.” A., La legge Casati e l’insegnamento privato secondario,
28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899 conferma la lettura di
A.: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della
pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento
universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido
di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed
illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta,
mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti
erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla
coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire.
Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per
la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato
all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie
individuali» A., L’autonomia universitaria proposta da Baccelli ed esaminata da
A., 3. 430G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica:
pedagogia elementare, metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove
dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita
scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal
monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo
disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento»
delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali,
era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il
sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori
dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito
alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e letteraria
ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un carattere
pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla più»432. A.
leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e non statali.
La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali argomenti, fa
notare come le scuole private cattoliche avessero un numero maggiore di
studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che nel maggio
del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la licenza
liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come
dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato,
come denunciato dall’A., all’assottigliamento delle scuole private. Sulla
volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente
significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da A.434. Il testo non riporta la data di
pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle
stampe nel 1899. A. critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da
una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva
un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti
il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i
confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio
Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei);
affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione
superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva
al Ministero il potere di respingere le 431 G. A., Opuscoli pedagogici,
Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità
in Italia dopo l’Unità, cit., vol. I, p. 365. 434G. A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., proposte di
nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle Università.
In questo modo, ironizza A., «il Governo lascia alle Università il governarsi
da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda così al
modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli istituti
nascano per legge e non dalla libera associazione. Conclude citando Villari,
correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437. Un altro
aspetto che A. considerava illiberale e nefasto era il controllo dei libri di
testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e culturalmente
l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un
saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse
ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo
cattolico440. 435 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge,
passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti
o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà
avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo
proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero
corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono
non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi
discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci
immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà.
Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie,
o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si
osa proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio
coll'articolo della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura
preventiva è vietata”» «Io potrei proseguire più oltre la mia critica, ma dalle
poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo, emerge, per quel che
a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è irretita fra tali e
tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza, mentre la vigilanza
dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha norme, da cui sia
vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza governativa, non è qui
luogo da ciò: questo solo panni di potere ragionevolmente affermare, che questo
disegno di legge conferisce al Governo poteri assolutamente inconciliabili
colla autonomia universitaria veramente intera. Qualche anno fa Pasquale
Villari scriveva: “Colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti,
con nuovi professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far
nascere nelle nostre Università una vera vita scientifica: esse non rispondono
all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il
Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione
ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di mostrarsi
ossequente alla legge non mai abolita, informata ai più larghi o giusti
principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza
dell’Università italiana”» Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia
e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi
fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Amenta, A.,
Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. Santangelo
censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A., Palermo, Tip.
delle letture domenicali, Nella relazione del Ministro in cui si valutava
negativamente il testo difeso dall’A., si accusava il libro di un certo «odore
di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente
ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra,
permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma
ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come,
bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque
giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il
vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un
linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale
del Regno e l’articolo della vigente legge organica della pubblica istruzione!
Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va
proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni
sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida:
Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse
stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o
L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la
nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez. Il
neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta
a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’A. prese subito le
difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese e stese
il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato,
che trovò l’apprezzamento del neoministro. Gerini documenta come Perez avesse
l'intenzione di chiamare A. stabilmente al Ministero, con lo scopo di redigere
una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà
d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi
predecessori442. L’A. fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un
nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente
definito dal ministero Correnti. Il nuovo regolamento, nel quale A. ebbe «non
poca e vivissima parte, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla
loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a
sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo
dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. Il suo scopo era
quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statal.
Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il
consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato
fatto un sondaggio preliminare. Ma il progetto suscitò anche numerose
polemiche. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la
scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo
insediamento, Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse
bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero
incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in A., Clericalismo e
liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, In un
autografo il Ministro scrisse ad A. «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi
cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in
A. Consorte, Scuola e Stato in A., Gerini, La mente d’A., A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, Così il professore piemontese sintetizza i
punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso
Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di
licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in
cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di
promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato
privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che
lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso
triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione
di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale. Eppure
quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di
ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale,
allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque
pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale
e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era
una questione di legalità. dicastero. Il caso sembra confermare quanto annotato
da Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte
di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: « esprime il suo parere sui programmi
delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; lo stesso
Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare. Molto più duro fu il rapporto con il
Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva durante i due primi governi
Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, A. criticò Boselli a motivo
della censura di un testo già citato. Questo iniziale contrasto probabilmente
convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione
presieduta da Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a
non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione
di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’A. attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo
Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’A.: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in A., Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della
legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti, Scuola
pubblica e scuola privata, Bari, Laterza. Prellezo, A. negli scritti pedagogici
salesiani. Introducendo il lavoro A. denuncia: «Questa turba liberalesca altro
non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi
siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci
appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i
clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i
demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli
oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette
rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e
di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga
libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del
costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo
austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui
campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale
conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango
da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. A., Clericalismo e LIBERALISMO,
ossia i libri di lettura di Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione
pubblica e difesi da A.. Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato
educatore, è stata ripubblicata in G. A., Opuscoli pedagogici. aspri, ma
composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi.
Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una
serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto il quale
prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo
sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola
tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di
maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che
avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare
nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al
contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una
circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. della legge Casati, s’impediva
ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il
corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento
della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una
circolare finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e
stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le
diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi
condussero A. a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione
avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero
della pubblica istruzione va annullato. La proposta dell'abolizione del
dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento dal deputato libertario e
socialista Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di A. la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’A. è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto
della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano,
da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica
e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti.
Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato
nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità
scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare
e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è
bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si
può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo
consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo,
non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla
condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono
nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la
sua attenzione» R. Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, Sullo
stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: A., Il ministro
Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, A., Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, Concludendo il saggio A. ricorda la sua fedeltà alle
istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso
di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne
fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello
Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la
nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza
di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo
Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi
dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il
linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi
deve. articolo intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi
soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale
ritornò a prospettare la soppressione del Ministero. Un attacco così diretto
non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un
libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore –
risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli
uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del
resto, le denunce d’A., ma scade a livello di attacco personale. Oltre a
difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese,
l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e
scientifica: «Ha una famiglia pedagogica A.? No. E la ragione è una sola, ed è
naturale e chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma
l’A. non ha amore, se non verso sé medesimo. Il sentimento che noi scorgiamo
nel prof. A. non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo
muove a far troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza
forse accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e
rigirandosi, egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di
poggiare su, ad un punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella
realtà dei fatti è più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un
ulteriore passaggio in una replica d’A. nel breve saggio: Risposte di un
educato: un educato. Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo,
sia nel difendere le sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando
ironicamente lo statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da
un governo così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi
ed ordinato in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso
della libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura
che quella del Ministero di Boselli non è toccata mai. Il dilemma si affaccia
irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica
istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra
grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si
giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla
Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di
un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di
leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il
regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli
studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino
trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D. Lo Stato
educatore – botte di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento
Civelli. segnatamente nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga
impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice. Torna
a criticare Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento. Alle accuse
precedenti ne aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla
scuola dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore
scolastico di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua
ordinanza deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la
proposta dei temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo
l’articolo del R. regolamento allora vigente.
Si trattava secondo l’A. della persistenza di una serie di «abusi del potere
esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della
libertà: L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la
libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie
costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto
sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le
istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò
lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di A., quando il dicastero
era guidato dall’onorevole Credaro. Il pedagogista, ormai anziano e con poche
forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il
pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo.
Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la
libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti
e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La
nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi
rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’A. a prendere dura posizione contro
la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in
pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo
una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione
di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium,
fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda. Furono inserite anche due lettere
inviate da A. a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di A. sulla vicenda è
molto significativa: G. A., Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, A.,
Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento. A. e la sua cattedra, Torino, Tip.
S, Giuseppe degli artigianelli. emergono sia un vivo attaccamento all’impegno
pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni A. attribuì a Vidari, allora preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco
subito, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale
poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza
ai principi spiritualisti e alla sua fede. Un altro testo in cui attacca il
Ministero è il testo Del realismo in pedagogia, nel quale contesta le posizioni
espresse da SANCTIS (vedasi) in uno scritto pubblicato ne la «Gazzetta
letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe
magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. A. è
invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano.
Senza valori certi, Si tratta di una
lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua
difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito
alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita
universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato
nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di
tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta
così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi
fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo
scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel
volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che
la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si
trasforma. Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto,
ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo
vivente, al Redentore dell’umanità. Dopo aver accennato i concorsi falliti da
Romano, A. commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente
disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro
stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e
difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo
liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi
riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante.
Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo
splendido successo a Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la
scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei
altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero
voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i
concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania. A.
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il
menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le
mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero
ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io
possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei
studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul
teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra
per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio
a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli
studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella
realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del
soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti
magni di Aporti e Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica
sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e
calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi
esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero
pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia
presso di voi. A., Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878
inserito in Id., Opuscoli pedagogici, si sarebbero abbandonate le giovani
generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste,
condannandole all’alienazione. La battaglia d’A. in favore della libertà
d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel
sostegno alla fondazione dell’associazione «Unione pro schola libera. Società
nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da Piovano e da Bettazzi,
finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo
statalismo e i suoi fautori. A. è scelto come presidente generale effettivo,
carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontana
progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui
continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Inizia ad
essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente
in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole
risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che
stava registrando in quegli anni una notevole ripresa. In un convegno svoltosi
a Genova, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli
eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono
l’iniziativa d’A. e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto
rapporto con l’Unione torinese. La Civiltà Cattolica – che a lungo aveva
praticamente ignorato le tesi d’A. – dedicò al Convegno un articolo, riportando
le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’A. e
dell’«Unione pro schola libera. Appaiono significative le affermazioni
conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più
importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese. G. Chiosso, La
stampa pedagogica e scolastica in Italia. Chiosso, Gentile, i cattolici e la
libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.),
Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando. Nella seconda delle tre
risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera
sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. A., e a tutte le altre
istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa
voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata
dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente
dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare
all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che
valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente
legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti,
che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro
l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, La Civiltà Cattolica,
quaderno. Scrive l’autore dell’articolo: Dopo queste semplici osservazioni
intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza
della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno
pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato
nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente
nelle singole deliberazioni di questa seconda Èa partire da questo periodo
che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere
apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale.
Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica,
l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastic, i meriti riconosciutigli
da Meda, e un celebre saggio di Monti, La libertà della scuola in cui si
trovano citati gli scritti d’A. e si ricordano le sue battaglie scolastiche.
Nel frattempo A.aveva lasciato questo mondo. risoluzione! Le ponderino
attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi
sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro
apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso
specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e
della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a
meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro
schola libera di Torino e al suo venerando presidente A., il più illustre pedagogista che oggi
vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative
veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché
ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e
teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome
tramandarsi ai posteri con quelli di Montalembert, di Falloux e di Dupanloup
per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per
l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova. In tre articoli pubblicati sulla
pedagogia contemporanea sono citate le opere di A. e le sue critiche al
positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità educative, quaderno;
L’opera educativa positivista, quaderno; Cannella, Opuscoli pedagogici inediti
ed editi di Giuseppe A., cMeda, Universitari cattolici italiani, Monti, La
libertà della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e
Pensiero. Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino
Torino,Carlo,Clausen. In un'opera assai importante pubblicata dall'illustre
prof. A., della quale ho a suo tempo discorso in questa autorevole
Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi psico.
fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale
richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi
problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e
psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo
ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana.
logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore dell'anima. Ma
se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore si rispecchiano e si
rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo,
intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle
quali si trattiene a lungo l'Al. Ora uno dei più cospicui punti di
corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di
sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che
non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada ed il corpo sano, tra le
malattie dell'anima o quelle del corpo. L'A. Studi antropologici– L'uomo ed il Cosmo
Unvol. in 8gr. circa Torino Tipogr. Subalpina editrice. Psicologia. Studi
psico-fisiologici. Memoria di A., professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E
FILOSOFICO. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo
della medesima, e la sanità del corpo, nell'equilibrio operoso delle funzioni
fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di
patologia e di terapeutica, corrispondenti alle due sostanze componenti
l'essere umano. Anche i duestati della veglia e del sonno si corrispondono fra
di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima e le funzioni dell'organismo
si mostrano sotto forme speciali edana. loghe. Lo spirito poi ed il corpo in tutto
ilcorso ascensivo del loro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici,
poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile
corporeo; a LA PAROLA, che è un SEGNO SENSIBILE ordinato ad esprimere un
intelligibile, lo svilnppo del suo pensiero; alla mano (nella cui struttura
Elvezio non dubita di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento
della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei
suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari. A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai
nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale
del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il
dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se
riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere
o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo:
duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici.
Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e
voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini
di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. A. esamina
con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste
diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti
rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti
su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il
duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema
perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'anima razionale è causa unica essa sola di tutti e soli i fenomeni mentali
e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logici ed animali,
il principio vitale poi è esso solo il generatore dei fenomeni della vita
corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevole influenza, talch è i fenomeni
mentali si compenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà
un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della
personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito
d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei
fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello
sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un
l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi
cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio
dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed
acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà
rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della
scienza dell'uomo. Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library. Allievo.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allioni: deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Con
Allioni. Novecento novantanove Cod.: codice di corrispondenza amichevole
internazionale, Torino, Impronta. Dulichenko’s Boellu is a misspelling). A code
for friendly international correspondence. Digital pasigraphy is indicated in
DIAL under the number 901.121. In the same edition, Dulichenko mentions
the linguistic project Arioni-Boera, number 854.74, referring to Fuishiki
Okamoto (Rikichi, or Fuishiki, Okamoto. Perhaps we are dealing with the
same project. Indeed, in the introduction, Okamoto lists several works
that influenced the Babm9 language, including Arioni-Boera. Taking into account
that Oka moto’s native language is Japanese, it can be assumed that the
Japanese spelling is the source of the confusion. The thing is that there
is no “l” sound in the Japanese language. Instead, they pronounce “r”
(voiced alveolar flap [ɾ]). The surnames Allioni and Boella could easily have
been transformed into Arioni-Boera in some Japanese source. In order to
distinguish cardinal numerals from other numbers corresponding to code words,
they are written in parentheses: (1), (2), (3), etc. References: [2], [17], [45], [53]. Ernesto Boella.
Boella. Keywords: deutero-esperanto.
Grice e Boella.
Con
Boella. 999 Cod.: coice di corrispondenza amichevole internazionale. Keywords:
deutero-esperanto. Refs.L Luigi Speranza, “Grice ed Allioni”. Allioni.


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